Saturday, June 29, 2024

GRICE ITALICO A/Z L 1

 

 

Grice e Labeone: il diritto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha larga cultura filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età d’OTTAVIANO. Si ignora se segue un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma rifiuta il consolato offertogli d’Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona meno anziana. Appartenne al partito repubblicano. Scruve CCCC saggi di cui restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: "De iure pontificio" -- in almeno XV libri, diversi "Commentarii giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno XV libri, "Librì posteriores", in almeno XL libri. S'interessò anche di studi logico-grammaticali. Grice: “Logico-grammatical stuff is my thing, as was Labeone’s. My example is “Fido is shaggy,” Labeone’s was not!” -- Marco Antistio Labeone.

 

Grice e Labriola: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino). Filosofo italiano. Grice: “Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential Italian philosopher -- Con particolari interessi nel campo del marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere. Il padre, oriundo di Brienza, e nipote diretto di PAGANO.  Si iscrive alla facoltà di filosofia di Napoli, città nella quale la famiglia si e trasferita. Qui studia con VERA e SPAVENTA, il cui appoggio gli procura un posto di applicato di pubblica sicurezza nella segreteria del prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller, un saggio in cui osteggia il CRITICISMO contro ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Consegue il diploma di abilitazione e insegna nel ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una significativa presa di distanze dall'idealismo in favore del materialismo.  Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele”,  premiata dalla Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza in filosofia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico nell'università. Scrive la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di VICO” e collabora con il "Basler Nachrichten", al quale invia corrispondenze politiche, al quotidiano napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto da Zerbi, futuro deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al quale L. aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di Napoli" e dell'Unità Nazionale, diretta da Bonghi, al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue X Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in psicologia e in morale, pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale, dedicata a Graf e Morale e religione.  Trasferitosi a Roma, supera  il concorso alla cattedra di filosofia a Roma. Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia.” Divienne direttore del Museo di istruzione e di educazione. Sono anni in cui L. mostra un particolare impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la diffusione dell'istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s'informa sug’ordinamenti scolastici dei paesi europei. Pubblica gli Appunti sull'insegnamento secondario privato in altri stati e l'Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Contemporaneamente L. abbandona le convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni radicali. Oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica l'intervento dello stato nell'economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso al parlamento. Ottiene la cattedra di filosofia a Roma e inizia un corso sul socialismo. A seguito di notizie che danno imminente la stipula del concordato con il Vaticano, L. tiene a Roma la conferenza Della Chiesa e dello stato a proposito della conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il  quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere teoricamente socialista ed avversario esplicito delle dottrine cattoliche e nella conferenza Della scuola popolare, auspica l'ABOLIZIONE DELL’INSEGNAMENTO RELIGIOSO. Sul giornale Il Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni. Tiene agl’operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica e dichiara di desiderare un governo del popolo mediante il popolo stesso e la formazione di un grande partito popolare. Scrive che i parlamenti, come forma transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo del proletario e tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso Del socialismo commemorando la comune di Parigi.  L. saluta il congresso della social-democrazia tedesca a Halle scrivendo che il proletariato militante procede sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze. Entra in rapporto epistolare con Engels, che conosce a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei, Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprove a TURATI, il più prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degl’avversari politici. Vuole che il partito socialista, che deve nascere ufficialmente con il congresso di Genova, sia un partito d’operai e non di intellettuali positivisti borghesi. Vede nei fasci siciliani un concreto esempio di socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a essere compreso in Italia (cf. GRICE, MARXISMO ONTOLOGICO).  Fa lezione sul manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un corso sulla genesi del socialismo ma di non riuscire a risolversi a scriverne un saggio per l'ignoranza su tanti fatti, persone, teorie, etc, che sono tante fasi, tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia, come ribadisce a Adler che il marxismo non piglia piede in Italia. Su sollecitazione di Sorel, scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, sulla concezione materialistica della storia, che esce sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce a Engels, ricevendone le lodi. Anche CROCE che ne promuove la stampa in Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di adesione al marxismo. Nei due anni successivi L. scrive altri due saggi, Del materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e di FILOSOFIA. È sepolto presso il cimitero acattolico di Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e politico di L. in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore dell'idealismo hegeliano, influenzato da SPAVENTA, del quale  e allievo a Napoli. Successivamente, possiamo distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del realismo herbartiano. Infine, il momento in cui aderisce pienamente al marxismo. L'approccio di L. al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart, per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Kautsky. Egli vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla storia, ma piuttosto come una filosofia auto-sufficiente per capire la struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. E necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo vuole considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze operanti nella storia. Il marxismo dove essere inteso come una teoria critica, nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e materiale prassi umana. La sua descrizione del marxismo come filosofia della prassi e ripresa nei Quaderni dal carcere di GRAMSCI.  In pedagogia L. avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione morale e complessiva delle classi sub-alterne.  Nella monografia Dell'insegnamento della storia, dedicata alle più importanti questioni della pedagogia generale, L. aveva asserito la centralità dell'educazione alla socialità. Il metodo pedagogico dove essere quello della ricerca critica e di DIBATTITO e di sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al confronto (non a caso i primi studi di L. Sono stati rivolti a Socrate e al metodo socratico. Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per L. e necessaria un'attenzione maggiore ai pre-requisiti logici piuttosto che alla struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che egli chiama un'epi-genesi analitica.  Celebre e una sua conferenza tenuta nell'Aula Magna dell'Roma, discorso sollecitato dalla stessa Società degli Insegnanti della capitale, che poi ne cura la pubblicazione in opuscolo. E necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di condizioni ambientali. Per L. proprio l'azione dell'ambiente storico sociale sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione. Per cui le idee non cascano dal cielo. Il metodo deve partire dalla prassi, dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti.  Il nucleo essenziale della pedagogia della prassi sta nella percezione della connessione dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.  Trockij conosce con entusiasmo i saggi di Labriola, quando e detenuto nel carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che come pochi scrittori latini, L. possede la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'e impacciato, certo nel campo della FILOSOFIA della storia. Sotto quel dilettantismo brillante c'e vera profondità. L. liquida egregiamente la teoria dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i nostri destini. Trockij aggiunge che dopo anni continua a rimanergli in mente il ritornello Le idee non cascano dal cielo. Altri saggi: Una risposta alla prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Napoli, Stamperia della Regia Università,  Della libertà morale, Napoli, Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Ferrante, Dell'insegnamento della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta,  I problemi della filosofia della storia. Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato per la commemorazione di BRUNO in Pisa. Lettera, Roma, Aldina, Del socialismo. Conferenza, Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera a Socci a proposito del Congresso democratico, Roma, La CO-OPERATIVA; Saggi intorno alla concezione materialistica della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma, Loescher, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo di socialismo e di FILOSOFIA. Lettere a Sorel, Roma, Loescher, CROCE, Bari, Laterza,  Da un secolo all'altro. Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la libertà della scienza, Napoli, Veraldi, A proposito della crisi del marxismo, "Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Croce, Bari, Laterza, Socrate, Croce, Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di Croce sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia, Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Pane, I, Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti di pedagogia e di politica scolastica, Bertoni Jovine, Roma, Riuniti, Saggi sul materialismo storico, Gerratana e Guerra, Roma, Riuniti, introduzione e cura di Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Poni, Firenze, Le Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e introduzioni di Marchi, Firenze, La nuova Italia, Scritti politici. Gerratana, Bari, Laterza, Opere, Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Sbarberi, Torino, Einaudi, Lettere a Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio. Nascita e lotte del socialismo. IV saggio della concezione materialistica della storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici, Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Riuniti, Roma, Riuniti, Roma, Riuniti,  Lettere inedite. Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti, Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI, Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni della Normale,.  Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,. Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di L., istituita con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, Savorelli e  Zanardo, Bibliopolis, I problemi della filosofia della storia e recensioni Cacciatore e Martirano, Bibliopolis, Da un secolo all'altro. Miccolis e Savorelli, Bibliopolis, archividifamiglia-sapienza.beniculturali. Trotzkij, La mia vita, Fiorilli, L. Ricordi  «Nuova Antologia», Berti, Per uno studio della vita e del pensiero di L., Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista, Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna, Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali, Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi, Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Livorsi, Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi, Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Croce, Firenze, Renzo Martinelli, Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, L. e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini, "Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo", in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale  M. Guidi e L. Michelini, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A. Labriola, "Il Cronista", L. e la sua Università. Mostra documentaria per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007. Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica, Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis, Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica, Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,,  Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Antonio Labriola, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Antonio Labriola, su Liber Liber.  Opere di L., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola, su Progetto Gutenberg.  L'Archivio Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Roma.  La personalità storica di Socrate Socrate o gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su le fonti. Orizzonte delia coscienza socratica  Posizione di Socrate nella storia della religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del formalismo logico. Limitazione del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv). Fondamento della pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È Socrale un riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche.  L’ individuo e lo stato. Vili. Delle virtù. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del sapere.  Del bone. Della felicità. Del sapere. Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del divino. II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità storica di Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza  di Socrate. Carattere di  Socrate. Osservazioni su le  fonti. Orizzonte della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella storia della  religione. Elementi  della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del forma-  lismo logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici. Motivo e sviluppo del  metodo socratico. Imprecisione formale del  metodo socratico. Della  differenza fra rappresentazione e concetto, p^^-  e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i generale, e del   concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione fra volere e sapere (yvttjtì-t.  aauxóv). Fondamento  della pedagogia socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore? L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e  lo Stato. Delle viriti. Generalità. Il concetto  delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e  del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità e del  sapere. Del bene. Della  felicità. Del sapere. Del divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditori. Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni. IV, 4, 6. Plat. Gorg. p. 490 E. Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale. toria non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne (i) Zeller ha molto bene criticata l'opinione or- dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore filosofico del dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica.   più tardi, le relazioni morali nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta- mente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi che avean raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di- scutere sul valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi presuppo- sti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della ricerca, e come presente alla co- scienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di [Vedi su questo punto Hermann: Gescìiichte ecc.; e lo stesso autore Prof. Ritler's Dar- stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, Hegel è stato uno dei primi a riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la determinazione del prin- cipio filosofico di Socrate, e cfr. Biese: Die Philosophie des Aristoicles, colui, che ragionando avverte per la prima volta, che il ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera corretta e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema logico della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi- cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira- zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui- stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza, per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente. Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick- ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel, op. cit., p. 51. Da questo e da altri luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto più schietto della filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell'errore di Schleier- macher e di Brandis.  Determinazione del valore del formalismo logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale So- crate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto, dello spirito e così via (^). Senza la pretensione della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Ba- Per es. Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit., passim. sterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé stesso, come forma o attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione, ma si è poi obbligati a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica ('); mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che il valore filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta opinione, esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in apparenza sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e seg. che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complica- zioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('), si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giudizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il valore filosofico di Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della sua co- (L'Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico; vedi op. cit., p, 13 e seg. scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono esclu- sivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura, il processo genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè l'ac- cettazione o la critica di una tradizione teo- retica; e per questa ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio logico della certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed incon- sapevole. Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni correnti: e quella naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza, la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la sua in- telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma costante dei giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti con- dizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un posto na- turale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono, e che altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni, che si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto. Tocche- remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto dello Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue definizioni, il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi il Jacobs, Vermischte Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so, wie die Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des Schlechtesten in sich.   che correa fra la novità delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla conser- vazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il principio normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono- scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una legit- tima ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta notizia degli obblighi spe- (i) Mem., e Plat. Apol. (2) Mem., Ili, 6; e IV, 2, 6 e seg.   SOCRATE ciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza di questa massima in- novatrice ci fa apparire l'attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monar- chia e dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico della maoraioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevo- lezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie univer- sali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi- genze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come impreteribile ('); e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità. E considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione dell'attività dello Stato. L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l'esigenza di una per- [Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7, 9. (3) Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr. Phaed., 98 C e seg.   sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né come un segno precursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al manteni- mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell' individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza (i) Come vuole Hermann. Come vuole Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller, Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati Vortràge ecc., pp. 62-82   incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio ed il generale ecc., perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perchè in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola con- clusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l'esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili, cap. ii,  mento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca dei concetti ('), né può essere inteso come interamente derisorio, perchè l'ironia è un momento ofenerale della conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava allora gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica. Anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa è l'opinione di Brandis: Enhvickelungen ecc., Vedi su questo argomento Hermann: Privatalterthilmer, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John : The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks,  LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA a quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone p), l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners: Geschichte der Wissenschaften, pone una distinzione arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello che può toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il pensiero di Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte col Gorgia. Antonio Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia, dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo in Italia.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Lacida: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lacrate: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lacrito: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lafeonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”).

 

Grice e Lagalla: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazoinale della teoria geocentrica – la terra al centro del universo – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Padula). Filosofo italiano. Grice: “I love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian when everybody in Florence was a Platonist!” Figlio di un alto funzionario della burocrazia vice-reale. Studia filosofia. Perdette i genitori ed e affidato alla tutela di uno zio paterno, che lo avvia agli studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua formazione. Si iscrive ai corsi di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri Stillabota, Vivoli e Longo. Affidato dal Collegio degli archiatri a Provenzale e Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare i gradi accademici nulla pecuniarum solutione. Grazie a Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con la quale si dirigge verso le coste laziali, per giungere poi a Roma. A Roma consegue una  laurea, in seguito alla quale entra al servizio di Santori, per il cui interessamento ottenne da Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia presso la Sapienza. Cura per Facciottola stampa di un commento ad Aristotele, “De immortalitate animae ex sententia Aristotelis VII”,  manifestazione di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale L. si interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia.  Altre saggi: “La circuncisione di Cristo”. Al problema dell'anima L. dedica corsi della lettura ordinaria di filosofia, che tenne alla Sapienza. Queste lezioni sono raccolte in  “De anima commentarii”. Allo stesso argomento è dedicato un saggio dato alle stampe da L., il “De immortalitate animorum ex Aristotelis sententia libri III” (Roma). L., pur riaffermando le posizioni della tradizione d’AQUINO sulla questione dell'anima umana, secondo le quali l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli, ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove eternamente, ma piuttosto come forma informante. Morto Santori,  s’avvicina ad Aldobrandini, entrando al suo servizio. Conosce Cesi, al quale e legato da una cordiale amicizia. Se questa non da luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa richiesta da parte di L., e solo a causa della sua marcata professione aristotelica Cesi lo presenta comunque a GALILEI quando quest'ultimo si reca a Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al giudizio degli autorevoli astronomi del collegio romano, nonché di influenti membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni incontri, durante i quali L., incuriosito dall'occhialino galileiano, lo sperimenta ed e intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle pietre lucifere di Bologna. Da ciò che vide, trasse spunto per due saggi, pubblicati in De phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. GALILEI nunc iterum suscitatis physica disputatio nec non de luce et lumine altera disputatio (Venezia).  Atteso con impazienza da Galilei, che e costantemente informato da Cesi dei progressi nella composizione, il saggio delude l'ambiente linceo.  Nel primo dei due saggi, pur difendendo la verità ottica di ciò che mostra il telescopio, cerca di spiegare l'irregolare -- la scabrosità della superficie lunare, detta perfetta da Aristotele -- come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di un principio di regolarità -- invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni inclusi in essi -- cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense d’etere, più opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo saggio L. racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, Misiani e Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente o una qualità reale, tratta delle pietre lucifere e, contro l'interpretazione di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di luce, poi lentamente rilasciata. Con ciò esclude che possa essere il prodotto della riflessione della luce solare sulla terra da parte della luna.  A proposito del primo dei due saggi, Galilei medita di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso L., di cui le note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio. Tale risposta non arriva, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche. In occasione dell'osservazione di una cometa, scrive il Tractatus “de metheoro quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium” e poiché quest'opera pare, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, e attaccato di scarso aristotelismo. Si convence così a chiedere a Galilei e a Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fa niente, ma anche in questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi. Aumenta intanto la sua insofferenza verso gl’ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto. La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento d’Allacci. Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute (soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo portarono a rifiutare.  Continua a praticare la filosofia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere L. sulla Luna. Altre saggi:  “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat.; cfr. Kristeller; cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze, Biblioteca, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo [Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani, Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F.  Colangelo, Storia dei filosofi e dei matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina); G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani, Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini, Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno,  Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G. Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna, l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei, sublunary, lunary. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library.  Lagalla.

 

Grice e Lamisco: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean and friend of Archita di Taranto. When Plato runs into trouble in Siracusa, Archita sent L. to rescue him – which takes him ‘two weeks and a half.’

 

Grice e Lamanna: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del risorgimento fiorentino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano.  Grice: “I like Lamanna – a very systematic philosopher especially interested in the longitudinal history of philosophy – he wrote on economics during controversial times, too!” Linceo. Fa i primi studi in seminario e poi nel Liceo classico della sua città. Si trasfere a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna a Messina e Firenze. Pubblica un commento alla dottrina. Autore di un fortunato manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei. Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito, per L., che la religiosità e un'esigenza naturale dello spirito umano, egli rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e il dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la necessità dell'esistenza di Dio. Analoga antinomia gli sembra esistere tra morale e politica che a suo avviso può essere risolta trasportando nell'attività pratica la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e divino, che è di per sé bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa etico ossia, secondo L., realmente politico, realizzandosi concretamente nell'ordinamento giuridico e, così come nell'operare razionale si concreta la vita morale, da questa si raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza. Altri saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La filosofia, Firenze); “Il bene per il bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze); Scritti storici e pensieri sulla storia, Padova; Piovani (Torino); Piovani, Tra etica e storia, Napoli); Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», Calò, Il pensiero, Napoli, Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna was concerned about the idea of the state, which is not an easy thing. More specifically, the concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’. – The history goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He is the only philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism into FASCISMO, which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The third volume is ITALO-CENTRIC, from VICO onwards, FARLINGIERI, and notably GENTILE to end with MUSSOLINI. The idea is presented by L. as a ‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato liberale borghese is in ruins – and although he plays with the ‘socialist state’ he does not consider it within the realm of the proper history of philosophy when he talks of French illuminism. So his concern is wht the idea of the state in the liberal party – the philosophy of the laissez-faire. It provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And there is competition. Also, as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly ‘equal’ for every member of society, so that liberalism only pays lip service to ‘liberale’. With the socialist state, the problem is the opposite: the state becomes a gestore – and there is this idea of an endless dialectic among the classes. So how does Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato fascista’ – Had L. continued from Kant to Fichte and Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s idea of the state is Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE however, is MORE than the sum of its individui. Individui come and go – but the state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is machist and homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing is said about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel idea of the state (after la rivoluzione fascista) with a Kantian approach. Since L. has only read Kant seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. L. quotes from CICERONE to the effect that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on the azione or prassi, which is understandable since the pupils are supposed to learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It was the ANTI-PARTY movement --. L. provides the editorial. During the ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government (polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to worthip the God of the Heroes. It is an ‘etica guerriera’ and it targets the male – virtu, andreia. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is interesting because this is conceived after the temporary successes in Africa – Mussolini romano e africano – and before the problems of the second world war. For the first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds are in the Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only provides negative freedom, anyway, and where the initial conditions are  unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism, so Congress is closed, and the only party is the national party. Jews are excluded from PUBLIC service -- even if some wrote panegirici for fascism, like Mondolfo. The philosophical foundations are found in Hegel. If Hegel concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself. GENTILE did not really help, although he was the official voice of fascist philosophy --. The student of philosophy then is taught the lessons of history (philosophy is IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the final stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is no idea of dissent. L. however emphasises that the stato fascista still recognizes the indidivuality and the personality of each member – as the stato comunista or socialista would not!” Eustachio Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il risorgimento fiorentino, Mussolini nella storia della filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lami: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della ragione dei antichi romani – la tradizione della polizia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Lami; he has written interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Altri saggi: "La ragione degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino, Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora -- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa, "Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia della storia nuova destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/ Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola. E’ davvero difficile per me, ricordare L. In questi giorni, ho dovuto farlo più volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la presentazione di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come relatore, anche lui.  Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo incontro, quando io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di assistente di Noce. Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto professionale, in quanto Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo frequentavamo, l’amore per il sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza, in vita. Mi coinvolse immediatamente in un progetto ambizioso: quello di introdurre in un paese dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della storia Voegelin, allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa ricerca, alla quale ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona, assieme a Borghi e pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie voegeliniane (qui è bene rinviare a Voegelin: un interprete del totalitarismo, Astra), che fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da Lami, in questo ambito di studi, fu di individuare nel filosofo austro-americano, un diagnosta della crisi della modernità. In particolare, attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e storia, opera monumentale, Egli presentò l’esperienza classica della ragione, quale unica terapia possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a VOEGELIN, Israele e rivelazione, Aracne, ma anche L., Introduzione a Voegelin, Giuffré).  Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Noce, secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli, scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico (Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si evincono tanto la gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali, dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola romana di filosofia politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, TILGHER e EVOLA. Al primo dedica un volume significativo (TILGHER, un pensatore liberale, Seam), nel quale evidenzia il tema della pluralità delle morali, come caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo L., lo avvicinava al filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individua effettive vie realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo, dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo da alle stampe la prima monografia filosofica: Introduzione a Evola. Un passo per la vita e un passo per il pensiero, Volpe. Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, cura diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a contestualizzare storicamente l’opera del filosofo romano e a coglierne il valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione.  E’ proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse EVOLA, tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo, interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizza sempre negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà romana tanto insiste. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino), nel quale tenta di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”, come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico, tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio).  Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me, gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”, o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti, come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno presente, Il Cerchio.  L’università di Roma, con Lui ha perso una delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente, non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice: “Lami touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for mistranslating Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia --. Lami as a Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty is take in that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political organization of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione una. Espressione varie e tradizione una.  With the birth of Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean ‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all this – and more --. Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi,  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lampria: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Tutor of Aristosseno di Taranto, although he seems to have taught him music rather than philosophy.

 

Grice e Landi: la ragione conversazionale e la semiotica economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I would call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato un notevole contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica (prassi, pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica romana e fiorentina  con quella oxoniense. Diplomato al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano. Studia a Pavia. Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può suddividere in tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica), nonché l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria della “produzione” del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento è l'omologia tra la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E. R. E.). La terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e teorizza l'”alienazione” dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica communicativa (Bocca, Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione e parlare comune,” – cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare, implicARE, -- ‘common’ is Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to extra-ordinario. Marsilio, Padova. La semiotica e  “Segnare” come lavoro e mercato, -- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with ‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational. Bompiani, Milano, Segno ed ideologia (Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia” (Mondadori, Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o teoria? – cf. Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology – ceteris paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology – “That’s why we call them ‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th.  (Bompiani, Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’ y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo, Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio  su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as did Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo, l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va   speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il  artista o un politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per  . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.   glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del  MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta,  W (rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta.  (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F ,  1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”.  Queste formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di  e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or ora  ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o, come nella guerra o il duello, negativi.  Se il progetto offre l'occasione di congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con (gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >.  Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di binomi: gr g+1 1 T   (go+ 1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library, Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza, “Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Landino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della sforziade degl’italiani -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I love the way a philosopher can be judged by his fellow citizens and by furriners: Landino’s “De Anima” fascinates the Germans, for example! While his poetry fascinates the Americans, as I Tatti testifies!” Nacque da una famiglia originaria di Pratovecchio, nel Casentino, e compì gli studi in materie letterarie e giuridiche a Volterra. Gli venne affidata presso lo Studio fiorentino la cattedra di oratoria e poetica che era stata del suo maestro Marsuppini: L., sostenuto dai Medici, e stato avversato da non pochi personaggi in vista, come Rinuccini e Acciaiuoli. Tra i suoi allievi ci furono Poliziano e FICINO (si veda). In quel periodo ricopre anche incarichi pubblici, facendo parte della segreteria di Parte guelfa e della prima Cancelleria. Tra i suoi viaggi, spicca quello a Roma. La sua Xandra e una raccolta di componimenti dedicata inizialmente ad Alberti e de' Medici. In campo filosofico scrisse III dialoghi: il De anima, le Disputationes Camaldulenses  e il De vera nobilitate. La maggiore fama nei secoli di L. e però legata alla sua attività di commentatore dei classici. Diede alle stampe il Comento sopra la Comedia di ALIGHIERI, su ORAZIO e su VIRGILIO. Traduttore dal latino in fiorentino della Storia natural di PLINIO e la Sforziade di Simonetta Il volgarizzamento pliniano e un vero e proprio evento. Per la prima volta la plebe puo leggere la più importante e vasta enciclopedia del mondo romano -- tra i suoi lettori Pulci, Colombo e Vinci. Per i meriti acquisiti, la signoria fiorentina gli assegna una torre nel Casentino e una pensione.  Venne ritratto tra illustri fiorentini a lui contemporanei da Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Altri saggi: “Orazione alla Signoria fiorentina incipit della Historia naturale tradocta di lingua latina in fiorentina”; Xandra, “De anima”; “Disputationes Camaldulenses; “De vera nobilitated”; “Comento sopra la Comedia di Dante”; “Commento a Orazio”; “Commento all’epopea eroica di Virgilio”; “Historia naturale di Caio Plinio Secondo tradocta di lingua latina in fiorentina  al serenissimo Ferdinando re di Napoli”; “Orazione alla Signoria fiorentina quando presenta il suo Commento di Dante, Firenze, Niccolò di Lorenzo, Formulario di epistole, Firenze, Bartolomeo de' Libri. Il testo si può leggere in edizione critica. Carmina omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit A. Perosa (Firenze); “Disputationes Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De vera nobilitate, M. T. Liaci, (Firenze, Olschki); R. Cardini, La critica del Landino” (Firenze, Sansoni). Dallo stesso studioso è stata allestita la raccolta: C. Landino, Scritti critici e teorici, Cardini, Roma, Bulzoni, Comento sopra la Comedia, I-IVProcaccioli, Roma, Salerno editrice, Questo commento è stato solo parzialmente edito (la sezione relativa all'Ars poetica): Cristoforo Landino, In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam ad Pisones interpretationes, G. Bugada, Firenze, Sismel, R. Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia, cultura, Pisa, R. M. Comanducci, Nota sulla versione landiniana della Sforziade di Giovanni Simonetta, «Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia storico-culturale, dell'opera in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano” (Messina, Centro di Studi Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem poeticam ad Pisones interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale per lo studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano Messina,  di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN, Ratisbona. Liba secundus u aut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars enim natnratn quoad ua  Itt feropq imitatur. Sed nefeio quo pado cum de eqmalo quod iti vita Kiriorio  iMispa natura nucttigadum nobis propofuannus:iam fecundo in naturam rela« bor.lta^ bacomifla ad illud tademrueamusipcimunique omnibus PHILOSOPHIS omnibmi cbtifiianis audoribus non in eo quod ab ad ione proueninfcdin fo»  h ratione coUocemus. Non enim quid fadum iinfed qua mente fadum animad  uettunt. Quapropter quatuor ueluti principia ponunt. Cum enim fe nobis ilu  quid offert: mouctuc ea te fic oblata uis quzdam animorum nofttorums ut illam  cognoscat: tandem p decernit aliud bonum efTc aliud contra maium. Quapto ptrrcumiam feferes obtuleritrcum iam fecundo loco (it de ea iudicium fadumt  adtamr tertio loco uoluntast ut hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem uoluntate ita iubente motus poftremo in corpora infurgut : ut id  tncmbraezc quantur quod noiunusancea de creuerit.Ncffi igitur a duobus illis  ptimisprindpiisnetp ab boc poftremo uitiumfpedatur:led a voluntate qua in ordine tertiam pofuimust. Non enim eo Verres pcccauit quod tabulz ftgnac ac  reliqua ftculorum preriofilTima fupeliez illi fefe of Ferreti Non rurfus quia iudica  ret forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd quia rapere uoluit cu uf«p  adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft non rapuerit :tamen quia rapere uo  luerit fitelus commifllim fitx Non enim interfecerit ne an non interfecerit: fed uo  lueiitne interficere in culpa eft:Defueruntuires. P.CIodio quominus Annium Milonem oeddere pof Tetx. Qua quidem in re fi naturz uitium quzras t pcccauit  ea uis:quzmentis propofitum non implcuit:fi uero ad morem teconuertas non  aduscorpord motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur iure homi  dda Clodius quia Milonem uoluit ocddere: Fac autem ocddifte cum minime ta  men uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex uoluntate:  fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii vel ex insdiia rem quampiam c6  mittunnii non modo culpa carent: uCTum etiam cdmiseratione fzpistime digni  putanmr. Quis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam fi fabulosum  putetmon iolum illum crimine liberat: Sed fumma infupercomifetatione profe  quituRcum animadvertat hominem ex infdria dum feram uulnerarc putat: ca tifiimam fibi coniugem percu Eiffeteuius morte in summum moerorem acludu  paulo postcafuruseifett Vides igitur auolutatisadu ueluti a fua origine uitium  in monbus flum: Verum cum iam conftet imbedllitatem adionis prouenire ex  infirmitate primi agentis rem hanc planius exponendam cenfeo: Videamus ita in quo defidatuoluntas ante commifllim fadnus. Qui quidem defedusfibi a  natura non erinfemperenimadbzrct/ femp pcccaret:ne rurfus eftcafu bc for  luna:eflet enim extra nos. Est igitur uOluurius.S'ed ut uideasundeifit error boc  aedpe. Visdus rd quz agit ab eo agente perficittu quod fupra fe eft: Donec enim  id quod fecundo loco agit perfeuerat in ordine primi agentis munus fuum abfo  lute peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn aut fiatim  aut paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana torquef. Hic idem fi nunu dedinet a mom ceflabit. Ergo igitur ut ad rem redeam nupa  dicebam duo cflic pdndpiarquae uoluntatcm aateire ntt Res quz fefe nobis oSu a : k [ t  Oerumniobonp nttitt K uii gucdam ilfas oblatu fufdpiatt At cum qiiicgd bnhi!!»ttb£ A Ut moueri poffifaliguidhabeat proprium a quo moucaturmoo omnis pcrap et  di uis omnem appetitum mouebit. Nim quz fmlibilia percipit cum dutaiatape  petitum qui a renfibus e(i mouere ualai Ratio autem proprie uoluntatem mouc  biti Rurfuscum latio varia bonorum genera percipere poiritcuiuilibetautcm &  proprius finist Etit uoluntatis quoque pprius nnis k primum quo moueatiu n5  bonum quodlibetifed certum aliquod ac pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo  tas perceptione eius rati6ismoueac7quz tedum bonorum malotu iudiciui B  teneat reda indeadio exorictur. Sinautem ab iis ezorit" quz falfo fenfuum iudb  do bona efle deaeta Tunticum minime flnt bona Ibtim peccat in uiu 6tmorib9  uoluntas. Peiueriio igit" ordinis qui est ad rationem et ad proprium finem gignit  peccatum in adione. Ad rationem quidem cum ad fubium fec fiis perceptionem voluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas bonum non efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillis bonum iudicatat. Efirurrus cum ratio ipfa minime  decepta id bonum efle decemittquod uere bonum dici potcft.Hcx tamen tepore aut hocmodo bonum efie negatur. Voluntas tamen in id fertur nu llam ordinis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis per uerfio uoluntaria eih pptc reaqi uitio non carets Loquacior fortalTc fum q par cfi in natura mali. Addam tamen ex iis argumentationibus quibus demonftracum efimalum nullam efienda  am eflesati ob eam tem per fe fubfifierenon polle: facile animaduerti id aliquo  in bono feroper efle oportere: Verum idem hac quoip ratione probatur. Cum malum dicimus priuationem dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio autem ipla K  foima qua res priuatut in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur huiuTce  modi cil ut fua natius facultate formam fufeipere ualeat. Hoc autem quis bona  negabit cum eodem in genere et ipsa sive facultas sive potentia Scadus qui inde  cll omnino confilhnt. Prxterea malum ta folum ratione malum didiT quia nev  cct. At non ncKct malo. ElTc enim bonum fi malo pemitirm afiFcrrct. Nocet igitur  bono. Nonautefi de rei forma loquamur noceret nifi in eoelTet. Quzenimcz  citas polyphcmo nocebitinifi fit in polyphemo excitas. Verum cum uulum boa  no opponatur quo pado utn idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim altc/alte tum pellinhoc fi dicas ita tibi refpondebo.Quicquid ens did poteft idem 8C boa  num dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente fit:quzlibct enim ptia  uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non efi in ente fibi oppofito. Si  enim czeitatem dico hoc non eos comune quide minime eft ut uifum ubi^ tola  lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo fubicdo fcd in animaote. Q_ux quide om  nia eo teduntiut non pofliit iu fummum malum inueniri:ut inuenitur fummn  bonum.Quod enim fummum malum fututum fit id fine alicuius boni cofora  tio elTc oportet. At nullum malum a bono omnino feparatu efle inuehies. C^ua  doquidem ut paulo ante ofiendimus fuas in bono radices malu egit: & in eo luu  ut Ita loquar fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis  fututum effe id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo  num clfc uidemus. At malum eflentiam nullam babae iam demonfiratu efi. Ita  quod ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba tettius   cipranificflct caura iitidepcadcrettt Dafiautcaurambotiucfre dirimus. A 4 de  & boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior eft illa quz per accidens  caula dicitur. At malum non efi caufa niri per accidens.Non igitur inuenimr (u  Inum malum.Hatc funt quae de plurimis longecp «ccllenrioribus quz Leo Baptista memoriter diluride ac copiose in tantorum uirotum confriTu difputauit t  mcminil Te ualui.ln quibus cum abunde Laurentio fatilTadum efletxfol^ ia me*  ridiemalccndi(ret:nos omnes ita adbottante Mariotto hofpite libeta Mimo to» Kzimusiillumf fecuti ad tefidenda corpora difi:ellimus. L. CAMALDVLENSLVM DISPVTATIONVM AD ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM IN P. VIRGILIO MARONIS ALLEGORIAS. Um Satuissem cum fermonem illustrissime Federice litteris  mandate quem Leo BAPTISTA Albertus no sine summa  oiumquia et erunt admirarione: at(^ftu porede iis  Homeris  habuiflct inqbus. VIRGILIO j fundiflimam illam fcietiam  i occultatcqua fummu bois bonum diuinitus defcribit et quU  uia ad id Hcircamur mirificc exprimit: uercbar ne in nonui 1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui cunria ex fui ingenii imbecillitate tnericntcs et Maronem ipfum nihil przter fabellas:quibus ociofas auditoru au  icsdcledaret cdmctum rae credant et nos pro arbitrio nodro quz dicimus ottu  uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi quid poctz fint: fi quam eorum origo ue  tufia appareat fecum teputentifi q magna/q uaria dodrina plurimi in eo artifii< rioflorucrint confidcTcnncogoofccnt profedoid quod grauil Timorum PHILOSOPHORUM iudido comprobatum uidemus nullum efie feriptorum genus : qui  autmagnitudine cloquentiz.aut divinitate iapictiz poetis pates fuerintr Qua  quidem ce ARISTOTELE virum excellenti ingenio et doctrina pofi PLATONE om  nino singulari motum crediderimrut eofdem prifds temporibus theologos poe  tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poesis ipsa quid sit diligentius inturamur: fad  k erit nofle non cfle illam unam ex iis artibusrquas noflri maiores quoniam reli  quis excellentiores funt libctales appcllarunnin quarum una altera ue fiqui 0 o lucrunttin maximo funt femper pretio habiti:fed cfi res quzdam diuiniortquz universas illas compledcns certis quibufdam nu meris aftridatcerris quibufdam  pedibus ptogrcdienstuariifi luminibus ac floribus diftinda quzcutp homines  qjotnt quaecn norint: quzeu contemplati fuerint: ea miris figmetis exoractr  atip in alias quasdam spedes traducattut cum aliud quippii multo inferiusimul (09 humilius narrare uideantur:aut cum metas fabellas ad ceflantium aures ob  kftmdas ludere credantur:tum maxime cxcclla quzdatfic in ipfo diuinitaris fbn  tctecondita pTonunt: Quo quidem gratilTimo errore tandem animaduerfo au  ditoc non Colum in fummam rerum cognitionem deucniat: fed mira eriam uolu  ptatccz figmento pctfundatuc. Quam quidem temdiuinam potius s humani f iii fn.   cfle cu! potius f Platoni credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte yana tradi;f<d divino furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua  infcnbitur/cum tria alia diuini furoris genera expliraflet/quaitum furoretn quc  poeticum elfe uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia exprimir. Rcfeit enim da  ibcxleftibusredibusucr farcntur animi no(lri/ et cius harmonix quxinxtema dei mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus conficitur/illos participes fuit  fe. Verum cum deinde monalium rerum cupiditate degrauati propterca ad ia  feriora iam deuoluti corporibus incluti tint:tunc terrenis artubus ac monbodia  membris impeditos uix eos concentus qui humano artiHno comparantur auribus padperc poflerqui et Ii a cxledi harmonia longe abfintinihilominus quoni  om ucluti fimulacra quxdam ac imagines illius funt nos in tacitam quadam ex Icftium recordationem inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw  am reuolandi inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima  go lit pnofcamus.interim uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa  bis licet/bac noftra illam imitari cdtedimus non uocum modulationibus ueluti  uulgares quidi et leviores mulici cofucueruntrquos aunu frufus demulcete posse no negauerimtquicq aut prxterea prxihre posse no cocedor Sed grauiori quo«  dam iudicio diuinam harmonia imitati/ pfundos inrimof mentis fenfus elega  ti arminc exprimutsat divino furore concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq  fupra humanas uires cofticutas gradi spiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc  ille iam refedetitifeipfosadmirentVat obllupercant. Quapropter non folum  auribus adulant ifed fuaui nedarc et diuina ambrolia mentes demulcet hi igic  diuini uates funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo fandti ab Ennio ap   E elbnt": his folum diuiniiuscocefl'umeft/ut carmine modo iocude fuauiteripla  entitmodo grauiter alteq; furgetitmodo uchemeti impetu ruerirmodo in leda  ti amnis morem fluetiinonunq copiofe exundantiinonunq breuiicr atqt copref  fef gredicnti quocui uelint auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor uche  metior^ in iilis spiritus infurgitiab huiufmodi ueheroeria uates appcllant. Grxa  dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut. At dices fonafle none 8C reliqui feriptores fuo libto poetx id eft effedores iuie dici  poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii et dicedo limul & intelligedo  ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod oibus feriptoribus comune etie  opottuitsucluti fuum ac pprium fibi uedicauerunt. Et piedo quicuqi uates boc  noie digni fueriitiii fupra humanamuim aliqd pofle uili funticuius rei teftimoe DIO elTe poflunt prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam apud hebrxos Moy  fes uir bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3 tptiis hebrxos lib^;  rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm diuinitate cofai  plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t cum odoginta iam natus an  nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis r aret. Nam qux ea fint qux  Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex iis chriflianis qui paulo dudi  ores babet latere puto. At hic ut ex libro fuo coiedari licet tertia xtate poli iftael  tutPcftincc nuc {>fcqr quata qliaue fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si  Jonumis i qux dcutctonomiuquc Ibix catico codnent" tEgregiu dno inudu cotitinuab dekiceps ferie r<rfiiper rctetitum: ut iion modo poete: verum exteri 9uo(^ rcriptorcs quicutK remaliguam maiorem litteris mandarent: eam ua tiis Hgmentis/uariisfigurarum integumentis obfcurarent: putabant enim fo  teii negodumdifibcilius ccdderent: ut fi: gux rciip(i{rent: maiorcmeflent dignitatem audoritatemc^ habitura: 8C 9U1 percepiffent: guoniam non fine la^  borc at(^ induftria id afreguerenturtea pluris elTe faduros.maiorem inde  uoluptatem percepturos fi guz ipfi tenerent minime fibi cum indodis commu  ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^ rebus profanos arcebant non  inuidiamoti sed ut aliquod inter follertem at mentem diferimen appareret:  cum non idem ociofusguod studiosus affeguetetur: sic enim dC premia guz dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem artibus quando leKguis noD prohccrent niterentur fummopere accendebantur. Difficultate  enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur: uindt onmia la bor impro  bus: & du ris um ens in rebus egeftas 2 Quam guiiguam feribendi ratione grxid guoi^lccutimntfguortim & Orpheum thracem:& atheniefem museum et  thebanum Linum antiguiflimos fuiffe accepimus: Verum Lini Mufei^ uiz  uciligia eztant: Orphd autem poemata in quibus multa deui diuinainecpau  ca dererumnatura continentur 2 ad eam quam diaimus formam confcnptitaf  fe/fadle efl cognofeere 2 de reliquis uero qui deinceps doruerunt/nihil dicam:  Fabularum enim figtUenta quibus aut deorum/aut rerum naturam /aut ea gu»  ad uitam & mores pertinent obfcuriusquidem sed maxima cum dignitate exprimunt: rem manifeffam reddunt. Qua propter cui mirum uideatur: fi otnnisxtas:omnesnationes. Omnesguialigua ufguamdodrinacxcelluerint: poc  tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos adprzfens omittamq multos q  maximos in philofophia locos Aristotele tanms uir poetarum tcflimonio cot roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua netpde poetis duosme^  de arte poetica tres libros accuratiffime confaipfiflet. Quanti autem hoc bomi  num genus PLATONE fadat: ipfe in libro de re.p.fadle offendit: q uoniam n ihil uei  jbementius mentis intima penetrare/qua poefim affirma. At dicet aliquis no ne  in libro de legibus idem PLATONE poefim reiidendam ccnfctmufquam ille hoc. Sed  eam rdidenda dmonet: qux more tragico pturbatos animos imitatur;qux uee  to laudes canit deoru:patria inffituta defcribitimores edocet: probosuiros extol  ]it:iroprobos deprimit/aedpiendam iubet. Deni nonullis in lods aliquod poe  tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poesim autem ipfam qua  donout diuina mex tollit quas quidem res cum diligentius fecu reputauerint  qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam immutaturos exiffimo:  qui tamen si nos carpere uoluerint: potius temeritatis arguantiquoniam ea qux  fupranoftrasuires funt/aggreffi fuerimus: qua aliquid quod Maro non uidc  tit 2 nos uidif Te putent 2 Ego autem quauis non tantum mihi arrogem: ut hu  ius poetx diuinitatem fatis pro dignitate explicare pofIim:non tamen inutile fii  turum putauirH noff ra indufiria quantulacunc ea fit/dodiores uicos ad tnaioif  ra de ENEIDE demonftranda exdtar 02 qui cum nos non omnia potuiffeintelli  indigo oiK no otn&mq ioiufta aduerfus nos induti utbca ca coi nim lutun erga Iiuiurcemodi dodris» cupidos adtadiS errata Uoftra conS  gant i ii qua detint addant t Qua quide in re non modo emendari me xquo  animo fctam: r<d ultro iam nunc omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc  ter oro. dam m maxi me propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U>  ter aliis oftendet er & qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il  lo reliquis profuturus iitu o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi iiberalif  fime effundamtfl Canullo mortalium quz mihi delint/fumere dedigner:ad que  autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad te iUui^ime Fcde  tice:qui & Maronis pra; terca KeTos & udiofiirimusrem perfuetist & cum reliqui  iulue principes in eo omnem indufiriam ponannut quamaximos fibi tbc£uitos  comparent i auri^ at^ argenti aceruus magis magifi^ indies aefcatitu maxu  mam tuarum opum partem in mularum & eorum qui mulas colunt omsmen  ta liberalissime effuns: ut iam quemadmodum Homericus ille Agamenon  coniidebat/fi decem aliifibi Nefimesadeircntiforeut breui Troiam apturus  eflett fienospro comperto habeamus fi Itali populi non diam decem ut iliet  fcd duos przteta Federicos haberent t brevi futurum ut universa ITALIA alterz  Athenz futun fitr feddeczteris alio locoi Non enim in hunc fermonem hoc  tempore uemmus t ut quequam arpamus t fcd ut te fic dc litteratis hominibus  meritum quamaiimispof Tumus laudibus profequamuri qui quauisfolus ex  omnibus qui in imperio confiituti funt has parta tuearis : amen iu late patet  tua in oes litteratos liberalitas. Ut non pauciora ez a fiC poetae BC ontorat & om  niuffl rerum feriptora prouenturi fintsqua ii fuerint t quos olim Nicolaus lUe  quintus pontifex mazimus:quem omnes uidimus fuis pulcherrimis muneris  bus/ac maximis pretniisprouoauittqui quidem tuo beneficioad ftudia czdta  ti:8t fibi gloriam fua dodrina fua eloquentia ucndiabunt.6: te ulem roufape   E atronu etiam tuc cum multorum principum qui et nuc uiuunt/& olim regna«  ut fama fepulta iacebit in xtema femper^ recenti memoria uiuum retinebut. Veru haec quoniam omni luce clariora fu Dt; longiusprofequenda non cenfeot  Praefertim cu ipfa iam ra postuletaut diuinum dodimmi uiti Baptiftz Termone  ego quantum memoria repetere poteto Tuo ordine referam.Ille enim cum bci>  ne mane ad confuctum locum ueniflemus : 8i min audiendi cupiditate inflam  mati ab eius ore Tummo cum filentio penderemus huiufccmodi principio dil/  putationem exorfus cfi|£)um eius poctz mentem tibi Laurenti aperiri cupias r  qui uel ex omnibus re^onibusaquarum babiatorcshifioriacognofant suci  cxotnnibus lzculis squkadnofhamur memoriam acriptorum beneficio per  uenerintsfi non primus primo tamen par aequalif (^ exifiatsno poflfum meo oea  tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus pctturbaii. Ncmo modome  diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia dicendi ipfnn ut ita loquar eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam cumtraindidionefiue figurae  rrnt sive charaderasin quotum uno fiquis excelluerit maximam fit glot L - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis uoluminibus fiivmlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita omnacofudific aepennL:  fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc Bcoocctu Mluaf^ t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ IIBD mu DCMI mat vtik lia cnlK lioilfl olis a tpai KSoa 10 ik lOa B oulip icbui>  nft» none flbfr  qSiQ  011 ipiB’ bSlfimu cottfiaabt incredibilefli auribus voluptate pariat. Ex quatuor aut riie&  di generibus ita opus contcxitiut ne ocio copiame negocio brevitas defit. Vi  dcbis quxdarua sic dtatc at<j ariditate placerctquzdamuetoueluri flofculis ib  lufhau at diftint Sa deledare.Sunt deni^ eunda eo attifido confirudaiut un#  deoiaadoe elocutionis genus exempla potius qbincrumas/fcriptum DulIum invenias. Adde ad haec cognitionem hifioriatai Adde quadili gentissimus and»  quitaristt oonmodonofliaturctuifed &grzcaru &omm nationu inuelliga#  torcxriterittqptil conjmuaborumobretuatiinmus fueritiq elegata quxdain  Boua ex fe fotmaucritiqua f pric omniu uim tenuerit. Prxterco ius duile: omit  loiuspontiridu nihil dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab aliis accepilTeifed ipfc conftituiOie uideatue. Hzc igitur & cotum limilia fi a me tibi ex«  pheanda pctaestac ut fifiguk» in eo poeta locos diligeorius apetiiem contende  tes: 8C operofum fimul & difiidle mihi negociu imponetes. Quis enim illa pub  chetrima cxcdlentiiliinaf/ac fummo artifido tccondita non ludicct: fed funt ta  nicri a multis iifdcm^ dodisuitis patefada. Quod aute petis id & multo diviiuuscftt Kmagisinobrcuro UtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus  fua ferie patcfadum.quod ne gtimaricus nc tbetot nouerit.fed fi ex intimis  FILOSOFI arcanis eruendum. Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de Ae  ncaectrotibusidc dus hominis in italia profei^one fibi Maro uoluerit.Q^ua  qua (untnonulli/qui di ea quae paulo ante dicebam promaximb admirentutt  at^ in ipfis fuma abfolutam^ poetx laudem contineri putent: nihil maius in eo  uate fuicent. Quos tamen fi roges quid fibi in ea te VIRGILIO perficere uolue  riti Hometumimitandu fibi propofum eafibtmabut: Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo minus id pilare pofTet fibi defuifreiQ^uod nobis cu dederint  fuccubat penitus necefle efl. Habemus enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba  omitta multoseofde grauifTimos PHILOSOPHOS tqu i Homerii ocm zgypriopi  dodrina haufilTctca^ more illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat. Qua in fen  tcnria nili ARISTOTELE fuiiret nunqua homeriaru ambiguitatii libros fex scripfif  fet. Na quid Balilius Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate magnus coo  minatus de homine fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri pocfim laude/  uittutis continete dixit /fccutus ut puto Anaxagoram Claxomeniiitqui quidem  idem de hoc poeta a Sirmauit t Arcbefiias ucto mediz academiz inudor tra OMERO tribuitiut nunqua fe iniedu tecepcritiquin prius aliquid ex eo legerit: Sed  & inlucem le ad amauum ite dicebatiquo hin dus legendi maior copia daretur,  yctum quid reliquos nunc colligamtcum unius PLATONE testimonio nihil fit,  quod probari non polTitlls igitur in eo uolumine quod de summo bono scripsit omnes artes huc diuinz fiue humanz illz fint in unum Homeri poema uciuti r  in proprium receptaculum confluxifle afHrmat. Quamobrem animaduettens  Mato dodrinam huius hominis ex egyptiorum sacerdotum fontibus bauftam  fimillimamcum Platonicist quorum Qud iofifTimus fuit rauonem babere eam  uTadeo admiratus dl:ut idem in fuo ENEA efficere uolucrit : quod ille antea  in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis poeticif:^ figmentis eum nobis  unw i^oiinai qui pluri, a^ aux^nis u itiis pauwim expiatusue dckeps 'ir»v I f  •*/ .«MI inr   ; iRft.    mitis uiituHbiu Illuftratus id quod fummahotmnibdliaeStquoiI^ tufi & pl  ip6t/ tatnnlal^ equnec^ VcTdcu illud mrera diuinanunfpcca msnullusafTequii latione conlidcre a PLATONE didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime  perueniripofle/q animi nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex  piati penitus reddantur. Cum SOCRATE i pfe puru impuioiittiogetc fas c$/cfle  neget. Quapropcet non folumflnes bonoru nobis miririceezpreiritt Verum  etiam qua uia qua ue ratione eo cuadere tandem homini liceat demonftrauitt  Ne qua pars eius philofophia; qui gtxd ethicen/nos de vita et moribus nomp  namus: prxtermitteretur:in ea enim nos nihil aliud quammus nili primum bo  notum malorum^ iincstdeindeof Scia quibusueluti uia quadam ad eosdem  ducamur. Laboriofum omnino negodum/at^ omni difficultate plcnum: divinum tamen & quo uno foelix limul atip fapiens homo effidaturtdeo^ iungaf  Soli enim fapienti fas eft ufi adeo deo c6iungi:ut nihil quod feparcr/intercink  ce poflit. Deus enim ueritas eft .Q^uis aut nefdat qui uerum mente non pettin  gat/eum lapientem efle minime poiTet^os autem cum quatuor lint qu 2 in feru  ptoris mente aperienda inue(tigemus in rem nolfram futurum puto: ut certos  ia terminos drcufaibamus: quos in poeta interpretando egredi non liceat. ES  igitur cum id quod geffum Iit quxrimus: quam hilforiamappelbnt/ut cum le  gimus apud Matonem haud ptocul inde dtx Meda indiue^ qoadrigxdiSa  lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum litifed qua ratione geSum nt:ut eS  illud At tu didis albanemanetes. Nam eoloco dcmonfhat propter eadifcerptu  a quadrigis elTcalbanorum regem /quoniam illein fide non manlilTet.hic gta&«  dethimologiam dictuit. Quxrimus et tertio in loco an ea qux dicantur pu^  gnantia inter fe lintr Alibi enim didt ChriSus patrem fe maiorem efle:alibi ego  &pater Idem fumus. Quapropter cum ita interpteumur/ bxc ut minime intec  fediiridereo ()endamus. Analogiam sequimur. Interpretamur postremo aliquod  per allegoriam quod tunc sit cum non qux uaba SIGNIFICANT INTELLIGIMUS sed  quiddam ALIUD SUB FIGURA OBSCURATUM. Scribunt poetx Amphionis lyra motos  m lapides ut fua fponte in thebanorum moenium flruduram coirettper quod  figmentu quid aliud intelligimus:nili fapientillimi viri eloquentia esse dum eifer  ut BOEZIO populi qui hadenus ad omne rone ueluti lapides Supidi: K aduetfus  oem humanitate durilfimi czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem uenirentrac  poSremo legibus qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe rubiicerct. Nos  igitur reliqua tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in ipfa fola allegoria uet  fabimur:ut quid per Troia(n: quidpCTxneam:quid per ITALIA reliqua^ huiu&  modifibiuelituideamus. froixigit" oritur ENEA rperquautberedeut puo  to prima bois asutem intelligemus.in qua cu ro adhuc ois cofopita (lufolus fen  fusregnat: At ipli mottales/quia ea xtate fapientia ne furpicaot' quide ea fola  fibi proponut qux philofophi prima naturx appellat. Ni cu oe aial (ibi a natura  comendatu (it:in primis feipfum diligit:deinde o^s corporis partes ita integras:  ualidafip hne cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi (int: maxime autem uohi  ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul corpur^efTe intelligattat  Utru faluum efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/ quoniam   BOO dbm plane ilhcog Oolat minus laboratsea autem quz corpori corporeilm  uoiuptanBus conducunt/anxie expetit. Sunt enimflbi abipfoortu iamnotissima. QuaptopteiT cum in hac zutcnaturxui potius trahamur/g nofharum  adionum domini efTeualeamusmel minimum uc omnino nullum uirtuduw  do^ locum relinguamus:cum que agimus eanccuoiuntariaflnt: neccum de  ledu aliquo fiant. Ita in puero virtutem e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro  gtcflu ztatis rationis lumine aliquo illufirari indpit mens noftra s tum demum  tanm in nobis conlilii apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus. Eft enim  iam ad illud PITAGORICA litterxbiuium pcrucntum/fic iatnuitzne Tciuseiton  utcil apud P um. Deduxit trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di  fceflciimus nccefle efitut uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus . Nam  quz deinceps agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit  tutitfin contra uitioadlcribuntur. Troiz igitur 8t Aeneas limul fit Parisa/un  tur. Verum alter quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f uoluptatem ante«  poni neceife efitut una cum Troia pereat. Alter autem ducematie Venere fe  ab omni incendio explicat. Quod quid aliud intelligamus/nifi cos/ qui magno amore inflammati ad uen cognitionem impclluntur omnia facile confer  qui pofle. Qua propter Venerem diuinum amorem rede interpretabimur.  Sed tu LAVRENTl ncfdo quid iam diu uclle dicere uiderisiCupio quidem  inquit LAVRENTIVS t Ni uerear perpetuum tux disputationis filum intec  nimpae.lmmo potius iflo modo inquit BAPTISTA: Nam cum uniuerfus  hiefermo non ad oflentandum ingenium neq; ad gloriam comparandam a  nobis infticutus fit : fed ut honeflifiimx- uoluntati tux obtemperem: fit fi quid  in me dodrinx efi/id libenter cfiFundam : interroga : inter peilaiobiice: confuta  pro arbitrio tuo.Hac enim uia id quod quxrimus verum dilucidius apparebit. Vtar quod mihi permittis arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non  tui confutandi sed mei erudiendi caula . Miror igitur cur tu Venerem amorem interpreteris eum prafertim amorem : qui non modo cadus verum etiam divinus fit. Ego enim Venerem non folum apud poetas : fed etiam apud  reliquos feriptoresita fumptam uideo: ut per eam nonnifi maris foeminz^  coniundionem fignificarc uelinr.hinc illud Terentianum, e Cerere fit Bac  chouenaemfrigefceretEt ipfc in bucolicis: Parta mez uenerifunt munera.  Quapropter fi uenerem pro huiufce modi'coniundioneponas:quxbadenua  dixidi/ea omnia inter fe pugnate uidebuntur . Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi<  ili petfpicuum reddas ego minime explicare ualeam. Qui enim fit ut cum duo  fintuiri Aeneas at^ Paris: Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle  fit ut una cum Troia pereat : Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri obtempe  reriomne periculum incolumis cuadat. Ego enim non uideo cur fi bona fit Ve  nus Paridi noccat:fi mala prqfit ENEA. Qux quidem dum cogito/in eorum  potius Icntenciam labor:qui rem omnem ad eam flellam qux hoc nomine ap  pellet'':flt ad ipfam bidoria referut: Putat enim qd* te no fugit/qua hora a Troia  ITALIA versus jificifcerct Aeneas:librz fignu qd* domiciliu ucnetis 6ad nfm hoc  hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio czlo loui fuide roniundam. Quibus oibus poftendebat" foelidtas illi tegtia^ per muliere peruentufoioJo'  uem enim regnU ptzeflc non ra odo OMERO SIGNIFICAT qui reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit. Sed & mathematici ide ditant. Salutareenini  omnino Itduse Qsquonia inter Saturni frigus K Marcis ardorem colloatu opti  moeemperamento Iit: 8i propterea eundis euentibus profpcrum. Nam cum ui  tam noftram praxipue sol et luna gubernet: iccirco lupitet omnium nobis fa  luberrimus eihquia foli per omnes numeros/iunzautem per plurimos coniuo  dus eft. Refecunr etiam in initio mundanzfabricziouem in ariete dotniciiio  tuncafcendcnte fui/Te. Volunt illum inducere leges/caliicatem/mirericordiam  in egenos K calamitate opprelTos. Veridicos homines fadt/& vere amicos fine  fraude fine dolo: Saturni fzuitiam frangit fiCquzcun^ ille mala infert:hicaut  tollit aut minuit. Quapropterfcite Petii us Satutnumip grauem nolito loue  frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene habeaticum ille hominem for  tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit BAPTISTA. Sunt enim ex 15  ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer accommodata. Verum cum omnis  nofira difputatio nullam hilloriz ratione habeat i Sed eam qui totiens gtzco  uabo allegoriam nomino/exprimete conetut/non uideo cur ea qua adhibui in  terpretatio iure amitti non pofiit : Si enim iis omilTis quz de ENEA deqj cztctis  troianis prifei faiptores tradidere/pro arbitrio licuifiet poetz non modo finge  te:fed SL peruertere & addere & fubtrahere.Si deni^ nulla hifioriz ratione liabi  ta id folum tentaret quo pado per ENEA cum nobis uirum informaret: qui ta  dem fapiens beatufqj citet futurus/nonueneremfortafiefed cupidinem aliud  ue numen pofuiflet. Sed cum ita poeticum figmentum profequi inSituifiet: ut  tamen ab hilloria non difccderet:cum Aenez matrem fuilTe & exilii ducem naviganti filio fc przQitilTe Vennem Icgil Tenfuit cx iis quz aderant res perficiedat  non autem nomina fingenda. Hoc enim plus negocii poetz cll qua reliquis  qui alio figmento rem obfcurateuolunc. Illi enim ab omni hiftoria foluti pro  arbitrio ea cominifcuntunquz magis rei fuzjpromendz quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis excmplicaula proponendum cenfeo. Placuitil  I primo huius fabulz audori ollendcrc quz in tempore ex materia gignuntur:  ea omnia in interitum cadae quatuor dutaxat clementis exceptis: quz principia  (unt oibus rebus generadis Duos igitut comentus ell deos Saturnii at Opima  & illum temporis fjmbolu obtinere uoluittquod gtzcu nomen indicat. Chronos enim qui Saturnus ell ab eo fubtrada harpitatioe deducifrquem ipfi chro  non appellant. At quis ntfdat tempus grzce chronon dici. Per Saturnum igitut  teropus: per Opim fiuerhcamterram intelligit. Addit deinde Saturnu pmnes  quos de thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc Neptunnu Plutonem. Qua fabula exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla quatuoc  elementa tempore conteri: at in interitum deduci. Quorfum igitur hzc  ne reliquum fabulz profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro  arbitrio quzeum^ uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione sentiebat: commode exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi  propofuiflc. Maroni autcih longe alia rado cfi: qui cum ENEA res io laudem' I II Litxr tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus poeddsluminibasitluftrandum  fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio ingenio digeret t (ed iis quz hiftoria porrigit  banc fuprcmam ingemi fui laudem comparat . Mirus profedo uir qui non ex op  tads fed ex datis ha opus intexat : ut cum hiftonam minime deferat :pet eam rame  illaedibili integumento humanam fcelicitatem exprimatiHabcs^ut opinor^qua  ratione uenaem pro diuino amore ponae coadus iit. Quod ita tamen rede pro  cedit < ut ni£ ab iniquis reprehendi non poiTit. Videmus enim Platonem in eo fa  mone quem phatdtum nominat : Aphr^iten/quaic nos uenaem nuncupamus:  oqn lafouololum sed & diuino amori ptaxiTci Verum quam uenerem piatonie  cua poeta Aenez matrem eife uoluerit : faale intelligemus ii quzdam paulo altu  uscx ipso PLATONE repetamus. PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme  morat/aketam czlcfiem vulgarem alraam . prinum autem czio natam refert: cui  nulla mater iit. Quod cum lingit eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli me  te poiita amore ingenito ad dei pulchntudinem intelligendam rapirur/quam quo  numprocula bomnifflaterizcon fortiolitiinc matre prodiidam dicit. Secudam  uao uenaem mundi animz tribuitiita ut patre loue : matre uero Dione eam na»  tam feribat. Manat enim ab ea ui quz in anima mundi eft : & uim creat quz infe«  hora bzc omnia gignat & mundi fyluam fubeat: Vtra igitur fibi ingenito amo  ce rapitur czlefiia ilU ad dei pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem pul  chritudinem e fylua conforma. Sed hzc parum ad rem. Animus autem noda  cum&ip Ge similes quafdamuires habeat inteliigendi at y gignendi duas itidem  ueiiera habaedicitur/quas gemini comitentur cupidines. Cum enim corporea  puichnmdo oculis nodtis obiicitucrmcns noftra^quz piima uenus eft}eam non  quia corporea litillcd quia limulaaum divini decori admiratunar diligitiea quz  ueluu uia quadam ad czlos effenur: Gignendi aurem uis: quz fecunda uenus ell  formam gignae huic limilem concupifcir uapropter uterqi amor iure dicitur   utaltcr contemplandz altergignendz pulchficudinis defidcrium fit. Nemo igU  tur nifi totius rationis expas fit duos iflos amores damnare audebit t cum uta  qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp enim diu efremortalium genus finefo  bolis propagatione t neij ruifus beneefte fmcueri inuefligatione potait. Prza  ttantiuri igimr illa ucnae duce in italiam perucnire potuit zneasi Ac dices cui  hzc fecunda fi bonacfl paridi nocuit: quia illa male ufuscfl. Vir enimgignen  di autdior quam reda ratio didatfitin ea re plus quam oportet occupatus /in  Ibiis corporas uoluputibus meretur. Quo fit ut 6i primam quz ad fummutn  bonum dudt omninn deferat : & fecunda pcffime abutatur : proptaearp in om  nes animi petturbanones incidat: ueritater^ defpctata mifaq^ efifedusin omne  indignitatem dcfccndat Efi ut dixi diuious amor fi Platoni credimus dcfideti«  um redeundi a corporea pulchritudine ad diuinam contemplandam: Non ta uencum diuinam defidetamus eam quz oculis pcrcipitur/contemnimus.Nam  qui aliquid appetit hunc illius quom rei : quam appetit imagine delcdari ne«  ceffe cfi. Verum funt quidam ita hebeti ingenio: ut mentem a fcnfibus nullo  modo feuocate poffint: hi ueiam pulchritudinem non norunt. Huiufccmodi  igitui amot adultctinus cfl / & a uao degenoans: quem lafduia ac pcocadtas  frtnpff cotnit3tnr:quem diffiniunt cupidinem eius uoluptatist que e cotpdo  rea Forma percipitur rrede qux dicunt cum ardorem animi in fuo cotporetnot  tui in alieno uiuenns i quod fecums poeta quidam dixit J, I Plato ucio ait illum   natum ab humanis morbis follicitudineqi plenum . At quis non uideat illum  nerp confilium in fe nc modum ullum habere. InefTci^ in coiniurias/furpi#  dones/ ac reliquas illas omnes peftes : quas fidelis Feruus Terentiano phzdtix  prudenter oftcndit. Habes(urputn^dupliccm amorem verum illum fidiuino:  de quo paulo ante dicebam /& hunc falfum & adulterinum: & qui uetoamo  ri talis fit qualem aut amico adulatorem: aut medico coquum efifeuidemus: cui  quidem cum fe totum dedidiffet Paris uiia cum Troia periit. ENEA autem cz  lelii illo duce paulatim ex troiano incendio ideftex corporearum uoluputum  ardore fe expediens li non reda nauigatione id enim humanz condidoni : aut  nunquam aut raro conceditur: ut eodem rempore licfiulcitiam exuat. &rapiens  efficiatur: tamen poft multos errores in luliamad ueram fapieutiam pcrucnit.  Quam quidem nauigationem cumfudorislabonfi^ plcniliima fit/nemouna  quam nili fummoillius amore inccnfus difficultatem omnem perferre paratus  fit penitus perficiet. Amor enim uerus/ut apud eundem Platonem offendit  Eriximachi oratio omnium naturalium rerum creator effat feruator : eo emn  fimilia omnia ad eaquz fibi fimilia funt perhenni concordia ttahuntur.Effitt  dem omnium maximorum artium magiffer. Nemo enim aut artem inuenitiaut  ab alio inurntam addifcit : nili inueftigationis obiedatio/K difeendi cupido ia  dtet uam quidem rem fi non apette offendit : obfcudus tamen ut poeta  rummos efl SIGNIFICAT noffer VIRGILIO. Cum enim in georgicis fe uen cognidonem reliquis rebus prxponere dicat difficultatem ipfamfumma amoris ui fu  peraturum his ueibis demonffrat. Me uero pnmum dulces ante omnia mulas  Quarum sacra fero ingenti pnculfus amore Accipiant . Ingenti ergoamotela«  boies fummos:quiin factis mufarum/ id eff in rerum cognitione fubeuodi funt  fe laturum affirmat |0 uinus enim amor/nii aliud meditatur: nil molicurmui  Ia alia in re laborat t nihil tentat: nihil nititur /nili utiam corporex pulcbritudinis afpedu concitus addiuinam nos pulchritudinem rapiat. Dum enim cor/  porcis tenebris demetfi funt animi noffti diuin i non recognofeunt : nifi umbris  & simulacris quibuf damtqux fefenoffris lentibus obiidunt . Q^uam quidem  rem non folum exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi : in quibus Pythagoram EMPEDOCLE DI GIRGENTI Heraclitum sed longe ante alios Platonem enumerare poC  fiim tSed Bi chrifhani ab eadem fententia minime difcedunt: Nam & Paulus  & qui Pauli auditor fuit Dionysius areopagita cxleffuac diuina : qux in fetu  fus non cadunt/pet ea qux fenfibus percipiuntur /cerni uolunt. Inxc eff igu  tur illa uera uenus: qux mentem noffram ad diuina erigit: qua matre quisoc  Idat natum xneam nomen abeo quod effxneos id eff a laude dedudum. Vb  rum enim ad omnia magna dCexccIfa natum: quis non fummis laudibus proe  fequaturf Verum &ipfea uolunrate delinitusdrca Troiz defenfionem laborat  Xioiamco impdiuatuturztin quibus, voluptates corpotex plurimum uigent/  Liba totius   intoprctari licet : prima enim >tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare : ft fuas ui  CCS EXPLICARE poflit / etiam qui magni at^ admirandi uiri futuri funt uoluptate de  mulcentur: prima naturas ueluri fumma admirantur: di quoniam diuina qux  fint nem nouaunt : beatiflimam eam uitam putant: per quam uoluptate frui lice  at * Hi igitur quid fummurn bemum rit: nondum compei tum habent: Veni cum  illius acquirendi fummo ardore inflammentunpaulatim bxc omnia qux dixi pri  ma tiaturx aduca momentaneai efle animaduertunt. Habet enim hanc irim ue  tus amor : ut paulo ante dixi  ut mentem ucbementn exacuat : magifterep illi re  cum inuenieodarum paulatim fit t ut nibil eam latae poflit. Qua propta egre ei llud qi £Ulete poifit atuanton : Deinde cum nihil dfficik puta / modo re  amata potiatur : omnes labores tolaat: omnes difficultates fupetat . Hxc eff uenus illa non uulgaris ; qux materix admixta utm haba gnendi/fed illa cxicflis  ab omtii materia remota : qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;& Iu*  cem illi liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita infritia oflen  dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem demonftrat: admonet  non peme feruari Troiam id eft originem corporis qux necefle eft ut pneat . Hxc  eadem oftendit uoluptates cotporeas non Tolum ab ipa lacena id eft a feipfts/ut in  beftema difputatione diximus cotrumpi: sed ab lunone a Pallade at a exteris di  is: Nam deos Troiam populati quis ignoret f Divina enim omnia uoluptatibus  aduafantuc. Sed in primis Pallas . Hxc enim sapientix symbolum obtinet. Sapientia autem non folum uoluptates contemnit: verum eriam (fummopae exhore  ret. eft quod de lunone quifquam dubita : qux quamuis regnomm dea ha  be Oiiriproptaca in hxc caduca ac mottalia magis ptopenfa uideatur: tamen  cumlidmmes imperandi aipiditate nullum labotem pafetre recufent t omnibus  uoluptatibus bellum indiaint: modo eo perueniant unde poflint reliquis impe*  ritare: Deos autem minime uida ENEA dum pronoluptate pugnat . Nubium  cni Biteilebtis cnnnis ei ptorpedus eripitur . Sunt enim animi noftri ita a deo aea  diutfuapte natura facile omnem utritatem confequantur. Sed a materia corpo* ea quam philofopfaifyluam appellant: omnia nobis mala proueniunt.llla enim  tardat heb^t at^ pemirbat mentes noftras:: at tenebris obfcutat. Sioiim ex in  fritia omnia uitia ptoueniunt: Quaproptcr & Chty lippus & reliqui ftoici perturintiones omnes a fallis opinionibus oriri dicunt :(^uodtamai longe ante  feoferat MERCURIO ille: quem grxciob ingenii diuinitatem Trimaxinnimappeihnt. Siigitur omnia uitia ex infritia ptoueniunt. Infrit ia autem ex corpotea calu  ginecft/ut PLATONE putat /erunt omnia uitia a corpore. Quam caufam prxeipu*  am fuH&idixerini / ut is quem paulo ante nominaui Meteutius fyluam malignita temappella: fedderylua commodiordifputandi locuspaulopoft dabitur. Pugnat igitur xneas pro uita uoluptuofa: illat demerfus deos uidae nequit. Verum  cuminhuiufcemodi miferia non delit amor neri inueftigandi valet ipfe amot  mentem excitare: ut feco Uigens tenebras difaitiat:flt uideat quibus numinibus  Trcria cuertatur. Ducetp eodem amore pa medias flammas at^ hoftes ita tutum  anipit. Et profedo uolenti ad tes arduas profleifri / hinc mira quxdam'uoluptatum : qux defoendx funt cupiditas ucluti flamma quxdam illinc laborum difiS* cultatutntp terror / qui aduerfus honeftatem afliduo pugnet fefe opponfit. Quz  omnia ducente Venere Araex cedunt. Nam niii amor abfit : netp ram blandas oo  luptatescontcmnere>ne<^ tam duras difficultates fuperare pofTemus. Venit igu  tur domum ut familiam omnem componat : at^ inde ex urbe proficifatur. Ridit enim in fe ipfum animus t omnef^ fuas uires : at<p uirtutcs gux uariz funnad  profcAionem / id enim eif ad ueri cognitionem quam Troix nunquam afTeque^  retur: fuo ordine componit omnia^ (ibi ex uoto fuccederent: (1 pater filium fe  qui uelit.Verum negat ANCHISE fe ex Troia difcefTurum» Hoc ueroquid (ibi ue  lit : (i me roges ego (ic puto. ENEA huiufcemodi parentibus natus efi: ut Venus  dea: ANCHISE mortalis (it : homo enim ex animo qui immortalis diuinufip eftiK  ex corporemortali Kcito in interitum cafuroconftactMmsigitur originem fuam  femperfufpicit: ad eamcp redire cupiens Troiam auidiflime dcferit . Senfus au«  tcm qui a corpore funt corporea incorporeis pratponunt . Hinc igitur alTiduum  atrox<^ certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut noftti dicunt t cum  mens totum hominem ad diuina trahae conetur t BC fenfus in potefiatem tedige«  re / 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat . Contra uao fenfus feculcnto elementa  rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione grauati nihil nili caducum & tenenum cupi»  unr ANCHISE igitur id efi tenenus pata i 8 i ea qux a chrilHanis uabo parum tri»  tofcnfualitas appellatur 2 Troiam fedeferturum negat .Mauult enim perire fen»  fus / quam uoluptate priuari. Mox tamen cum filium omnemq; domum t id eft  totum hominem periturum audiat 2 cump cxleftibus monihis meliora moneatur 2 mutat fententiam/ab ENEA^ fublatus exportatur : molliltitna enim bxc at«  ^ eneruata animi pars ad fummum bonum nunquam fat t fed i pfa potius inficr»  tur . Hxc de ancbife j ENEA autem cum iam incendii 2 armorumcp pericula eua»  ftlVct ; atep incolumis urbem e(Tct egrelTus : ingentem comitum afduxilfc nouo#  rum inuenit ad miransnumaumtqui quidem undi^ conuenerant animis opi»  buf^ parati in quafcunt^ uriit pelago deducere tereas.t & rede quidem. Nani ca  tandcmcferuitio incendioi uoluptatum fumus liberatit e(f<^ iam animus redi  uaiqtinueniendiauidus/tum plunmx animorum uires 2 quxhadenus ignauia  torprbant :ucbementa excitantur2 8 C bene in(fitutammentcra quocunt uocae  uerit / fequuntur. Quo quidem tempore ne a redo itinere omnino aberraret  xneas / Iam iugis fummx Turgebat luciret idx t Ducebattp diem . Eff enim ludBtr  uenerisfydust quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum  quas nolfri aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem  odo ac quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex  & quadraginta unius (igni partibus difcedens . Verum/quoniam modo pcxcedit/  modo TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife prifei crcdidcrunttpti  mum autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo apud grxeos unum depreben  derit .Cum igitur folem prxuenit lucifer dicitur : uefperus autem cum fubfequi»  tur . Rede autem lucifer prxuius foli eff . Stella enim uennis/is enim amor efi ue  ri inueniendi / ei exoritur 2 qui iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di  em 2 nam rationem excitat talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe ualeamus.  Apparet autem a idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam figaificat. Amor autem apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii   S , Quapropter in ipfo pudor nos a turpibus auoc^: cupiditas ucro czcellen  quztj boneiia rapit . Fertur igitur ENEA duce m are exui in alt um incertus  quo fata ferant ubi iiftae detur . Q uz omnia non fine fumma fapientia a poeta  ponuntur: facile enim cognofeit Troiam relinquendam : & fummi boni princi'  panun uoluptati minime esse tradendum. In qua autem re fummum bonum coii  tiatnondum cognofcit.lureigitur exui appellatur. Nam ab eoquod habuit cie  dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat inuenit . Mari autem fermt  quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia re niii appetitu mouentur : qui  quam fimilis mari iit paulo poft aperiam ii pauca prius de appetitu dixeto^ft igi^  tur fenfus & uis quzdam in animis nofiris t quam cogitandi nominant : cui bono  tum malorum iudicium a natura demandatum efi, Non nunquam autem ita  iudicat buiufcemodi uis : ut nihil prarter fenfus refpiciens : 8L ueluti illorum illc«  cebris attrada & uoiuptatis oblato ptzmio corrupta quod pecudis bonum eft i{v  fa hominis bonum decernat. Si autem eadem cogitandi uis falutari rationis lumi  ne illuftretur et eius norma dirigatur : non id bonum eife iudicat / quo fenfus de  mulcentur ; fed quod reda didat ratio: quod uemm (implexi^ bonum cui iit ne«  ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur huiufcemodi uis bcx bonum illud  ucro malum elfedeacuerit excitatur in nobis alia quzdam uis quz ad bonum afei  Icendum / malum^ declinandum infurgat . Huncautem appetitum omnes ap«  pellant . Sed &, eum duplicem efle oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus  fenlus fcdt femper pendeat : nibil^ cum ratione expetat: alterum qui nihil omni  no sequitur t niii quod ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe  eundum uoluptatem nuncupamus. uaptopter erit appetitus quo animi honii   num ad bonum afdicendum maium  declinandum moucantur redus quU  demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter pulcherrimo enygmate diuinus  Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet : aurigam ilii duofep equos  adiungit . Nam ueluti equis currus trahitur : iic animus ab appetitu duatur. Fe.<  mnt autem equi non fuo arbitrio : fed imperio aurigz a quo reguntur eodem pa»  do appetitus nihil ex fe agendum decernit . Sed quod iam ab aii a ui deaetu m eli  fequitur. Quarc autem equorum alterum album pulchettimum^ i at^ hono«  tis cupidum : Bi qui non minis ui<^ / sed cohortatione ratione regatur. Alterum  nigrum inglorium & contumacem hnzerit ex iis quz paulo ante a me de duplici  appetitu dicebantur perfpicuum eft. ExprefVit enim per bonum rationalem : per  B^um ucro irrationalem appetitum quo animus fertur: at<^ hzc de appetitu :  quem quidem mari limillimumelTe quis negaueritr Videmus enim mareftnuL»  lis uentis uetbcretur fedatum tranquiliumtp perdurare. Sin autem diuerfistun  datur uentis: in geauiflimas turbulentiflimaftp tcmpeftates infurgir : Sed hzc  eadem in appetitu dcprzhendastFac illum uacarc a pcttutbationibust nihil ni  fi rede appetet : Fac rurfus iliis uehementer uezari : quos iam ftudus   quasuc procellas intuebere: Quapropter illud elegannflime u^tio^ irarum 6)s  d^t (ftu. Illud autem tibi fortalTc occurren/ quod non bene iis quz diximus  cohzrere uideatur : Nam fi radonali appethufertur zneas : fi iam uitam uoluptu   g iiofatn damnault t unde nunc illud quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ  quit . Q_uod enim odifle iatn coeperimus: id non lachrimantes : fed Izti fugcR fo  letnus t Sed uoluic Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum demoo'  I firare . In quo cum temperati non dum fed continentes fimus : agimus illud qui>  I dem t fed cum diu uoluptati aifueti illius illecebris demulceamur t non nili zgte  , ab ea diuellimur : imitemur^ fenes tioianos: qui cum ELENA ut grxconun tro>  ianorumtp certamen fpedarct mcenia confcendilTet admirabatur cum (hiporemu  lieris pulchritudinem t ea^ uehementer deledabantur : uetum tantorum maltv  rum illam caufam eflie animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp  pter illam pereat Troia . Quod ut plaiuus intelligas. Qucmadmodnm tordnk  do uirtus eft / qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus : lic tempcran»  tia aduerfus uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum contraximus li  ne ulla difficultate aut moleffia negocium conficimus. Quod li habitus nem  dum contratSus Iit: Si tamen illud idem efficere tentamus t tandem^ effiamusfi  nitimum quoddam 6C uiriuti proximum nancifeimur ut nondum temperantes effedi tamen abftineamus quamuis xgre & non line luda: Quz contmenna di  citur in qua li diu exerceamur : paulatim temperantiam acquirimus: htij uirtus  id quod hadenus uirtus non erat : fed ingrelfus ad virtutem. Hoc igitut intcrcft  intcttempcrantiamfii contincntiam. Namquam uisutrai^ idem przdet:conti«  nens tamen eo detenor eft quia cum dolore ablhnetmec ctt fatis Armus aduerfus  uoluptates Tempuans uero bene uolens Iztufk^ abffinet.quod li itidem de ineo  Anente intemperantem inuelliges: facile ell uidere quanto a temperantia condoe  da fuperatur i tanto incontinmte ipfum intemperantem pemitioliorem elfe: I na  continens enim quia non dum in uitii habitu ell rationem difeemit : prindpiui Knct:pugnatm aduerfus malum: fed tadem magnitudine cupiditatis & fui animi  imbecillitate uidusucluticmtiuus in feruitutem rapitur . Vetum uc qua; uctbts  adumbro ea exemplo exprediora reddantur t dicimus continenum a pruicipiofii  ilTc DIDONE quz quamuis Acnez amore teneretur : tamen adeo lunliter repua  gnat/utmori malit :q pudorem uiolare. Incontinens autem paulo polf redditui  cum fororis oratione uida pudorem foluit . Prius enim fortiufcula adhuc ita pua  gnabat : ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats omnino pugnando fuccumbit.pua  gnatenim incontinens/fedfupaatur. Intemperans autem in habitu uitiiconftitutus omnem rationem amiDti ne pugnat aduerfuscupiditates: quin illis uo»  lens gaudmfqi obtemperat: quippe in quo adeo deprauamm Iit iudidumtut qdf  tnalum fit bonum rlTe dicat. Sed ut iam ad inffitutum redeamus : non dum tem'  perantia munitus erat zneas: nuper enim ea ratio in homine uluxcrat: ut uolupts  tum fordes intueri poffet : nei^ rurfus tempeians : aut incontinensinon enim io  de fe expedilTet. Sed cum hincilleccbrx uoluptatum traherent : illinc honefti uui  pulchritudo ad omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a uoluptate  cam feolibusfuauilTtmam iudicabat : non potccatip non zgte ab ea diuelli.51i  da enim adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus applaudit: ut etiam gcQ’tolioiit animi qui funt illa capiantur .lu cnim fuauiter nos irrepit aut totos pau lanm occupctt Smgjt igitm comn ucac ft guis lachiimaiu taincta littcin tioiaiu ti s h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi tUU) aoi pqai V» 'Z tiO*iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p  tdib ;iup» ib<#  ico^ Jki» «0 lolf J0t 0 'Df> 0f Libettmiiu Klinquittquonii c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua fuifTn no lacbrimSs  fcd lema reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio sapientem fingit:£C  una uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus animum uendica»  K cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores in italiam id eft  aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^ incontinen  eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^ uincuntacuincunmr.  eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn quas mediae funtaffcdio  nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad has modo ad illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt incohau potius  quam pctfcda lepenas non nulli uittutes nominarent . Sed profici fcatur iam no  &r Acncastuerum quo tandem exui pn altum feretur: Nempe in thraciamre^  gionem patrue fininmam/fiC terram Matd confcaatamnnquanupn Polynco  ftoc holpitem fuum POLIDORO ut auro potiretur interemerati Erit autem aua  titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe paulo poft: Fuge littus auarum . Vnum cum  duplex auaritix genus fit. Eft enim auarus 8C iis qui inde rapit unde minime con  ucnitideis qui cui dandum eft ei minime dat.primum illud genus perthraciam  cxpdmimroi enim in illa Mars colitur -quisncldt habendi cupi ditate plurima a  mortalibus bella geri. Sed ne Polyneftor borpitisintcrfedots6( Tuorum bo»  Domm raptor quicquam expreftius quam auaritiam rapinaft^ denoubit Cur igi  tur prima inthraciam ENEA nauigatioeftrQ^uiacuma uolupute difceftimus  at<j non dum uerae uirtutis habitum contraximus facile ex ilia in aliam cupidita«  tcminadimusiinfurgitip habendi libidoibeatilTimam enim uitam multi feade<  ptos putantifi opibus maximifip diuitiis reliquos mortales fupecet:Qua cupidi  tace inflammati non dubitant non modo nefaria: uerum etiam laboribus pericu  lil^ refcitiftima bella fuTciper e. Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo profeda:  qui & fi uoluptates contempferitcnihil adhuc altum furapete poiTit.Habet enim  auaritia pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens optauit. Nihil enim illa  mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati fubiiciatar. Quapropter rede Sa  luftius auahtiam ita malis uenenis imbutam dixittut animum cotpufij uirilc cf<  foemineuquando quidem Si ad omnem humilitatem infimaTqi fordes dcTcende  tccogic:& inomnem crudelita temproreuili(Iimainfurgete.lpra enim perfidia  am pctiuriumip edocet:cot fraudibus: linguam mendaciis:manum uenenis/fer.»  to in aliorum pemitiem inftruit. Apud eam quid fandum efle poteft: cum ho.*tes quoip qu Polydori exemplo docet poeta minime incolumes fint. Nemi  nem tamen mirari oportet fi Ancas fapientiz quidem cupidus minime tamen ad  buc fapiens in huiurcemodiuitiumprolapTus fit. plurima enim inuiu humana  Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip finntamen morulcs pro maximis  admirantur: quz quidem omnia cum ucnalia efteuideantipecuniz prz czte^  ris ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur: qui non putet quod genus ficfoc  mm regina pecunia donat t quis non totus commouetur : cum auditi Si b^  ne numatum decorat fuadela Venus. Verum qui duce Venere fertur Si tna  gnarum rerum amore incenius cfi/pauladm errorem recognoliit. uitiumip  abominans Xfaradz auariflimutn lictas fugit, At^ cum iam fecundo deceptus i deinceps turpi Timum mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius oracula ue  riiTima e(Te audient confulendum iudicac: Retur enim (i ex illius dei ptxut  pris uitam inftituat futurum. ut mifet ciTe non pofTit. Qua proptei naviga donem in delum fumit: per Apollinem autem qui fol cft: quid aliud quam  lapientiam intelligemusf^Nam ut id omittam quod ut fole eunda qux in lien  fum cadunt illuftrantur:(ic lapientia illuftiatus animus eunda profpicete ua.  leat uideamus reliquam eius plancta: naturam. Sed illud in primis. Nam cum  Heraclitus fontem caelefiis luds appellat. CICERONE ueto ducem carterorum lu«  minum ea ratione dixit: quoniam fui luminis maiellate praecedit: dixh itidem  ptindpem dixit moderatorem: Nam SC ita eminet/ ut ptopterea quod buiut>  modi folus appareat fol uodtetur : curfus reliquorum recurfuf^ipre mode   ramr. Nam certa fptii diffinitio eS ad quod cum quaim erratica ftdia recc'  deos a fole peruenerit tanquam ultedus accedere prohioeatur agitur retro.  Rurfus autem cum certam partem recedendo attigerit : ad diredi curfuscon  fueta reuocatur.Q^uapropter non iniuria & mens mundi cor czliapri«  fcisdidus ell:Quz omnianon ne fapientiz quadrant Non ne fapien^  tia reliquas animi uires przcedit : non ne illis moderatur C Quin etiam li  uim huius fyderis diligentius aduertas iurc datur fapientiz dicetur: Nam  ut a Saturno ratiodnandi a loue agendi uim : ut a Marte animorum uehe«  mentiam at^ calorem aedpimus; uta Venere deliderii motum fumimus: &  quod loquimur atqi intcrptztamur a Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz  ci phyticon idcll gignendi augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod friamus:  quod^ opinemur nobis prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem nomen S  ipfumnon nihil ad rem affert, grzce enim manifeflum flgnificat. Loca enim  quibus fapientia przfidet : clara femper manifefta^ fuat.Q_uod autem tot»>  us infulz Anius imperet: qui & rex hominuni & deorum facerdos iittnonca  ret ratione : Sapientia enim humanarum rerum cognitionem continet. Qua  ptopternihilnouum fapienti accidere poteft: quippe qui omnia iam percepo>  rit : quam quidem rem nomen regis oftendit. Anius enim didtut quali   id elf (inc nouo . Hic igitur hofpitio Aeneam fufdpit: SC pio*  fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur . Veneratur autem templa : at^ ea retn  pia quz faxo uetullo conftuida fint.Nam quid obfecro te: aut flabilius im*  mobiliufi^ : aut antiquius ipfa fapientia deprehenditur : quam fapientiflimus  ille omnium bebrzorum S^omon ab initio Si ante fzcula creatam fxcula aea  ta effe uerilfime didt.Sed tu quid me o LAVRENTI fubridens fpedas.Non  polfum inquit LAVRENTIVS dodillimorum uirotum ingenia non admirati  lztuf(|:quz a principio de hifioiia decp allegoria dixilli mecu repeto :Q_^uis  enim non obfiupefcat huius poetz confilium .Q_uicum apud Cioatiumueri  umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis genitoris: in qua nullum animal facrifi  atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam adorauiffe fetunt : legiffct eti^  am Sc apud Epaphum : Delon ne antea nem pofiea tettz motu uexatam:  femper eodem manere luo legiifet: & apud Thucydidem non mirum esse fi przlidio tebgionis tuta infula femper fit : cum teucreruia locotumfibi acccficrit Liber tertius coBtltiuafax Ieiurdetn firmitate: Cum igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut eodem  tempore ex antiquitate hifioriam eruatiponit enim Aeneam Tolis przcibui deum  uenerari:K templa antiquo Taxo confirudaefTe/ficbxc cum ponit fimul ea affert  quz PER ALLEGORIAM Tapientiz conueniant. Dices quid in cacteris : hoc idem. Sed  nefdoquo pado hic me locus in quo hifioria non minus qua allegoria latet:mul  to magis mouinSed perge obTcaomolo enim mea interpellatione mihi ipfi audi  endi cupidiffimo moleftiam ex mora afferre. Datur igitur ab Apolline oraculu  inquit BAPTISTA z Dardanidx duri quz uos a fiirpe parentumzPrima tulit tel^  Ius eadem uos ubere Izto Accipiet reduces:antiquam exquirite matremz Hic do#  mus znez eundis dominabitur oris:Et nati natorum 8C qui nafeentur ab illis.  Q_uo quidem oraculo quid diuinius excogitari poffit non reperio:Q^uid enim  faomini salutarius: quid conducibiliusefi: qu3 originem Tuam noffexin quam cu  redire potuerit /tum demum fit futurus beatiffimus: Dixit igitur pluribus/ne a  poeta difcederet Maroxquod grzci duobus tm uerbis expediutx qui omnium ora#  culorum quz Apollini tribuuntur maximum effeuolunt i«r</7>> V   nofceteipfumx Verum ut haxea nobis planius explicenturx Omnesquicuh^un#  quam de fummo bono ferip Terunt philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con Ira Teruntxutbenebeate^ uiuere fit apte conuenienterq; naturz uiuere t Verum  ubicoiamdeuenturn efl/ut fit hominis natura diffinienda : tunc innumerabi#  les pemitiofilTimi^ errores emanant: cum animorum nofirorum ui ignorata  plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex animo corpore^ conflare  bomo dicatur . & alterum brutum/caducumt^ at(^ facile in interitum pronuma  Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft fitxpaud omnino ita mentem a fcnfi#  busfeuocat: ut feanimi nobilitate imniortales cogoofcant: corpufcp in nulla  pene parte habendum cenTeant.praedpitur ergo Troianis ut eo reuertantur  de originem ducunt . Duplex autem illis origo efi.Nam Teucer Scamandri cu#  iufdam filius profedus ex creta infula in Phrygiam uenit; 62 una cum Dardano  Kgnau:t ; Dardanus autem prius SCipfe in Phrygiam ueneratatnon ex creta:  ut ille fed ex italia: nec mortali patre natusxfed ex deo loue. Veniunt igitur am#  bo in Phrygiam id efl in uitam: & pnmam ztatem quam perTroiam fignificari di  ximusxfed hic a czlo ille a mortali. Ad huius enim animantis quem hominem  dicimus compofitionem animus a cziefii corpus a mortali patre prouenit.Qua propter cum primam nofiram onginem inquirere nos Apollo iubeticuius ora#  culum efl Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue illi conducat inuefiiga#  re iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado fecundum animi natutam uiuere fodi  ces effepoflimus inquirendum mandatxQ^uam quidem rem ut ezpreflius fignifi  caietannquam didtxEfi enim animus fi non tempore/ut Platonid uolunt digni  tate Tua at(^ excellentia prior: Optimum igitur oraculum: Sed quid prodeft  fi illud male interpretatur ANCHISE . Hic mortalis Aenez parens omnia ad  lenfns referens ibi (edes collocandas cenfet ubi prima corporis origo fit. quafl  prima naturz non animi fed corporis fpedanda fint t Quaraobrem non ia  Italiam fed in Cretam enauigandum proponit: qua in infula multa mala Tubi#  bui fint Ttoiani. Nam cum (ummum bonum non iis quae animum: fed quaa    In.P,Vtrg. M.AlIego. corpus fpcdcnt natura noftra ignorata reponimus necefle eft/guoniaft illa pati>  io po(Hnpe(lem/ac demum in interitum cafuraiint/ut non bearirredmiferi fiu  turi (imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam Troiani:gui in italiam nauiga»  te iulTi actam ptticrint. Si enim in italiam.i.in originem animi redeant Troiam  percipiunt cognitionem rerum diuinarum in qua fola flabiles & manfuras feda  inueniuBt ; Hic enim domus Aenea; eundis dominabitur oris:Et nati rutorum  & qui nafeantur ab illis . In aeta enim nullum e(l Aenex imperium. Na corpus  ne^ fe nerp aliud mouet:fed iners brutum: 8C line fenfu iacetrnec quicquara Ii  ne animi auxilio ualet.ln italia uero imperium latepatet.Corports enim domina  tor & redor eft animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit . Cunda autem  fue cognitioni rabiiciu Se enim pafe uideticum autem deum cognofccie tem/  ptat fuz menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia fpedat: Rimatut   occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento uniuerTas mundi oras anv  bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum . Adxret deo: in quo efl patria fua:Et   ? uoniam imorulis eft hxc femper facit : Quapropta eius imperiu eft aeterna:  ixcaprincipioqua uisdiuiniscflentmomtiprxcepris cognoicere no potuerat  Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt. Epimetheo quidem ferius:  Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua profequaturt. Cum pefie labo  rarent Troiani danmatfuam oraculi interpretationem Anchifes.Nam poftqui  diutius debaccliatus eft homo dum fenfibus obtemperans omnem fpem in rebus  caducis reponit/tandem ufu Si experientia dodior redditus animadueftit no fua«  fifle acta Apollincm.i.nunqua pofleefte homines beatos ex iis qux mortalia fntt Cenfaigimr alibi quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris arie  ualenut qua inrcconliftat discernerc poiritr Na humiproftratusanimus/St fieri  gi nitatur tamen corpote'obrutus qu x in/cxcclfo collocata funt non nili poft mui  tum tempus difeemit: At dii penates eadem dicent qux didurus efliet ApolIotPu  tabantenim antiqui deos penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui clari ilhi^  ftref(^ multis egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos domcfticos: Ergo Si hos  animoru noftro excellentiores uires intapretabimur:quales funt ratio intelle#  dus atqr intelligentia. Qux hadenus furentibus fenlibust Si omnia tumultu co  plentibus nihil fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui damnoeu  pertus eft homo fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod tumultuo &oc  cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus quas paulo ante nomii>  nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus parentioribus ut atuc:quippequipu  dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum iudicium diuturnus iam ufus  at^ experientia confutauerinparaciam non amplius prxeipne deaeucrintrfc a  tumulm colligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma ( contentioeruftitix nebulis fua  luce fugatis mentem ab iniquiffimo fenfuum iudido prouocauit ita a aetenfi  domicilio abfoluunt : ut tamen italicam profedionem fuo dcacto 'edicant, ii dunt^ proptnea fux fententix ftandum: quoniam eadem iubeant quxipfe Apollo a quo mittuntur didurus fit: Et profcdomcns nostra multatum rerum usu  iam dodior reddita multa, ex fe cognofdt: qux fapientia ptxdpere con sueuitt Nec ucto quempiam moveatli deorum pcnatii oratione pct fu ad catut Andrifas I t ( II P nudfi D B B< P>  h Jrj-B SNitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli rubiicitun MuItS iatn profeoe  nintdii pcnatess quiquz obfcunus Apollo SIGNIFICAT prrfpicue enodaruntt  docent«piniuIuadrcrum diuinarum cognitionem enauigandum rfle: Beatus  profedo ENEA (i decretis ftarett (i quod bonum efTe cognouit:id ita mordicus  arriperet ut nulla re inde po(Tet auclli:Non enim totiens a redo curfu deiicere^ s  Veru non is adhuc uir eft qui conftanti habitu in hisobdurauerit:& per (uma t&  perantiam a rerum moruliu cupiditatibus sit penitus purgatustfed inter contine  tia; at(^ incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod Tparium fuo  uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur . Non enim is gubernator  clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam tempeftatetn  fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra caputaftiiit imber  nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris : poftquam conti»  nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz fequuntur.ipfe diem  nodemt^ negat difcernereczios nec raeminifTeuiz: Diximus a ptindpio foloap  petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem e(Te appetitum alterum qui a  fblis feniibus ex dtetutitationi^ aduerfeturidicatnttp libidotalterum qui ratione  pareat:uoluntaf(^iure nuncupetur. Qui quidem sinauiprzfuifTetiporerat ea  am aduafantibus uentis iter redum tenere, oed przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij aduerfus uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui in contrarium refetat. Hic igitur infurgcntibus pertutbationibus/uehementioriburi^ cupiditatibus  uelutitcncbiis animuminuoluetibuscum ipfenulla rationis luce illuRracus (it  dicsano dibus ideft ucrumafairodifcerncrenrgat. Magna profedo hominum  ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi aduerfanturi ut quauisil  la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria tyrannide feruituteq; eripiattipfa  uclutiiulbirima regina ueramuelit inducere libertatemitamen cum nondum  uiresfuasrecupetaueritm Dpercp a diuturno exilio reuerfa a paucis fuorum ciuin  cognofeatur fzpe antea qua dus regni quod (ibi iure dcbctur polfeinonem recu»  peret ab lilis repellitunquippe qui multos iam annos tyrannidum tenentes omni  largitionum genere appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur malit  io feruitute uolaptuofc degere qua honorifice in libertate laborare. uamob»  temcum acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic fzpeuida ratio, lllicnim  parere rccuCiDS Palinurus nihil sanum fentit : Eiufcp ilultitiaatcptrmeiitate cd»  mittirurtuc dedituto curfu t quem penates dii prasceperantin (Itophadas infu»  lasdeclinetur. Hunc autem locum nos ni fallor auaritizuitium redeinterprzta  bimur/non illud tamen quo inde rapimus tunde minime conuenitiid enim  nobis Thrada ddignauit. Verum aliud quod tunc patratur: cum ex iis qux  iam peperimus minime illis (ubuenimus : quibus tus naturacp ac humanz fo  detatis uinculum fubueniendum poftulat . Oodus enim'iam Fragilitate rerum  buroanarum Aeneas ad diuina ratione id efflagitante ferebatur. Sed appetitus aduerfus illam adhuc contumax ftaredeaetis non potuit. Verum ad ea quae  uulgus admiratur rurfus conuerfus diuitias cupit. At quoniam multum de pti*  fiuufcritateitniautufuctaUndui nc rapiaisilJafibicompatatecoBteodit: fcd    In.P.Vitg.M.AIIego.   per (oBUS fordes plus qustn psr eft parto pacens nullo libmlitatis munere fiigiei  DC(p (ibi nc(^ Tuis beneficus eft.Q_ux quidem cum facit fe parcum non auarutn  prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon io«  iuna harpyz ipfz uirginea facie Angunturdimulanc enim pudorcmimodtfHaou  robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe ferunt. At earu ucntris ptoluuies fcedifli<  tna eft.Q_uisenim po(TetauaritizfordesexpIicare:quis qui turpis hominis di  uitis eiufdemtp tenacis uita fdt latis referrer Cum furor bau d dubius s cum ftene  As manifefta At egenus uiuereiut diues moriaris. Quid miru igitur A earum fu  des palidafcmperc fame & macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta • locomparamussqui inter aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen at^  fameconAdturiNam ut cumulus diuitiarum acrcatiprcinterim ruum/utillete« .  centianus Gcta defraudans genium partis abfbnct ac timet uti: Quod autem ua  ds Angantur manibus ratione non aretiNihil enim remittunt quod femel ctpe>  nntauarii Q_uinfunt adeoperaino A auarinxundiut hominem ad dtuma qua  dam natum ab alnlTimis curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide czioin terras  K e lucidis fjderibus in profudilTima tartara trudant. Auertit enim nos at^ feuo«  cat habendi cupiditas a cognitione carum reru quibus folis Axiiz animus ciTe po(  At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus baudillis mdiltunec fzuior ulla peAisidtjia  deum ftygiis fefe extulit undis: Non autc Aulta rado poetas impulittut ex Thau«  inante patre: matre Helcdraoceani Alia natas harpyas fabulentur.Thauroan«  tem tede admiratione dicemus grzci enim admiran dicunt. Cu   cnimobfumma fiultitiam diuicias maxima bona putemus cum aut bona non  Antaut minima bonaiproptcreaq^ illas adrairamut:cuenit:utcx ca admiratione  cupiditas habendi nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz negligit:at(j contenv  nit.Suntautem ex eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam liquis maieriam diuinarn  diligentius conAderct:omnia mari Amillima in ea uidebit.Vt enim mare in afli'  duo motu cAicundac^ inco facilem ifcentunat^ pcnurbanturaAc diuitiis ai<jf  opibus nihil Auxibilius inuenias:multiq) tumultus ac fzui Aima bella inde ezota  tur. Hz igitur c£.'n paflim armenta gtegcfij pafcant : nihil inde Abi ad ncccAiu  tem fumunt. nihil aliis rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^ regenereaua  tinz quando^ explicat uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin querat olim uo  luptates.indderat in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium confuliti A quo  accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus refcrctrquz de ani  tno przcipiebanturicauturqi ruo damno fadus errorem cognofat: con Alium  inutat:rclida(^ creta tendit in lauum . Verum rurfus perturbationibus uexatus  animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad eas quas rapinis ut hadeoust  fed quas nimis fordida pat Amonia comparet: Sed & boc quo<^ uinum effc  cognofccns / proptetea^ damnans < ad Helenum per hoftcsproAafatui.  bes igitur quare in harpyarum infulam delatum mixcrit Aeneam y?^uod ue^  IO ab ip As uefd prohiberetur iam parariscpulis inde efliqnia eam uim habet  auarina/ ut qui etiam dinflimi Antfame penrequamuci minimam acerui par«  Aculam imminuae malint JAcmis tamen eas pepulerunt Troiani: Nam di aua  AAacxifflbcdllitateat^ builitate animi tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia & tnulict«'  i-% « % % t ik tltl I- 1 II- 1- i j mii oa* iff  Liber toriiu <aIcgux'tninori animo runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle pellitur  fi foitemgcn ercfum^ fumamus animum ^6Ilcedit e fitopbadibus a;neas t fed  non prius quam cnfle a ccleno oraculum aedpiat < mendax omnino uates Bc in   E s fubdola } & quz uctborum firepitu honorem inde incutere uelit unde ni  timendum : bed profedo hoc morbo laborant auari i Nam fi quando ho«  ncOa quzdam SC una ratio lilos ad divina exploranda erigat < propterea^ huma  na bzcfiC mortalia negligendafuadeatrihtiminfuigit ex auaritia metus si rem  noftram familiarem negiigentius curemus fore ut (i fame pereundum x Sed ne«  fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta (it i quam facile t quam  minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem fames iis timenda qui in  anesqui infinitas cupiditates & quz ne^ neceifariz ne<^ naturales lint fibi exple  das propofuaint quorum uotago um lata tam profunda efi : ut nulla auri ui t  nullo gemmatum iapillorumtp cumulo repleri queat . Qui autem ita uitam ia*  fiituerunt > ut fola fe uirtute bntos putent : animum^ non corpus ditandum ^  ponant : his omnia femper abunde adaunt t Q_uam quidem rcm:quo tibi pia*  nius exprimam : at^ adeo potius oculis fubiiaam.ptopone tibi duos diuetlifii^  mz quidem fottunz/fedeiufdem pene ztatis utros Alexadrum macedonumte  gem/& Cynicum Liogenem utrum ditiorem iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi  Alexandro thc Ciuri erant plurimi tobu Riflimi^ exerdtus (ibi militabant : Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz pene nationes acpopuli ex Europa A(ia*  ^uedigales huic erant.Diogene autem quid potcftangu (liusexcogitari: qui prz  tet rimofum illud uas e figulo acceptum : quo l'e recipetet ut e frigore calorctp tuf  tuselletnetuguriolum quidem haberet : quem eodem panno in utroi^ folftirio  obfitum confpiccrcs : cuius auda olera etiam nullo file alperfa beati (limorum re  gum dapes fuperarent. Vttum igitur horum ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q  dem inquit LAVRENTlVS h a deptauatilTima confuetudine : quz altera pene  in nobis natura cfl dirce{l'eto/& rem totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno»  lixndam tradam beablfimum Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no  dubitabo . Vehementer enim iis aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non quam  tum tuii^ adiit : fed quam abunde id quod adeft fibi futurum (it animaduerien»  dum cenfent.Si emm is diues eft cuius cupiditanbus adeo fatis fupercp fadum (it  ut nihil pczterea defidcret quis Diogene ditior :qui cum (lue pafiurem (iue arato  rem quendam cauis manibus aquam e fonte ad potum haurientem uidiifet : po  culum quod ad eundem ufum hdile gerebat ueluti fuperuacaneum abnaedum  putiuu . Q^uis rutfus Alexandro pauperior : qui podquam a Democrito ut p\i  to PHILOSOPHO plureselfe mundos audiuaat : lamentari non crilauit tanquam  nulla ratione diues effici poffet nili illos prius imperio fuo adiecilfcif Rede o Lau  tenti de utro^fentis inquit BAPTISTA. Q^uamobtem cum idem rex motus  animi tranquilliute quam in Cynico cognouerat ita pronuciaiTcticupcrem Diogenes e(Te nifi cifem Alexander : magna ex parte fiultitiam fuam indicauit : cum  in fummis opibus zgere : quam in fumma inopia ditefeae mallet . Quamobte  difeant homines quam paucis natura contenta fic s quod cum didicennttoracu#  ium a Cclcno zditum &cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni liiz fidem faciat diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos flbi  Pbccbus Apollo pn«  dixit . Natn rempn auari qui funt : uiriutn quo laborant fallis uirtutum limula»  cbtis tegere conantur. NatnquzmoEraauaritia eftream patlimoniatn uocants  & aut deorum t aut maximorum uirorum audoritate famem timendam pctfua»  dete conantur. Oolofa profedo cupiditas et quz cos etiam quos prudendotes  putamus fzpe decipiat . Aduerfus cuius fraudes illud unicum remedium cft nof  fe ea quz hominum ftultilfima cupido ad uitam degendam neceffaria putabnoa  modo nihil peodelTc i fed omnium noftrorum malorum caulam exiiiae.  Deferens igitur Harpyarum infulam Aeneas ad Helenum enauigatrEll au»  tem Helenus 8C uates K conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus ingeni»  tam nobis rationem & ueri lumen quod natura in nobis refulget,: quod  nos fallis bonis decepti confulhnus ut in redam uiam ab erroribus reducat»  Ipfe autem uates uera przdicere poteft : fed ditfidle eft ad illum petuenitei  cum Iit itet pn medios hoftes tenendum : Nam 8i fenfus omnes 8i apped»  tus fenlibus obtempetans uolentibus nobis in uetum iudidum delcendcrc (em»  per aduerfantur:,At(p adeo nobis confultantibus obfirepunt: ut uix radonem  adire & uera bona a fallis fecetnerc poflimus. Verum cum ad Helenum perucne  rimus iuuat cualilfe tot urbes argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe»  rads emm perturbationibus iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua lecxd  tans lux radonis nobis ucrum oftendit : Q^uo dodior fada mens agnofeit itali»  am t quam propinquam elfe putabat uia inuia longe diuidi: multum^ matis ef  fedreueundumi & ad inferos defeendendum antea quam quietas in Italia fedu  collocet : uz quidem omnia quanta ratione dicantur ; faulius cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret poliquam enim animus non dico profligatis /fed  magna ex parte repreitis uitiis per medios / ut diximus hoftes in lumen luz luca  defeeudit Itum demum aduertitfummum bonum: quod in propinquo coUo«  catum habemus putabat poculabclleioporterei^ nos amplo dreuitu Mariamo  ftris obfelfa peraauigare : Nam inter ipfam contemplationem: hanc quam ui  uimus uiuminteriacet is quem iam totiens appetitum nomino uelutiturbulcn liifimum mare: quod fcyllacharibdifcp pernitiofiirima monlha infeftum red»  dant: Si tamen eft pei hzc loca enauigandum li IN ITALIAM VENIRE nolumus : Oi»  ximus enim a principio (i rede memini nulla alia ui nilT appetitu animum motuti .Sed quoniam de duobus iis monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis fabulis  quid fibi uelit coniedari. Nam cum eas foeminas rapaci fhmas fuilfe memorizf  proditum Iit : non ne per eas commode exprimi animi nimias cupiditates dice»  mus : quarum prindpes luxuriem at^ auaritiam eife nemo dubitat . Scjlla e^o  s glauco adamata ucneteasuoluptates exprimet: quz maxime rebus nofttis fio»  rcndbus uigent: Nam quod eius uniunia pubes m canes latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat : fadle eft cognofccre. Chanbdim ueroipli quof  Icrculiboucs quondam fubripereaufam quis non intelligat limulai tum nobis auandz refene : 8I qnoniam ab ca non ita in rebus fxliatei fuccedenubus ut  gemur quemadmodum a libidine. Sed tunc potius cumnimi sanguftiis diuida  nun terminis incluli uidemur: ac ob eam oufam minime nobis noUxa placent ii •p. a MI ia Bi  itk iw “!f   lab ipoK   imi». okib!  abii   l{DKd   biW   uocA \^2Dli   .qmX (uitbi SUID* jniisi^uin®^ iCID# aajb crlb<   jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfia eKccT^ eflcopinaiaut t iccirco dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi  dcri Mato dixit (quoniam altera in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis  quibus uebcmenter dele Aamur : nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct :  at^ refumendi fpiritus caufa aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam magnx tam^ reconditx dodrinz diuinitatem . Verum quanto me iffa  tnagis deleant / tanto magis cupio : ne minima quidc m in tota re mibi dubita»  donem relinqui . (tai^ utar ea quam mihi conceiTi^ libertate uel licentia potius :  At^ ut iamioulligas quid illud (it (quod nili tibi aliter uideamr/ planius heri  cupio . Odenderas a principio ea ratione politum ellc a Marone Troiam zneam  cekquifle t quoniam lam uir ille corporeas uoluptates contempriflet t per thraci»  amuero at^ dropbadas utrun^ auaridx genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi»  tur (i buiufccmodi iam uitia exuerat Aeneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno  monetur C Dcle&at me tua interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden»  dit cnimmaion quodam iudicio quam idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6  fideralTe: Veium quo omnia tibi plane pateant: memineris non eum uinim a  Virglio [VIRGILIO] produci AENEAM Aeneam: in quo uirtutum habitus conoboratus fit. fcdqui  pro uirtuteaduetfus uida ita pugnet tut non (inemulta difficultate per continen  dam uincat : nonnunquam etiam uelud incondnensuincatur.Q^ui ueroin Ita  liam id enim ed ad diurnarum retum inueibgarionem uentuius ed/ huic non fa  dsed : ut continens fit . Nam quamuis condnentia a cupiditatibus arceatitamen   S uoniam in affiduo certamine uerfatur:non przdat eam animis nodris tranquil  tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas opus ed Quimobrcm egenus  ipfa temperantia uirrute undi^abfoluta: & in ipfo pene cerdo uirtutum ordine  corroborata qua qui inlbudi fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc Tantiue»  lum edam illatum penitus obiiuiftuntut . H oc autem habitu nemo mortalium  fe corroboratum in confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus prius ad eum co  fequendum fe exercuerit : Q_^ux res line longioris temporis interuallo effici nem  poted . Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS poetice quidem fed opd  me tamc exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii moeras ludrare pachtnni. Ceffan  tem longos/ Sedteunfledere curfus. Quod autem moneat ut eo quem dixi ha»  bieurn fe con firmet xneas uerfus unus indicio elTe pet^d . Adiungit enim quam  fcmel informem uadouidilfefub antro rcy1lam. Quamobrem icdiflime uni»  uerfum locum concludemus neminem poffeipram dminitatem attingere : nili  perlongum prius intefuallumeuih: quem dixi habitum ita contraxerit: ut non  modo non rapiatur a fcjlla : fed ne femel quidem ipfam uideat . uod quid ali   nd fibi nuit : nili ita obiiuifeatut cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con  ipedum fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir  tutnm non plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz  pe alias maximo tibi ufui & prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura linOiui»  nus enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas exteri pofuilTet:ita  sd podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue generibus didinguit :.ut alia qua  dam ratione ab iis illas coli odendat : qui ccetus ac duitates adamant t alia ab iia   h ii i  I qui omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio taoii  •d fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni iamc6«  tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles dixir/fecundas pw  gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex hominum rcAe & ex ratitv  oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft eoru qui io fudali acciuili uita dt  gentes rerum publicarum adminiftrationem fufcipiut.His {iximi fed m ercdioti  gradu confiituti ii funtiqui a publicis adionibus ueluti tepcftuoflsiac procellolis  Kin qbus fortuna; temeritas oino dominet'' :fe in portum tranqllitatis trafferuot  & a turba io odum fe tecipietes/ quirta uitam degutinon ita tn ut no aliqd adhne tefictaduerfus quod Iudadumlit. Supremo autIocoeoscerncsqui penitusa re«  rum humanatu concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum sit /c&  mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure ciida ad boni  redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili cupiditaribusiac pturbationibus  omnia tumultuant hifip non oiu xgre refifti^ rdicunt in ea hoium genere uiitm   tesi Dcohataspotiusqabfolutast Quaproptetidinill bptadcntiac6tendit/utm   bil agatuticuius non polTit ratio (^tem probabilis reddi i Fortitudo uero animd  fupra omne piculum at<p moetum affett : & nihil nifi turpia timenda admonet.  Tcm{watia autem oftedit fola honefta appeicdainulla in re moderationis legnn  excellcdamioea cupiditates iugo ronisrubiidendasiluftitta; poftre moptesfuni:   ut unicuimruumredd»’' iutx quoiureoesuiuant .lnrccudoautilioh>iumgene   tctqui ea it ronea negodo in odum uendicat/ut liberius poflit rerum diuinaium  conicplationi incubcrcifunget munetefuoprudciiafifpretis oibus mortalibus  rebus &cxleflium collatione pro nihilo habitis omni cura omnim cogitatione  ad diuina copuertat" . Temperitia autem cum ea folum nobis cdce(Utit/bne qui*  busferuari uita non polTiticaitera omnia fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii  datp pronuciabit. Sed necaberit fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo  moduminullumlaboreminullu periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w  petuo^uti**' - j 1 n- ». tuo^ut ita loquar)curfu ad cxlcftia & ad origine fuam icdat animus.Diccs q d  luIhtia.Hoc jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in hu iulcemodi ppoAtum firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit  fcd fadiius fupcratsfei^ paulatim expi .tos reddunt. Quapropter uirtutes ipCrin  illis purgatoriz appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum genus/quota  animi ab omni uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo prudentiam exered/non  ut deledu quodam habito diuma terrenb prxferantifed iit illa fola nofcantifuU   J ueluti nibil aliud At intueantur. Adhibent autem temperantura non ut cupitates coberceatifed lilas penitus ignorent.Eadem ratio erit fortitudinis.llla eni  pernitbariones non uincicifed ignorati Quin opubic dura at^ horreuda Abi of ferrirnon ut uidoriamaiTequacurired ut in eorum obliuione perpetua riimiuts 'ifidiligentetinfpides/ fadiecognofcesidabhelenoadmo  petduret. Quxomniaf  ^ neri xneam non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad   boc tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus: nonne Troiam deftrueiatjacthradam ftrophadefipteliquerat. Defenieiatquidemjred nondum  $mca uitia fugiflct illa dcdilutc poterat Jiunc autem non ut Moliirnt^iP  Liber tettiai «Birittaib^ deponatt^od tam feceratered ita de tnte deleat: ita perpetue obK  tuooi roaadntut nunquam eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz omni  bus rcbua iterum at(p iterum 1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua  •imte Italiam nunqua podturua (itmdnc nobis documentum eftroaximum nui  Ium ex innumeris uahif^ uitus eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu  lur t scgriiu liberetur quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd  temnere uoluptatesa qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie  maximorum bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle  tianimo negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus& imperia quoniam exedi'  lens quodda & eminens in fe cotinere uidetuunfpecie decori at<p magnifici ztu*  mum etiam excclfum deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii deo red  deretanimaduertac autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle qua dandis bc  ncficiisiNt^ hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma reru poteftate coo  flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut reliquos antecedat: Eft  enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus oibus euadere cupiamusi Ce  dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz quidem naturalis cupv»  ditas nifi reda ronc temperer in ambitione ac pofttcmo in tyrannide nos rapit:  in qua muka aduerius humanitatem audelia tetra nefariaip comitthnus : cu   natura ipla nifi deprauata fuerit ad magnanimitatem erigat nos ad fupetbiam  ft dominatum omnia rapimus.Hinc fraudes:hinc czdes : hinc reliqua imania  fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam humanitatem exuri in truculcntilTima  monfiu conueitimur.Non igitur fine fiimma lapinia ad Cyclopum littora ht Dti dedudt diuinus poctatut ofiendat qui magna quzdam & cxccifa petuntten  nulla certaratio anima reganfefe falli & pro animi magnitudine in imanitaicla  bi.Scd hzcquocp loca miferia ad fc fugientis uiri admonitus qua primu cifugit  ENEA. Quid enim aliud nobis cxprciTius cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar oculis fubuccrc potcfi ambitio larofiC fumma efferitate deteflandam 1)^300103  uitam quam cyciops Polipbemu$:qui procul ab omni hominum confortio hu  manis carnibus paicatur^^ inter luflra feraru fola uita agat . Nonne enim iure  Andropophagos tfic enim eos appellant grzci qui humanis arnibus uefeun' nmilloscl Te dicemus: non qui carentia iam anima corpora id enim multo ma  gnto Uerandumefiiinfuas epulas conucTruntifed qui uiuentes omnibus ctu»  oatibuscrudelil Timc exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi comparentiaut iam cd  paratamtut cnturioptimum queipuirum & iufhzqui ac libertatis amatoicm lzuifiiimemteTficiuat. Q_ui utfcelerariirimi uori compotcsc £ Ficiantut:aonmo  do fingulos homines ttuddanttfed totam urbem:ne^ folum totam urbemifed  integras nationes ferroigni fameij populantuncun^ libidini militari fubiid  imttQ_ui nc^ agris cultoribus fpoliaietne^ hominum pecudum^ przdas abi  gete uomturiqui pueros tcncraf uirgines ex parentum complexu aut ad mor  tcmautad libidinemrapiunnqui caftarum mationara pudicitiam expugnat:  qui publica acpriuata faaa ptofanacpzdificia funditus cuertunt:S qui modo  in florcnrifiinu re publica ampIifTimum dignitatis gradum fumma cu gloria ob  tincbantitot nunc oibux foituius lpoliatos mmiraritni feruttutc abducunu  V' I.4 In.P .Virg-M.AIIego.   uos igitur cydo^quos leftrigonas cum iftorum imani fcttida cofErcnaif  Quimobrtm uir iummi boni cupidus qui antea non bene infttcuta animi (oi  magnitudine quacun^ uia ad honores imperia^ nitebaturmunc demum tam  nefariam crudelitatem quam primum eam nouit deteftatunnouit autem a ma  dlenta rqualenci<| achemenide forma per quii lapiens poeU omnes calatnittla  quz ex tyrannide generi humano perueniunt s latenter (ignilicauiticum dues  paulo ante omnibus ampiifhmotum honorum gradibus honefiati/ ad rern ino  piam cxtremai^ famem cdpellunturicum illudiis mortis moetu latere ct^un^t  Rclida enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip lods exulant: Qua:  quidem miferia edam li in graium hominem & Aenex hodem cadatitame non  poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummul tyrannidis odium no impelli*Q_udigitur Maronis fapiendam noniureadmiretun qui uirumm ita  liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla ita  caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis perueniat un  de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui fe ab omni ii auari» dxfpcde cxpediucntomnemip iniuditiaatipei Fentate exuedtiadreru magnis  rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit.Ed aut Sidlia nue  in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit medio in pontus  K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes littore didudas angudo  interluit zdu.lta enim abimortali deoapnndpioaeataed diuinitas animoti  nodrorumiut una cademi^ dt pars infedot rdniside qua paulo pod ent didin^  dius difputandum di parte rupertori.Scd quoniaipfa ,in agendis rebua uerfaf  drea ea quz loco 6i tempore citcdfcnpta adiduam mutadonem redpiunt euenit  ut interucnientibus Uanis pettutbadonibusi quibus prudenda decepta (xpe pto bonis mala cligitiratio ipfa inferior illis uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO  percu(riabitaliatandem diuellacur:6 (aruperiodradonead appedtum defid>  at Q_uz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot ciufusad italiam.i.ad eo»'  teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita ediquaa ratione inferiod quz  per Siciliam lignidcatur nihil repedes przferdm humato patenteique nos mol  bticm quanda eneruata homini a fenfibus prouenienteinterpraetati fumus.NS  quam enim ad ueram contemplationem deuenicmusinifi pdus ipafut ebddia  notum uerbo utar)fenfualitasnon modo earinda uerii eria penitus fepulta in  nobis fuerit. Q_uapropterli rede animaduerds de Anchife mocte meminit  poeta de fepultura non meminittno enim in iuliam ed uenturus.ln quinto  ueto libto celebratur funusiut demu fepuito Anchife in italiam cotenderc lice  «.Apparatis itai^ rebus oibus Aeneas ex dciliafoluens paulo pod italix pot/  tus fubite fperat.Ne(p fuilfet a fua fpe deceptus (i lunonem aduerdiTimam  . bi dea ex Heleni przcepto antea placauiffct.Odendimus paulo ante lunonoa  honopi impcriiij cupiditate expnmeredn qua quidc « fi Aeneas ita fe geiatiut  nihil iniude/nihil audeliter in reru adminidtadone aduius fit.faocenima Po  lyphemo fuga indicauit nihilominus cum in confpedu Italix iam fiti& in li  nunc pene fpeculandi conditurus: Animadueitat^ non poife in rerum diuiu  nuncognidonedcucnidsnifi humana haec omnia cotenat/nidtut ille quidf Liber tettiiu    rem perficere . Std appetitus qui nou dum ratione fubiedus fit omnino ro>  pugaat: faKU 9 argumentationibus perfuadet noncireaurneg]igendoihono«  tes/autimpia relinquenda .Percomodeo tnqiUate inquit LAVRENTfVS tC  ad rem uehementer appofitx.Sed unum efl de quo SC fi fortafTe confentanea fu  fpicer > tamen fentendam tuam uehementer cupiam.Na quid fibi obfecro uult  ^fficilis ilia & apprime moiofa dea luno. Si enim manentibus TroixTtoianis  iiafcebaturscur deinceps iifdem illis in italiam enauigatibus adeo boftili animo  aductlatunan fortaiTequiautracp uiuambltiofoK imperii cupido aduerfa Et.  ifibne ipfum inquit BAPTISTA. Atnbitiois enim dea olim Aenex irafeebatun  quiuoluptatibus dclinitui nihil honorificum quacreretmunc autem rurfus ira  fdtnncum uideat illum ad altiora quxdam eredum ea qux exteri mortales in  admiratione habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que primum  gradum in uita duili tenent non motulia amplius ifed immortalia quxrin mi  rifice ictura poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in altum  Veb dabant Ixd j K fpumas falis xre ruebant. Cum luno xtemum feruaru fub pedore uulnus:  quae deinceps fequuntur: Ratio enim uiuendiiqux honoribus inferuit cum  animadueitatfc ab Aenea deferiia quo olimquo^cu ille uoluptatemtociu  amaret negleda fuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi ROMANUM IMPERIUM ed fhtuutur foreiut fua Carthago ruituta Et: Quisenimnon intelligat E  ad c6tcplationem:qui ptxftanti ingenio funt uiti accefferint/ illos ciuiles actio.*  nes ccdercrturos. Oolet igitur St pfeotiiniutia admonita pteiitotutcminifdt.  Manet enim alta mente repoEum  ludicium paridisfpretx^ iniuria formx. Et genus inuifum & RATTO GANIMEDE ONORE. Qux quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil aliud nobis prader de*  ditauoluptanbusuitam referct: Nam Paridis ludicium in quo lunonl Venus  prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide molle enetuata^ 8 (uo  luptatibusaddidam prxponi: Genus autc inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri'  um:acpoSremo RATTO GANIMEDE nemo modo mediocriter eruditus Et alia  traduccuHisigituraccenla luno naufragio Troianos perdere tentat. Verunx  ne noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis Egmento recondita funt ulla ex  pattelateant: neuequidluno: quidxolusiquid neptunnus Ebi uelit incogni'  tum relinquatur:pauca de animorum noEroruui at<^ natura repetenda funt.  Illud tamen pmonebo cuenireiut eadem ad multos locos enodandos adhiben  da Ent t Q_u« E fcmel a’me expteEa exteris deiceps in locis ueluti ia cognita file  tioptacanc luideo me qd* fumopete cupio breuitati inferulturu.Sed rurfus cu  eodieteprKc/E Ecagamus/duplextibionusipo Eturus Emieritenim eode tpe  8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K quod interim perpetuo orationis filo contexif' : Ene ulla inteccapedine:percipiendum malo loquacior etk/q  oomittere ne ingeniu eodem mometuo in plura diEradum:ucl minima difpu  lationis paidcula incogmta ptaucrmlttcre cogaturiCum igitur ad id quod pro Ia.P. VIRGILIO M^IIfgo* tPrn/f <«•’<»' «*•  'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^ a noftrz onginls diuimtate traximus t id eSsdt»  tiocinandum/ad concemplandum/ad intelligendum mgitDut:eam animi pai>  tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem nuncupamus. Verum hae   mutiifed przcipuc Platonici chriffiani FILOSOFI duplicem elTe uolueruntt 4 alteracu inrctiorem quam rationem appcllant:diuiniorem alteram & fuperioro   TIfct. qu- i 4eIIedumnuncupant.QU3propterfapienter Auicena animos noftroi  ur t alterum lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc furfum uerTum ptia  r .na altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res mortales & adioneshua  manas per prudentiam adminifhemus. Diuiditur igitur mens in duo rurfum in  tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum agendarum ratio qua  iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit &regat:Mulier inferior 8l regatUR Quapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui mulier bencfadensrnd  ^ enim przponitur iniquitas uiriliszquitari muliebri: Sed commode exprimitut  I 'tedius eum agereiquideiideriorerumczieftium raptus plurima corporis &fo  cialis uitz commoda negligat: quz res uideturiniquatquam eum : qui ut nuW  Ium uitae ciuilis officium deferat:czlcftium rerum curam omittit : (^uz cura  ita (intiuideamus quz a Marone dicuntur: Nrmpe zoium lunonis przdbus  uentostquoslouis iulTu regere debet/in mare cmififTeiqua tempeflate obrui  poterant Troiani nili illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo in loco fi ui  tz ciuilis cupiditas (it luno commode zoium inferiorem: neptunum uerofu«  periorem hominis rationem interprztabimur. Non igitur mirum liabhono»  rumae imperii ardentilTima cupiditate ratio illa inferior (lediturrattp de fuo  gradu deiieiiur. Referunt fabulz zoium uentisprzpolitum aloueefleiut iuC> TuAioillos BC intra carcerem cohiberet&indeemmcreceru quadam lege ualc4 at. Quamobrem celfa fedet znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos: K  teinperatiras:_8£,iilud N i faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc  fei^tfec^ rapidi : uertantep per auras. Et profrd Ot&infiituti funt animi  noflri ^etum omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars quz ad  tes afeifeendas fugiendaf^ inlurgit: przponatur libi ea rationis particula : quz  infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat. Ratio auum -  Iplis mortalibus indita non a corpore efttfcd aloue.Hzciguurdumfuo co  ditori obtemperat celfa arce fedet:quia nihil humile cogitat: fed quztp aigre^  gia: attp excelfa meditatur : teneti^ fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein  habet: mollit^ animos /& temperat itas: cum nimiis cupidiutibui appetii  tum cohercet : at^ inna modelliz fines continet : Sin autem ita lunonis blan>'  ditiis demulceaturiut fuz naturz propriz^ originis immemot rerum rettena  rum cupiditatibus irretiatur/ totum lilife przbet : eiult^ iuffu non autem lo  uisuentos/hi enim penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem apped<>  tum cflic diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus ferientes bor«  tendas tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem honorum cupidi  tatesrquz uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non difccrnitiip  fumcp appedmm : qui a fenfibus originem dudt: non modo non refhnguit  ardaemractum ultro inflamat: &gcntemiunonisinimicaseaautcft mens no / » Liba totius   Itlbullu Qanitn rnunicotit^tm:diuinatuin autftn cupida/mratiis perturbati  poibusobtuae nititur.Scd rcaeo ad lunonemillla enim cum tecencitiiuriaanti  / MUm (H)i uulnus refrkafictiira plena in zoiiatn tendit.   Kimbofum in patriam loca fceta furentibus auibis.   Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda fibi deligat  nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum cogniti  onem abfttabae nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in appeti tum p  tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis iuflli hoc regnum zoio  commiffum cds Nam ri deo obtempaemus rationi fempa obtemperabit appeti  tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro legem deum ellr : malo autem  bbidincm: Quaobrem huiulcemodi rarionemdeprauare aggreditur Iuno:& ue  iuriti qui caufz (iiz diflFiduntrfit fallis rationibus perfuadae/& largitionibus cor  tumpae iudices patanttita ipla zolum adoriturteonaturep oftendere zquum elTc  4tillc gentem fibi INIMICAM ITALIAM attingne prohibeat. Perfuade^ zolustfe^ cn  da M iulTu lunonis fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii habet/id omne a iu  BoUe tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate rerum terrenaruiatrp  illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere uita nofira impio ratio  tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio fatetur ueluriquz(^nifi pturba  lioaesaflint^aibil habeat in quo fuum impium exerceatrac decepta cupiditate ea  tum raum quas magnas putatmentis habenas remittit/ac mare perturbattquoni  •tUturbulemimis cupiditatibus appetitum codut.Quibuszneasqui ad cxle^  Bium rerum contcplarioncm tedit/adeo labo paiculorut^ magnitudine infrio  giturtuta jppolitodciiciat" :Et ^fedo cum appetitus quo folo animus moueturr  ftquonosad fummum bonum duci oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima  iUa tempeftasrin qua eripiunt fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis . Na  qui paulo ante tranqllo appetitu adrpeculationemfaebant"tinfurgentibuspaturi Mtionibus adeo illis oixzcant" :ut quicqd luminis a rdnepueniebat/peniti»  tollat tVnde fit ut nox atra ponto incubet. Appetitus enim qui hadenus luce rationis illul habac nuc illa amilTa in tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc maretuc lii aqlone fetuntur/hzc enim elatio quzdam elliquz a rebus fecundis profluit.  Alii in fummo fludu pendentmam fupra fuas uires difficilia ardua^ aggrediens  tes amdi foliciti perpaua expedatione pendet. Alii terram inter fludus tangens  tcsabipfa fortuna dnedi mifetiarum cumulo obruuntur.Sunt deniip qui in fas  alatcntiacontorqurantur. Nam multi cum impetu perturbationum ad huiuf^  cemodi cupiditates explendas ternae ferunturiin uariatp pericula fibi improuifa  inddunt. Sunt poftremo quos auaricia ueluri in fyrtes ttahat.Nam quis non uis  daefle aiam quorum nauis demergatur. Vnde utre omnino apparent rari nan  tes in gurgite uaftoiNam ex inumera mortalium turbaiquos perturbationum p  cclh]dcmagit: paud emagae ualentiFado enim habitu pauci ad portum enare  pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a temone tcuulfus imo in przceptls deie  dus in profundum ruitiCum enim ea animi pars quz uitz regedz przpolita eft  fuaiicde deiidtur/adum iam de uniuafa te cite quis non putarHzc autem otns  Iliacum lunonis zoli^ culpa acddiftenttinterim Neptunnus commotus graui*   i In. P.VIRGILIO M. AIlego.   tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex fumma unda cxtuIk. N(ptaliutn  mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut fummumiguia alia quo^smaf^o»  mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui prxfantimouet' enimilfe iudit»  fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum tamen impium fupioii ronirefenu  tur. haec igif r^tio quam nuc neptrai nomine (ignifiat poeta cum oibuspturba«  tionibus rapi uexariip uideat:caput e fumma unda ueiuti ex fpecula rifetttVnde  ipfius appetitus fludus jicellafip animaduertes aium illius furore in pram pinum  rapi cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam ipfam lunonisdolisexdta  tam intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea in hasmiferiasitw  ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos no modo non cohi>  buerit: fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi uni affecat cuje  zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer increpariqui impio titanum  fanguineorti/deo^i regnum infeftareaudeanReferut enim fabuix uctos Aftrd  filios fuilTei Aftreum aut unum ex iis titanibus eifedicunquiimani impietate ad«  uerfus deos imortales temeratiu bellum fumere lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr>  periesi Non aut CICERONEM reliquofip dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali  ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx repugnare interptabimur;Q_ua qui  dem re quid magis temeratiu rflepolTit non rcperio:nam queadmodutn cosUi  demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam optimam ducem fequund  ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino dcfcifcut.lure igic' uentM  c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a temerario fempi&nalurc repu  gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus comittunt perturbationes i qux  flultitia 6i temeritate humana gente appetitum diuinitatis nolhx id eft tonis itm  perio fubiedum turbare audeant.Quaraobrcm iufte a neptuno obiurganifues  ti:fu(lcc^ impium pelagi fibi uedicat ncptunus/cum in bene inftituto animo hw  iufcrmodi illud e(fc oporteat ut folo mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi  igitur fentemiam commode polfe ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui. Qod  (1 qua in parte fatis tibi fadum non e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius  IcKo quadret:promas illud licet: Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore impe<  diaris:Nam neminem ex omnibus qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori animo  refutari patiatur:q ego fero/aut auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp eft etiam  quod dicas huiufccmodi fenem ego adolefcens. Vidi enim multos ex iis qui & ha  bentur & funt dodiflimi nonnunq admonitu etiam indodilTimi hominis in at  rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam fuo ingenio tam diuturno nunquatD  tempore hadenus uenerant.Ego inquit Laurentius quid aliis euenerit ncfaoiiiu  hi tamen nunq tantum arrogabo. Verum quia accidere in tanta rerum copia at^  uirictatc dodilTimis quibufc^ folet/ut cum plurima eodem tempore fefe med of  ferant: nonnulla fint:qux fic fi non explicent" :facile umen Sc reliquorum fimilitudine percipi pofiint.Sint etiam & alia qux quamuis enucleate planecp ediflicrae  turihcbetiori tamen ingenio qui funt illa minime confequant":utar ea quam mi  hi pamittis licentia:& quoniam de confugio xoIi:at(^ deiopex nihil a te didum  cftipetam nifi id omnino inutile ducas:ut fi quid ea in fabella fitiquod ad rcno<  fisata confciat/nobis explices. At dices n unquid tibi m mentem uenit i ac edam Liber tertiuf nthinu Horib^tne(!erat!ges« Vcnicqdetn. Kamaiffi nKo adiuiDis ad humana  abducenda cftinullum pene maius przmium proponi pote(l:g pulchrum cafiu m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz eft coniundionis maris SC  fttminaeezpIetur. Lndefoboliseft |> pagatio:quxquidem non fotum uoluptatiii  tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati confulit/ut etia morrui aliquo mo  do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH  oni rationem habcas quicq eft prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi  amiquod alio paulo pofi foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni natura fcii» pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci mithicon  nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec rent: Alterum nata  rale/idenimeft phy ficonrper quod comode uimnaturxexprimuntiut cum per  iatumumhlios omnes przter illos quatuoruorantem tempus nebis denotant: itodii quatuor elementa ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium uero  iccirco ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta promatur  Coofueuerc igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia ita confundere:at<p m unum comifcereiut optimo quodam temperameto eodem tempore &  aures fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita dodrina alantiac nos  adredum at^ honeftum & ad ipfum fummum bonum deducant: Nos aur quo ciam A hzc omnia exadius in Marone ^fequi uoIuiiremus:nimis operofum ne  godum |poni uidebat" duobus primis generibus obmiiTis intra ciuilis generis ca  cellos difputationem noAram mcluAmus.Q_uapropter illud paululumtqd mo*  do de fabula decerpferas/noftro operi conducet: Nam reliqua phy Acen fpedanr.  Dicunt enim Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe eafcp lunoni nymphas attributas  exiliorum enim intcrptatione luno aer cA* Aeri autem feptem quzdam attributa  fuiit.Septem itidem in aere ignum''. Quz omnia ipAus folis tunc maxime cum  in noftro hcmifpcrio ueriat :opera proucniunt.Sed ut de primis priori loco dica  tur eft aeris ut leuisAt:ut mobilis:utcalidus:ut humidus: utferenus: uttacitum P Utlpirabilisxbasigic ueluti feptem nymphas finxerunt poctz:earutn autem quz  in aere gignunt pi imam ponunt quz Ins appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu  li minittras pluuiam grandinem niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo  Dat :fcd eft id^ut ita loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^  us/alu den Aflunum At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a ter<«  tia niger color perucnitx Contra ucro partes quz in ca purz funt croceumiquz ue  ro puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem remittuntibzc igi  tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex fequutur phy thon come.*  ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac tcrremotustdeqbusfuo ordine difpacarc no  grauereniuriniii ex tnbus illis quz dixi generibus ciuile folum profequi conftitu  il Temus: Vaum cum uoies bzc probe & quid qua ratione gignantur: faci* ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora appellanturab Ariftotele quidem pr  acute:ab Aiberto uero cui magno cognomen eft etiam aperte petferipta. Quod  autem dciopeam omnium pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no  carenEft enim ca in aere facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io cu  pidiutem tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies ; p  1 1 I'. Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita perplacentuit nihil in iis prxt»  rea deiideretn:perplacent quo^ quz tu de ratione appetitu^ diziftitfed uide at  pugnantia Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu paulo ante xoluminferioiemratu  netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem ponis:redeutru^:Verumcn hic  impetiutn fibi non autrtn illi datum dicattnon uideo cur zolo quotp non conoe  datur:ut mare uel io mittendis uel coheteendis uentis:aut extollat aut fcdett No  co inficias inquit Baptifta pertinere ad hanc inferiorem rationrmiut cum deage  dis rebus iudicium habeat/ipfa appetitum & ad raquz afeifeenda funtimpellati  & ab iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum quemadmodum in bene inlhtutare  publica fupremus quidam magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t  alii tamen aifunt minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili  totius uitz imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea Ic  ge propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum humanatum  decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft fupremus ille magifha*  tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede faipcura eil zoium no niii clau  fo carcere regnare: quoniam in uita hac communi ac ciuili potius cohibetur appe  titus ui quadam rationistquam quietus tranquilluf^ tcddatur:non enim in bo  nas affcdionesconucrtuntur:red potius moderatione cohercenturjRatio autm  fuperior cum caput ex undis exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem cognouitteun  da in tranquillitatem redigit. Emittit enim raput ex undis cum fe a corporea mo  letqua hadenus obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe excitaUat^afeniibus fe  uocattquo tempore non folum cognofeit qua hieme opprimatur zneasne in Ita  liam tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam lunonem id eft rerum bu  manarum cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem uentos qprimumanutire*  mouet : Nam uacuuspertutbationibus appetitus rationi obtemperantior reddi  tut lllofq) ut deterreat maiores poenas fibi daturos minitatur: quam illi ab  Aenea acceperint: nec iniuria . Nam appetitus a perturbationibus inuafusad  tempus uexatur « Intelligentia autem illa fuprrma fi imperium fibi uendicae  tit/ quoniam fummo lumine animus illufiratus nunquam deinceps nec ded  pitut:nec labitur : neccfle eft ut perturbationes: quarum genitrix falfa opinio  fuerat in nobis penitus fepultz reddantur. Q_uapropter non fimili pasnaco  milTa uenti Neptuno luent. Sed undz quz fequantur . Remotis uentis ou bes dirperfas in unum colligit Neptunnus: at«^ colledas fugat: Efi enimboc  intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas opiniones profequatur : in unum  congerat : atq^ demum confutet: quibus confutatis tum demum folis lUe  ce: ea enim efi ueri cognitio eunda iiluftrantur. Q^uio 81 dmothoe & totos  naues a fcopulis abducunt. Cimothoe per undas currens fi gtzcum uerbum  aduertas faale interpretatur. Triton autem neptunni tubicen babetur. Iftaigi  tur duo numina afcopulis cupiditatum naues reducuntr quia cum tedum DOuerimus/uana relinquimus. Scientiam autem autnofiro ingenio al Tequimun  cum id fua uclodtatc pet eunda difeunat t aut dodtina aliunde accepta pd«' IIs I a :v t Ii* :lil i i M d nit ai fli iib idi &bi m Ml  ItM IS it alti nbi lii» IStl' uti  «m 110 0» 1» ufl «I (i ‘i? iit tf tnumilludd motlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam ut  Cubidaes fuo przconio mandata prindpis manifcfti Qtidc dodrina quid ucriras  4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur neptunus  fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus appetitus  ita per eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de tempeftate.Nuc ad  reliqua pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto peri culo erepti Troiani  cum fefu fradi(p Italiam utpote longinquam terram contingere pofTe defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato confiiio ad propinquum carebam  ginenfium littus uela dirigunt: puto uosmeminifTeitaliam fpecu!ationis:cartha  ginem adionis figuram habere. Quapropter id nunc exprimit poeta quod in  humana uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt enim multi:qui cum ne in uoi  luptatcne^ in diuitiisnet^ poftremo in honoribus fummum bonum inueni^  ant ad ueri cognitionem fefe conferant; Verum cum fe humana omnia Facile  poircconcemncrci& reorfum ab hominum coctu contemplationi incumbere  cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix illam reliquerunt cum tantum relidam  tum rerum defiderium infurgitiadeo ex recordatione tantarum illecebrarum  cffeminanrur: utrurfusin fumma spcrruibationes incidant : qux quauts tan«  dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi defacigatit^ relinquuntur ant  mi nodriteum non fine difficultate tam horrendam tcmpdiatem euaferintiut  latis fupert^egiffe putent fi focietatem humanam incolentes qux immania 8i  humano generi pernitiofa funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non exadas; ati^perfcdas/incohatas tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux in  ucnfpeculatione pofitaefideccrreantut:animaduettantqux hutufccmodi ui^  tz genus humanam pene imbecillitatem excedere cum Arifioteles maius aliV  quid quam hominem effe qui hzec poffir affirmet fecum fic ratiocinantur.Non-  parum erit uoluptatum incendia euafiffe : Thracenfium rapinas euicaffe : hac  harpyarum fordes & Cyclopum immanitatem refugiffe . Nunc ucro fi id non.  pofiumus: quod diuinitatis potiusiquam humanitatis effe uidetunillud quis  reprehendet ut in hominum locierate ad quam colend >m tucndamiaugendam  ^ nati fumustuerfati prudenter iufte fortiter deniqi ac temperate uiuamus/ pa  rati pro pania ac parentibus nullum laboreminullum periculum deuicemus..  In omnes qui nobis fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus  nofiris aut egenis liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo-  firemusiaut iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate noffra fub«'  leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp  inipfam fenedutem: quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf  uita maxime impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt  am iis quz de Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe confidunt:  Nam quod de patriarcha lilo legitur egreffum effe ad meditandum in agrum  inclinata iam die ita interpretantur exiffc illum a corporeis fenfibus adme ditandum in agrum quafi feorfum ab humana frequentia inclinata iam die/  id enim efi circa fenedutem iam femore fanguinis ceffante.Conanr prztereii  Cuamcaufam grauiffimotu uiioium teffimonio corroborareiqui ufutn potius lQ. P.Virg.M.AIIcgo< triqaam aufamunde bonum (it confidcrantesadionem contemplationi aiw  teponunt. Pcxfcrtim in uiridiori aetate: in qua philofophum agere, dicere rem  publicam adminiftrare militare at^ imperare iubemtoftenduntip Platon ip  tum uakdioribus annis K nauigationes io (Iciliam : & (iudia in Dione exerciM  retSencfccotem autem in academia circa ueri inqai(itione quieuilTe: Xen ophi»  tem quorp adolefccntem in rebus agendis fummopere laudant:Srn:m ueto in  fpcculatione admirantur: & beatum propter odum putant: Q_ui n etiam mub  tos ut fapiendorex fierent plurimos populos paagrafle oftedunt : Q^iuproptct  K Homerus Vlyxem fapientem propterea dicit:quod multorum hominum ut  bes ac mores nouerit:Huiurcemodi igitur ac plura alia in unum collig^es/qux  tu fummo artificio ac prudentia nudius tertius cum hoc genus uiucdi laudibus  efferes enumerabas fpeculandi propofimm in feriorem ztatem rdiciunt i at^  ad res ciuilcs agendas interim fe conuertunt:Q_uod quidem uitx genus qui ui  tuperabit/is profedo iuflam ut ab om nibus uituperetur caufam prxbebit.Sunt  enim fua (ibi qutxp muneraiSt plutima quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu  gaturi&czteris utilitatem ficfibi gloriam tranquillitaremip quoad imbedllitai  bumana patitur (ine controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine fumma ratione  tutus tranquillnfip portus in caithaginen(i littore defcribituricuius formam li<  tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in fece(fu longo locus:quem infula  portum ef&datiMortalium enim uita continentem: ea enim terra eft quz marU  nis fludibus minus e(f expolita nufquam hibct.lnfulam autem habet zfiuinti  busafliduofurentibafip undis undu^perculVam.Sed quz tamen ita fua mole  beteat: ut aduerfus omnem uentorum undarumip impetu immobilis fimpcr  obduret : Nam cum hzc quz momentanea funt: & tamen (f ultitia humana bo  na putantur fortunz temeritad fubieda (inticut^ amore fui mentes humanas in  Cendant conficerent profedo nos nili infula in medio mari (imus : quz quauis  unditp mari mndaturitamen uirtutibus (fabilita non mergitur.Eif autem in 16  gofccefTuiNam animus uirtutibus aduerfus fortunz impetus munitus procul a  perturbationibus feiunduscft.lllz enim obiedu laterum repelluntur. Cu hin:  fortitudo contra res aducrfasihinc temperantia aduerfus res fecundas opponar i  rede^ uafte rupes appellantur. Virtus enim in diffidli luco polita etf.Aode qtf  ita medium tenet:ut quocunt^ te inde araoueas:ad extrema peiuemi ndutn liu  unde tanquie piti rupe labatis gemini^ minamurinczlum fcopuli. Nam  non folum noUra prudentia freti res magnas aggredimur. Vei um multo magu  diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota  tuta li(ere. Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba  tione liba cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus  horrenti umbra imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti'  am inueniasiqut earum rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem  tus przuideaticum tortam^ diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz  nocitura (int fummis uotis expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef  fcntiueluti noxia omni indufltna fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz  dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a uatiaium cupiditatum fludilMis Liber totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi uita:quz (ioo beata omntae e quieta tamen  'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur pottum Tubcunt: qui fuprema diu fedati  ac poRrrmo difficultate deteriti fe in uitam focialc contccucnin qua ciuilibus  uirtutibua exculticuinuerrentuc laudem non medioaem reportanti longe ta« en ab ea diuinitate qua quairimus abfunt. Quod aute feptem nauibus huc  iubicritiquodi^ reliquos c (copulo profpiciens requirerenquod detnu focioru  inopiam raritu uinoij rublenaunic buc pertinent ut intclligamus eu qui rc pu«  bJicamadminiflrandam fumat oes labores omnia incdmodafubire oportera  ut illoru quz fuz fidei cdmifTi funt falutem incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter fit Acate$(^ea enim principis cura efl^ igneexcitabit/ id eft dcfides ad tes  agendasaccendetiutquz ad uidumncceffana funt minime defintifit fcopulos  Buendens abrentes requiretiquos (i tutari non poterit iis qui afTunt confulitiillo  tnm^ inopiam cu fublcuauerit etiam oratione confolabituc:optimif(^ pcepds  ita in^oet/ut admoneat non effe huiufcemodi hoc uitz genus ut m eo fedes &  gere uelimusiSed effe omnes labores ac difFiculutes fuperandas /ut in italia per  ucniamusiubi demum fedes quietas muenietiubi etiam Troia reforgetiNam cu  uitauoluptuofaibiquzreretur eaaderat uoluptas iquza fenfibusprofeda cor  porca edet fit caduca: fit qua (latim poenitentia fequebatur.In italia autem uolua  ptasfuma prouenictadiuinaturaum fpeculatione.quz uera fimplexcp fituo  luptas quz perpetuaiquae ztema qua nullus moeror fubfequac .Hzc enim opti  tni principis adminidratio eft:na cu u ideat ciuile adione humanz indigencizt  non aute ei quz io nobis efl diuinicati inferuiteiita in illa uerfabic :utcu quz ad  mottaliu inopiineceflaria funt uidetinfuotutame animos ad diuina etigatt  iubebit^ eos aduerfusfortunzcafus durare: fit fe rebus fecundisquas in latio  inucniet feruare.O diuinum ingeaiu.O uitu inter ratidimos uitos omnino ex  cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui non chridianus omnia tamc chri  dianopr ueridimz dodrinz fimi liima proKrat.lege apodolu Paulu. libet enim  unum hinc ex omnibus ucluti nodrz religionis caput nominareiqui uitam hu  manam ad huiufcemodi notmam dirigitiut ne^ corporis necedatia fubtrahen  da:flt uero inuedigando femper uacandu cenfeat.Q_uid enim ille fufe late de  Cmbinquod hic poeticis an gudiis non coardetiMiraprofedo restut fingula pe  ne uerba longidimas e platonicaiaridotelicac^ re publica:fentetias ampledi ua  IcantiSed nolo quod quidem hadenusnur quainfeci:itaexade hunc IcKum  profequi:ut reliqua deinceps aut omittenda:aut ea celeritate przteruolanda  fintiut idem nobis eueniatiquod longam piduram in citatiiTimo curfu per«  (piciennbus euenire folet.Ii enim in puado teraporisicum id etiam magnope  tecontendanticolorcs notare uix poffuntiliniamenta autemifit corporu fimu  Iaera fit quam grzci fjmettiam nominant ne uix quidem. Q_uapropter relu  quaadtnaiusocium differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo«  uisad Venerem meram textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia  poetico f)gmento:ita tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro: fit  unde luboyt familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu laudet.Nam quz ad allegori  am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda cefeo unde duc^.fiu fpote fcquanf    In. P. Virg.M. AIItgo.   Sin 3utc ui ingenii inuitamuntur/twtu de grauitateruaamittunttatridtada  pene reddaqtuttluc^ omittamus anxias interprxtationes:ea(p folumaflim»  tnus/quz non modo in abdico non latentsfed ultro Tefe quxrehtibus offerant.  Quod autem paulo ante ad mathematica pertinere dixi pauds quidem fcd ,uc  temporu anguSiz ferebat no oino obfcurz in principio expolitu clTe puto.Ita^  teuertor ad Acnea^lc enim per node plurima mete repeti ftatuit ut prima illa  ccfceret loco^t natura diUgctius exploraretSt hoics ne an ferz teneit inucdigarc.  Q_uibus untibus qualem oporteat eife rei publicz adminiftratorem egregie, a {timit. At^ in primis illud bomericd approbat.   Q_uis enim cui tot mortalium cura c6mi£Qi Iit uu'  uerfam nodem fomno impendet. Id aurem fumma (apientia didum omnes  fatebuntunEft cnim’optimi principis uel praecipuum munus cum loca inculta  uideaciut homines ne an ferz inhabitent iibi exquirendum proponat. Na qui  uitam ciuilem diligenter intueturmaria hominum ingenia;uaria fiudia uario^  q motes inueniet. Sunt enim qui redo honefto^ r(mperincubant:ciuili con  cordiz faueancsLibertatem (aluam eflecupiantmeroinc plufqua leges intepui  blia ualete uelint.Iniuria oppreflbs fubleuent. Superbiam fcditiolorumciuid  deiedam cupiant. Maieftatem publicam pro uiribus augeant.Religionem de«  ni^iac iufticia omnibus rebus przferat.Hi igitur iure hoics appellari polTunt:  quoniam humanz naturz officia non deferunt.Contra autem plurimos repeti  as/quotum pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum relinquat: pluri  mos qui fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:& aut ueluti uulpeculz do  lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus fuperiores cum iTnt opibus quo fit  honoribus eos anteite uelint:quibus fapientia ac uirtute longe fintintetioress  buiufccmodi igitur uitiis deprauati homines quauis effigiem mebra:^ humana  retineant/tamen quoniam mores ferinos induerunt/no amplius hominesifed  immaniffimz ferz putandi funt.Q^uapropter in humanis coetibus longe plura funt illa;quz uitiorum uepretis at<^ fenticetis unq inculu hortent: quam ea  quz ingenuis artibus prxclarifd^ uirtutibus exculta nitefeant: progreditur igif  Aeneas ut fingula diligenter exploretinon temere tamen:fed Acacem tidiffima  comitem fecum ducit:8( armis inffrudusincedit:Nam quis unquam rede re  publicam admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia uacuus fit:aut for  tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea przuidemus.bac au  tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu infedu relinqua  turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis propoiito  adeiuilem uitam digrediatur Aeneas:Sit^& in ea multum elaboridd/opus  eft ut & duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote catum reru quz age  dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios labores obtorpeatnc.>  ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen cofeffa dea/qualif(^ uideri czlieo  lis & quanta foletiEam enim fe tuc offendit cu filium a uoluptate eo cdtilio ab  ducebat/ut ad fumu tenderct:Q_uo tempore oportebat ed inflamari amote di  uinaru rerutqui & ipfe diuinus ab omni materia 8C corpore jicul abfit. Hic adt  catum reru amote incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte mataiademafz Liber lotiui li io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt   s'4U  *. utii at». ia? r   i*f   a O liii ga<  'fb fihhQuapro{iter non deam confcf Taafed humana fotma di  RiffluTata fefe filio  offcit:ftin (yiuaotueiiatriziIIi appartt. Quem quidem locu planius uobis nf  primamati pauca omnino necniu ea qux nrcriTaria funt prius de fylua rxpofur^io.Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem eiiflere : Trifmegiftus  Homerus ac PLATONE oftenderunt: Atm ut quot fentirent dilucidius exprimeret au  ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem demitti finxeruntiqua fa>  is gradibus eunda connedanturteuius origo cifentia dei cum (it eo ordiue proce  ditut ut fecundo in loco potentiaztertio fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t  bxc fequitur fatum attp illud anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit  xtbnriifunt aereisfunt bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by  le^quam nos fyluamdidmus^in infimo refideti Poifem fingula non fine fum<  mo ufu atip voluptate oratione mea profequi. Sed quoniam difputatidi noftrx  neceflarianon funt brcuitaticonfuIam. Quamobrem exteris obmiffis deu prin  apium lyluam extremum in catbena ponemus.Nihil igitur deo fuperius . Nihil  fjlua interius.nibil hocprxftantius.nihil illa uilius . Media uero inferiora fupe«  nntta fupetioribusuincuntur. Eft igitur deus & fyluathxc autem niatetia efttex  qua omnia corpora funt . Vt enim lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam habet . Continet enim illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata fibi facultate formas omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas illud tradudt tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for  masomncsabxtcmitate complexuseft. Materia uero fi illius naturam infpicias  formam nullam certam expreffam habet. Verum innata fibi recipiendi faculta  te t & ut ita loquar confufe omnes continere uidetur. Materiam uero quia matet  fit didtur. Ceus autem pater: forma uero prole$.Deus enim dat.fylua redpit. *fotma nafeitur . Q^uapropter rede Trifmegifhis patrem matremtp xtemos: pro  lem uero mortalem didt . Mater cfi materia quia finum prxfiat. Deus gignit : 8C  oeat : ac fua quidem ui . fila autem ex alterius immiztione condpit .Condpit au  teminfufione fpiritus diuinitquam animam mundi nominat Tnfmegiffus t  Q_ux res eum mouet: ut deo ofiidum patris tribuat : quoniam infundit: SyU  ux uero mattis t quia a deo condpiat: Animam denicp mundi uim feminis hsb>  bere dicit : quia a deo ipfa infpiretur in fylux gremium. Prxtereo plurima nomi  aatquibus uariasfyluxproprietatesexprimit:Illaenim nihil ad hxcqux agi«  mus: Sxpe umen totam materiam appellat malignitatem :ne« iniuria.lpfa eni  Iblacau Qefitutresmintentumcadant. Namquod a materia feparatum efit id  nunquam interit: Nunquam enim quod fibi contrarium fit capiti fed illud fu«  gitat femper at^ declinat: Quod vero fylux gremio continetur: iccirco in la^ teritumiabitur: quoniam fylua/cum ad omnes quas qualitates appellant xque  lebabeatcuenittutuelutialtera Helenaintra teda uocet Menelaum:ac limina  pandat. Num dum foimas illis quas hadenus receperat contrarias admittit: fc«  cile fit ut cxtemx irrumpentes domefticasextinguant.Q^uapropter quis illam  malignam non dixerit t qux familiares fotmas prodatiignotas admittat: K uelu  ti fufiepri iam in fuam fide m clientis caufam deferens : aduerfariiqi fufcipies per  timtnam perfidiam p eaoiaticeruf i Tardat etiam & perturbat noftras mctesfyb  k rn.P.Virg. M.AIIego «   Ui t omae ab ea uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St   At ignorationem ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire & Plato S  plaeri^ cz iis qui grauiflimi habetur philofophi audorcs funt.Huiurcemedi igi  tur rationcmotus diuinus Maro cum rerum humaiurum:8;qua; corpore no a  rent:proptrrca^ in uariis erroribus uerrenmr:amore inflametui is qui in re pu>  blica princeps effe cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in tpia lylua:guo  niam eunda quz agimus in materia demerla funt illam ponit.Nec temere umv  tricis habitu ezomat : Eas enim feras de quibus paulo ante dizimus fibi infedai  das proponiuquifuis cibus rcdcconrulturuseO.Acneas tamen non nihil diuir  nitatisin ea etiam iic diiTimulante cognofcit.nam Si (i populorum temperatocai  circa humanas adiones uerfenturuamen quoniam honelhim redum^ tuentor  eodem illo amoroquo hzc caduca appetimus / originem nollram diuinam eflie  fcntimus.cum enim reIigioncm:cum luditiam: cum animi magnitudinem atb  amamus : uerfantur hzc profedo circa adiones .Sed tamen quis non uideat illa  a diuinitate proiteifei C Eft tamen oratio uenetis non ut dcz : fcd ut hominb: K  tamen nefeio quam diuinitatem redolens : Nam cum Carthaginem proficiid lii  adeat:argumentationibusab humana prudentia profedis utitur: Nam K quz  de hilioria Didonis eruit : ea omnia falutis fpem afferunt : Si cum aliquid funp  rum przdicitmon ut deaifcd ut augut ex cygnorum uolatu przdicit . Illud aute  fumma fapientia czcogitauit poeta : ut in orationis fine fe deam manifeftatet Ve  nus : Nam cum in uita ciuili quz reda Si honefta funt diu coluerimus ez illotn  pulchritudine ad diuina quotum hzc ueluti (imulaaa funt erigimur.His igitur  rationibus a matre perfuafus Carthaginem tendit oblitus tamen tenebris : ne illi  us conatus aliquis impediret . Et profedo fic fe res habet . Nam qui magna pru<  dentia przditi funt uiri cztnam multitudinem quam adminiftrandam fufeipi unt ita ad redum honefl um^ trahunt : ut fua conlilia fzpilTime tegant:quz q>  dem fi palam facerent autzmulor uminuidia: aut dulcorum infcicia impediti  illa ad ezitum minime perducerent: Vtenim prudentes medici zgrotos(^qucv  tum libido nihil falubre ezpetit])perrzpe fallunt : Sic optimi prinapes fimutan^  do aut dilTimulando fua conlilia occulcant . Nam ut cztera obmittam nonne  qui leges tuleruntiquo maior ei audoritas inelfet/fua conlilia alicui deo actnbu^  erunt fCunda enim ez Egerie nymphz przceptis Numa Pompilius facere finiu  labatilusciuile Spatthanorumez Apollinis fententia faiplifife iinzit Licurgust  Q uicquid Zautrades apud Atimafpos conltituitid a bono numine accepilTedi  cwt.Zamolzis autem quzcuis Scythis tradiditiin Vedam reculitxNam q mul  ta q difBdlia inter tumultus militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii  la a Diana per ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna  nifeda: Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius quo^ tertius difputatum ed nuquam optimis indituris  Si legibus temperata erit res  pub.nili qui illi przfunt eunda qu aut przcipiunt aut prohibent ad eotu qax  per rerum magnatum speculation emuideritu regulam ac normam sapiennllb tne diligant. Cum autem Carthaginen lium operam indudriam circa urbem difiandam dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug onuiia colligit: quae^iia9 c*\Ili «f m ii m ta ai l U U Kl ii M ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^ F! jpb  (f ob 09 0* xb s 3 ib  <1 Liber'tertiui edam (apfari( Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i  pluribus libris exprimuntur tamum enim ea parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t nt: uibus  V^^fe contra czliiniurias priuatisx difidisfedefenduntiHzcenim duoprx^  fiant ut duitas efle pofiit.Poft bzc uero ad iura & magilhatus fe conuertunt : ut  nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i cede bonefte^ e/Teualeant:  Quoniam autem ad magnificentiam & ad liberaliutem &ad uim propulfan^dam publicz opes in primis utiles funtipottus optimi/efiiciundi ratio habetur t  Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura non negligitunubi & corpora ad ualitudi  nem &robur exetceri:& animi publicis priuatifi^ negodis defatigatiihonefii/Ti*  mis ludis relaxati pofiint: Qua autem mente & quo confilio illos apibus com«  paraucrit : quzfo diligentius animaduertite t Si enim huius inferti naturam con  fideretis nihil illo aut induflria ac folertiaacuriusraut a/Tiduo labore indefe/Tius  (eperietis Ouccm in primis habent quem fequanturt cuius impenum nuquam  contemnannlabores inter fefumma zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C  opera fua fadunt & boftes arcent. Quicquid quzrituriid omne in comune qux  iituri Quz quidem omnia fi in rem pu.aliquam tranfferasiplatonicam ciuitate  cxmfiitues. Erat autem in media urbe templum lunoni facrumiut ofiendatur ni  bil oportere in re pub.antiquius religione eife • Et quoniam primx in uita cluili  przces funt/utimperium non folum conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab  re templum ipfum lunoniiqux imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare  longior fim:at<p etiam minutior/q tantz rei conueniat fi fingula quz in templo  depida erantiquz a regina adminiftrabantur : quz ab opificibus efiiciebanf idU  fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at Didonis orationecontinentur:plu«  ra in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in coiimdione hofpitalitacis deprz  hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis expnmituriQ^uoniam uero nouerat fapictif  fimus uatrs primordia rerum pub.& imperiorum uirtutibus niti: Veriiep effe Sa«  lufiianum illud fi imperia iifdem artibus retineientur/quibus acquirunturind ef  fe tot mutationes habituras res humanastiedreo primum regis reginzq; congref  fum ateligione/a bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita  paulatim in deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re pub.ad«  minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip labat ui«   bus omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz mentis a labore in libi«  dinem declinent.Q_^uotiiam autem uirtutes tn uiu fodali potius inchoatz q ab  Iblutz funtiHic autem ita de uita duili agituriut uelit exprimere quod paulo an  te dicebam fundameta rerum.p.qux ex paruis aefeunt/habere meliora initia / q  exitus; iccirco reginam a prindpio in omni re temperatam pofuit:paulo uero po  fiea amote infutgente paulatim ex temperantia in continentiam labitur: pofire»  mouida amore incontinens iu redditur:ut demum in fummam intemperaiui»  aminddat, Moueturautemaprindpio Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum in uita cotemplationi dedita intuemur:Sed iis qux humanis cm  tibus non folum bona uerum etiam fumma bona babentunC^uis enim in ge«  neris nobiliutemiquis formx dignitatemiat^ excellentiamrquis deni^ multo  ornatu infignetn orationem inter fumma non enumaetiCurn in foro/cum in fe  t lo P. Virg.M. Allego oituhzc BOB fapieBtum ftatcmfed populari trutina pondereBtarfX^uofliia  utro ta uica comuni pmulti hitcreii quibus cofulroribus utaris. Muiti cnitn aut  tnalo exrinplo motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui  n ad praua raoum^ snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici  fadam inducat. Mifere enim amis mulier plurimu iam de eo animi robore rt*  mittens: quod inteperata hadenus apparueratcontinctem in primis uabis qux  ad fotorem facit fefe oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem fed tameilli  reftftitiSororis autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif i Non enim ex philo  fophia fumptis argumctationibusifrd aut uoluptate ppoiitasaut ihcetu earu te*  rum quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc nec firma necfolidapror  pofita in fuam fentctiam adducere conaftut deniip fpem det dubiz meri: foluat  qi pudorem. Qua quidem re acciditi ut uidam in incotinentiam probbertt:ln  ea uero cum uerfaretunpaulatim impudica confuetudine eo redada eftsut nulla  amplius obflantr pudore furriuum amorem minime mediteturifed impudenUi  ma tffeda turpem libidinem honefto nomine appellet: In qbus omnibus quid  aliud teneat/quid conat' diuinius poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex  cmplar ^ponat/quatum detrimetum iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin  cipum mentes pro induftria ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua:  paulo ante extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu alloqueba  tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in hofpites/cofilium in urbis ex *dv  ficmone/iuftitia in fuos ad czlum ferebat ;qu* in publico nili aut diuiu* aut pu  blicz rei caufa cofpici nefariu facinus putabat. Cuius aius pudore munitus aboi  pturbatione liber pfcuerabatmuc eo furore agitat ut tota urbe ames uaget :aut li  domi fine amato fecorineat ucluti li fola fit/ar^ aboibusdeferta fummomaro*  letabefcat. Publica aut opa ita negligat/ut qu* badenus fua curatfuifip fupnbust  quz fuoyt ciuium labore ac (ludio fumma cum celeritate erigebant iniicimperfe  da interruptatp pendeat; Aeneas aut cuius cdfilium italiam fibi propofuerat/ue*  tum difficultate rerum defatigatus Canhaginem no ut illic fcdes ponereufed ut  claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris Didonis illedus fipofuum ^fiafcmdi  abiiat:Nec deefl I uno.Qu ne res tomanz oriantur/ Aenez Didonifi^ coniugi  um Carthagine facicdum curet. Verum cum id fine uenais opera pfia nonpop  (et: Venus aut filium non Carthagine uerfari:(ed in Italiam enauigare cupetihac  deam dolis aggtedif lunoiut quz Catthaginen fiom caula faceret: eaoia Aenez  beneficio fieri uiderent .Q_uz cum dicit Maro diuina pene lapientia uitam foa  alrmdepingitiinquacumita quidam excelfoanimoucrfenfiut humana cotem  nentes ex hoc primo uirtutum genere paulo pofl in eas uenturi fmtiquas purgatorias appellatiat^ inde ad illas tandem quz funt animi purgati puenire conten dantitn illecebris rerum terrenaru ita molliunt" lutczlefhum quas fibi folasppo  fuetant/peneobliuifcanf. Libido enim imperadi ENEA Didoni coniugete: id  aut eft uiru excellete regno przficere cupit:Sed rem pficere non ualct nifi alfeotv  atur eius amor: Amor autem aiaduertit huiuiccmodi coniudione no Aenez/ftd  Didoni cofuli /no enim animis hotum ad maiota natistfed ipfi impio condodt»  ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn ^ ficild/quam in adioni^ uciDwfcd    - Liber tertius   cetum sdtnitiiftratioa (apientibusii deferatur adum iit de rebus hutnatirs opor  trtifta quauis falia e(recogoofcat:quae libido regnandi perfuadet tjmen ailin  titur;iiuc iam illa inetitusllt ifiueeorum quibus confulendum cft mifaicordia  motus sCcldiratur autem huiufcemodi matamonium in venatione: de qua quid femiremptulo ante latis ut opinor uobisdiludde explicaui: Quodaute  in fpelunca loco fubtercaneo conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/  nifi cos qui honores/qui opes/qui imperia quzrunt intra corporeas caducafc^  tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem &lunonem;prxtet  nemorum bibitarrices nymphas uides numen nullum afiFuilTe: Q^uz omnia  iis quz de fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus igitur Didonis amo  K Aeneas abeundi propolitum abiidt:& hieme quam longa eft in fummo lu<»  zu conterere non pudet.Hoc uero quid libi aliud uult nili egregios quo<^ uiros  interdum a redo curfu ambitione aduerti:& honorum imperii^ uoluptate de«  linitos hiemis afperitatem& enauigandi in italiam dilhculcatcm exhoirefcerc»  Q^uapropter nili diuinitusfubuentum Iit excellentilfimzatc^ immortales bo^  mmumuirtutes tam pemiriofapefte pereunt; Id ingenii at<^ beneiiciiin Circe  fuilTe fcruntxut Vlyxis fodos in uana monllra tranlFormaret: Illam tamen ica in  luam potclhtem ttaduxifle Vlyxem audimusiut Forma priftina fociis fit relhtu*'  ta.Neccgoid admiratus fuerim.Excello enim animo qui funt corporeas Iibidi^  ties fadle contcnunt; Quin & cos qui illis dediti funt rede monendo a tanra fer  uitute in libertatem uendicant. At lu Donemfuperare ranOimi mortales potuco  tunt:Nam qui imperandi cupiditate non tangiturxeum omnem iam humanitas  tem ruperalfe &ad dioinitatem proxime accemfTe crediderim:Q_^uapropter ena  quos in fumma admiratione habemus: cos ita frangi huiufcemodi cupiditate ui  demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti umbram fedentut: Fadle  enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas delitiasacluxum cotenere:  At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum macedonemtautlulmcz*'  larem proponimus eorum res geftas:in quibus utrum a uero cedo^ difcedcre  fzpe uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud ex Euryde impium oma  nmo& dignum eo rege a quo profertur interdum approbare non dubitemus;  putem uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$ uiolet : Q_uz quide res una  mouit poctas/ut Herculem quem fapiente ferunt:&; rebus a fe przclanl Time ge  ftisczlumafile daircuoluntpriusomniamonllradomaire/qua lunouis fzuitu  amfuperal Telingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima nouerca magnord  uiioium rede dicitur* Non enim mortaliuroCut plzriq^ credunt } fed czleftiu  rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad fummum bonum peruenire licet:  (^uor^uide nili placata prius iunone id autem intelligjmus aid fedara ambi dooeallcqui no potuit HercuIes:Q_,uis igitur hoc Aenz non condonaueritxac  potius quis illius no comifercanli Dondu in italiaexillensxtis eoimeft fumaru  uirtutu habitus.fcd in ipfo curriculo ut illhuc^Edfcai:’' adhuc coftitutusiu luno  nis dolis apiat"' :uc matnmoniu cu Didone initu fedibus libi a fatis cocel&s ppch»  nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s fudaretac teda nouare iftituac t pur^  puea^ SC ento lapillis aon^umtquasqu impetti  Uignia funt gelbrc gaudeat:  In. P.Virg.M.AlIego*Non eft o LAVRENTI non inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red cmol damfacul»ti  «qua tamen condmo no Ora arduum-.tatntp «xcelfum tetum culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de reliqui* difpuututui uidaetut Mani^  hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio in iis qu* hai^u* dida effcni civ  fum^oitum ex multitudine eorum qux adhuc dicenda  quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in colligens non pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual. tudinem<jno (bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris: mibiomnid.ligentu«nfuJ endi^!^ difputatio longius ptoducaturi Atquiegoitidm. nqmtLAVK£NW^   idem cenfebaraifed ne tanti uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^  diebar prxfenim cu te o Manotte tuas partes fuo tepore  equide mquit MariottusiK fimul fua lolita feftiuitate BAPTISTAM manuap  prehendem/nos ad cellulas ubi menfx paratx erant reduxu. R URISrOPHORI L. FLORENTINI CAMALDVLENSIa vM niivTASvM  laVSTREMFEDERlCVM VRBINA-   jKSrJbER ^IaRIVS 1N.P. VIRGILIO MARONIS  allegorias incipit feliciter,   S Eruenerat iam fuperior libet Inclyte ac Inuii Si^me Fedence   in quotundaro hominum manus 1 qui cum dofli linti dry  aiffimi quocp & haberi 8£ dici uolunti Qui quidem quauis  'de Maronis Aeneide antehac longe aliter dC fenfiffent/8: pri*  'dicahenticouiai tamen ut puto iis argumentanonibus : qux  I nobis in probamio illius libri expofitx fuerantimulta in eo   F li rnnfcrinta elTe necate non audentiSed ea huiufcemodi el   fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa oratione difputauimus s fed a J   IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued defendere cupiunt probandum   fcriptoresqui paulo antenoararoxtatcm fueiut minime illiiteratosiqui non J L/indel Mos« acute & doaeinmpretati naturam tetum il is exponi conttn   los inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut multa in eam qua diA SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm   nlura deorum genera inueniffet s confulto ita fcnpfifle fl£  A Fmmffeuteademilla & aduitammottfip: 8 Caduimnaturas:Kad   wriuruoluputtm f eferantur.Verum cum confilium mettmij   tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper   ipfo hn«qu3nf.bie.ration. fcriptotpropomt:  ^um fipttahuj omnuiniiri ludingttut» ipfcqcquid narrat iqcqd tctninv 1 1 Ir £ I- 8- r K P B-t.-« . Libet   ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit quis non uideat ea quae ille ttadiutamdegett»   M damt& ad fununum bonum acquirendum (^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC'  B Cuquo naturz uim ezprimeret.Sed contra cum iugi:perpctua^ oratione ea pro (eqiutut m quibus & uitia damnet<& uirtutis pulchritudinem eztoIlat.& ad ue   I» riinuefligationem perducat/ nonnullaadiunxifTe&omandi & deledandi cao  Ia b qua: fint ab ipfa phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter fe t fed eoru   li quae dixi caula confaipfetit equis non uidet id fulcepti operis primum efle feu  ^ malis ultimum dicere > quod nos hefiemo fermone perpetuo quodam filo ita   ia intezuimusrut nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad idquodaptinci  Sh pio przpofituffi cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis quz antecmerunt/uebe  menta cobzTcnt:Q_uapropta quz ab iis quorum audoiitate nituntur/ad pby  fictnrclata funtminime damno. Nam quauisca ne multa fmtine^intafc  haaliud cz alio pendat > ut non potius membra quzdam diuulfaequam integrn  corpus uideantur t tamen non incommode traducuntur : ne<j fententiz nofoz  ccpognantiScd fac repugnare an plus apud me reda rado qua iliorum audori^  tas ualebitrprzferdmcumfi audoriute certandum fit eos proferte poifimus/  quorum fplendoteiiti uclud folis luce noduz hebetentur : Nam ut omicta eos  quos diligendilimus omnium grammadeorum Seruius fingulos libros in fiogu  los huius poctz locos commemorat: ut taceam quzaMacrobio exceliend inta  platonicos phiiofophotut nihil diam de iisquz&adiuo Hieronymo & a di.  uo Augufiino in hanc fententiam apud Maronem interpretantur : nonne e  noftris Oantbcm uirum omni dodnna excultum grauilTimum audorem faabe«  mus: qui eius idneris quo mundum omnem ab imis tartaris ad fuprzmum ufi^  czhimpcragcatiine olibiillum ducem fingit/in quofummum hominis bona  paquitens/miro quodam ingenio uniam Aeneida imitandam proponiciut cu  paua omnino inde excerpae uideatur: nunquam tamen (i diligentius infpicie  . mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio ea quz de medio ztatis tem   ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus ferisrquz de montis fublimiiam folis radiis il  uftntoconfa ipfit:binc omnia funt. Mitto caetera: quz ita abdita in Oantfais  poemate funt:ut non nili a paucis iifdem^  dodiffimis dcptzhendi pofiint.  przponit igitur libi ducem Maronem in u re quz ad fummum bonum.non au  tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis cunofum in eo fuilfe : quod paruo  omnino nodo confutari poterat. Quapropter ego inilitutum repetam.  Tu autem indyte atip inuidilTime Fedence ut cztera fuperiora fic Si ilh quz in  ultima quaru diei duputationc continentur/diligentillime leges . Multa enim  illic inuenies propta quz te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet fuifti fummo»  pae lactahacict^norcef^ ex deo confilium tuum fuilfe : quos a primis annia  bpientiz amore flagrans ita te bonarum artium fludiisaddiafti: ut quanto ta  dic tua ztas grauior fitttanto ardentius illis incumbastnam quod reliqui prin»  dpes apprime regium ducunt:ut aut multo odo uanifip ludis mircelcit:aut au  cupiis ucnarionibuf^ oe tempus tcrant:tu ne libero quide homine nili relaxan  dimtaduai aula dignu efle duxiflitred oportac eum qui aliis imperaturus fit  nWB omni dodrina excultu itddaaquq no fibi folatfed & iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu   mifll rantjK dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto maplo  limum prodifft po(Tit. Qui rigis munus clTe ducat non alieno labore ueluri fu   cus inter apes alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaiosabiniuriupro  hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere curcts  Hrc autem folaphilofophia nobis pracftat. A FILOSOFIA enim habrmuatui  pie uiuamus tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni fcelereabibneaniust  b uapropter uere iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a FILOSOFIA afleculum efle/  Ut ea beneuolens/ cumuolupute ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv  I gunrurtbonis enimCut piato ait)lex deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi   Igitur fludia teita exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod crimen fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi  finequibus nemoun quamiedeimperauit/omnesexcedas.Sed cartera omoa  quibus ex mortali humuculo te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit  to> Ptxcipuam autem in mnfaium ac philofophix cultores benignitate tacinii  prxterire nullo modo polTumtium animaduertam te ea in reiure omnibus prx  ferri poffe.Scimus in tata admiratione apud antiquos fuifle Ptolomxu philadel  phum ut ptxclariffimorum faiptorum laudibus etiam poft tot fiecula florentit  fima fama celebretur.Et profedo fingulatis fuit in eo rege iuftina mitabilifip cie  mentia.In te autem militarimec uirtus illi/nec fortuna unquam drfuinSed nb  bil in fuis omnibus aaionibusmagisextolliturtqua quod regnum fuM libera  liffimu oibus litteratis hofpitiu efle uoluerit . Tantu autem iis qui aliquid fcripfif  (ent debere putauittut Demetrio phalereo no folum philofopbo grauiflimotfed  oratori copiofilTimo negocium dcdentsut fibi ad quin^ faltem milia librorum  in fuam bibliothecam congerenda curaret. Q_ua quidem io re quos furoptus fe  cetitttunc optime conieiSati poterimustcum uidetimus quantu in fola mofaya  lege elaboraueriti ut illam interpretadam ac in grxeam linguam conuenendam  abhebrxisinterprctatetur. Primo enimoesiudzos quifuperionbusbelliscapti  in fuo regno fetuirent diligmter inudligandosiat tingulos uicrnis drachmu  redimendos/& in patriam incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus  adeo ingens fuinut foluta fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia. Dtf  inde legatos ad Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis mifit  Arifteaside quo paulo ante dixi & Andtea prxfcdumfuuiMifitptxterea men<  hm auteam/craterefej ac phialas donaria in hierofolymitano templo ponendi.  Mateiia uero hoium uaforum fuit auri quinquagintatargenti uetofeptuaginta  ulenuigemmatum autem atqj lapillotum quibus uafa omab dilUnctatp funt/  ad quinm milia adhibuit/qui omnes mira elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo accepta gratacp Eleazaro fuittut duos ac feptuaginu ftatim ad regem mi'  fent i non plxbeos illos quidem/fed ex principibus dodiflimis ita elrdos/ut ex  fingulis tribus fenos fumeret s qui legem dei in grxeam linguam Ptolotnxo  conuerterent. Q^uorfum igitur hxef Nempe ut intelligant qui diligennus  rem confiderauennt Magnificentiam tuam erga dodrinas noOra tempelb'  tt non minorem efle / quam oLm Ptolomxi fuerit s Hoc enim folis luce cla/   liua apparebit ; Si Imperium Imperio 1 Si Sumptus Sumptibus conferantur. Libtt guattui   nfeaumnonfdl amutiiuerrz xgyptiopulentiitiimum regnum poHidebat/un^  dcaurt argenti^ inaedibilisuis proue Diretired Tyriz quo^ ac phcnictz tnaxi^  mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem bnes nemo ignorat. Adde quod  quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at Europa prineipes habuit •  qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui hiftoricos benore opibufi^ bone  rent:ut & li fuo ingenito (hidio illa faceret magna tamen cx parte emulatione  quadam excitari uidereturme quos opibus uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo tix genere fuperaretur.Tua uero benignitas in ea tempora ineidir/ur nili ardeUi*  tilbmafittfacile czterorumprincipum auaritia extinguaturxQ^uaproptcr nulla  omnino eorum munerum quz in mulas con fers/gratia noftro fzculo eft bahim'  daxinquo neminem reperias ex iis qui nunc imperat:cu*us exemplo excitari pof»  lis.Sed quicqd estes autemres omnino przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3 innata humanitate cs.Nam ab aliorum moribus procul dircedens/unieum te  exemplar ofiFersrquem & ad fummam liberaliutem czteraf<^ omnes redas adid  aes/&ad ueri inueftigarionem reliqui fcquantur.lta enim uirtuiem adamas: ut  illam non glona dudus/fed eius amore alledus ampledaris.Euenit rame ut qud  admodum umbra corpus (emper fequitur: etiam li id corpus non quzrarxHc < ua  pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada non adumbrata quzdam & inanisiTed foli  da cxprclTa^ gloria fcquatutx Scd res polhilatxutiam ad noftriim heroa rrutrra^  murxin cuius adionibus tu mores tuos ac uitx inlliiutum facile recognofces. Co  ucneramus igitur eodem in loco bene mane quarta huius difputationis dic. AN  ^ cum miro deliderio BaptiHz fermonem expetere uultu gcftucp fignificarcm^  illexurquz explicaturus eilet iis quziamdida fuerant commodius annedrrrt:  buiuiinodi difputatiotii fux prindpium adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi  uiri qua piudmiia ac animi magnitudine omnibus iis fotdibusxqux a corpore^  ueniunt fc explicauerit zneasxNamne troiz periret: 8C corporeis uoluptanbus pe  nitusobruerctucmon dubitauit exui in altum ferri quis incertus quo fata ferret:  pod hzc thracenfes rapinas uc eas primum cognouit mira celeritate effugit. Ar«  ^ mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium coepir : deceptufi]^ Anchife interprz  tatione.Namquz a corpore funt facile corporea fequunuir.uitam duilem in  Oeta fibi propofuit * Sed nec piguit errore cognito uela uentis iam tertio dare .Delatu!^ mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus pugnauit. Nec  per medios hoftes ad Helenum enauigare foimidauit: Prztereoqua prudentia  qua animi przdantia iam ab hcleno dodior reddirus immanitatem cyciopu de<<  ciinauem : qua indudria ac celeritate fcyllz charibdif^ mondra euirauenr : quo  fiudio atramentis ardore defundo iam in licilta parente nauigationem in lra.< liam rufeeperit. Verum cum lunonis dolis :zoli<^ ac uentorumuiribus parcis  fc non pollet: celTicilIequidim conlilio ad ueri inucdigationemin aliud trm  pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam primum per tnaris id edap>  petitus tempellarem liceret : in Italiam tenderet Verum in ditione aduerlilTimz  dezconditutus : & amore Didonis delinitus/Vide quid pTolfit ambitio: quantu  ^ ad mentes maximorum etiam uirorum euertendas ual eat / regnandi i nquam  cupiditate dclmitus is qui reliquos iam perturbationes ac uirufupctauerant di<« In.P. Virg.M.Allego. uinil Tifflumcoafiliatnio Italiam enauigandiomiiTtttotum^rein eo dednatt  ut regnum carthaginmfium coSabiliret : perrcueraflctcp in errore ni(i acczpifb  a Mercurio non placere loui ur pulchram urbem uxorius extruat . Regni autem  & rerum Tuarum obliuifcatur : Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad fu«  am originem rcuertiuelitrQ^ux praecepta nobis dodrina quam litteratilTmKv  rum uirorum uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit . Rede igitur ar«  guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita adminifbatio  nem TuTcepeiit . Suiautem regni 8c totius contemplationis qua Tola mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut Ii tantarum rerum gloria ip  fum non mouet i Afcanio Taltem tuerediTuccefloricp Tuo conTulat < cui regnum  lulia; t ac romana tellus debetur: quo in loco quidnam aliud ATcanium intelligcmus nili futuram ztemami^ uitam: qua: huic breui Atmomentanea; Tuccedit.  Nam li dum intra bzccorpu Tculauer Tanturanimino lhitantisrerum terrenarii  illecebris demulcenturiut carleflium contemplationem de Terant/ memineriot 11 in futuram uitam uitiotum labe inquinati & nulla dodrina exculti migraaerint foce ut nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q uapropter regnabit Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre dmaudecur i futura enim uita  ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure gigni dicitur : ab eadem^ li  focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto bono denaudatur.   Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam  Hic domus xnez totis dominabitur oris.   Et nati natorum & qui nafcentur ab illo:  Q_uzquidem mandata cum acczpilTetzneas: quid mirum li uehementercom<  motus Iit : Erat enim in eo animus qui excclTa Temper TuTpiceret. Ita^ Te tandem  excitas cupit qptimum abire: & terras quamuis dulces relinquere. Alluetusenim  poteftatibus at^ imperio uirfi£ dulcedine captus non line dificultate diTcedit.  Sed cum ucrum bonum ab eo quod falTa opinione bonum putat" diTcetneteptv  tueritiillud tamen anteponit: Cum uero poli diuturnam conTuItationem inla«  lutata inTcia^ Didone diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam illum  diTcedete fi IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum abduce  re uolumus non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam illis uela in Ita  Itam facienda: Talia enim bzc Tunttut quanto blandius ea appellemus : quato^  familiarius Talutemus/tanto maiori contumacia aduerTcntur . Sentit tamen d(v  los regina :&iniquo animo fert uita ciuilis a uiro excellenti deTeritpradcrtitn li  non fit alius Tapiens/qui Icxro illius Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca  robolcmfuperciTe. Quamobrem ratio inferior quam mulierem appellari diximus huiuTcemodi argumentationibus uirum egregium in uita ciuili retinereitt  a speculandi propofito auertete nititur i Primum enim ita urget ut quzrat quo  modo eam deiicrete Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat enim ucbementer virum excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia non modo paran  tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed nec illud retinet non Tet'  uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim imperandi iam totum Te adminiHtarioni dederat zneasi Quio di Te moritiuam Tidc Teipture docet; Nccinub 1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi ns ilii ntoi iU IIlBl' lO* loli   niii jA«< Dlli   tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo gimttu to alito eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat necefle cft: Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare (Tgnifiantut labores ma^  jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus fubituri fumus.pofiremo in hoc uche><  mentet mlifiit/li reuotetetur ad Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t non tamen  illi efle concedendum: ut honores relinqueret t multo autem minus cum loca fi bi incognita petat t nondum enim nouerat Ipeculandi uitam. Dcmum ad c6mi< fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad memoriam  reducit . Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne domum labent em  dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora ingcniaicuia  parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum patM ne dcfci'  ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum uer^umfitineim  perium a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis auaritiaiaut larbc tyram*de in«  uadaf .Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius (apies qui (ibi fucceclat no telin  quaf sQuz quidem omnia cum rerum agedatum rado animis noSris obiidatr  non pollumus non uebemeto comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo  quttum generi humano debramus /grauifiimeadmonetiut humanitate eruere  uideamur/fi humani focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men  tem fola eficiqua boies fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis  pcaneptucfieimotusmanetiat obnixus curas fub corde prraut.habet aut quo|>  pofitu opnme tueri poiTittNon enim inficiaf bene ^meriti ciTe reginam. Quis  enim no uideat magna humanx hnbecillitad adiumeta ab hcK uitx genere fue*  nirc:(^um BC polliceffe illius recordaturu dum fpintus hos reget attus: Nam eu  derua abfoludflimu appellabimus:qui iu in fpecmadone dum uiuit uetfef : ut  uicifliW cum ccs poftulat agat.Etgo no fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu  ea no cotraxerat matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur:  illif{^ coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd  damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine  deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit fuperi^  ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem fentendam trilTa^  ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto qux ad plurimos uerfus  dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum amorem detefienf :at^  tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam mrpem/tam pctnitio.«  (am pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in platonis fympofio de  tutpi amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex quibus pauca qux a nobis  cum de Paride uerba fcdmus dida funt : memoria (i repeteris intelligeris umSu  mum effe Ptoperrianum illudi Durius in terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d*  autem magno pedore curas pcrCmfcrit xneas: fit tamen mens immota man ferit/  oftendic uirum qui deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in  quam Didonis illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore  urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus nobis  pcrfpicue oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a fapientibua deferanf. Non tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium furorem cxtrcmainij de*  f^aarionem huiulcemodi exde oilendi putemus. Aeneas igitur deorum admi}«  1 ti  In. P.Virg M. Allego»    nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis gubertia  tor negat ea tcpeftate Italiam pe Q poiTc.anenticur zneasiut in Sidliam in qua in  fula extindus parens nondum debitis exequi is oraatusiacebat/dcfledat. ^uo  in loco quid fibi palinurusuelitline ncgocioex iisquz de illo paulo fupra expt’  fi cogDolcerepotcttsicum enim huiufcemodi appetitus facile pturbationib^ob  tuar' inon modo a tedo cuifu auertic' :fed znea( haec aut excelleris uiri mens eft}  pctixpc infuam femetiam trahiteut ad patre» hanc autem imbecillitatem quama  corpore cotrahit aius iam ciTe diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de  fundum redeat»(i uero ad memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam diximux  non ab re cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima (it in lulia  nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut grauiffimas res j>ferat:fedil  Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum rerum comites  penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu adminiriobantut  abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct foluturus.luno uerocui^in  troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis diuturnitas explere poterat : qa quo  illosltaliz j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet' oblatam occafionem non   5 rztermittit:Cum enim feorfum a uiris imbecille mulierum genus deliderio ta<  em quiefcedi mcedius cofpicare^ pa irim illis ut naucs incedat pfuaden Q_uz  qdem (ic accipiteirerum terrenarum cupiditas no uiros/nam pars fupior rationis  non facile his rebus frangit':fed ipfam inferiotenr tonem a fupiori dUluudam p  fuadetiut rerum magnatum ^poficotcicdo tedium longioris nauigationisrefii  giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus inglorium odumlongccarius (iu  q honelius labor prijtiio ambiguz miferuminter amorem pizfenris tertz fatifq|  uocatia regni malignis mare oculis ifpiciut.Namcum ratio tnfmocquzafupe*  tiocipfuaU illam ad quxqj xgregij Tequit' nuceaabfente paularimfenfuumiiiei  cebris cncruac' idoncc tadtm uidi fc iliupi potefiati pmittat.Naucs igi^ mulieres  inwcn dioafrumei caduriunt. Hoccumdicicportauolutatcquz ad res magnas,  ferebatur incendiocupidiutum perire o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi Eumci  Ius piculum (fatim ad zn eam reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad mulierum cu  fiodiam telidusiNam huic parti inferioti metis acerrimus qdam cofeietiz remoc  fus/cui bonaceda^ cuiz fimp funt ftmp adcfiiHzcgtzce fynderelis didturuis  (.nobis ingenita qua animus Sc ad bonefta crigiturtK a turpibus tefugit»Hacau  lem nomen ipfum uii i ajpertc demondrat; enim boni cura facir   leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere temaduitutefcrt:Q_uo  nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas aduolat: ASCANIO autem  celer robuduli^ magno animo prxditus Aen»iiliuscft:quemiuceiatetptc  tari licet uigotem quendam ex ip(j mente natum: Hic autem nullo tenore pto  liibemr qum contra pericula pnmus feratur: Sequuntur reliqui t fed io primis  zncas: At mulieres uiris cogitis incoepti poenicet t A uiro enim feiunda muli*  er aduerfus appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus uiro coniungattirt  iam robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum demum acata iam cetatt/Sl a  lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen incendium facile tolli^a Nam  optusalunoaeappeunuiacop^cueut ut uoluntatcmsquae, nobis ad (uo»; tti «di  r S 5 1? S B jr 3 .te e Liber quarttu   inutn bonum euehit/omnino perdat: fir^ mifera in bomine diftradio t eu atio  ratio dutat:aIio appetitus rapiat i Q^uo in loco cum mms noRra fe tanto cer« tamini imparem cognofcattnititur illa quidem fuis uinbus/fed limul etiam di  uinum auxilium implorat id autem impetrare meretur. Nam qui ita deu prae  atur/utiaterimipfe quoad ualeat libi non delinis adeo minime derenc. Nam  quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis mulieribus auxilia deo«  cum pararitrededidumell. Non enim inerti ac delidi/ K qui in fummam rr^  tum defperationem prolapfus nihil contra pericula parat auxiliatur deus. At  qui magno aduetfus difih^ltatea animo infurgit:qui nihil inaufum: nihil in«  tentatumrelinquitiquincc periculis terreturmec laboribus torpelattis profo*  do fe dignum f^tcuius S dii d homines commirereantur. Q_uapropter fapi«  enter Aeneas ciun nec uires beroumtnec aquarum uis infufa prodelTrt: ad prx*  cesconucrtiturtauxilio impetratotcum iam quatuor naufsai Tumpraeeirentt  teliquz ab incendio feruantun Cum autem naurs ad totam turbam tranfuehen  dam deeflimt terat fenis nautz conliliumutimbeallior turba in Sicilia reiin'  quctctursutbfm illis habitanda conderctur:hoc confilium oraculum paternum  louis enim iulfu locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^ rcddidit:Q_ue  iocum nili uos aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad diuinarum rerum fpecuo  lationem fola mens omni uirtutum robore iam fuffulta acceditiReliquzenim  animi uires quz imbecilliores funt naues/illz enim fune uoluntas/quibus illuc  ucbantur incendio amifcrc: Q_uaproptcrreuocanda cR mens a frafibusihocau  tem confilium ab. eo uiroprohcifciturtcuimagi Rra Pallas fueritteR enim a fapi  entu dodus: Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto; Nam qui a ra«  bonetamfubadiruntfcnrus/facilein eius dicionem conccdunr/ przfemm lo>  ue iu iubencct conuertutur^ in rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa etiam fupeno  remlocumarcendensaf Ficiacurintellcdus: llleautem£(iprein altiorem gradu  cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum comutatur . Hmuic&>  modi igitur cofilio at^ oraculo utimrAenas.Non tamen prius e lidlia foluict  qua lacta pie tite faaatinorat enim qua laboriofitquiip periculis plena lic h\u  iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz molis erat romanam condere gentetSed  nec Venus quicqui interea remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia  drcufpiciat.ln primis autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa  amor quo ad fummum bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta  tur/ut appetitum m fua poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol  bcctuciNihii enim denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell  ptocula ratione/quod oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne«  ptuncu regnum marciquod quidem ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc  czii uitilia lada dum agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus . Supte«  ma ergo ratio appetitum intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide»,  re didmus/quia in appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca  dittquz in eo agitata diuinarum rerum amorem proaeat t uod autem oes prztcr unum Pahnuru incol umes in italiam peruenturos promittit i no ne cz  oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia erutu cR: Nam clalli in Italiam tendenti In. P.Vtrg.M.AIl(go. flurimeaductbtut appetitus /qiii a folofenAi profedustulul altum (iifpic^  Quapropter rquadiu claiG prxfuitinunquam ttaliam tangere potuerunt Tnv  unuSedundema Tomno opptcfTus mari cztinguitur.Nam poftquam rado  acarime ad contemplationem conuettitur:& caducorum curam reliquit: Nt<  hil ex iis qux fenTum petmuicere pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi»  tuspaulatimiapituctac fopmisezdnguitur: Cial Csautcmcnamline fuoguber  tutore tuta fcrtuc Neptuni promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos deueniretrlbi  autem fluitate ciuncarpiiTet Aeneas temonem capiens nauem in undis noAur«  nistezitiNam animus nofler cum iam fibiitaliam propofucrit fccurus fertur/  donec in uoluptatumfcopulos incidattTuncetum temonem capiat oportet ap  pedtus tationalis Tquiaduerfantibus uoluptatibuscaiitra obflfism Eztmdoigw  cur Palinuro Aeneas tandem poli diuturnos enores euboids allabitur oris .In iuliam enim ucntumcll ad quam gubernatore Palinuro nunquam perueiuflet  1 ingrefli funt Jn quo non idem curnit quod in cartbagine    Aeneasslam portum ingrefli funt :In quo non idem curnit quod in cartbagine  a portu euenifleoflcndit poeta. Ulic enimnaues'ficli procul a rabiat fluduum in  tranquillo efle uideremurmulla tamc nant anchora alligatx. Quapropter qua  quam non omnino ucxabantuRin aliquo tamen erant motu.1^ autem anebo  ra fundabat naucs: quo oflenditur eas ueluti fundamento nhex lint flabiles hx«  rcrcoportere.Summum enim illud bonum:quod in negociola & duiliuita a  philoiophis ponitur: 8t flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu  nx procellis uirtutum benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la«  bcfadan poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU  timum propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di  tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um con<<  tradumiu:utaptopoiitauitanonfit difcefliirus Aeneas/non tame earum uit  tutumtquxfuntanimiiampurgatit Namnihil fibi diffidle iam proponeretur/  fed earum quas dicunt purgatorias.Q^uod quidem propolitum iam conflabis  litum fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor rd aggrediendx.  Q^uam quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus emicat ardens Lic  tus in befpcrium: Manus enim indicat omnes animi uires cocurreretqux e me«  dio iam fublato Palinuro fefe menti ultro fubieceranti quod autem ardens fit  concurfus uehemcntiamindicatiNe^ ab te efl quod fit manus iuucnum.Ofle  dit enim animi bene affedi uires nnllo fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet unquam aflid:Q_uapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^  dati non potefl tamen non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo  luptatem fenfus: fed incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi  nafiamis ObfttuIainuenisfilicupatsdela feratu Teda rapit filuasinucta^ flu  mina moftratiinferiorcs igitur animi uires bxcagut. ENEA aut quo nobis m&  exprimit" i Arces quibus altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feaeta fybil»  kc: Antru imane petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit t Na qui aliquid figurarum inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per excelfu  loca aprimBt. yadc illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et illud = b Sj K n n  i»  la Ap OL ttl d bt ttn  lut % dt.QURI bii  iO  ni£ fid «w  Ots sed| iae N «I K Liber quartus   Nam cum in ui^tum in contemplatione pofitarum finis uerum fit/ quo fapi^ Clite efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi mopolicumeflediiitNa  ut nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator fol ueriratcm fignificat: Cuius exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab ignorarione rerum ad ue-  ri cognitionem progrefiiim ponit fe ez node filua<]^egreflum montem cuius iu  ga foleilluilrata fint/afcendere reflatur. Addit pratterea antrum ibi efle Sybii«  be magnam cui mentem animum^ Delius infpitac uates aperitrp futura. (^u£  quidem locum ut diluddius-ezpritnamus pauca prius de Sybilla percurr^mt  mox ad rem de qua agitur redibo. Conflat igimt Sybillasapud grzcoseas mu»  iieres urxitati folitas t qtiz furore diuinb afflatz futura praedicerent t Eft autem  Sybilla quafi id enim efl dei fentennatquoniam dei conlilium fitn   tuitura & enim aeoles deum dicunt : quem reliqui graeci nomnantt Quanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiaem apud Ociphos bocno  mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz linn  faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego omnes fi  quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non grauarenSed ut ui>  ^.nihil ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis fuerit uidifle Sybil  lam facile rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc autem nobis ca qux  Apollini nota fumifine mendacio przdicitt Nam fapientiam uericatcmtp ape»  m.quodueto antium ponitiexprimic ucritatem m obfcuto latete . Nrtpreme»  tetriuiz lucos Apollini templo adiungit: luna enim corpulenta uebementei  cflifiC reliquis lyderibus inferior . Q_uapropca rerum humanarum quz diuinis  longe inferiores funt/figuram iutc habdne : 1 lia enim lucis przpouitur: res au»  tcmhumanzin fylua obrutzfunt: non enim corpore carent:& utiuna afoie  lumen recipit t ita Si ipfz quiequid habent a diuinis habent . Collige ergo cu  lapientia non modo diuiturumterum/fcd etiam humanarum faentialit re»  de Apollinis templo Dianz lucum adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua macenanotat.Templum laoius zdiheium deo (aaumiin quo  res fdlasdiuinasagimustab reliquis abftinemus t quoniam cum illud mgrcdi»  muria negoaisceflamustfiC foli contemplationi incumbimus.Trmplum aute  a Ozdalo conditum ponit t Q^uid igitui aliud efl zdilicare templum Apollini  nifi reddere fe idoneum ad fapientiam capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^  fadmusicum ab omni corporea labe purum animum ad contemplanda diuina  tranfferimus.hocautem Ozdalusuiromnibus optimisaitibusinflrudus fa»  cuepotefliin quo tantum ingenium fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus dzdala  a poetis tunc maxime dicatuticum maximum ingenium oflendercuolunt.Ve»  tutantem non mariinontetrainec ad meridiem infimam nobis mudi panemt  fcd per fublimem acrem ad reptetrionemiNibil enim humileinihil terrenum fit  in camente/quz ad fpecuUtionem fertur I fed ad fublimia czlefliai]p engaturt  Efl autem primus fpeculandi ingteiTus a uitiis. primam enim cogniuonem  efie oportet circa mali naturam /ut ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi ex»  piati a uitiis fuerimus i nunquam diuina attingemus t Vt enim idem fiepu  ut icfctam/ negat Dauid quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi    Ia.P.Virg-M.AlIfgo.   cum qui fit innoces ihanibus 8C mudo corde:(^uapp in foribus per qmt etat  in templum aditus homicidiu Androgei: Adulterium Pafipbzs& Icari faftus  i|>onic .Hzc ergo a principio fpeculatur Aeneas.In uitiorutn autem cognitione  'non cft diutius imoradu.Nam Si (latim ea noile oportet: & ftatim a noris dilco  dere.Rede igitur^ fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef Acne  asine in tali fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores quoep uiri uad  is uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC Ihidio eam elTent adrpd  dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitae ac temporis:quod humanz ra  dcoDccfrum eft non nili magnis & excellis rebus conterendii ducamus.Hocau  tem inter egregiu uiru ac ftuliumintere&.Nam alter li femel labatur/non facile  furiet Altet liquonia corpore uac animuspauluquandotpeuia deflexerit/  flattm adeft ab Achate accerlita fjbillatquzad redudeducattledmira profedo  poetz ingeniu:qui fapientiamipGm Tua fapientia nos edocettprima ita<^ dodri  na ea efl ut purgati mundicp templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis  mens nollra quzdam Tua SC a fummo deo fibi indiU ui cognofeere poflit:eogai  tionem tamen diuinarum retum huiufcemodi eflexut nili diuino lumine extu  .tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non uidetprz  cibus & ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem feptem hoftiastquonii  Teptenarium numerum multi pnilofophorum perfediflimum putauenmttpro  ptereatp fapientiz attribuitur:8t uirgo ac pallas appellatur: Sacrificat igitur fepte  qmrapientiioptat: Ne(p temere didum efl quo late ducut aditus cctu:hoftiace  tum:per aditas enim multiplicem uariamt^ dodrinam expim!t:quaad fapien  riam ducamuriHoQiiueroquz quidem uenientibus:refe opponunt non pat  uam in re difficultatem oflenduntiHateautem non ante patebut : quam id prz  dbus ab imo pedore fufls impetrauerimus.Sumo enim animi ardore & mente  illi penitus deuota fapientia acquiritur: Vt aute Gpientiam aflequamuri promit  tit le templu Pbcebo & Dianz fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc ue  to quare illud de folido mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus expediam:  marmor res dura ell:ac mirus in eo 6i candor & fplrndor apparet: Vnde ab eo  quod gratei fplendere dicunt nomen fumpflt:   C^uz omnia in ea mente/quz ad Ipcculationem erigitur infint nrcefle eft:Brit  cn m folida ut quemadmodum inunis fludibus fua duririz ita obfllHt feopu^  lusutipfe integer maneat/illi ucto illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens nui  lis perturbation bus frangaturifed illas frangat: dicimus przterea aliquid ez fo  lido marmore clTe.cumnon marmoreis cruftis externe exornatum fit ; fed tota  cx tnaimore conftet.O uapropter 8i buiurcemodi mentem efle oportetiut no  figna quzdam quibumpientiam exoptet przfeTat:rcd tota exardefcensilli fetn  per incumbanErit itidem fummo candore nitens: ut nulla fit corporea labe  polluta.Q_uo enim padofplendore carere poflit ea meos cum fapimtiam na  qua perceptura fit:nifi prius multis dodrinis illuflrec%Teplu uero Pbcebo Dia  nzip ponir:qa^ut mo diceba ^ & diuinayt & buanape reru cognitio cft rapictia Dies aut fcftosfoli Apollini illituit:qauenis cultus foKs diuinis debctur.polfi  ctt & S jbilJz penetndia: in qbus fuz fortes 8C arcana codanf : Na nifi alta totte I^bct giMrtus. rcpofita maneant ea qax per dodnnam acquirimus 'ueluti rianai puelfa; alHduo  labonbimus:ne<p unquam pcrforarum uas adimplere uaI(bimus:Q_uapr(v  pter 6C uiri ledi fortibus przponendi funt t Nam excellentes funt uires animi ad  bbendx : quibusiqux didicerimus optime mandentur : Curadum autem in pri  Inis ne refponla frondibus (dipta tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim  JibcUisfiCcommcnUrioIi SCT edmdafuntquzaddircimus: fed menti: Ne^ ruro (iuleuium flultilium^ rerum eQ quaerenda dodrina ueluti qui in dialedicorum  fuperfluis apdunculis/ac uanis amphibologiis/autlnanibus fabellis omne pen e  tempusterunt: Vereautem illud didumeftfybillam circa principiuih nondum  pbcebi padentem eflie : Ea enim principium nondum pheebi patientem effe: Ea  enim quz cognitu difficillima funt/fuidpete non ualent noftra ingeniola donec  Apollonis enim eff neritas nos componat : ea enim inffrudis omnia Facilia redo  •duntut : Sed audi quid dicat Ijbilla . O tandem magnis pelagi defunde periclis:  Sed toris grauiora manent : Nihil grauius nihil uerius: Qui enim omiffa ciuili  uitaad eam peruenitiquz in contemplandis rebuspolitaeffiille relido pelago^  io contipentem fefe recepit : Vita enim quz in adionibus uerfatur: fluduati ma  ti fimiliima eff : Videmus enim omnia quz in ea aguntur : fottunz procellis ezo  polita effe : Contemplatio autem cum ad ea uertatup : quz eodem femper fe mo  do habent: ne^ in intoitum cadunt in folido hzret: Magnis itacp pelagi pericuo  lisiadatus eft zneas prius quam longis erroribus circumadus diuerfa horrendao  ^ maris monffra uitare potuerit: Diffeile enim fuit ut troianum incendium ino  columis ruaderet : laborioTum ut audelitate atep auaritia deterritus e tbracia abi  ret : In commodum ut ambiguitate oraculi deceptus in trinacenfem pedem incio  deret . Q_uisautem barpyarum foedam illuuiem non abhomineturrQ_uamuis  iter ad Helenum per medios hofies non formidet . Q_uh cyclopum immanitao  tenonconffematurrMariaautemlicula ita caute obire: utneue Ttyllam neue  •baiybdim conrpidati^^ tempeftati a lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne nau  &agium faciat non hominis fed herois eff . prztereo quz in fodis in africano Kt«  tore paffus eff : quas ilh fraudes luno parauerit : quo amoris uinculo Dido illiga  •erit : prztereo quz in Sidlia ex incendio nauium damna acczperit: uz om«   nia gtauia ac tunc periculis plena cum perpeffus fuerit: quo nammodoin Italia  duriora paffurus eff : Non tamen procul a uero aberat fybilla : Cum enim a com  muniuitaac hominum coetu te in folitudinem ucndicaueris : tunc acriores quaf  dam uduti faces carum rcrum/quas rcliquiffi memoria admouet : & illarum de  Gdepo acenimi infurgunt morius : At^ cum obliuioni iam eam mandaffe puta  tnus : tum maxime illuum ingeminant curz : rurfufip refurgens fzuit amor':ut  nili firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur in Afncamrenaaigaturuve  Non enim 6C li firmum fit propofitum minime inde difccderc: tamen ceffat ccr«  tamen cum aliud illecebrzolimadzuitz aliud przfens confiliumfuadeat. Ve»  tutin Italiam Aeneas:uenim eo uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur a  quibus antea quam penitus expiau fit mens necefle eff ut acerrimum beliu quc«  adsetidum nofftt aiunt fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam quanto magis hzc  l^ta humanam imbedllitatem funt: tantnniainri pcriculoaggtcdimUC.Hu<i   tn la. P.Virg. M^Ahcg Of   inaHani enim rodctitemcum deferimus/aut in ferinam lutam per tninian U  atram bilem degeneramuc/aut heroico robore fupra hominem erigiimjt. Qua propter intenogatus quidam qui in littore folusuagabaturquicum loquerctot  rcrpondi(Tet<p mecuni loquor* Atqui uide inquit ille ut cum bono homine 1»  quaris/& rede quidem t Non enhn facile SCIPIONE inueniaaqui nunquam mi  nus folua elTet quam cum folui • propter huiufccraodi igitur difficultates ah Sj>  bilJa fore/ut cum in Italiam uenerint dardanida;/ii enim uiri tegregii funt / nolA  uenilTc. Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK lunonemaquV  bus non mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in lunone ita ia bello  cofo uiro etprimitur quemadmodum troia; & uoluptati aduerfabatui i fic & fpc  culationi quam fibi przfcrri egre patitur aduerfabitur : Eft autem ex dea natui  achillcs / quia diuiiu qux damgenerolitas in animis noftnsiolita eft t qiuenctni  ni parere i omnibus autem imperare uclit > Hzc ft reda ratione excolatur/ueram  fortitudinem parit i lin autem contra rationem elata omnia in fuam libidinem  coouertere tenet/ambitionein creat t & regnandi cupiditatem t Q^uaproptet tt  ft uehementer degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui origiuem du.itsNd  autem eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum ftcaufain tantorum  malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris eatdnz: lic ft  in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t coniungitur cztemz  mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis deledatur . Q^uapio*  pter uoluptas paridis troiam euertit . In Italia uero cum nondum cupidiutem tc  rum humanarum deponere ualeat animus bella excitantur afpcta illa quidem /  fed non in quibus ueluti apud troiam ruocumbatt fed unde uidor triumphafiy  parto regno redeat . Accommodate ut mihi uidentur omnia hzc inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt non intelligo.NI  (i eum qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam propolito ce oportet cur  illum peenitentia fequatur non uideo t Non enim infiaot uirum etiam grauem  in huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe morfu affici : non tamen ita magnoaf  fici puto ut ad pmnitentiam redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa per  quandam hipctbolcm t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici confueuere  ut ex iis unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed fumma diC>  ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA : uerum uidramus qd  rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot femper obfer^  uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum animo omnia euoi  uerit . uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium przbenr/ut antea qui   ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne tantum Izdant prouideri : Cum animus  ipfefuasuires colligens tobuftioraduerfus difficuitates reddatur: Nam queme  admodum ii boftes incautos ac nihil tale metuentes inuadamus quamuis 81 Itv  co & numero auperiores flnt facile illos fuperamus. Contra uero uel exiguz eo*  piz ii fpatium ad ea paranda affit: quz prziio conducant lulidii Timo ezcrcitiB  pares fzpe inueniunturific & nos finobifcum cogitauerimus/ quamuis multa  per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos tamen czleM femine oetoa  atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus t nullis difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d Pf Liber quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in originem fuam  redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus . Ha»; fecum cu iam  diumcditatus effetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum in limine  contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in loco quid G*  bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i Si pnus quid infer  bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter demonfhaueto : Infemiim  igitur plurimis ante chriQianum nomen fzculis no folumhebrziuerum etiam  cgyptii pofuerunt . Q_uz autem poft chtiftum natu noftra religio fine ulla dubitatione de inferis de^ peenis t quas apud inferos nocentutn animz luunt / af>  firmat ea omnia ab hebrzis ni fallor accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu  mentis mandata funt ea primus ad grzcos tranftulit Orpheus . Hzc deinde fu«  is figmentis auxerut plaui^ ez grzcorum poetis / quorum principes Homerum  H^odumtEurypidem t Arifiophanemm e(Tc uidemus . Q_uos deinde fecuti e  nofirisfuntptzter Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa»  piniusacLucanus : &quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii omnes inferomm ledes fubterraneas elTe & ad cctrum ufip : qui locus in fpe  ta infimus efi portendi aedidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx  hiatus przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu  liercularum ac rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt . Nam & in laconica re<  gionc Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius profundiifimo  antro quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile fuit uulgo petfuadere  inde ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in epiro no procul ab beraclea  abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per quam cerberum tricipitem  Plutonis canem ab Hercule edudum crediderit antiquitas : Nam de auemo lz>  cu nihil efi quod referam: uulgataenimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe  tishadmus . Plato uero eadem difciplina : qua & Orpheus imbutus ita fingula  ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam cor»  pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur . Ipfe em'm animos a fummo deo ae*  atos ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum conuer  tuntur. Nec mirum . Nihil enim eft quod in originem luam cum pollit non re  uetutur. Videmus enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem huc^ut ita loquar^  tenenum/quia fuperiotis ui ac femine genitus efl fuz naturz impulfu ad fuperi  ora erigi . Conuerfi autem in deum animi eius radiis ita illuflrantur ut ubi hade  nus eorum efientia per fe ueluti informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' :  fit 9 miro quodam modo ut intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^  terna quzclam Si aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob  foinor quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac nattis  talis efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz infra fe ezi  ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum uero Si aav>  ra quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim fi iamconnamra«  le fibi fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo continget : I d tamen men  ti noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti fcintillam deo propinquior fz>  da aliud accipit lumen & clarius quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii ~  f  l Ia. P. Virg.M. Allego.   nim remm cognitionem accipiat . Sed hxc te LAVRENTI latere mmitne puto:  Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd omnino dilucide a Marfilio noftro  in iis dialogis explicata : quos ille in Platonis rympolium confaiptos fub tuo no  mine zdidit : Q^uos quidem cum quia ad te funt t tum maxime quoniam pluri  mis acfeledilTimis rebus abundant familiariflimosribi elTe cupio t Sunt illi quidem inquit Verum przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin  quo geminum in nobis lumen elucere demofttat : naturale unum & ingenitum  ut dicebas : diuinum alterum & infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu  ti geminis fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic tctrz locus animante in quo ratio fit canturus uideatur.Q_uod nefiat  efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p  pro fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero (bIo:propte  rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s uirefi^ fuas : quz ad  fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad przfensomiflblolum confide.'  tet : illafcp in corpore conflruendo exercere cupiat . Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in czio ut Platoni quem poeta fequitur/placere ui.<  demus animus noder ipfius diuinz naturz contemplatione pcifiuens : Verum il  la quam dicebas cupiditate infedus & ipQi cogitationis mole degrauatus in infe»  ra defeendere indpit .Verum quoniam cum de inferni finibus ex fententia Plato  nisquzritur non fimpicx apud eius philofophi fedatores opinio cdtnoscam  boc tempote fequemur :quam & animorum rationi magis congruam putamust  & dodiotibus magis placere cernimus . Hi igitur bipartitum mundum ponunt.  Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur dellis^ut cd apud poeta^ardetibus aptum fuperorum regionem ede uolu erunt :eofq) campos elyfios ac beato  Tum infulas nominarunt : Saturni uero fpera ac fex reliquz quz fub illa funtrrut  fufep quicquid fpatii inter lunam terramc^interiacetripfami^ tenam inferis at^  tribuerunt : Altiffima igitur pars illa qua uel fubdentatur diuina uel condant/ne  dar uocatur i di deorum potus ede ctedimr . Inferiorem uero Icthzum/ac horni  num pomm dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per cancrum ea enim ho  minum porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles quz elcmctorum ma^  terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus ebrietate degrauata& ueluri  temulenta effedadiuinorum obliuifcitur : terrenatum^ rerum cupiditate ilie«  da ita per fubiedas fperas dclabitur : ut ex lingulis czlotum ordinibus aliquem  cotum motuumtquibusufuradeincepsfitin corporibus acquirat:Nam ab ea  quam faturniamdellam nominant ratioanandi& intelligendia loue agendi a  marte audendi uim abducit : fol uero ut fciat ut etiam opinetur illi cocedittMox  a Venere excepta defiderii motum mutuatur : Inde per mercurii ac lunz czlos de  fcendens ab illo pronunciandi interpretandii^ ab hac plantandi & augendi uires  acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad centrumtquo gtauia omnia feruntur  delata:6C corpus quafi carcerem uel potius fepulchmm ingreda iurc apud inferos  relegata didtur: Moritur enim in corpore anima uelut in fepulchto demerfar  non ita tamen t ut fauiufccmodi morte extinguatur : licd ut ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo quidem illius diuinitarem noxia corpora tardatititertenishcbetaat  artus moribunda^ metnbra.-habes^fed breuiter^quid Platonidinf^um pu  tcnt:& quem animatum ad ipfum defcenfum ponant» Nam^ de tartaris fabii^  lanturpoetzea omnia animam in corpore pati manifeftum eft . In materiam  enim protrada nouam fyluz ebrietatem haurit cum illam ueluti flumine dema  gaturtFIumen autem ipfum non line exadarationeinquatuor flumina ac flj  giam paludem deducunt. Lethzu achaonta ftygem cocytum ac phegechotu>  tenitMateriz enim admixta anima eunda quz in czlis uidaat obliuifcitur. Quaproptaiure lethzum nomen ab eo quod elt.  ficenimobbuifei grzd dicunt potare finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma«  nat: quzrcs gaudii priuationem denotat: quafi Nam   quod in dd contemplatione purus exiflens animus gaudium aedpiebattidom  ne ex obliuione amitdttquo quidem amiflbt flyx quamfadletriflitiam intere  pretaberis exonaturneccite efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.<  dunb Quis enim ex triftitia in ludum non cadat: te autem non fugit id grz  cos dicere: quod latini lugae interpretantur. Ex diu tumo autem ludu in furoris infaniz^ ardorem inddere roIemustquemphe. gethontem nominant. Ex hyle igitur unico flumine mala hzcomnja eueniV  unt: Quapropternon fine fummadodrina ex letham reliqua fluenta deriua  ci finxeruntrfed hzc in Phzdone a Soaate latius explicantur : N obis autem de  multis puea ad bunclocumtranffnenda fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen  fus ad inferos ex Platonis fententia perfpicuus redderetur: Noflri autem qui  ita a deo animas aeari redifljme fentiunt: ut eodem momento & creentur fi;  fuis corporibus infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut:  ut commifla purgarent: Quid enim fi ante corpus non fuerant : extra corpus  peccare potuaunnfedutfuisrcdis adionibus: quas omnino liberas habent cz«  Io aliquando frui mererentur . Conceflit enim nobis deus : ut noflro arbitrio Ii'  bere utaemur:non ut per nequitiam delinqueremus: fed ut per religionem  fi; iuflitiam nobis fummum bonum acquireremus: Verum cum perfummam  fiultiriam illud negligcntes corporeis tetrife^ uoluptatibus dciiniti maximis ua  nilc fceleribus coinquinemur oportuit efle locum ubi a corpore digreflx buiuf  cemodi animz fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo  cum arca terrz centru maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus ani  ma mea de iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe triduo in  corde terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru eflctNihilenim eflcctro  infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut in medio animante cor efle uide  musiQ_ua in parte fi; tenebras exteriores/quonia a luce remotiflimz fint:fi; de  tiu flridorc quonia nulla folis uis illuc defeendat efle nemo negauerit.Erit igitur  in terrz cerro infernus:fed ita erit ut etia ex iis quz fapietiflime a Gregorio colli  gunc ad aere uflp huc ex terrz fi; aquz caligine cralTioreptcdat^.Acrp deiferno  hadenus ad illu aut aias defcedere oe fere hominu genus dixit. Sed tn aliud alii  fentiut.Na przdpitatio illaaioru afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de  fccofuscdea Platone acdicuitCbriflianiuaofczleflo^ animasc fuiscoipotL In.P.Vtrg.M. Allego. busad inferos trahi admonent. Dicimus itidem uiuentes homines cuminid  tialabuntur/ad inferos rueret Sunt quoc^ qui credant magicis artibus 6: cat minibus fieri uelutidefcenfus quidam/ut inde euocarianimx poflint. Verum  praeter bos quatuordefccfusqnrus quicftnonuideir omittendus: Na £( ad in«  feros tendimus/cum lumen rationis noftrx ac induihiam in mali ac omnium  oitiorum naturam fpeculandamdeiidmus. Ego igitur libenter de te feifeitoro  Laurenti cum haec omnia perceperis quid putes hoc Aenezdetcenfu Virgilu  um exprimere uoIuifleTlamdudum quid agas uideo o Baprifta inquit Laurcntius/ac pro eo maximas tibi gratias habeo: Quis enim non uideatuni.  Uetfamhanc difpuutionem nonfolum meisptzabusdatam/uerum etiam a  me fratremij meum erudiendum elaboratam : 'Nam fiCli caeteri t qui afTunt  omnes mirifice tua otatione deledcnturt tamen eft eorum ztas ac dodrina  huiufcemodi t ut etiam fine duceipfi per fe hzc omnia cognofeere ualeant.  Hos igitur duos erudiendos cum fuiceperis : propterea^ rede netan fecus  quz hadenus difputafii teneamus / nofie cupias fine ulla cundationequaxd. rogaueris / cerpondebo: fic enim & errata facile emendare poteris : 8i fiqd  rede teneo id tuoiudicio confirmatum firmius hzrebit. Petit igitur afybilla  quam tu iam dodrinam interprztatus es/ut ad inferos K ad parentem dedo.>  cat: Q_uod cum petit oftendit mentem przmonfitante ipfa dodtina in fem  fualitatem defcendece . Vult enim nitia quz ab ea funt penitus cognofeere: fed  uide quantum tibi ex hac difputatione debeam : nam non folum effeciftt ut  hzc a Marone diuinitusdida tenerem: fed fimilitudine rerum admonitus ia  quidfibi nofierquoi^ Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de hoc alias: Tu  ueto fi placet ad reliqua perge: Rede tu quidem inquit Baptifiainterprztaris; Me autem tuum ifiud ingenium ac iudicium fummopere deledant: Verum  audiquidilli auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum ad infetosnul'.  lius negocii eiTc demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua pateat : Q^uod pro  fedo nimis etiam q utilem uerum efi: Naracum procliues ut fenexquo<^Te  rentianus conquzritur a labore ad libidinem fimus / facile in uitium labimur.  RcdilTime^ illud ab Hefiodo Redifiime quo^ 6i   illud uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue delinquendo in uitia labimur   ? [uoniam id per llultitiam fit: llultitia autem rariflimi carent; quid obfccrote  acilius inuenies : fiue:fed t^iquos defcenfus nunc mifibs facio : quorum pro  cliuitas pcrfpicue apparet : Id autem de quo nunc agitur : quis non uidet .  Mentem ipfam ac rationem facile in cognitionem fcnfuum dcfcendcre.Ma  ximum autem fit periculum ne dum cicca lingulas corporis uoluptates uer.>  famur / ita illarum illecebris demulceamur / ut irretiti hzreamus : Facile igi.>  tur fenfus defeendit mens / non autem facile a fenfibus rcuocatur.Id enim  eftab inferis redite: pauci enim quos zquus amauit lupiter: aut ardens  euexitad ztheca uirtus diis geniti pomere : Tria ut uides hominum gene<a  ra ponit quibus liceat ad fuperos reuerti: Sed nos prius de duobus pofirei>  mis dicemus : cenfet Plato quod paulo fupta explicatiur demonfirauimus  animos nofitos rerum terrenarum cupiditate degrauatos incorpora dcfixt>  Liber giiaituf   Jcre : (Quapropter qui prius imbroda nedare<p ueTccbantunid enim eft deo  'fiuebantur t atqi inde mirum gaudium Tumebat t nunc letheum rpoti in re»  lum omnium obliuione mnli Tunt.CQuod (i intra corpus conftitutus ani^  musillius cogitatione ac fordibus inquineturttamdeoiis tenebris obducitur/  utnulla deinceps fpes (it ad Tuperiorem lucem redeundi: Sin autem TcipTuni  infccoIKgms integre cafte^ degat: 6ecorporis quoad potedeonfotrium de*  clinet ipauladmcz illa obliuione qua ueluti crapubuino(p opprtlTus obdor»  tniTccbat Teexatansualet libi geminas illas quas iam totiens nomino alascom  patate. Illis autem fuffultus facile ex inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii re  gionemfuam reuolattper duas igitur alas totidem uittutum genera intclligi  mus /& eas quz uitx adiones emendant: quas uno nomine iuftitiam nun»  cupatt&eas quibus in ueri cognitionem ducimur: quas iure optimo religio»  nem nominat. Illud igitur pauci quos ardens cuexit ad aethera uinus:alam  primam exprimit : & uittutes qux de uita & motibus Tunt intelligit: cumde  indeaddit diis geniti potuere SIGNIFICAT alam secundam :at<pipfam rrligionem  quamexuirtutious iisquxad uerum ducunt conftare uul: Placo : Hxc itaip  auntopbilofopho mutuatur Maro cuius quidem dodrinx non nihil ex ma»  thematicorum fcntentia ita addidit : ut nei^ ius Tuum ac libertatem animis adi  merctmeip cxleftia corpora fuaui priuaret:Nam li animis nolitis uimnecef»  Utatcmqi f/dera afferre dicamus/non modo id in religione noflra impium eiitr  fed 6t a Tummorum FILOSOFI dodrina abhorrens : Verum ut intelli»  gas ntip hoc a Platonico dogmate alienum elfe / refert ille in Thimxo ratio»  naiis animi effedionem nulli nili deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac  ^ rationem animorum noftrorumcreat.Corpus autem ac exteras animi par»  tcstuteaeffqux concupifeit flC qux irafdCur nos ab animo mundi mutuarie  Q_uapco{aer St li mens ipTa nolha nullo fyderum imperio fubieda Iit : tamen  quia nullam adionrm ex iis unde uirtutes uitiam manant nili per fenTus ac ap»  petitum exercet: Illis autem quoniam a corpore funt uacias aut ad uirtutes affe»  dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera /permulti interelTe uidet ur quo  fydere nati fimus:Nr<^ folum ad bxcqux ad uicam & mores pertinere diximusr  ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri cognition cm refpiciunn Nam li on»  nes omnium animi eadem natura funtiunde nili a corpore eritrquod alii inge»  nioiudicio ac memoria excellentilTimir xillanttln aliis hxcnulla appareanc: cu  autem omnis nofira cognitio ab iis qux efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux  loco 8C tempore nrcufcribu Dtur ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif»  licultas animis noftristut intelligentiamut feientiam ut fapientiam alTequanturt  cumuircsillx:qux paulo ante dicebama membrotum : quibus ueluti inftru»  mentis utuntur deprauatione bebercant : nei^ fe explicare poflint: cura igi»  lurapud Platonem ruumlegilfet Maro nili geminas illas alas recuperemus ad  Superos redite non poffe : Cum itidem illarum recuperationem a fyderibus  caquam oilendi ratione impediri aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur  opus ciTe ofiendit . Hoc autem nihil aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad icdaa adiooa acdpctcmt^Natacum plancutum uuia uiafit ,1  In.P. Virg- M. Allego.   Videmus iouis natura hulufcemodt elTc: ut quos ille in fuo ortu benigfle a(^e  dt illi ad iuftitiam ac religionem proni reddinturrita ut ad eas quas diximus alas  recuperandas impelbtr colligamusigiturnetnincmabinferis rcmeate/nili al^s  recuperet : id autem non clTe fadlc nili iis qui benignitateiiderum adfupera eti  guntur . Sed quid tu.L.Marfilium intuens clanculum rubmurmuraftit Nempe  id Tolum refpondit.L.quod paucis ante diebus cum T imxum Platonis in maoi  bus babetet:mibi de anima mundi dixerat Marlilius > Cautius inquit.B. mihi  progrediendum elTe uideorcum res nobis non modo cum dodo : V erum etiam  cum mcmoriolo litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic lo>   co apprime quadrat : cenfet enim PLATONE rationis fementem a deo fadamianitnof  ^ nodros ab ipfo aeatos/ac deinde mundi animz ueltiendos corpore traditos:  ut £2 corpore uedircntur:& eius pedilTequis uiribus informarentur: Aequum  enim fuit:ut quoniam concupiTcibilis irafcibilifi^ appetitus (alutis corporis gra  na func:ii ab eodem nobis darenturtqui nos corporibus inclulilfct: Vetumquia  faz partes lubricz funtipat fuit: ut qui nobis illasin deterius facile labeutcs dedif  fet idem ipfe aliqua ex parte aberrotibustueretur: labenter<jfubdetatct.Q_u3'  propter iuflit illi fummus pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl  obiiuionisptzditiir<t:quoniam luteo corpore circundederit hominibus fulgo,  rcmueriutis infunderet. Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans mundi  animus eos omnes quibus zquus ell/aut fomniis oraculis & portentis autio.  terao quodam motu Si ad futuri prouirionrm:6t ad diuinz legis cognido.  nem perducit : ut eo duce alas recupctcmus.Huncautemmundianimumue  tetes theologia qui illos fccuti funt Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc  pbcus lupitet inquit pnmogenitus eft: Iupiter nouiflimus; lupiter capui:Iupb  ter mediu.Vniuctfa autem e loue nata funtihinchinc illud lupitet eft quodeo. uides quodeun^ moueris i Q_uin Si ipfe Maro A ioue principium mufz io.  uis omnia plena. Sunt enim omnia plena animo munducum ijle ita totus in to  to mundo fl£ in qualibet parte totus : ubi uigeantutnoftrianimiin fuison.  pufculis : Hic deniip czlumueluti citharam continens harmoniam cfificit ex di  uerforum czlorum fanis: quas cum mufas appcllentiute louisiiliz dicuntur  eiremufz:Q_uantam igitur dodrinamMato tribus uerfibusincluferit/ facili,  tis mente concipio : quamuerbis exprimam. Rede igitur pauci quos zquus  amauitlupiter: aut ardens euexit adzthera uictus. RedefiC illud tenent  nia liluz: Ab hyle enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis nodra duldtia & omnibus ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos redeant. Ve  tum de remeandi difficultatibus badenus: Deinceps nero eas exponit rationa  quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures autem lamusfapientiam  nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum agendarum^ rerum iu  dex . Ne mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc poetam obtinere  cum plzii^ idem faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens aurum & multitudo  gfmmarum Si uas pretiofum labia fdentiz: Aunim enim eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx metallis auro pretiofius eft. Nibl in rebus entia pluris facieadum. Fulget maxime aunim. Nihil (apimciacll endi^ i (i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd: od Nx m HC pn ioqi iHgg imcttdi di dux BOC (jB) da. Bidi   BUi  liuBi   Btit   imt  « D!  feuii   Uni  OlC Wl  D« Lib«r guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum: Nulla rea imminuit fapietitiam t Nullis  lordibu saurum coinquinatur t Nullis maculis Tapicntia deturpatur t Sed latet  arbore opaca: mulus cnim ac uariisinfeitiz tenebris ita obruitur uerumft luco  ca cnimcorpons^uc ita ioquar^bebetudo eft ita tegitur t ut difficile omnino (it  illud erueretScite enim Si a Ocmocrito ufurpabatur natur^n in profundo ueri^  tatem demer(i(fe : Non tamen prius in hanc contemplationem defeendere uaW  mus : quam aureum ramum deccrpfciimus . Proferpina enim ad fe ire quempi^  am (ine huiuCcemodi munere uetat . Efi enim profeipina ipfa animi pars quz ni  bil przter lenfus contina : ad quam (i (ine fapientia accederemus nullum przte»  rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum ei Tet.llla enim irretiti nulla  unquam effet fpes redeundi . Rede Si illud piimo^ auulfo non deficit alter au«  reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p cuenit inueffigando/ut aliud uerum ali<  ud aperiat: nec quicquam percipiatur: quod ubi perceptum (it ad aliud percipi*  endum non diKat : Illud autem quis non uideat de uero uenifime didum elTe .  Nam alte inuefliganduse(l.diuina enim &czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^  non infima hzc at^ aduca infpicienda funt : omnis enim dodrina a frientia ex  iis efi: quz nullis terminis circunictipta funt&in interitum non cadunt:lubet  ptzterea iam repertum rite a nobis carpi : & iure quidem ita iubet . Nam nili cer*  so quodam otdine pergamus/nibil unquam proficiemus; Addit enim poffremu  illum facile te fecututum i (i a fatis uoceris : fin autem non uoceris : nec uiribus  tunc nec duro ferro polfeconuelli.Virtutibus enim quz mores corrigunt Si quz  tedum zquumij relpiciunt ualct omnes ira animum a fordibus purgareiut mu  di e corporis migrent : Ad fupremam autem illam rerum cognitione uenire pau  ds ommno datur : at^ iis (blis qui a facis uocantur . (Quapropter rede (i te fata  uocant : Q^uod tamen ut planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe ip*  fum cognolcere . Deinde omnes reliquas res : Tertio autem loco ea eunda effice  lequz cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus a prima depen*  det . Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem nulla alia ratione :  nili quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur . Huiufcemodi itaip ordine  rria illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam : Secundam prouidentia : Ter*  tium fatum nominent . Chnffiam autem cum haec eadem (nt fallor^fentiant:Fa  ti tamen nomen uiz ponere audent : non quia Platoni irafcanturifed cum uidif  fent clfe quafdam in pbilofophia familias : quz eam fato necelTitatem imponat:  ut nullam io adionibus nobis decernendi libertatem relinquant fati nome odif  fe uidentur. At nos eum quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus de*  um retum caufas id cft fe ipfum confiderare : Ddnde ortum ordinem : ac deni  ^ gubematiunem rerum quas compleditur intueri t (Q uz ddneeps ita omnia  excquitut ut nullo mexio ualeat impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt:  Q_uod fi ita eff uon abeiiant qui dicunt rationem ac ordinem rerum : quam ita  mente dd prouidentiam dicunt in rebus mobilibus ac loco Si tempore dteuioi*  pds fatum did.Te itaip fi f^ta concelTcriiu camus aureus uolens fadiifcp feque^ c  Datur igitur pauos Si id diuino quodam extra fortem munere ab ipfa dei proui  dendatcuiusconfilium ferutati nefas bomini efirReduscoim dotdnus & reda    Jn.P. Virg. M.AIIfgO*   confiliacius t fed qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Q_uis rniffl  adeo temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu caapcruc«  rit dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina illuftratis detegere  coluerit : Q_uod exemplum late patet & ad omnes qui in aliquo dodrinz gene  te laborauerint ttanffetri poteft t ut cum multa eodem (ludio dagrauerint t eatu  dem^ operam ac laborem impenderint alii fummum in eaatte attigerint: aliis  autem uix in poftiemis confidere licuerit . Habes quid aureus ramus meo iudb  cio fibi uelit : Q^uod autrm ad miferi funus pertinet (ic accipe . Mileri odiufa Ia  us rede interpietatur . Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim  fummo odio digm qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat glo>  tia . Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Q_u 'm qui in uita ct»  Ulli res egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt. Hi cn<m non redi  honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam dum aSequi cupitmuS  rem publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium incidunt: Egregie  igitur luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam uirtutts. Huiurccmodiigb'  tur uiri animi excellentiam (iue a natura fibi in litam/(iue indudna/atcp exetaca  Cone comparatam penitus corrumpunt. Non enim uirtutera ammt.^cd uita  tutis infignia i qua; fzpius malis quam bonis exhibentur . inanis igitur atip ad»  umbrata gloria in rerum publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada  hatret . Q_ uaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit . bi enim  caritate patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa  (Ima; omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcntiQ^ut igitur ad uitiorum fpe  culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet : cum in primts hu.ufcimodi  gloriam abiiccre necciTe ed :Q_uaproptcr rede eo tempore roifcrnus extinguitut  quo zneas a fybilla prxeepta accipit . I nitium enim ueri inuedigandi a onlctni m  tcritu optime funiitiir : Ncc tamen fatis fuerat illum extingui :nift etiam fepelu  tur : ut nufq jam urdigium illius appareat : nec unquam reuiuifcat : Q_^uud au  tem illum tubicine fuiiVc dicit : optime quadrat . Ed cnira huiufccmudi hutni«  num : ut rrs a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus ofle  dant : Ed prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi qui ne  gleda uirtute tc folida & cxprelfa adumbratam quandam & penitus inanem glo  riam aucupentur: unde & tumidi & inflati Si uentoli dicuntur . Rede Si nlud  quo non przdanrior alter aere ciere uiros martemtp accendere cantu.Q_^uid eni  aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de innumeris aflaticis regibus te  feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non contenti patriis Enibus multis popu/  lis ac nationibus beilum inferrent ; Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo'  fescxcitauit ut magnam Aftx partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni'  bali ruafit ut bifpaousgalliift^ fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud  njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium: Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC''  ium ac podrcmo Odauium K.M. Antonium eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^ replerentur nili infanz quzdam famz cupiditas. Cum gloriam miis  rebus quzrerent: quz dolidil Timum uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn  Us autem ad iuihfumam indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi  d DCt  BIB  I»  '1 ip» a» K*» , tUH cnu   cpi)iii   100 ad   siil  itd  id* ^1 afi \0 «? |lP< <« Liber guartui   mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti ptomptiilimi prz  ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem ruebant igloriz quoq; cu  piditate extremum cafum zquiore animo ferebant : uis enim ftbi perfuadeat   aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali prziio apud Salamina gcflu t aut Epa«  minundamin ea uidoria qua de Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo  eidam in tbctmopylisuirilitcr pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim  oet^ Brutum lingulari certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne  a Sczuolam tanti animi confiantia dexteram exurentem: ne<^ Decios illos in co  jf^ifimos hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz  nitz prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*  dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur. Ita«  ^ redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute demens  appellari pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a caducis ac cito  perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft & a diuinis rebus proficifeitur   E fumtnam temeritatem zquiperare.Q^uapropter facile ab ea obruitur. Sed  cad rem noftiamtReliqua autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz attp  aurium uoluptati concedantur . Geminas autem columbas geminas illas alas qs   d o fupra diximus intellige . Illas enim ducibus ad contemplandas res tendit :  t autem uoluaes ucnetis: quia oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec iniu  tia matrem inuocat : Nam tantam difficultatem nili rapiat amor facile fugiut ho  mines < Illz autem non femel aut uno impetu/fed paulatim uolando ad locu du  eunt : Non enim hominis ell omnia momento uidete : fed ratiocinando gtada«  timacognitisad incognita uenire:Seduidcquidfequatur:inde ubiuenere ad  fauces graue olentis aueroi.   Tollunt fe celeres liquidum^ per aera lapfz:   Sedibus oputis geminz fuper arbore fidunt:   Nam quz ad cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas rerum terrena^  tum contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo uolatu effugere opor«  tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem ducit: quam fine mora ra.>  pit zneas / ut eius luce ea quz per infernum obrcutiffima funt cernere pofTit.De  ioiprio ucro auerni naturalem lod litu demonftrat. Ne efl quod faaa ab znea  petada in feriem noflrz fentenriz digerere laboremus . Inferuiens enim fuo ar.>  gumento poeta eorum lacrorum quz ad ncaomantiam adhibeant ueteres expli  cat. Q_^um autem zneas nudo enfe Iter aifumere lubeat 6C fi hoc in Ilfdem facris  obferuare confucuerint : tamen admonetur ipfe ut robuflo animo rem arduam  acediatur . Aeneas ita^ ducem haud timidis uadentem pafltbus zquat.Nam  quis non uideat : quod dodrina aliqua nobis oftendit id quam celerrime quam  oiligentillime effe arripiendum. Erat autem iter per obfcura : uel quia ut dixi ue  ritatem in obfcuto ab&rufit natura : uel quia uitiorum fedes procul a luce funt:  Q_ui enim rationis lumine illuflratut : is & uerum cognofeit /dc rede agit: illam  autem qui amiferint fua natura ignorata in ultia Incidunt • Appellat przterea do  plutonis uacuas & inania regna . Q^uo quid ucrius dici poteftfEfi enim   u ii 1 1  I!’,! i;l I * i'i  In. P.Vir g.M, Allego.   nudiuftertius manifeiHs rationibus ronuidum mala uitiatp nihil omnino ef  fe; quando quidem nihil afFcrant/fcd bonum pellant. Hoc cum prudens ue  hemenf^ uates Perfius intelligeTctrgrauilTime in eam exclamationem proru/  pit/O curas hominum /O quantum eft in rebus inane :Vt autem quale eflet  ad uin'a initium expreflius poneret oftendit in tantis tenebris non nihil tamen  lucis apparuilTe.Nam 6C Amentis carcitate in uitium labamur a tamen circa  principia non omne penitus lumen tollitur: Prius enim incontinentes cAicif  mur quam intemperantiam cadamns.Miro autem iudidoquz fequunturin  inferorum ingreAii ponit: Si enim exfententia eius quem fequitur Platonis  deicenfum animorum in fua corpora defaibit / manifcAum eA animum qui  badenus omnium horum malorum expers fuerat in ea nunc omnia corporis  contagione incidere : Omnes enim perturbationes inde fentit: Luduenimea  riA^ angitur. Impendentia timet imotbos laboreAp experitur : fame anp ege^  ftate urgetur : omnibus denitp quas ille enumerat calamitatibus prxmitur :  quas a corpore liber expertus unquam fuerat. Sin autem prolapfum animor  rum in uitia huiufcemodi defcenfu interpretari uolumus non multum diuer  fa ratio erit : Q_ua; enim res tanta ucloatate commilTum facinus confequb  tur quam fadi pernitentia . Q_u.r autem pernitet is Ane ludu effe non po#  teA . Adde quod confeientix Aim ulis affiduo purgatur neceAe eA : Vrgent enim  illum a Aidux curx : qux ueluti ultrices furix poenas Aagiriorum feueriAune  extinguunt: uod quam dode quam eleganter quam expteAe pofuetit lu'  urnalis quxfo recordamini . Exemplo enim inquit ille quocunip malo cotn*  mittitur ipA difplicct autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo nocens  abfoluitur. Ac paulo poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum fadt  crimen habet. cedo A conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef  fat . lure igitur ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU  lentes habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^  mus. Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit  ut illx redx rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac huic  inimicam intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare cd  turbare ac incitare : eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni . Nam ue»  luti cum fanguis in corpore corruptus eA: aut pituitabilis uere redundat  morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac prauarum perturbationum diAotunta  animum fanitate fpoliat : uehementerep petturbat : ex perturbationibus ue»  ro morbi conAciuntur qux illi uocant : deinde xgrotationes   qux appellantur. Quapropter perturbatio quia inconAanter turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA . Verum cum iam huiufcemodi furor ac mentis concitatio inueterauerit : &tan  quam in uenis medullif^ infederit : tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na  cum ex falfa quadam opinione qux plus tribuat diuitiis quam tribuendum  At pecuniarum cupiditate inflammemur : nec adhibeatur continuo Socrati»  a quxdam medicina : qux cupiditatem extinguat manat illa in uenas efficit»  ^ cum morbum at^ atgrotationem quam auaritiam nuncupamus. Rede to Liber quartus   ^detn demorbis ut mibi uideris inquit Laurentius &|ad locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut tu probe demondraui: Sed  & oratores BC poetx non corporis folum fed & animi fcpiflime morbos di«  eunt . Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene Autem reAe refe  ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti iuuentutem admireritt&  ignauia ac torpore quodam ueluti fenio tabefeit/ facile in uitia: ha;c autem  motsanimotum eS/ eum adere uidemus . Mala autem fuada fames quidnam  aliud quaauaritiadefignat: qua homines ad omne facinus impelluntur.' Q_ua;  nam enim res alia nobis fuadet aut iniuftilfimts bellis innoxios populos iacef  (iere I aut caidesiK rapinas exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut uenena pa«  rate: aut fidem fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta famesf  Quod quidem fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis zgefias.Cii  cnim homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit turpilTk  mam putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui  Ius pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt  tembile suifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer fiintur: nihil praeter defidio fumooum quaerunt: Nec meminerunt homines  adagendum ati^ fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^  dadiunAusfitelfe fugiendum: De lato ucto fic accipe. Philosophi qui dt«  ca prudentis acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem  agendam afiumatut maximo fibi eflie impedimento: Sensus cnim qui a.cor<  pore funt nihil in feueritatis: nihil fincen/utrcAe dc his rebus iudiute uale«  ant in fe continent ; Ex quo fit ut animus fi illis ad inueftigandum utatnrtfzpe  dedpiatur:& illorum illecebris ebrius nihil ptofpiciat . Q_uapropter mentem  quam maxime pofliint a fenfibus: BC a corpore feuocant. Aic cnim in eo qui phe  don inferibitut Plato nos tum denii^ beatos futuros fi a corporeis abfirahamur:  ac deo fimiles reddamur . Hoc autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua  propter fijhuiufcemodi uiri dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor  tem illos trepidaturos cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut:  iniquifiimo animo illud difiblui patientur.ReAe igitur is quem totiens nomi*  no Plato [PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia ca  probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri terribiles dixit.Re  fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis gaudia ac poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^ uel mediocri ingenio uir  fuenc facile referet . Nam qui in uitio eft is tanquun fomnolentus ad omnem  honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam uoluptatem nifide rebus turpi.»  bus capit . bellum autem ac difeordiam non modo cum aliis : fed fecum geritt  cum aliud libido aliud auatitia fibi uelit.Oefidia illum ad odum : ambitio uero  ad labores aduocet.Q_ua animi difira Aide ueluti furiis exagitatur.in ultimi au  tem deferiptione idem quod BC paulo fupra ofienderac pulcherrimo nuc ac om  nino poetico figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita magnu fpariu occupat:  fhiAaautnulluprzbctifedfola umbra nosdeleAattfic turpe facinus ea no«  bisonditiquz nihil folidi habcatifiCquzcu magna uideant /nihil finttut phip    Ia.P.Virg.M.Mlego.   gii zfopi ncmplo telido corpore umbram fedemur > Q^uod eo quo^ ezprcC>  fius notat ciun addat in Hngulis frondibus (Togula inlidere fomnia: at^ ea  quidem uana: Nihil leuius/nihil mutabilius eft frondibus: Ea autem in qui<  bus fummum bonum reponunt ftulti:& quorum gratia rapinas fraudesmul  taipalia flagitia patrant: ut honores diuitias ac reliqua alTequantur: in qua fot  tunastemeriute pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^ defluant: nemo eft qui  ignoret: Q_uz etiamuanisfomniis uerilTime comparantur. Sunt eodem in  loco plurima monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus qux  przternaturx legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra appellax  buntur / cum pmer rationis legem qua lola homines fumus exoriantur.Me  fito autem Ixionis filii putantur centauri : nam ille contempta iuftitia abm«  pto^ humanitatis uinculo populos libetos iugo tyrannidis oppre(Tu:Q_ua^  propter eius cogitationes apnneipio aliquid humanitatis przferentes inim«  manitatemat^ eficriutemquandam tandem degenerant: Non infdte igitur  Plutarchus dimonflrat / huiufcemodi homines tanquam fimulachro uirtu»  tis adhzrentes/ nihil ITncerum/nihil tedum/fed mixta omnia at<p nota face*  re: Cum fuam quif^ uoluptatem fequatur/fummis petturbationibus ad fu*  os impetus delatus: Prolixior limqua rerum multitudo poflulat: 11 utran^  fcyllam profequar:in iift^ nimias cupiditates exprimi oftendam: nam Hy*  dra ad dolos fraudefi^ referti facile potcft.Fuit enim Hydra Platone tcllefo*  phiflaalidillimus: nam cuueri inuelligandi duplex modus fitpetuetas alter  alter pa fophiftiasrationeshydracauillofasatq} deceptricesargumentationes  ponimus: Cuius uno capite czfo plura renafeantur . Nam una confutata r»>  tione ille fuis argutiis plurimos fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl  ingenii feruore extinguit.Nei^ eft quod & hoc inter monftra enumerandum  negesi Namut uera dialedica ab omnibus dodiflimisfummoperefemperap  probata eft t lic hanc captiofam grauilTimi femper uiti abhominati fuot : Chi *  meram aut ad iracundiam iGorgones ad uoluptatum illecebras/ quibus ftul*  d in faxum conuati iccirco dicuntur / quia nimis illas obftupefcunt.Prudca  tes uero & Palladis zgide 8i Mercurii gladio facile interimunt refetn quis no  uideat : Briarei autem ac reliquorum qui aduetfus deos bella gelferunt / fabu  lamrcdilfime interpretatur Cicero /cum id nihil aliud lic qua bene monenti  naturz repugnate : Gerion uero 11 grzcum nomen interpreteris / terrz litem  exprimet . Lis autem zterna eft terrz id eft corporis aduerfus fpiritum.Ecitita  ^ Gerion pars elfccminatior animi a fenfibus ptofeda : quz in homine uitio  fo uniuerfz animz imperat. Q_uaproptet quoniam funt ttes animz par**  tes / tribus illum infulis impcralfe fabulantur : cuius canis iccirco biceps cfit  quia cupidiute llmul & timore laborat . His igitur monftris pettenefa*  dus ENEA uim parabat. At Sybilla hominem cotnmouefadens ea omnia  fimulachrauanacfleoftendit: llIa^ non ui fupcranda/fed radone cognolizn  da: cognita^ fugienda iubet. Poft huiufcemodi monftra ad Acherontem Si  cocytum deuenitunde quibus fluminibus Si 11 paulo fupta didum llt:ea tame  alia quadi tone ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a fonte manat aqua:  que ttygnu palude cffidt.Ne a concupifeentia primu j>uenit cogrtatio/drnide  adioquapeccamus: Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain per cum tt*  ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem excitatunNrqt prerer  rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca dicat: Non entm poteft  animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in facinus ferti:Q^uoniam autem  fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas in uitium traniitsiccirco in hoc  flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero buiufcemodi tranlltum id au  tem cft poli peccatum/fequitur mceror/quem refert ipfa flyx.pollrrmo maior  ludus qui eft cocytus . Vt igitur ponatur ante oculos illa^ut ita loquar} grada^  tioiprimolocoeliconfcientiz motustfecundo deliberatio fufapiendi flagitiit  poft hanc maeror ac demum maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi»  cat/fecundum Acherontquattum cocytus .Sumopere me hzc deled.<nc inquit LAVRENTlVS.nerpme offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed ad  piares rationes ttanfFeras. Videmus enim & grauiflimosin nollra theologia lo  cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari. Habes igiturdrfluminibus in  quitBAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu cenfeorNara  portitor has horrendas aquas: & flumina feruat terribili fqualote charonicui  plunma mento Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo ordine progrediatur/  non nautam folum: fed £Cniuem limul intcrprerabimurtSit igitur nauis uolu>  tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis lurfus cocoinfuum cu fumdi  ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim eiedionc libetum aibitrium uolun  tatem dirigit t Q_oin U per uela eziefles incliuadones non erit abfurdum incel  Iigere: Nam quo czii inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe ratio opponat:  cuius tanta uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata hzc funt quz dicis  inquit LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma retinere: ut tamen  mathematicos oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex cll chaio inquit bA  PTlSTA tqmaiali no tepore ut Platonici:quosfequic poeta/uolut dignitate  faltem & origine prior cil corpore. Adde qdzternacfl:zcemitate aut nthil ana  tiquius:Q_uaproptcr Si, arbitnu libetu in illis zternu:Sed auda deo uiridili^ fc  ncdustqanuquamdeficit.Ellaut terribili fqualore &ex humeris fordidustili  amidusdepcndet.Q_uz omnia ad corpus tediflime ni fallor referuncut : cor«  pus enim ucluti ueltimemum ellanimz: quod alfiduo mutatur ueterafeit: actz  dem tabefcit.Addit duplicem oculis flimmam:quia liberi cll arbitrii ad utmta  ucliiflcdi/dC ad rationis fulgotem/8t ad cupiditatum ardorem.non temere au  tcmncc tine exadilTima quadam ratione herebi nodifip flliusell Charon: Ce£  Iffcnim nox in nobis quz nihil aliud ell nili ipiz ten(brz/quz abinfeinapro  iieniut/nulla erit cofultatioe opus:mens enim fumu bonu perfpicue nofccrcta  &in illud line ulla dubitatione ferret .nuquam enim eligimus nccelTatia/ac fub  lata dubitatide ois confultatio celTat :Q_ uapropter qui iam in tertio uirtutu gea  &erefunt:quas purgati animi appellani/ii prudentia in repe deledu no utunc' t  led przter ea quz lut uera bona nihil nouetutiea^ fola mtuent . Herebus igi  tur.quud uerbu grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc rationi opponit  Utopuslit cofuitatioci (^uoniauao Cutmdd Keba}acmodeacccllarii&cota la .P.Virg.M.AIlego»   fuUc:opottuit bancuim ea libertate donatam clTerut aut de plutibua unum/aut  de uno <tt ne agendum pro fuo arbitrio deccrtut. Hoc (i itaefta gratia didtuc Charon«Nibil enim iibaius cft gratia cum fua fponteproueniattnon autem a  cuiufquam merito debcatur.Q_uaproptei cogi nullo pado uultsat(^ ea de au«  fa cum Aeneam pet tacitum nemus ucnite uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit  cs armatus qui noiha ad iimina tcdis/Fare age quid uenias idbinc & comprime  grclTum>Nam cum etiam rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non  ante illam admiaere uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu fit.Q^ua»  ptopter addiuNcc uero aladcm me Tum laetatus euntem accepilte lacu > quu ne  ad uirtutem quidem trahi uult liberum arbitrium . Verum antea confultat i Et  pofi confultarionem deledum adhibet. Quam quidem rem animaduettensff  billa; (Luimrubiicin Nuilxbci Dndiznccuimtelaferunt;&: ut appareat illum  con cogi/fcd per confuitatiomm peifuaderi aureum ramum oftcndittllleaute  ad uifam fapientiam libenter conuetticur: fiC de natura hadenus.Nauis uero a  czruleo colore confiatilile autem ex albo nigrocp conEcitur.Conteplator enim  inter iofeitiam at^ cognitionem uerfatur.Non enim mouetur quifpiam ad in»  ueftigandum luli aliquid uideat: Rurfus cum omnia in ea re uidcrit definit fpe  culari. Eadem fere ranone futilis hngitunperceptis enim percipienda adneditt  Si autem futilis &, timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/  non ctit ita perpetua rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas  uao quas ut Aeneam recipiat e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio  ni aduerlantur interpretandas opinor. Sed uos fortafie nimis cutiofam nimir(^  ineptam huiurccmodi interpretationem exifiimabitisicum ita minute etiam tni  nmiaptofcquar. An tute cutiofum aut ifia minuta appellas inquit LAVRENTlVS: quxetiamli nimis ingeniofe elicienda el Tentidigna tamen funt io qui»  buscJaboresi Nuncuerocum fe ultro offerant/quis ea repudietr Q^uin igitur  ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx quadrant ne przteri. At^ in pnmis quid  libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam &quod cymba gemuetitifiCquodrimofa  inultam paludem acceperit : ego nifi tu aliter fentias fic accipio/ut in altero fpeca  lationis diificultatemiin altero terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim  dum uitia fpeculamut interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immortalem deum ingenium/^ ad omnia uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^ commodius ifia meintapretari potuiflie fateor: Ad cer  betu autem de quo audire cupis /paulo poftucniam:Interim pauca qux omi(<  fafunt/percutramus: Ad nautam omnes confluunt animxtomant^ pnmx  tranl Huuiumpottariitelt dunt^ manus tipz ulterioris amore: Hic iguur con»  curfushocut puto fignificatomnes natura fdre. cupimus: natura autem non  omnes admittit: quia liberum menns arbitrium non omnes ad.fpcculatiooe  adtmttit : nam quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt de zgf*  ptiorumconfuctudinc tradum: 6c Seruius & Seneca affirmant i Q^uam rem  deinde Orpheus^ad inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum  a fybilla feuere calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad ueriinuefligatio»  bem ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed redeo ad Aenca;^ at at 0  jlU, DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf   tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn traducit.Ipfd «tiim poft diutumu  catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm tradudtur.Q_uo in loroaio^  uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim ha;c ingens latratu regna  tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd animaduerte qua par»  1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam enim latranri cani porngit  Qua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet occupat zneas aditum cufto«  de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe ratione tridpitem poetae tradideruttguo*  biam illum terram gux trifanam diuiditur /interpretantur. dicuntcp grzce  quali Omnia enim corpora uoratterra:quado quidem io ea omnia reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus : quis non uideat porta  noflrum per cciberi latratus noftri corporis indigentiam exprimere uoIuifTe . Cu  enim ad rerum magnarum cognitionem eriginiunhoc profedo agimustut men  tem quoad dus fieri potefi a fenfibus reucKemusremoritp dircamustnon tamen  ex buiulcemodi mortis comentarione intereat corpus neerfle putestred cft illius  ratio babenda.Reclamat enim ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar  ttam.Tribus enim rebus indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no  bis fiat adeo obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat. Cuamobrem nullo par  donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino fobrie/re  fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu contumax adr  uerfus animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft : at<p ea huiufcer  modi funt/ut fine labore: fine fumptu facile comparentur. Nam ne fortafte ad ea  re me te reuocare ardas quibus Ginicus cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam lalecoditum fuauilTimas epulas prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta*  tum patronus Epicurus acquiefdt :Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut  purpurea aut ccKdna ucfte a frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut aete   11 uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu  tat: Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu  aliud pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP  ad panem raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par  Uoncsreliqua(| ilb flagitia quz & Maaobius in pontificalibus Tuorum tempope  ccenisdeteiiaturt&nosno ftratempeftatein romanorum przfulum dipibus fir  nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti pemitiofilTi  mamonftra exhorrebat: Qua quidem in te ego terni LAVRENTI ficut inc zr teris temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter id quod plu  timos iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum non bi bis nonne pro miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium affluentia: in tanto urbis noftrz luxutin frequentibus lautiflimir^proptaalTiduashofpita  liutcs BC aebra fodalitia tuz domus conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex  ac populare fumas: Q_uzdum cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo quzdeFederico Vrbinatumprindpcnon folum audiui:fed etiam propter antir  quumhofpitiumfl Cueteremamidtia fzpiflimeuidi:Inquoduce & fiplurimz  aliz^ ea magnitudine uirtutes elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera  Oiancfcunt t ita hzc illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta    Id.P. Virg.M.AlIego;   tiu Meorinaum acrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt   Wtn f*t« inopia nullu inter fumtnfi duce ac extremos lyxas & alones d.(c^« ,  elTe patn tfed domi quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana  fefe offerantmec uiq aut liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc difcubent*  illo nulli aut palalaSo aut nometano/fed Bi philofopho & oraton ocw relin^  tur.lpfe enim a primis annis uini prciflT.mus fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut iam diu illud omiferit/nemo eQ qm communioni   epulis/nerao qui fimplidoribus uefcatur/quibus dum corpons U.TO r  fiaui(rimisinterimd Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa romanos aumnmos Sfugiensadillum diuertor:uidearmihia Sardanapall.c«rn.sm AIano.conu.-   uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc* con.  tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum qui  rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam phtent luxm  lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip noftroju «orumm m  totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra religione maximaij dodnia  nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos elTe non negaueom/iis homu  nibus aditum quotidie patere uideamiquos ego tunc demum fenatorium ordi.  nem romx iure obtinere cenferem/li Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim  peraret. Verum cu hxcme alio in loco deploralTe meminenm agamus quod iltat.  AtcB naturam noftram minimis cotetam effe intelligamus.Q_uod cu expnmere   cupet Maro Sybillam quxueradodhinaeft inducit offam in qua & andu 8Cb^   mefcens fimul alimetum fit/Cerbero porrigetem/qua faale & fihm? I*'   det:& in fomnu inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis epulis  corpori indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate « c^us contu  max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu fufpicere poflit . Upt^  quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum de Cerberonon idem  TOCtas omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita latratem inducit/ut non  egredi fed ingredi cupientibus aduerfet":cuius qdem rei rationem optime a te ex  Mfitam effe intelligo. Nam huiufcemodi corporis indigentia non iis allatrat qui  corpus curadum redeutifed iis qui illo negUao ad ueri cognitione £0“«“^  ItacK ut dixi ego qd Maro fibiuelit plane tenere uideot; Veru cum apud Heli»  dum poetam ut te non fugit nobiliflimum legerim Cerberum uenieti busauda  auribufm blandiriiExire ucro nemine patiiln infidiis enim delitefcesjqucmcua  extra ianuam offendatiftatim morfu laniat s no intelligo quo nam modo hxcoi  no inter fe diuctfa non fint nifi fortaffe alium ad inferos defccfum  um Maro exprimere uoluerit.Ingeniofe tu quidem inquit ®  dit enim ad infaos xneasiqa in uitiopr cognitione tcdit:Q_uod fi ita eu ingit™  enti aduerfabic Cerberusrodit enim hxc corpusiFac aut aliu no ut imU nan^  cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia labi auribus 8i cauda bladiet Cnbe^  qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud moliunt' iquid aliud conant perd»  boies nifi ut tridpitisbelluac non folii indigeti* fatiffadatifed oes uoluptates  plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq pdita uita reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam»   tcnctit tuc latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut dubitatio  orm fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille (imp KnlTtnis rpuHs  arquieuits Acneasautnn celer ripam cuaditsNon enim lente K cum fegritie bacc  adtunda funcfcd omni contentione at<]t ardore captiTcnda. Q_uc niam aut or*  do in rebus huiufccmodi cft ut primo uitia cognolcanf. Cognita deinde effuga»  lunut pofirtmo illis purgati rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con  fidit idonei contemplatores eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn<  te repetendus/ut peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no  biliore fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum uoluptatib?  fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf. Earo enim uir  tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus exuti nudelilTimis  fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era aduerfa/qux innumera quoti«  die aeddunt omittam /mortem ipfara qux lingulis borarum momentis impedet  uelub lummum omnium maloium rxlKHret.Q_ui quidem matus enam Ii nui  la alia ptutbanone adiaans ipfe unus nos nunq refpirare linit.Q_uaprnpter hac  iirpeipfosmfantesin pnmo uitz limine petere oftedit.Hac & in fontibus p uim  mferri edocet. Hac & libi iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo animo  fimt/ut grauilTimis quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Q^ux q dem omnia diUgenter intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx«  fiandum elTe ut culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc  ret/cum cz ea no folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed contra  fummum bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira rcdeam5’.  Qua qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu illis efle adum qui  antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in casinciderint diuind omni  nomunus illudincIcobim/ttbito Dcalunonecollatumtquipfofuma in ipfam  deam arqi in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus natienb  bus ac populis fapietiotescl Te traufosputabimus/ii enim populi in thracia funt  qui fuorum onum multis lachrimis ac lamentationibus excipiunttquot mala il«  hsin uica cucnmra line enumerares. Obitum uero omni genere lattitix ^ fcquua  tur.Cogitant enim quot erunisq uariisgrauibufip fortunx cafibus morte libera  ti fint.Huiufcetoodi igitur rationibus paulanm xneas moetum mortis deponit:  Q_uin fi aur fe aut quempiam bonum uiium fupplicio morte ue per fummaiiv  iuiiam peti uidcbit non duliilHme ur Xanthippe illa de (bcrate falrc merenti hoc  cucnitetdicet.Scd quod uetumefferapientes norunt Ihilti uero negant a nrmi«  ne nifi a fe ipfo quenq Izdi polTc affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac  in malis cuumerabiti^uin Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue  fiecrudeliterip in aiiuiu «gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos autem  omni odio infcdandosducct/qui animum immortalem fiuptr natura itaro*  bulium/ut humana omnia contencre polTit adeo fua ftulttria enenuuerittadeo £ taua confuetudinc imbecillum reddittut famineo amore incefus in eum pau»  tim furorem ptolapfus fittut fibi ipfc manus atruleritiK morte q fummum tC>  fetnalum putabatiid quo urgebatur malum effugere tentauerit . Q_ua quidem  in te pnmum ignauiam ai<f incttiam cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt   o ii    In.P.V;rg.MtAIkgo. dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani» morbis natum affirmat:  quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno dediti: et diuinitate fua quam  aroris denlis tenebris obrui pemuferut penitus obliti nihil praeter caduca : & aut  morbo aut aetate cito perituram corporis fortnaih reTpidunn Q^uamobrem bis  pcccant.Nam 8C a principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum e(l  ut in rem follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn  dum diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in  coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii bax  extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam intrati/  quillo fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac impietate pa  cem pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut.Nam aut nulb iniuria affedi ipfi ul  tto auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude nihil tale merentes laceiletut/  aut ipii lacelTiti nihil de iure quod hominis pprium eft difeeptantes ad uim qux  faamm ed fe contulerunt: Hinc genus humanum cui pa edeordiam in fummo  odo uiuere licuaat affiduo mifccri uidcmusiHinc multarum regionum popula  dones fiC infinito;: mortalium catdes oriri aiaduertimusmt cum undi^ quzeu^  nobis calamitates eueniut colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.>  ueniat : Vides igit q exada lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur .  quidem quoniam huiufccmodi clVe animaduertit/ut & cum fcelae dant/ fit po£ fint etiam uido carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia irecur.Cum autea  Deipheebo iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc contcplanda offerut / quz  aut penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni fcelae folam uittutem continet du  plicem iam efle uiam oportetrut altera in itnidram ad ui tia defledaturcAltera uf  to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt inquit LAVRENTIVS fitPytba  goram illum exprimac uoluiife acdiderimtqui littaam yadinuenit.Q_uod no  latuit Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz nefeiusenor C5eduxit trepidas ramola  incompita mentes» Ifrhuc ipfum inquit BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas fub rupe (inidra mcenia iata uidet triplid circudata muto, fetifica p/  fcdu tartarotum defcriptio.Locus enim exprimendus iam edin quo uarialole/  ta puniantut. Hzc grzci tartara ab eo quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex p  turbationibus enim uitia oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris meo»  tem tencntilnduduntur autem triplici muroiquia non una ac fimplid uia fcd tri  plia peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata uoldtatc fce  Ius condpimus.Secundo deinceps loco accedit adus.Q_ui podtetno iteeum at/  iterum muItoticnf(^ repetitus habitum obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat  taris iure expreflit poaa quz procul a uiro beato edic tedatur laaoruffl cartniiid  uates.Ille enim fiatim a principio dc ordif. Beatus uir/qui non abiit in condlio i  piotum.Videsiammotum primumanimi adrcclus.Ocindc fit in uia pacatora  non dctit.Q__uid enim aliud uia cd nid ipfa adioreitquz depius repaita nd am  piius in motu ed:fed iam fedcmdbi ponit fit redda in habitu iam coadabilito.  Rcde igit fit in cathedra pedilentiz non fcdit.Q_uod autem flammifluo phlege  thontbis flumine tartara ambiant" :minimc abfurde dixit . Odendit enim aidp/  cem itacundiz: fit arumotum zdus quibus id hominum genus alGduo torretuta Tantum fnim tH uittoruu odium/ut & qui illis delcdati lutif tandftn pcraitoi  tiamdcdudi uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno ipfia  aetnime iraiiantur . Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn palufttttn:Ca  ptiui tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira furore^ exeduntur.  Q^uapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t Tartareus phlegethon.  Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis exxfluat quam feeleratorum  mens» Nam Taxa a flumine contorta oflendunt quam graues quam molefli flnt  buiufccmodi motus ati^ «agitationes. Addit ad ba;c portam munitifilma fit foli  do adamante columnas: quibus locum ita munitum redditiut net^uirorumne  ^ czluolarum ui efitingi poflit. Quid ergo flbi uult dodiffimus uir: Nempe  hoc ut puto uiros flagitiofos ac permtos cum in tartara deuenerint. Id autem eft  cutn longo habitu fcclaum mancipia cfFcdi fint/nullis uirorum monitisi nullis diuinis ptxccptiss nulla deniipfyderum clemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs'  pter iute tales homines fit larini perditos it grxd afotos appellant.Erit igitur in  quit LAVRENTl VS amifliim in illis liberum mentis arbitrium / ut fit fl uelint  aduirtutem redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui acumen inquit BAPTi  bTA . Nam breui interrogatiuncula illa omniaconcitafli : quz a grauiflimis phr  lofophis de uoluntario dem inuoluntario quzri folent . ua quidem in re no   folum ingenium laudo/ redconfilium quotp uehrmenter approbo .Nam cum  multa liefe tibi offerant tquzfloc cuiufquam auxilio ipfe tibi foluere polTis/ea  tamen ab alio dici mauis/ut fit raodeftizquod nihil tibi arroges: fit igmiiquod  prudenter interroges flmul laudem feras . Verum facile ita huic loco occurretur  li dicemus non uoluiife poetam ineuitabilem neceflitatrm/red eam difficultate  quz impoflibilitati proxima (it demonflrare.Sed fac etiam(^(T placet)omnrtn ex  cidendi facultatem adimere . Non tamen dicemus flagitia quz committunt in^  uoluntariacffe.quando illorum principium uoluntaiium ruit . Nouitenimin#  continens peccate curo adulterium committit: potefl^abflinerefi uult. Peccat  igitur uolcDS donecafliduishuiufcemodi deprauatis adionibiTs eo perueniat/ut  contrada iam intemperantia etiam fi uelit abfhnerc non poffit/non tamen inui.'  tus dicetur peccaffe/quamuis tunc nolit quoniam licuerat a principio/modo uo  luiffet in firmum illum intemperantiz habitum non deuenireK^ uaproprer no  magis inuituspeccaffe dicetur/q qui fua fponte in quempiam lapidem iaciat de^  inde pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per aerem fertur quoni  amnoUer hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam initium a fua  uoluntatc fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de moribus difputata  inuenies . Itatp redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non ihgredit . Nam  qui uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia .lllorumuerouimat^ naturam  a S)rbilla(^nam eunda edocet dodrina^penitus intelligit . Procul tamen in limi  ne Tyfiphonem uidet.ponit igitur furias in limine tartari/de quib^plzra<]p quz  a poetis finguntur uelutinotiffima omittam . Plane aurem conflat placuiffe pri  (as foiptonbus quicuni^ maiori flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in  Horcfhs Alcmconifi^ matricidio uidemus . Q^uo in loco quidnam aliud expri  tount furiz : nifi inquietudinem aepotius uexationem quandam turbulentif    In.P.Virg.M.AUego.   Narorima hxttd uluo quod fe ludia neroonoanaabfolmtur. VtminU  cts/ut mdida/ ut d«d<cus/ ut infamiam effugias ; nemo uident : nemo a^ienfc   Q uitcftisdtaripolTitadcfttamen Sp& confciennaiquxu “*8«* Sicium rapit . |au.ff.mum tcftimonium dior i comnncjt ^am «jb   cod*,; U^uenaled.fc^^   ilU flacellai hi fcrpentum moifus quibus fun* nos «agitant. Habes de tun   t S aurem Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt a principio enumexat . Impietatem in  S in homincs.Nam & tianiam prolem   flurni naulo ante dicebam / confaentix cruciatum dodioreinterpretantu^   ?e enm ueluti Ceuiffmus fcelcrum uindearqux flagitio obnoxujU^ i^  na affiduo nmarur : & dum commilli in mentem  dia corrodit /curafm afliduo excitat /nec eefpirandi fpanum  ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe uuir/quo*   Upfura cadenti imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt . (^uod & Dionyfius ille iyracufanus Uamodi tamilun  L illum beanffimum putanti probe oftendit / cum illam ita int«   ^s epulas ac pretiofa unguenta coliocaflct /ur umen metu   fupta caput equina feta pendentis nulla poffet uoluptate a la .   mSlto rnelius\ofcunt h^ines quam detur modo impeni acquirendi fa tasttuitate fciant.Ncc ueto diffiale eft intelligne quid ftbi   te ora paratx regifico luxu; cur furiatum maxima luxta   ptohil^t contmgae menfas ; Neq, emm uerius neq, «prelf.us   Le potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut cumpluniM^   geffeS/tum maxime fame per, re malint quam congefta   fe & pulchre Orarius Tantalo illos comptat / qui apud in miiima aquarum pomotumtp copia fm fame^ torqueatur. Pulchre em   am^ illud tCongefiis undiq, Ciccis indormis inhians & tanq^uain   SI coceti* j pidi» unquam gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn   da qw non norunt harum rerum poffelTioncm non propter fe   ntef illatum ufum.6 uapropttrbonailia nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu quando multis iamin locis de auanua diximus /i  «deliqua uidcamu* : Saxum enim ingens ii uoluum i. Quotum uiu per Itm  mam mftriamin eo uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir ««/qux aut nativam aut fortunam suam confbtuu efficere nequeant i o^el^ eoii«  conatus irtiti mefficacefij fint.Rourum uao udus dettndi pendere nmw‘ Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM) ptzuidcnteiinihil P‘“^,  deo fe fortunx conimittilnt/ut eius cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw  affiduo totentur.ne« uittutem ullam habent in quatn ueluu in tutum ttanq him potturo W^tteapoepofli Bu Huiufcemodiigitutu Ut tactchqnaquxpItt r- Liber guaitiu  rimi uaria^ fuot edocet Aeneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis «pii>  ct admonet : ut punis campos clyfios ingredi poflit . ms igitur Matontm  a Platonis dogmate difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in di'  uinarumtetum cognitione pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium gr^  nete excellere cum opottae : qui cum Iit futurus beatus / tamen ab iis in<  dpiendum cITc oftcndit qua: Ant in uiu & moribus poliiz . Cum enim dv  uioa / quae puriflima 6i ab omni labe corporea impolluta lunt impurus nr-<  mo attingere ualeatt pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur neccire cU/ illis ctjita  tL uitia cogDolicimust SC cognita abhominamunat puiilliau ndiu i.xlo^  fiia ac immortalia egredi poAumusiHac igitur ratione iinpuilus Maio cum  ad tummum bonum perducae honunem uelitt ira Acnram iiiflicuendum  curati ut primo uitia omnia edoceat/ deinde illis cum opiaium ad campos  clyAos perducat. Cognita enim uitiorum turpitudine totum odium  Boa inepuiquz quidem prima omnino lapientia cft. Audirus cnim ad il«  km/cA,ut fiulritia careamus . Sed tu nefcioquid mirabundus tecum animo  ooluisiifibuc ipfnm inquit LAVRENT1VS. Stduide.quantum tibi extua  diTputationc debeam. Dum cnim mihi planum icddeie Maronem ttnusi  id^ efficis eodem tempore in noAri duis diuinum poema induds . Nunc  cnim demum pcrfpido quid Abi uclit Oanihcs / qui piimum ad inferos de<  (cendattat^ inde emergens, nullam aliam uiamniA pcrpurgato iialocaadca;  Ium inucniat : Made uiitutis adolcfccns inquit liAPTlSTAi qui non ea ib  lumquz dicam Si A diffidlia Ant facile acapias. Seu quadam Aaulitudiueou  dusinde ad alia accedas/ut cum ilk maximam laudem ex diiigcntiilin<a qua «  dam ingenii atrihd^ plena imitatione alVccutus At : tu quoqi uuuciedio<>  acm laudem mcrcaris.qui bzc omnia/quanquam uebemcutcr dilliuiuJata lint  in illo poeta rccognofcas. Ego uero inquit.L. quantum cx huc merear ipfciu«  dicabis tqtianquam ueriorne nimio in me amureiaplus noAiutnlioc ingcnk  um longe pluru facias/ qua oportet.iliud tamen Si A alicnuni a ptopolito fcf<t  mone uideatur/non omittam .Tu autem quod dicam ea laiiunc amc dida  aedas ueliin / non ut meum ueluti decretum in tanta icponam / fed ut iudtci'  iitntuum quod ego onmium reliquorum ludicioaotcponomcu uerbis elici  am • Ego a prima pene puetma cx uiaufqi patentis m Aituio adeo famibate uni  uctfum opusAorentim poecz mihi reddidi / ut pauci omnino Ant in eu lod  quos ego Aquando illi huiufecmudi oblcdamcntt gciius rcquitcter.t/ non fa«  cilc ad uubum exprimerem. Sed quid poteram puer ex um dtumo uacc ptet  maa uerba pcteipcre.Nunc autem cum uniuetfum rci argurocniu mciice peu  curro tumma admirauone cius uiii ingenium ptofequor.Na oi lu upexe fuo te  xendo pauca onuiino Ala de uirgiliaiu teia mutuari uideac ttameii mde oia pe  ne Ant.l uiobtcmnuncnd demum inteiligo/quod nos cx Cict-roms peepto  IzpenufflccoLidinus admonete folct cc in aliquo imitadu diligctcm oino u*  dooe adhibcnda.Nci^ enim id agendum uri idem funus qui fuut miquos imi  tamut.Scd cotum ita iimilcs : ut ipla Amilitudo uix illa quidem neq oiA a do  dia iatcUigauit.Sed tu A uidetut ad inceptum tedi. Cum igitut inquit. &    la.P .Virg.M.Allcgo. omnibus iam uidis expiatum Aeneam ad eamm rerum cognitionem Mato  deduAurus elTettqua; in casiis funt noncxlum fed elyfios ampos nominat.  Miro profedo ingenio u3tes/& qui eodem tempore & figmento fu o Kuerita  tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more heroas relcgalTct i tamen  nt hzc omnia de czio ilium fentire animaduertamus largiorem ztherem : ac  fuum folem fua^ fydera illis tribuit / ut cum a figmento nufquam difcedat  philofophizumen ucritatem profequatur . Nos autem (i quos uirosilleincz  ios reponat diligentius confiderabimusiea omnia quz primo difputationis die  de utroi^uitz genere a nobis erporiiafunt acubflime ilium elTe complexum  animaduertemus / ut K qui in rerum cognitione reIigiofe/8; qui in adionu  bus ac uitaduiliiufte uafati Hnt digni omnino exiftant: qui in czlumuelu«  ti in originem fuam redeant i Q_uapropter BC Orpheum Si Mufeum ac reli>  quos qui cafti fuerunt facerdotes : qui phoebo digna locuti uerum reliquis ape  rite potueruntsqui uaharum aitiu inuentioneuitam cxcultiorem reddiderunt  tanquam fpeculatores cotnmemorat. Nei^ tamen eosobmittit qui aut piisar<  mis aut confilio opera induftriaat^ audoritate rem publicam dcfendcruntiK  in duiliacfocialiuita ueifati funt.Huiufcemodi ita<^ animos ab omni cor«  porea contagione expiatos cum fimplidlfimz 8C omnino incorporez naturas  fint : SC maximarum rerum capaces exiftant mullis locorum anguftiis arcuferi  ptos nullis regionum terminis inclufos eum animaduettac / fcd liberrime per  omnes mundi oras uagareuideat: ita Mufeum loquentem indudt: ut often.  dat nulli e(fe certam domum Quin & cum ita fenoit quz gratia cunumiarmo  rum^uiuis fuit quz cura nitentes pafcere equus eadem fequitur tellure repo*  flos, demonfkat non clTe fcimroemoremeotu quz et divinus Plato t placo,  nicus CICERONE de animis noftrisfentit.Cenfent emm adminift ratores terum.p. cum in czium recepti fuerint regendorum hominum curam non deponere.  Net^folumii quiiuflepieqt uixerunt eodem audore iifdcm (ludiis detinen.  tur corpore exuti t quibus dum uita manebat deledabantur: Verum llagttio.  forum quotp animi quoniam multum ex fordibus quibus intta corpora fe  fadauerunt/ fecum inde trahunt a prilhnis curis difcederc nequeunt. Vidt«  ftis ni fallor longum quidem iter ac difficultatibus erroribufi^ plenum: fed  quo tandem uir uirtutis amator finem diu concupitum attigent. Per uari.  05 enimcafus pertot diferimina rerum initaliam tendam s OC in quietas f&.  des deuenit Aeneas. Quem quidem fi imitabimur nos corporeis pedibus  liberati / SC nitido uirtutum fonte irrigari eodem uitz genere SC dum intra  hzc corpora uerfabuntur animi nofiri gaudebimus /& cum inde uoiucrint  innoftram originem reuerfi zterno zuo fruemur. Q uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt : ut difputationi finem impofuiffe uideretur/nihil polfutn  inquit LAVRENTIVS in ram longo fetmone defiderare.Nam a principio ad  hunc uf^ locum ita perpetuo tenore difputatio perduda edtut nihil aut inter*  niptu/aut diuulfum/aut ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn omif  fum ue fit qri poffu.Sut eni oia mirabili fetie colligata/& eo ordiecotextaiut ni  hil inde demi pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt futuraiK nihil addi qrf  J M M S IJ i J i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S fi-lltt  quidem 6 ab/it /multopere requlreudu uideat’. Ignoscens tamen nimiz cupidi  tari no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu uehementer mihi planum reddi cupii  idne^badcnusateez porituintclligisnc locuinquo deinceps exponi poflit  teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo uerum etiam anxio animo  quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes fuo ordine pandit. T u ueto dum  rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods difiribuis/illa no ueluti familiaria io  iufteeiedarfcdtanqua aliena rine ulla iniuria czclufa procul a tua difputatione  amouifti . Qua propter incertus fum quid agam:Nam ne<^ audeo te longa ora  rione defatigatum quicquaprztercarogareme is quz fcire cupio zquo aiu^  mopoilu carere. Hic arridens BAPTISTA meminiife inquit te oportet o Lau  miri nos huiufcemodi terminis aniuetram quzfiionem drcurcripiifre : ut quz  ambagibus quibufdam/atip allegoriz figmentis obfcurata effent aperienda pro  poncremusim autem ea tequins quz fuis uerbis fine ullo figmento enarramr.  Ego tamen non ita exada ratione tecum agam/utquodexpado debetur/id fo  Ium enumerem t Sed prauerid gratis aliquid in ea hbcraliiatc accedere uolo : Id  igitur quod Maro ut Principio czlum ac tenasicampofcp liquentes. Lucentenv  ^globum lanzritania^a(ha:Spiritus intus alit : huiufcemodi eri utftoicora  de diis opinionem refetat:Longum effe fi nunc omnium antiquorum philofo«  photum de diis immortalibus fententias referam: Q^uz quidem tam diuetfx  ta^ inter fe aduerfz funt/ut totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui feri  pfciuntcapita: Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas fmccrias excogitari. Sed fzpe inter fe eiufdem fedz uiri uehementer de re ipfa diffentiunt. Verum ut  reliqua ad przfcnsmiffa faciam & ad ea quz przfenti inquifitioni confentanca  funt deucniam:plzri^ ffoicotum:fed przfertim eorum princeps Zeno uniuer«  fum mundi globum mentem & ratione &fummafapientiaprzdita habere ae«  didaunt /eam^ effe ignem quendam purissimum ac tenuimmu . At ueluti ani  mi noftri per fui corporis particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me  bta ueluti geniule femen unde eunda procreantur penetrarciquippe qoi uigot  fcmeni^ fit omniu procreandorum. Virgilius igitur qua uis ui reliquis a Platone  fuo nunqua difcedat tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic libro Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari ut ide  prifcosolim poetas fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis (loici  fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe cupiebat diftiml> Iis putaretur ipse PORTICUM fulcire ac floicis adhauere.Na Platonis longe alia  fententia eff. Ponit enim deu penitus incorporeum:at^ extia omnem materia  omnem mundum inipfoczlidorfo exiflentem. Qua propteeillu hypcrcof  mlon appellatiquoniam eifentia sua supra cxli uerricem mancaticum tamen ui ac providentia nufquam abfit.fed omnia circufpiciens etiam minima curet.In  phzdro enim ait. Magnus in czio lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua  exoinanscunda.Eodem^ in libro demonftrat locum illum neminem adhuc  laudaiTe poetaiummec unquam pro dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum  Platonici deum eztta mundum ponantiquibus etiam Ariflotelici alfentiuntutt  Stoici aut illu per omne ut dixi mundum diffundat, qs no uiderit Virgilium /i    in. P. Virg. W. AII fgo.   cutn dcutn quctn in potticu uiderat dcfcriplii Tcnnimorip noftros illius partica  bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem prouidcntiam dci multis in loas prafe  quatutinufquara a Phtune difcedit.Non enim idem omnes rendum.Quzras  fottaUe quid de mundo sentiat PLATO [PLATONE]. Ccufet quidem animam eu babcrc/a qua  reliquorum animantium animz (int. bominum autem animos abeo deo que  paulo ante dixi creah:££ ratione exornari uultiCorpus autem atip cacterasoes vires quas praner ratione mia bi seiTefamus bomiiaiabanimo mundi elTe (ai  bit.EQ enim lile dei uicatiusicuirjlua uniuetla ueluti fua prouinda denudata  Imltai^ illi uita moturai prxbet/non fuaui autfacultate ledquicquidagitid  uelun dei in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia Matotat a Pia/  tonefuo discedit. Cum autem dei prouidentiaplunmis locis profcquicuri illi  totus adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz qui calt  bus omnia ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in sententia Leucippum abdaitem/eiufe conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S  Theodorum ac Epicurum repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita  odofum deu ponauut nibil omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu  nz orbem dclcenderenoaeduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper tingere illam uelint maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli  gere opinent. At Piato ut eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti  mau Atipbzcdedeo.Otbeucto quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc pustat inde rurfus ad inferos tranfirefaibit ab academia cftc non negamus:  Verum si latius de re buiufccmodi dilTcrendum propofuilTcmusiextant multo  diuiniota quz a tato philosopho de aiope corpore difcclTu pferre poiTimustSed  difficile oino eff um breui tempore res arduas longa diligende otadone explicandas bisanguftiis includere ltaij quod roluminffat idagamus lnuenies igitur apud Platonicos cu mille annos apud inferos fuciint animi bominn ad  corpora illosredireiatijinde uidffim ad inferos remeate.ldi^ totiens facere do  nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim orbe perfedu extChmat.Na  eo fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe illos tu demu purgatos/in  fuam origine et adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis fuerit qui pbilofophiz fe  dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei poft tria annopt milia ad fupe  ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino uixeritieu ante mille annos H purga/  ti/S purgatu (fatim in fua origine redire: Eff prztcrea quemagnu annu appcl/  ]at:quc cuc finiri aedunt cum fol una cu luna ac quin^ reliquis enatilibusffel  lis ad eade zodiaci parte rcdieiint. Exado igitur boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru de illo uiro ru sententia rex tamen ac triginta millibus annoruconfi  ci plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu bominu animas ad eunde uitz babi  tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/& quid facicnda/fadleexco libro perapi  cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet Matfilius habet: nec adhuc edidit.  Vciu ego cum apud ipfum inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu incides aperui locof  quofdam fuma cum uoluptate percurri. Res omnino magna eff LA V/  tcd/fl( magnis ingcniuinbus ttadata Sprotfus digna in qua labores. Poterit nitn no tolum maxima ac pulcherrima et homini fe ipfum noffc cupiend per    quartus   aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo admirationem rapere. Scnbit enim  non phyticcCut plxri solent sed metaphyiicc de animoru noftroru immorta  litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem amouere. Quem librum cu  Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^ alia quz nos paulo antediuinif  fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces. Qux quidem res facit ut in iis  quzpo (hilafiibre uiorquelles /forta(»fuerim.l^hil tamen eft quod breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius difputationis quam pepige  camus cancellis includerentur/poteram illa meo iurefilentio przterire. Itacpid  facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos vero dodif Timi viri quomodome  purgem non invenio.Video enim dum pofiulanti LAVRENTIO nihil d&>  ncgo/duplids errati culpam inddifle.Nam quid me aut loquadus fingi poteft/  qui quarto iam die ea eruditifiimis aunbus uefiris inculcare non delinam : quae  quadodrina efiis/uobisqua mihi notiora fint: aut aud adusex cogitari quiim  praemeditatus ad differendum de iis rebus accelferim quzado dilfiinis iifdci diuprz meditads uids uix faris eleganter pro sua dignitate explicari folcant. Im  mo quid humanius/quid tua fadiitate dignius refpondit Alamanus effid potu  Itqua meanobisodofis dilferere quz tamen magnis vehementer cp urgentia bus occupationibus przponere non dubitaremus.Nos autem inquit Petrus ac  daiolus uolo enim et pro fratre meo refpondecc ne optare quidem id aulielfe tnuss quod ultro nobis arridens fortuna attulitiut tu tali przditusfapientia at ELOQUENTIA VIR ea deduplid quzftione primis duobus diebus breuiter per. Ipicueiabfoluteip in unum congereresrquz non nili per fummum laborem: (i>  mam indufiriamex multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt . Nam Maro  nis diligentifiima at^ multiplid dodrina referta interpretatio in qua tertio ac quarto iam die uetfarisitum quia pulcherrima tum quia inaudita accidit no mi  nori Ihiporetqua deledationc nos alfecit. Non polfut fatis pro fua dignitate lau  dariquzatedidafunt inquit Antonius: Sed utinam Baptifia quoniam reli quamztatem Romzcon fumpfilb hanc tandem fenedutem patriz uel optao ticodonare uei illa tanquaafuociue exigenti corpore uelisutfzpius te de magnis rebus difputantem audientes ciues tui dodiores indies meliorefc reddantur. Verum has ego huius Marci partes ee ducoiTe enim pro ea quz illi tecu intercedit nec clfitudine modo nitat facile in sua sententia tradudurum confido. Quin ifihuc ia diu ago inquit Marcusinec prius defina qua aut ronibus impc' travero aut praecibus ezotnaueto aut defatigando extorfero. Sed ut confido  muItum meineateiuuabit LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu. NI cu  inultu iam in litteris uter pfeccrit: fitr multatu tetu addifceda^ ardentiffima  cupiditasrcu cztera illis & a natura 8C a fortuna adiumeta ad re perficiendam  abunde aifintind pariet'' ille diu adolescentibus quos cariflimos habet operam  sua desiderari. At q liceat md iqt BAPTIfta ego talib5’adolescentibus ounq deerot  Sed furgamus ii/SC qm primo mane uobis e in urbe redeudu.intellexifti cni pau  lo an uurcriu publicis Ifis accctfiri quod reliquu diei eft ualimdini ipedamus.  Quzftionu Canuldulefiu Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini  QuaitifiC ultimi libri Finis. Cum Priuilegio. -Z.sisqfc "Moibc scof.  Questo lavoro porta nuovi elementi allo studio delle complesse vicende inerenti i RERVM GESTARVM FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni Simonetta e il relativo volgarizzamento, la sforziada di Cristoforo LANDINO. Nel saggio introduttivo si indagano gli aspetti biografici, storici e filologici riguardanti le due opere, partendo proprio da SIMONETTA, attivo nella cancelleria di SFORZA assieme al piú noto fratello Cicco Simonetta, e ricostruendo la storia testuale dei Commentarii dalle loro origini agli emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in vista dell’editio princeps, senza trascurare le vicende editoriali e le prime reazioni all’opera. Punto di forza dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato nel dettaglio il manoscritto originale, nonché esemplare di dedica, dei Commentarii, già noto a SORANZO il secolo scorso quale codice Castelbarco. L’attenzione si sposta quindi da Milano a Firenze, entrando nell’officina testuale di Cristoforo LANDINO per sondare la sforziada dal punto di vista metodologico e contenutistico, con un conseguente particolare riguardo per le vicende successive all’invio del manoscritto di dedica (copiato da Tommaso Baldinotti) a Milano, dove il testo viene sottoposto dal Simonetta a numerosi interventi visibili ancora oggi. Chiude la parte introduttiva un capitolo che vuole delineare la storia dello sviluppo dei commentarii come genere nel quadro storiografico dalle origini alla fine del Quattrocento. A seguire il lettore troverà l’edizione critica della sforziada in veste integrale, corredata di un approfondito apparato comprensivo degli interventi che ne testimoniano la ricezione a Milano. Grice: “Perhaps more interesting than the fact that he loved the Achilleid, and commented on the Eneide, is that he sold the sforzeide – sull’eroe Milanese, l’invitto Francesco Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo Landino. Cristoforo Landino. Grice: “I love Landino; for one he wrote the first Italian philosophical dialogue, “Disputationes” – for  another, I love the setting!” Landino. Keywords: dialettica fiorentina – implicatura fiorentina – la Sforziada di Simonetta. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Landucci: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- i misteri del delitto Gentile e le bestie senza stato di Vespucci – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sarzana). Filosofo italiano. Grice: “If I had in Hardie a wonderful mentor to Aristotle, I missed Landucci’s mentoring me into Kant!” – Si laurea a Pisa con Luporini. Insegna a Firenze. Altri saggi: “Cultura e ideologia in Sanctis” (Milano, Feltrinelli); “I filosofi e i selvaggi” (Bari, Laterza); “L’origine della scienza sociale” (Firenze, Sansoni); “La co-scienza e la storia” (Firenze, Nuova Italia); “La contraddizione” (Firenze, Nuova Italia); “Teodicea” (Napoli, Bibliopolis); “La Critica della ragion pratica” (Roma, NIS),  Sull'etica di Kant, Milano, Guerini, La mente in Cartesio, Milano, F. Angeli,  I filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La doppia verità: conflitti di ragione e fede tra Medioevo e prima modernità, Milano, Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista, "Repubblica", Scheda biografica su Einaudi. Sergio Landucci. Grice: “Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI L. – I MISTERI DEL DELITTO GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68 IN CATTEDRA ("FUMMO INVASI DAGLI ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI RACCONTA: “MI PIACEREBBE SCRIVERE UN saggio SULLA DEMENZA SENILE CHE STA ATTANAGLIANDO L' OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE DICE: "GRANDEZZA È CIÒ CHE NOI NON SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE L'ABBIAMO DIMENTICATA…” Gnoli per Robinson-la Repubblica  landucci LANDUCCI  Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a un grande libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora, tanto sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto parlando de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l' editore Laterza ed è stato ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua lettura mi colpì allora e mi rimanda all' oggi con i "selvaggi", sempre meno variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le loro terre martoriate. Il paragone turba L.. Seduto nello studiolo mi guarda con la sua faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si stupisce e quasi si scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo timido, deluso, gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita rabbia. Landucci è stato allievo di Luporini, ha insegnato all' università di Firenze, subendone, dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni ordinario. Quasi immediatamente percepii un generale clima di ostilità e rassegnazione. Con una rapidità incredibile la facoltà di filosofia adottò una selezione alla rovescia: vennero avanti a passo di carica gli analfabeti, i carichi didattici furono alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto tremendamente male gli anni dell' insegnamento e decisi per la pensione anticipate. È stato così frustrante il lavoro universitario?  «Lo è stato certamente per uno come me. Mi consideravo, come si diceva allora, un "cane sciolto". Mi stupì constatare che la facoltà si era ridotta a una grande cellula del Pci, su cui si incistò dopo il '68 la contestazione studentesca».  I punti di riferimento furono però due grandi personalità di sinistra: Garin e Luporini.   «Maestri indiscussi. Mi chiedo tuttavia quanto sia stata acuta la loro vista politica. Garin fu il grande interprete di una filosofia come sapere storico, il suo storicismo era totalmente in sintonia con le posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c' era un inquietudine ben maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con le ragioni degli studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo moltissimo, sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il sopravvento. Era lo spirito del tempo. Ne facevo parte anch' io, ma senza tessere o bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all' Università di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini. Quali erano i vostri rapporti?  E mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi affascinava quest' uomo che andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e seguì i corsi di Heidegger». Credo sia stato uno dei pochi italiani a frequentarne i seminari. C' è un episodio rivelatore del rapporto con HEIDEGGER Quando il filosofo tedesco pronuncial il famigerato discorso con cui si insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell' adesione al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lascia Friburgo per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai corsi di Hartmann. Il maestro lo liquida con un ironico "tanti auguri"».A proposito di filosofi si è spesso detto che il vecchio lupo, così era soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a sapere i dettagli dell' omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare?  « C' è innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller, ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali. GENTILE aiuta Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e all' Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiama Luporini alle due di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».Questo è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la situazione precipita. Luporini va a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli dice. Professore c' è gente che non aspetta altro per ucciderla. GENTILE aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato. Si è detto che Luporini conosce i mandanti e gl’esecutori dell' omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa nulla, o almeno nulla di diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal senso, ma credo e il frutto di un fraintendimento. La frase di L. e questa: Cose che forse non si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e frutto di equivoco? Il fatto che accreditasse la versione offerta da Mattei, che sull' argomento cambia più volte opinione. Fino a sostenere che dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI. Mai uno straccio di prova. Credo si sia perfino inventata che fu lei a indicare al commando gappista la figura di GENTILE, che non ha mai conosciuto. Poi c' è la testimonianza della moglie di LUPORINI Maria Bianca Gallinaro, la quale mi disse sconsolata che la storia che Luporini sapesse era solo una leggenda, del tutto infondata». Possibile che non ci fosse un grano di verità?  « La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI e emotivamente coinvolto. Dopo l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo all' ospedale. Il fratello della signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli se vuole vedere per l' ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in fin di vita. Non credo sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo quella dichiarazione radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non pronunciare più quella frase».E lui?  « Non so se fu una mia impressione ma gli lessi negli occhi un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi frequentava?  «Tra le persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO.  Di quest' ultimo divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una certa paura per il modo di fare lezione e interrogare.  «A me, che non sono stato suo scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita ideologica piuttosto travagliata?  « Se allude al passaggio dal fascismo al comunismo non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato il pensiero liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia guidata dal potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma perché non ne poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.  «Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così incisivo? Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua famiglia com' era?  « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un impiego modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre anziano e la mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio fratello, per paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di altri tempi. Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista dice chauffeur, vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l'asciugamano dice passami il Amava il melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo e mia madre. Risultato: ho sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più di quanto non abbia detestato che mi chiamassero Sergio». ROUSSEAU  Dà l' impressione di un uomo provato dalla vita.  Sono molto amareggiato dalla mia vita professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di entrare nei dettagli, ma ho l' impressione di essere stato irriso e torturato dalla vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata la mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha consentito di vivere».     Non è vero, il suo libro sui " Filosofi e i selvaggi" è un grande libro.  «Non diciamo sciocchezze, troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Diaz. Scriverlo, fu un' idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi appassionava Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del selvaggio e a prenderne le difese.  « Non è il primo, ma in qualche modo rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni, non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che soffocano la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà?  «È solo una tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la violenza, il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la mitezza del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau.  «Fino a un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze questa impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di Montaigne Hobbes parla di uno "stato di natura".  firenze  FIRENZE Dove tutti si fanno la guerra e dove la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine di questa condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che vengono fatte dei selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall' antichità si sia servito di questo mito con le peggiori intenzioni?  « È passata l' idea, con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni ipotetica assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è vissuta come una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha perfino parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione.  «Nelle fasi di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su ogni aspetto della vita politica, il delirio - come strumento patologico - rischia di trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che contribuisce ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia nessuna giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro la teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta attanagliando l' Occidente.  Ma non credo di averne più la forza. Mi resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of the ‘barbarian’. It all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake philosophical position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy, and they have no state! Vespucci moe or less thought the same, but for different reasons. Just like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a savage!” -- Landucci. Keywords: i misteri del delitto Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lalla: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella selezione sessuale di Nerone, il musicista – filosofia triestina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). FIlosofo italiano. Grice: “I have been called a Darwinist, which offended de Lalla!” -- Figlio unico di Achille de Lalla  e Anna Millul.  Il padre, nato a Napoli da famiglia originaria di Tolve, aveva intrapreso la carrriera militare, giungendo a ricoprire il grado di Tenente colonnello dell'esercito e congedandosi con il grado di Generale dell'esercito. Prese parte alla Prima guerra mondiale nonché alla Seconda guerra mondiale, dove rimase ferito alla spalla destra in Russia. Fu in seguito Dirigente dell'Istituto per la Ricostruzione Industrial. Achille de Lalla era figlio di Ludovico e di Maria Buonomo, figlia a sua volta di Alfonso Buonomo, compositore e musicista napoletano di fama.  La madre Anna Millul era nata a Roma in una famiglia ebrea originaria di Livorno. Si laurea, allievo di Kalinowski di cui traduce in italiano il saggio "Interpretazione giuridica e logica delle proposizioni normative".  Scappa a Parigi, prendendo parte al Maggio. Tuttavia, fu tra i primi ad intuire che il Partito Comunista francese non aveva alcuna seria intenzione politica di sostenere la Contestazione e, in anticipo sul fallimento dell'iniziativa giovanile, lascia la Francia rientrando in Italia deluso. Studioso di Evoluzionismo e Politologia, e è proprio sulle sue teorie sull'Evoluzione umana e sul pensiero di Darwin che scrive l'opera “La selezione sessuale”. Insegna a Siena e Napoli. A testimonianza del grande successo che riscuotevano i suoi corsi universitari, rimane la petizione indetta dagli studenti affinché il Senato Accademico li prorogasse per un biennio.  Gl’ultimi anni Ritiratosi a vita privata, muore a Napoli nella tarda serata del 25 settembre  d'infarto mentre attende alla redazione della sua ultima opera. Est Deus in nobis Contributo alla Nuova Evangelizzazione e, nelle intenzioni dell'autore, avrebbe dovuto costituire il completamento della trilogia iniziata con Evoluzione e proseguita con La Comunità Democratica.Convinto assertore della superiorità del Diritto pubblico rispetto a quello privato, si è sempre posto a tutela delle prerogative statuali.  Convinto assertore dei rischi della dilagante esterofilia in campo politico e fondamentalmente euroscettico negli ultimi anni di riavvicinamento al cattolicesimo, ideò un progetto di edificazione di un nuovo partito politico che, nelle sue teorizzazioni avrebbe assunto il nome di PARTITO CRISTIANO COMUNITARIO (DEMOCRATICO) ITALIANO PCC(D)I.  Saggi: “Il concetto legislativo di azione penale” (Jovene, Napoli); “La scelta del rito istruttorio” ( Jovene, Napoli); “Logica della prove penale” (Jovene Napoli); “La pena militare” (Jovene, Napoli); “Topografia politica della repubblica” (Scientifiche, Napoli); “Il completamento istruttorio del giudice nelle indagini preliminari in "Riv. it. dir. e proc. pen."); “Evoluzione,” “Darwin e la selezione sessuale” (Salerno, Roma); “ Selezione sessuale” (Scientifiche, Napoli); “La comunità democratica: idee per una politica nuova” (Guida, Napoli) – concetto di KRATOS --“Comunitarismo” (Guida, Napoli); “Nerone, o Musica nella antica Roma”  (Guida, Napoli); “Composizioni musicali Per pianoforte Sonata n.° 1 Suite "italiana" Sonata n.° 2 Sonata n.° 3 "napoletana" Musica da camera Sonata per violino e violoncello Sonata per violino e pianoforte Sonata per violini, viola e violoncello Note  de Lalla F., Una famiglia borghese, Ed. Ibiskos   de Lalla F.,   in "Il foro penale" ilcambiamento,// ilcambiamento/ articoli/ evoluzione_2_ darwin_de_ lalla_millul. ateneapoli,// ateneapoli/news/ archivio-storico/ reintegro-del-prof-de-lalla-il-consiglio- di-facolta--si-esprime- negativamente.  petizioni.com/ petizione _pro_prof_paolo de_lalla. Grice: “When I hear that a philosopher has written yet another trattarello on the filosofia della musica, I always thought not of Orpheus and his lute, but of NERO and his lyre!” -- Paolo de Lalla Millul. Paolo de Lalla. Lalla. Keywords: evolutionary, sexual selection, Nerone, filosofia della musica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lalla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Latini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- l’implicatura rettorica di Publio e Cicerone -- implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “Latini reminds me of Hardie; he was Aligheri’s mentor; Hardie mine!” -- Grice: “People say it all starts with Alighieri; but the real ‘filosofo’ behind Alighieri surely is Burnetto – he has chapters on ‘Platone,’ ‘Aristotele,’ and the rest of them.”  «Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde»  (Divina Commedia). Figlio di Buonaccorso e nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia. Le fonti storiche e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva partecipazione alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X per richiedere il suo aiuto in favore dei guelfi. Tuttavia, la notizia della vittoria dei ghibellini a Montaperti lo costrinse  all'esilio in Francia. I cambiamenti politici conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento sconsentirono il  suo ritorno in Italia. Fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della repubblica, stimato ed onorato dai suoi concittadini.  La sua influenza divenne tale che a partire si trova a malapena nella storia di Firenze un avvenimento pubblico importante al quale non abbia preso parte. Contribuì notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta "pace di Latino".  PPresiedette il congresso dei sindaci in cui fu decisa la rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati, in numero di dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si fa frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono. Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona.  L'autore definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto” è presente già nei manoscritti più antichi,  presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del “Tresor”. Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di Montaperti, si perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione si imbatte nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli illustrano la composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il “Tesoretto” si interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo, che sta per spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia (Venezia, Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più celebre, scritta durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche "è la parlata più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di tre libri e risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri testimoni sono stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola.  Il primo libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia, geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù, attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane, il romano Publio Vegezio e Cicerone.  Altre opera: è inoltre autore di un altro breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e commento del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss, Alterità e modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal "Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S. Vatteroni” (Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in Storia della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami, Squillacioti, Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo romanzo,  La tradizione dei volgarizzamenti toscani del Tresor con un'edizione critica della redazione alfa. Verona. Edizione del volgarizzamento toscano.  La colonna posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore; “Livres dou Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio & fratelli da Sabbio, ad instanza di N. Garanta & Francesco da Salo); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi, Basilea, I. Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni dantesche: Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri", Enciclopedia dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, P. Fornari, Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute et honore, Co-Op Varese,  L. Frati, Brunetto Latini speziale, "Il giornale dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini, Firenze, Galletti e Cocci, U. Marchesini, Due studi biografici, Atti dell'Istituto Veneto", "La posizione del Latini nel canto XV dell'Inferno dantesco"). Merlo, E se Dante avesse collocato Brunetto Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i sodomiti?, "La cultura", Poi in: Saggi glottologici e letterari, Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura e scuola", Antonio Padula, Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e Napoli, Manlio Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV dell'Inferno, "Lettere italiane"(poi in: Letture classensi,  Longo, Ravenna; "Representations", R. Santangelo, "Tutti cherci e litterati grandi e di gran fama": "Il sogno della farfalla. Rivista di psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di Dante, Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e delle opera (Monnier, Firenze); Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il Favolello Il Tesoretto. Treccan Enciclopedie  Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta Imperii, su opac.regesta-imperii.de. Portal, su florin.ms. G. Orto, L.. Tommaso Giartosio, Dante e Brunetto Latini. Tratto da: Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano, Concordanze del libro del Tesoretto, su classicis tranieri, Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe Chabaille, Paris M. Giacomelli. La rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di rettorica, lo quale è ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti filosofi per ser Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è il testo  di Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia il prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia  del DICERE e lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male agl’uomini et alle città. Però che quando considero li dannaggii del nostro comune e raccolgo nell' animo l’antiche aversitadi delle grandissime città, veggio che non picciola parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti sanza sapienza. Qui parla lo sponitore. RETTORICA èe SCIENZA di due manière. Una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo saggio. L’altra  insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò cosi del tutto apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel  processo del saggio, in suo luogo e tempo come si converrà. Rettorica s' insegna in due modi, altressì come l’altre scienzie, cioè di fuori e dentro.Verbigrazia: Di fuori s'insegna dimostrando che è rettorica e di che generazione, e  quale sua materia e lo suo officio e le sue parti e lo suo propio strumento e la fine e lo suo artifice. Ed in questo  modo tratta BOEZIO nel quarto della Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che sia da fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò viene a dire come si debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE PARTI DELLA DICIERIA o della pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in ciascuno di questi due modi ne tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in perciò che Tulio non dimostra che sia rettorica né quale è '1 suo artefice, sì vuole lo sponitore per più chiarire l'opera dicere l'uno e l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI BENE DIRE, ciò è rettorica quella scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE dire e dittare. Inn altra guisa è così diffinita. Rettorica è  scienzia di ben dire sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente dire sopra la quistione aposta. Anco àe una più piena difiìnizione in questo modo. Rettorica è scienza d'usare piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle  publiche cause e nelle private. Ciò viene a dire scienzia per la quale noi sapemo parlare pienamente e perfettamente nelle publiche e nelle private questioni. E certo quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua diceria mette parole adorne, piene di buone sentenzie. Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna città o comunanza di genti. Private sono quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che  queste parole sopra '1 dittare altressì come sopra '1 dire siano, advegna che tal puote sapere bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profiferere le sue parole davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere dittare.  Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo  artifice. Dico che è doppio, uno è rector e l'altro è orator. Verbigi-azia. Rector è quelli che 'nsegna questa  scienzia SECONDO LE REGOLE e comandamenti dell'arte. Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì l’usa in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle cause publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando l'altro dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore,  cioè il trovatore di questo saggui, e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e la cagione per che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à questo saggio. L' autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più sapientissimo de' romani. Il secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di Firenze, il quale mise tutto  suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è quella persona cui questo saggio appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e de' filosofi e maestri che sono passati, il saggio di Tulio, e tanto più quanto all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel saggio di Tulio, sì come il  buono intenditore potràe intendere avanti. La sua intenzione fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si mette a fare questo  trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna questione  proposta.  Et e' tratta secondo la forma del saggio di CICERONE di tutte le parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione, cioè, il trovamento di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre iiij° secondo che sono nel secondo saggio che CICERONE fa ad Erennio suo amico, sopra le quali il conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per che questo saggio è fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la  quale fue traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte guelfa, la quale si tenea col papa e  colla chiesa di Roma, fue cacciata e sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue vicende,  e là trova uno suo amico della sua città e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno, che Ili fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'apella suo porto, sì come in molte parti di questo saggio pare apertamente; et era parlatore molto buono naturalmente, e molto disidera di sapere ciò che' savi aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore Latini, lo quale era l)uono intenditore di lettera  et era molto intento allo studio di rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienzia  e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di questo saggio è grandissima, però che  ciascuno che sa bene ciò che comanda lo libro e l'arte,  sì sa dire interamente sopra la questione apposta. E in questo punto si parte elli  da questa materia e ritorna al propio intendimento del  testo. In questa parte dice lo sponitore che CICERONE, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale  al suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi, nel quale purga quelle cose che pareano a lui gravose. Che si come dice BOEZIO nel commento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia  dee prima purgare ciò che pare a lui che sia grave; e  così fa CICERONE, che purga tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire. Apresso la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele. La sentenza di Platone e che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede MOLTI BUONI DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE purgando questi tre gravi  articoli procede in questo modo. Che in prima dice che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza. Nella seconda parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più. Nella terza parte dice tre cose. In prima , dice che pare a lui di sapienzia; apresso dice che pare a lui d' eloquenzia. E poi dice che pare a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì mette  le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò molti argomenti, li quali muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e necessario. Nella quinta parte mostra di  che e come egli tratta in questo saggio. E poi che nel suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo pensa del bene e del  male che fosse advenuto, immantenente dice del male per accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno nuovo male che di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non ricordarsi delli antichi beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per potere più di sicuro lodare e  difendere. E per le sue propie parole che sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in  queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenza sono advenuti e che non si possono celare, in quelle  medesime la difende abassando e menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona che siano lievi danni  de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro comune altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino di Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì alto stato che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al  tempo di Catellina, di Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al tutto contrario a Catellina. Et  poi nella guerra di Pompeio e di Giulio Cesare si tenne  con Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato di  Roma. E forse l'appella nostro comune però che ROMA èe capo del mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove  dice l'antiche adversitadi altressì abassa il male, acciò  che delli antichi danni poco curiamo. Et là dove dice grandissime cittadi altressì abassa '1 male, però che, sì  come dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle  grandissime cose durare lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose rovinano. E così non pare che eloquenza sia la cagione (iel male  che viene alle grandissime città. E là dove dice che  danni sono advenuti per nomini molto parlanti 'sanza sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende rettorica,  dicendo che '1 male è per cagione di molti parlanti ne' quali non regna senno. E non dice che il male sia per eloquenza,  che dice Vittorino. Questa parola eloquenza suona bene. E del bene non puote male nascere. Questo è bello colore rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed accusax'e quando pare che dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE, O IMPLICATURA, del quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il conto da quella prima parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo pensamento ed dice li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella quale dimostra de' beni che sono pervenuti per eloquenza. Sì come quando ordino di ritrarre dell'anticiie scritte le cose che sono fatte lontane dalla nostra ricordanza per loro antichezza, intendo che eloquenza congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienza, piìie agevolemente àe potuto conquistare e mettere inn opera ad edifficare cittadi, a stutare molte battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie. Poi che Cicerone divisa li mali che sono per eloquenza, sì divisa in questa parte li beni, e CONTA PIU BENI CHE MALI perciò che più intende alle lode. E  nota che dice son messe ordinatamente acciò che prima si raunaro gli uomini in-  sieme a vivere ad una ragione et a buoni costumi et a  multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti ricchi montò  tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le battaglie.  Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gl’uomini fecero compagnie usando e mercatando insieme; e  di queste compagnie cuminciaro a ffare ferme amicizie per  eloquenzia e per sapienzia. 3. Ma ssi come dice e signifficano  queste parole, per più chiarire l'opera è bene convenevole  di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è   15. amico e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che Ilo  sponitore non vuole lasciare un solo motto donde non dica  tutto lo 'ntendimento. Che è cittade. Cittade èe uno raunamento di gente  fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini   20. d'uno medesimo comune perchè siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a vivere  ad una ragione.  Che è compagno. Compagno è quelli che per alcuno  patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi  divegnono fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di simile  vita si congiugne con un altro per amore insto e fedele. Verbigrazia: Acciò che alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza, e però dice «per uso  di simile vita » ; e dice « giusto amore » perchè non sia a  cagione di luxuria o d' altre laide opere ; e dice « fedele     i'-in compimento dell'altre parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/ aslroppiarc,  m a storpiare caunano, corretto poi in raunarono — Af ad avere una ragione, m  "al avere una medesima ragione M l'uno, -If' fuor {cfr. Tesor., vii, 54) — il' montò loro M-m parlando anno attutato - le guerre — il.' M forme amicitio, »» forme  d'amie— i^:mdichono— i^.- m dimostrare quello — io.- Af' 7 che sapientla 7 che eloq. .»/' volle intralasciare de genti — V-m raccolti - SI: m rachollì -  25: M son — S7 : M-m che è coiiipannia — M' si i> — 28 : .V ad un altro — 3U' por-  ciò — 31 . .tf ' conduco insto am. fcerlo per scambio dell'abbreviatura di et con quella di con) U ad altre amore » perchè non sia per gnadagneria o solo per utilitade, ma sia per constante vertude. Et cosi pare manife-  mente che quella amistade eh' è per utilitade e per dilet-  tamento nonn è verace, ma partesi da che '1 diletto e l'uttilitade menoma. Che è sajoiemia. Sapienzia è comprendere la verità  delle cose si come elle sono.  Che è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire addome  parole guernite di buone sentenzie. 10. TnUio. Et così me lungamente pensante la ragione stessa mi mena  in questa fermissima sentenza, che sapienzia sanza eloquenzia sia  poco utile a le cittadi, et eloquenzia sanza sapienza è spessamente  molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la qual cosa, se alcuno in-   l.ó. tralascia li dirittissimi et onestissimi studii di ragione e d'officio e  consuma tutta sua opera in usare sola parladura, cert' elli èe citta-  dino inutile al sé e periglioso alla sua cittade et al paese. Ma quelli  il quale s' arma sie d'eloquenzia che non possa guerriere contra il  bene del paese, ma possa per esso pugnare, questo mi pare uomo e   20. cittadino utilissimo et amicissimo alle sue (>) et alle publiche ragioni.   Lo sponitore. Poi che CICERONE ha dette le prime due parti del suo  prologo, si comincia la III parte, nella quale dice tre cose.  Imprima dico che pare a llui di sapienzia, infino là dove  25. dice : « Per la qual cosa ». Et quivi comincia la seconda,  nella quale dice che pare a llui d'eloquenzia, infino là ove  dice : « Ma quello il quale s' arma ». Et quivi comincia la  terza, ne la quale dice che pare a llui dell'una e dell'altra  giunte insieme.     3: M' om. e — 4: M- pdesi — m diloclamento 7 l'util., .tf' l'utilitade 1 diloclo —  8-9: .»/ ad ongno parole, m ogni paroleM-m om. sia.... sapienza — i-J : M' om. molto ^  i5: M-m lassa indireotissimi (m idireuissimi) — IG: M-m sola la parlatura — 18: 3l-m  sama — .)/ giuriare, m ingiuriare — Ì9-20.- .1/ luiomo cittadino, »i mi pare cittadino — .V-»i  a' suoi — .?3 • .1/ conincìa — S4 : M insini, .)/' inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) — So:  yr-ìii dice jiarla — M-m qui - 26: M insino — m là dove —M-m la (|ual dice.   (1) Questa lezione è oonfennata dal § 5 del coniuiento: « utile a ssè et al  suo paese. Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere avac-  ciamente in opera alcuna cosa nelle cittadi, sì ne conviene  avere sapienzia giunta con eloquenzia, però che sai)ienzia  sempre è tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno  V 5. savio che non sia parlatore, dal quale se noi domandassimo  uno consiglio certe noUo darebbe tosto cosìe come se fosse  bene parlante. Ma se fosse savio e parlante inmantenente  ne farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò che  dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione e d' officio, intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e  là dove dice « officio » intendo le vertudi, ciò sono prodezza,  giustizia e l'altre vertudi le quali anno officio di mettere  in opera che noi siamo discreti e giusti e bene costumati. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e studia   15. pure in dire le parole, di lui adviene cotale frutto che, però  che non sente quel medesimo che dice, conviene che di lui  avegna male e danno a ssè et al paese, però che non sa  trattare le propie utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo  e luogo et ordine che conviene. 5. Adunque colui che ssi  mette 1' arme d' eloquenzia è utile a ssè et al suo paese.  Per questa arme intendo la eloquenzia, e per sapienzia  intendo la forza; che sì come coli' arme ci difendiamo  da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto altressì  per eloquenzia difendemo noi la nostra causa dall'aversario   2.5. e per sapienzia ne sostenemo (2) di dire quello che a noi  potesse tenere danno. Et in questa parte è detta la terzia  parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae il conto alla  quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto da-  vanti et a conducere che noi dovemo studiare in rettorica     i : M Lande — M' avacciatamente, ma L avacciamente — S: m si cci conv. — 0; m  ODI. cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto M' credibile quello, m di quello — .)/' disse  — 10: .Vi om. il 2' & — 12: .»/' et altro — 13: .»f' che non siano — i4.- .V-m dall'altre ver-  tufli — 15:m adiviene — 16 : jn a lini  : solo L nelle ; (jli altri mss. e S nelli (.)/' nel!) --  19: M Adunque che colui — 22: M-m torma — M ne dil'ondono, m noi ci difendiamo —  23: il l'armi - 23-24: Af difendo — m così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro  aversario la nostra cliausa — 25: m om. ne; S non sostenemo — 26: m a noi potesse ave-  jjire (li danno, .V che noi potessimo tenere danno — 28-29: m dinanzi e; Jfi om. et.   (1) Cos'i richiede il senso; la lezione nelli ò nata certamente dall'aver preso  l'aggettivo comuni per un sostantivo.   (2) Intendo ne sostenemo = « ci tratteniamo, ci asteniamo », coni' è richiesto  dal senso e secondo gli esempii citati dal Vocabolario della Crusca.  per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò reca Tulio  molti argomenti, li quali debbono e possono così essere, e  tali che conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta  cosa pur di cosi essere ; e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in lettera grossa, e poi seguisce la disposta in lettera sot-  tile secondo la forma del libro. Tullio CICERONE. Dunque se noi volemo considerare il principio d'eloquenzia  la quale sia pervenuta in uomo per arte o per studio o per usanza   lo. per forza dì natura, noi troveremo che sia nato d'onestissime  cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione, (e. li) Acciò che fue un  tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li campi in  guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e facea  ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per ragione   l.j. d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione né umano  officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto le-  gittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né aveano  pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E così  per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita signorìa dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima misusava le  forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori. Lo sponitore. In questa parte del prologo vogliendo Tulio CICERONE dimostrare che ELOQUENZA nasce e muove jper cagione e   2.5. per ragione ottima et onestissima, sì dice come in alcuno   tempo erano gli uomini rozzi e nessci come bestie; e del-     3: ìl-m tale — .1/' jdii' che cosi sia - 4 : m pure ili dovere così essere-, .1/' de pur essere  — .5 J/ ' la spositione — 9-tO: .»/' o per l'orca di natura o per usanca — H: m d'ottime  chagioni 7 ragione — 12: il-m in tempo — 13: it^ lor vita per li campi in modo de  bestie 7 de fiere — 14: i/' om. e [non p. r.| —M maritaggio — M iihylosofi, m lilo-  safi — 18: M j gualianoa - 19: il^-L ignoranza, m necessitade — .»A' la cieca la folle 7  ardita — 20: M-m per mette — M-m (fuivi susavano, l. masusavano — 21:31' seguitori —  23: M-1U nm. quarta — 24: m om. e per ragione — 26: il' nefa, m noscii. l'uomo dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma,  che egli è fermamento di corpo e d' anima razionale, la  quale anima per la ragione eh' è in lei àe intero conoscimento  delle cose. 2. Onde dice Vittorino: Sì come menoma la forza  5. del vino per la propietade del vasello nel quale è messo, cosie  r anima muta la sua forza per la propietade di quello corpo  a cui ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal di-  sposto e compressionato di mali homori, la anima per gra-  vezza del corpo perde la conoscenza delle cose, sì che  appena puote discernere bene da male, sì come in tempo  passato neir anime di molti le W quali erano agravate  de' pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi et  indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde  misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tol-   15. liendo le cose per forza e per furto, luxuriando malamente,  non connoscendo i loi'o proprii figliuoli né avendo legittime  mogli. Ma tuttavolta la natura, cioè la divina disposi-  zione, non avea sparta quella bestialitade in tutti gli uomini igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello dici-   20. tore il quale, vedendo che gli uomini erano acconci a ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a divina conno-  scenza, cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì come lo sponi-  tore dicerà per innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio  nel testo di sopra che eloquenzia ebbe cominciamento per   25. onestissime cagioni e dirittissime ragioni, cioè per amare  Idio e '1 proximo, che sanza ciò l' umana gente non arebbe  durato. 4. Et là dove dice il testo che gli uomini isvaga-  vano per li campi intendo che non aveano case né luogo,     1: M' i figluoli (corretto poi lilosofi) — M' sucra — S : M' eh ehi ì\ l'ormato — 3: in-  tero è in M'-L; il lùlo (incerto?), m inerito — 4: M Ondee — 7 : m al (|uale — 8: M-m  mali hiiomini — 9: m per la gravezza — .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il bone  dal male — il: M'-L animo — .V-m i quali erano agravate, M'-L li quali orano aggravati — i2: W del peso de corpi, L de' pesi del corpo V in lor medesimo — 14:  lU-m Ivi susavano — 18: M-m nonn ào — M bestilitade — 10: M' oiii. savio o — SI: W  tralloro — 23: M' qa\ dinanzi - S4: W e cornine, >S ha cornine. — 26-27: »l' non averla  durata, L non avrìa durato — i« K colà.   (1) È lezione congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali si cambiò facilmente  in li quali (o i quali) per effetto del molti che precedeva, e da li quali, natural-  mente, venne in M'-L anche il maschile angraoati invece di aggravate. Che si  tratti solo delle animo risulta da tutto il periodo, e in particolare dallo parole  - la anima per gravezza del corpo ».   ma andavano qua e là come bestie. 5. Et là dove dice che  viveano come fiere intendo che mangiavano carne cruda,  erbe crude et altri cibi come le fiere. 6. Et là dove dice  « tutte cose quasi faceauo per forza e non per ragione »  5. intendo che dice « quasi » che non faceano però tutte cose  per forza, ma alquante ne faceano per ragione e per senno,  cioè favellare, disidejare et altre cose che ssi muovono  dall' animo. Et là dove dice che divina religione non  era reverita intendo che non sapeano che Dio (D fosse. Et là dove dice dell' umano ofiìcio intendo che non sa-  peano vivere a buoni costumi e non conosceano prudenzia  né giustizia né l'altre virtudi. Et là dove dice che non  mauteneano ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della  quale dicono i libri della legge che giustizia è perpetua e   15. ferma volontade d'animo che dae a ciascuno sua ragione. Et là dove dice « aguaglianza » intendo quella ragione  che dae igual i)ena al grande et al piccolo sopra li eguali  fatti. Et là doye dice « cupiditade » intendo quel vizio  eh' è contrario di temperanza; e questo vizio ne -conduce   20. a disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere,  et inforza nel nostro animo un mal signoraggio, il quale  noi permette rifrenare da' rei movimenti. 12. Et là dove  dice « nescitade » intendo eh' è nnone connoscere utile et  inutile; e però dice eh' è cupidità cieca per lo non sapere,   25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13. Et là dove dice  « folle ardita » intendo che folli arditi sono uomini matti  e ratti a ffare cose che non sono da ffare. 14. Et là dove  dice « misusava le forze del corpo » intendo misusare cioè     i-2: M-m om. Et là.... come licre — 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe crude — 4-6: m l'a-  ceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua: ma al([uanle ecc. — 7: .i/'-L  dice quasi perciò ke ne faciano | tutte cose per forza 7 non per ragione intendo Ice dice  quasi, ma alquante ne faceano M' che muovono — 9: M-m chi idio — 11: .1/' ne  prudenza — 14: m' de legge — 14-15: m' ferma 7 perpetua voluntà — /": .1/ egual   — 18: M' mìsfacti — M lae — .V quello e poi rasura su cui altra mano scrisse apetito,  t quello che contrario, S quello appetite V om. noi - 22: M-m non permette M-m necessilade, .V ignoranza che non conosce il prode ol danno ~ m intendo che  non è — m dal danno — 27: .M-m e tratti, L orati — 2é?: J/ emusavano, jiiemisusavano —  .u misusere, .V' misure, L misusare — m che misusare è usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par preferibile per il senso; e la lezione  di M-m è facilmente spiegabile da un che Mio diventato eh' idio, chi dio; è vero  però che le ragioni paleografiche varrebbero anche per il caso inverso.  usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza di corpo  ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste, ma  coloro faceano tutto il contrario. Ora à detto lo sponi-  tore sopra '1 testo di Tulio le cagioni per le quali eloquenzia cominciò a parere. Omai dicerae in che modo  appario e come si trasse innanzi. Nel quale tempo lue uno uomo grande e savio, il quale  cognobbe che materia e quanto aconciamento avea nelli animi delli uomini a grandissime cose chi Ili potesse dirizzare e megliorare per  comandamenti. Donde costrinse e raunò in uno luogo quelli uomini  che allora erano sparti per le campora e partiti per le nascosaglie  silvestre ; et inducendo loro a ssapere le cose utili et oneste, tutto  che alla prima paresse loro gravi per loro disusanza, poi T udirò   15. studiosamente per la ragione e per bel dire; e ssì Ili arecò umili e  mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà che aveano.   Lo sjaonitore.   1. In questa i)arte vuole Tulio dimostrare da cui e come  cominciò eloquenzia et in che cose ; et è la tema cotale   20. In quel tempo che Ila gente vivea così malamente, fue un  uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il quale  cognobbe che materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé  naturalmente per la quale puote l' uomo intendere e ragio  nare, e l'acconciamento a fare grandissime cose, cioè a ttenere i)ace et amare Idio e '1 proximo, a ffai-e cittadi,  castella e magioni e bel costume, et a ttenere iustitia et  a vivere ordinatamente se fosse chi Ili potesse dirizzare,  cioè ritrarre da bestiale vita, e mellioi-are per comanda-  menti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che Ili     2: M' om. ci — 3-4: M-iii Or o della la sposilione — 5: M-m loninciò (hi coro).  7 pare — M' oggimai — 6: M-m apparve — 8: il' uno buono — iO: 31' adrinure —  12: M-m per campora — 12-13: M-w le nascose selve 13: M-m et facciendo loro as-  sapere — 14: M' grave - L'i: M' si Hi recò — 16: M' crudelilà — 23: M-m nm. l'uomo  — 24 : M-m el lo ncomincianiento, L el chominciamenlo — 25: M'el ad amare ~ 26: M'  7datener — 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse — 28: M' enirare da b. v.   afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che potrebbe  alcuno dicere: « Come si potieno melliorare, da che non  erano buoni? >. A cciò rispondo che naturalmente era la  ragione dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel  5. modo eh' è detto. 3. Donde questo savio costrinse - e dice  che i « costrinse » però che non si voleano raunare - e  raunò - e dice « raunò » poi che elli vollero. Che '1 savio  uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando  belle ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in   10. dare mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri,  che ssi raunaro e patiero d'udire le sue parole. Et elli in-  segnava loro le cose utili dicendo: « State bene insieme,  aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e forti; fate cittadi e  ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo : « Il pic-   15. colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre » etc. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestial-  mente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad  ordine, acciò eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e  non si voleano mettere a signoraggio, poi, udendo il bel dire   20. del savio uomo e considerando per ragione che larga e li-  bera licenzia di mal fare ritornava in lor gi"ave destruzione  et in periglio de l'umana generazione, udirò e miser cura  a intendere lui. Et in questa maniera il savio uomo li ri-  trasse di loro fierezza e di loro crudeltade - e dice « fierezza » perciò che viveano come fiere; e dice « crudeltade »  perciò che '1 padre e '1 figliuolo non si conosceano, anzi  uccidea l'uno l'altro - e feceli umili e mansueti, cioè vo-  lontarosi di ragioni e di virtudi e partitori (2) dal male.     1 : m rafrenasse, S affrenassono — J/ " Et acade, L e ecci una (\. — 2 : il poneno (cerio  per falsa lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g i33), m il'  poteano — 4: m dunque — 6: it-iii om. che i — 9: W l'utilitade — i^l' metendo '1 suo -  10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere — 20-23: it-m om. e considerando....  il savio uomo — 23-24: m si ritrassono — 24: il lore fier., M' lor fior, — me dalloro  crud. — 24-25: H-m om. e dice.... crudeltade — 26: il' e li figluoli (ma L el figliuolo)  - 28: il' partito, l. e'dipirtironsi, s partiti.   (1) Parrebbe preferibile la lezióne di &'; ma è significativo il fatto che tutti  i mss. abbiano il singolare. Invece di condannarlo come corruzione comune, basta  pensare che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e statuti » siano con-  siderati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere al singolare (p.es. «ciò»);  e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo di Brunetto, IO, 3, e dal Varchi,  Ercolano, ediz. Bottari (Firenze Senza ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la lezione di M inten-  dendo « partitore » in senso riflessivo : « colui che si parte, che si allontana ». Cfr.  Manuzzi. Or à detto CICERONE chi cominciò eloquenzia et intra cui  e come; or dicerà per che ragione, eanza la quale non  potea ciò fare.   Tullio.    Per la qual cosa pare a me che Ha sapienzia tacita e povera   di parole non arebbe potuto fare tanto, che così subitamente fossero  quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga usanza et informati in  diverse ragioni di vita. Lo sponitore. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale   non si potea fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice sapienzia tacita quella di coloro che non danno insegnamento per parole ma per opera, come fanno ' romiti. Et  dice « povera di parole » per coloro che '1 lor senno non sanno addornar di parole belle e piene di sentenze a ffar  credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo intendere che picciola forza è quella di sapienzia s'ella nonn  è congiunta con eloquenzia, e potemo connoscere che sopra  tutte cose è grande sapienzia congiunta con eloquenzia.  Et là dove dice « così subitamente » intendo che quello  savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per sapien-  zia, ma non cosi avaccio né così subitamente come fece  abiendo eloquenzia e sapienzia. Et là dove dice « in di-  verse ragioni di vita » intendo che uno fece cavalieri, un   25. altro fece cherico, e così fece d'altri mistieri.   Tullio.   7. Et così, poi che Ile cittadi e le ville fuoron fatte, impreser  gli uomini aver fede, tener giustizia et usarsi ad obedire l'uno l'altro  per propia volontarie et a sofferire pena et affanno non solamente     2 : M-m om. e come — sanza (luale — 5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M' luioniiiii quelli —  13: M' i romiti, m li romiti — 14: M-m alloro senno, L in loro senno — i7: M-m om.  che — i9: M' giunta — 22: Af' si avaccio — 23: M-m om. e sapienzia — 28: m ad avere  lede 7 tenere.... adusarsi — M l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia potrà sembrare un'aggiunta arbitraria; ma siccome  non è inutile, preferisco mantenerlo.  per la comune utilitade, ma voler morire per essa mantenere. La  qual cosa non s'arebbe potuta fare d) se gli uomini non avessor po-  tuto dimostrare e fare credere per parole, cioè per eloquenzia, ciò che  trovavano e pensavano per sapienzia. 8. Et certo chi avea forza e  5. podere sopra altri molti non averla patito divenire pare di coloro  ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e soave  parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale era  tanto durata lungamente che parea et era in loro convertita in  natura. Donde pare a me che così anticamente e da prima nasceo e mosse eloquenzia, e poi s'innalzò in altissime utilitadi delli uo-  mini nelle vicende di pace e di guerra.   Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio che cciò che sapienzia  non avrebbe messo in compimento per sé sola, ella fece   15. avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe cotale:  Si come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et inse-  gnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi  e ville; poi che Ile cittadi fuor fatte impresero ad avere  fede. Di questa parola intendo che coloro anno fede che   20. non ingannano altrui e che non vogliono che lite né di-  scordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la mettono in pace.  Et fede, sì come dice un savio, è Ila speranza della cosa  promessa; e dice la legge che fede è quella che promette  l'uno e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in un altro libro delli offici che fede è fondamento di giiistizia,  veritade in parlare e fermezza delle promesse; e questa ée  quella virtude eh' é appellata lealtade. E così sommata-  mente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che     2: ilf'-£ potuto - M' om. non — 4: Jlf> Certo — 5: M-m vinavea charebbono potuto  divenire paii — 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea — M-m santa — 7: M^-L allegrezza  — 8-9 : M era converita la loro natura, m era convertila in loro natura — 9 : m onde —  14-15: M^ il fece in compagnia d'eloquentia.... si ò cotale —M-m detto oe dinanci  19: 3/' fede, 7 di q. p. — PO : M^ om. e o discordia — 21-22: M-m in pace et  in fede — m om. è - 23: M^ quello, ma L quella — 26: M-m et intermezza — M' de-  lenpromesse — 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) — M somatamente, m asommatam.  congiunta con sapienzia.   (1) Sarà certo da legger così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso  dell' ausiliare avere presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la nota  di M. Barbi nella sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse il  Parodi in Bullett. della Soc. Bant., N. S., XXI, 67-68. Lo stesso si dica per s'areb-  hono del commento, sanza ciò le grandissime cose non s'arebbono potute met-  tere in compimento, e dice che poi àe molto de ben fatto  in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti  i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per due stati o di pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bi-  sogna la nostra rettorica sì al postutto, che sanza lei non si  potrebbono mantenere.   Tullio.  Ma poi che Ili uomini, malamente seguendo la vìrtude sanza  10. ragione d'officio, apresero copia di parlare, usaro et inforzaro tutto  loro ingegno in malizia, per che convenne che ile cittadi sine gua-  stassero e li uomini si comprendessero di quella ruggine, (e. Ili)  Et poi che detto avemo la cumincianza del bene, contiamo come  cuminciò questo male. Poi che CICERONE avea detto davanti i beni che sono  advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i mali che  sono advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che  Ila sua intentione è più in laudarla, sì appone elli il male a coloro che Ila misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la  tema è cotale: Furono uomini folli sanza discrezione, li  quali, vegga ndo che alquanti erano in grande onoranza e  montati in alto stato per lo bell.o parlare ch'usavano se-  condo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo in parlare e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero  sì copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare  sanza condimento di senno, che (2) cumìnciaro a mettere     cioè — 2: M-in che poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto — -J: M om. duri stali — i 1 : M conviene, M' conveiiia — IS: M-m om. e li uomini si compren-  dessero — 13: M \a cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento — 16: m ave... dinanzi   — 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi parte (ma ri son trticiie di etpun-  zione) — 19: m om. elli — 20: M El perciii — 24: M' il comandamento.... studiavano   — 25 : ilf intralassai-o, m e lasciaro - 20: M' de molto — m om. elio.   (1) Invece di si studiavo credo preferibile studiavo in senso assoluto, come già  si è trovato, 3, § e studia puro in dire le parole. Sintatticamente questo che ò pleonastico; ma ò attestato da ambedue le  famiglie di codici e non costituisce una rarità per il nostro volgare antico (anzi,  per Brunetto stesso, cfr. IO, 1: avegna che ma tutta volta).   sedizione e distruggi mento nelle cittadi e ne' comuni et a  corrompere la vita degli uomini; e questo divenia però  ch'ellino aveano sembianza e vista di sapienzia, della quale  erano tutti nudi e vani. 3. Et dice Vittorino che eloquenzia  5. sola èe appellata « la vista », perciò che ella fae parere che  sapienzia sia in coloro ne' quali ella non fae dimoro. Et  queste sono quelle persone che per avere li onori e F utti-  litadi delle comunanze parlano sanza sentimento di bene;  così turbano le cittadi et usano la gente a perversi costumi. Et poi dice Tulio: Da che noi avemo contato '1 principio  del bene, cioè de' beni che avenuti erano per eloquenzia,  si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza del  male chende seguitò. Et dice in questo modo nel testo:   Tullio tratta della comincianza del male  15. adveniito per eloquenzia. Et certo molto mi pare verisimile: in alcuno tempo gli  uomini che non erano parlatori et uomini meno che savi non usa-  vano tramettersi delle publiche vicende, e che W gli uomini grandi  e savi parlieri non si trametteano delle cause private. E con ciò   20. fosse cosa che sovrani uomini regessero le grandissime cose, io mi  penso che furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare  le picciole controversie delle private persone; nelle quali controversie  adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi nella bugia incon-  tra la verità, imperseveramento di parlare nutricò arditanza   25. 11. Sì che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per necessitade   che' maggiori si contraparassono agli arditi e che ciascuno atoriasse  le sue bisogne; e così, parendo molte fiate che quello eh' avea  impresa sola eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora più  innanzi che quello che avea eloquenzia congiunta con sapienzia,     i-2: m nelle loro ciltadi — M' om. et a corr.... uomini — 2: m avenia — 3 kelli aveano  sombianca de giusta sap. — 4: m om. Et — 6: M' li quali — 7: M' questi — 10: m om.  Et — 11: M' bone kavenuto era - 12: 1/' il cominciamento — i3: Jlf chende seguita, j/i  che ne seguita - 16: M et certo mo, la Certo modo M meno di savi, m ch'erano  meno che savi — 17-18: M-m non sapeano, L non osavano — M-m om. e — 19: Jlf sin-  trametteano dele cose — 21: M-m om. uomini — M verrali — 3f' vennero — 22: M' om.  delle pr.... controversie — 23: M-m om. spessamente — 24: M' il persev. - 26: M' aiutasse  m adornasse — 29: M' giunta.   (1) Un costrutto più regolare si avrebbe sopprimendo il che o inserendone un  altro dopo verisimile; appunto. per questo conservo' il che, non sembrando proba-  bile che un copista volesse complicare di suo. Questa maggiore libertà sintattica  non è nuova.  aveni'a che, per giudicio di moltitudine di gente e di sé medesimo  paresse essere degno di reggiere le publiche cose.  E certo non ingiustamente, poi che' folli arditi impronti  pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime e miserissime tempestanze adveniano molto sovente; per la qual cosa  cadde eloquenzia in tanto odio et invidia che gli uomini d'altissimo  ingegno, quasi per scampare di torbida tempestade in sicuro porto,  così fuggiendo la discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad al-  cuno altro queto studio. Per la qual cosa pare che per la loro posa li altri dritti et onesti studii molto perseverati vennero in onore. Ma questo studio di rettorica fue abandonato quasi da tutti loro,  e perciò tornò a neente, in tal tempo quando più inforzatamente si  dovea mantenere e più studiosamente crescere; perciò che quando  più indegnamente la presumptione e l'ardire de' folli impronti manimettea e guastava la cosa onestissima e dirittissima con troppo  gravoso danno dei comune, allora era più degna cosa contrastare e  consigliare la cosa publica. Della qual cosa non fugìo il nostro  Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo Àffricano, né i  Gracchi nepoti d' Àffricano, ne' quali uomini era sovrana virtude et altoritade acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la loro  eloquenzia era grande adornamento di loro et aiuto e mantenimento  della comunanza.   Lo sponitore. In questa parte divisa Tulio come divennero quelli due mali, cioè turbare il buono stato delle cittadi e corrompere la buona vita e costumanza delli uomini; et avegna  che '1 suo testo sia recato in sie piane parole che molto fae  da intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae alcune  parole per più chiarezza. 2. Et è la tema cotale: La elo-     1 : M-m avogiia — 2: M per essoi-o degno d'essere 7 di reggiere, M' paresse degno  de reggere — 3: M' poi ke fuor iaiditi in pronti, m enpronti — 4-5 : M' pervennero i  reggìm. — 7 de miserissime tempeste — spessamente — 7 : M' lempcstande — * : M-m la  discordia (m echontumulosa) — 9 : Tutti i mss. questo, S posato - M-m possa — i i : itf ' do  tutto loro " i4: M dì [olii — 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i G. n. d'AII'ricano —  Jlf' erano sovrane vertudi — 26: M' la vita 7 la buona costumanca - 27: M< suo stato  — m in se — 28: itf' om. tutti, ma — M' alcuna parola — S9: Af' Et la tema 6 cotale.  De la el. ecc. È possibile tanto la lezione di Af quanto quella di m; ma proferisco questa  perchè corrisponde alle parole del commento, § 6: « pareano essere degni». Il testo latino ha studium aliquod quieUtm. Lo scambio di queto por questo  era facilissimo, e forse risalo r.llo iirimo copio.  quenzia mise in sì alto stato i parladori savi e guerniti di  senno, che per loro si reggeano le cittadi e le comunanze  e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li onori e  le grandi cose, e non si trametteano delle cause private, cioè  5. delle vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere né altre picciole cose. Ma erano altri uomini di due maniere:  l'una che non erano parlatori, l'autra che non aveano sa-  pienzia, ma erano gridatori e favellatori molto grandi; e  questi non si trametteano delle cose publiche, cioè delle signorie e delli officii e delle grandi cose del comune, ma  impigliavansi a trattare le picciole cose delle private per-  sone, cioè delli speciali uomini. 3. Intra' quali furono alcuni  calidi e vezzati - cioè per la fraude e per la malizia che in  loro regnava parea ch'avesse in loro sapienzia-; e questi s' ausarono tanto a parlare che, per molta usanza di dire  parole e di gridare sopra le vicende delle speciali persone,  montare in ardimento e presero audacia di favellare in  guisa d'eloquenzia tanto e sì malamente che teneano la  menzogna e la fallacia ferma contra la veritade. Onde, per li grandi mali che di ciò adveniano, convenne che'  grandi, ciò sono i savi parladori che reggeano le grandi  cose, venissero et abassassero a trattare le picciole vicende  di speciali persone, per difendere i loro amici e per conta-  stare a quelli arditi. Et nota che arditi sono di due ma-   25. niere : l' una che pigliano a fifare di grandi cose con prove-  dimento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano  a ffare le grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi  sono folli arditi. 5. Donde in questo contrastare i buoni e  savi parlavano giustamente, ma i folli arditi, che non aveano   30. studiato in sapienzia ma pure in eloquenzia, gridavano e  garriano a grandi boci e non si vergognavano di mentire  e di dire torto palese; sicché spessamente pareano pari di  senno e di parlare e talvolta migliori. Sì che per sentenza     4 : M' om. e non s. t. d. cause — 5: M-m ont.aò — 6: m odaltre p. o. — 7  M< parliei-i —  iO: M' de comuni dele piccole cose cioè che jier la lYaude ecc. parean  (/^ parea) cavassero sapienlia— lo.- 3f< pei' la molta — 17: M^ presero baldanza — 19: M' con-  tro alla verità — 20: A/' ohi. che d. e. adveniano — m avenia savi e parladori —  m le cittadi — 23: M' appilgliano a taro le g. e. — 26: M^ om. di ragione — L l'altra —  27: L provedimento — 31-32: Me dire,moHi. mentire e di — 33:M' talocta m. visi che p.s  Cosi leggo con M, piuttosto che lavogarie di ilf' o lavorìi di m: oltre a  lavareria, il Manuzzi registra esempii di lavoriera.    del popolo, la quale è sentenzia vana perciò che non muove  da ragione, e per sentenza di sé medesimo, la quale è per  neente, pareano essere degni di covernare le publiche e le  grandi cose, e così furo messi a reggere le cittadi et alli  5. officii et onori delle comunanze. Et poi che cciò avenne,  non fue meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e  miserissime tempestadi. Et nota che dice « grandissime »  per la quantità e che duraro lungamente, e dice « mise-  rissime » per la qualitade, ch'erano aspre e perilliose chende   10. moriano le persone ; e dice « tempestanza » per similitudine,  che sì come la nave dimora in fortuna di mare e talvolta  crescono (i) in tanto che perisce, così dimora la cittade per  le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in sé  medesime e patono distruzione. « Per la qual cosa eloquenzia cadde in tanto odio et invidia »... Et nota che odio  non é altro se nno ira invecchiata; e così i buoni savi erano  stati lungamente irosi, veggiendo i folli arditi segnoreggiare  le cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per altrui bene;  donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro ch'erano segnori delle grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò li  buoni d'altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad  altri queti studii per scampare della tumultuosa vita in  sicuro porto. Et nota: là dove dice « altissimo ingegno »  dimostra bene eh' arebboro potuto e saputo contrastare a' folli arditi, e perciò che no '1 fecero furo bene da riprendere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l' altre  scienze di filosofia, sì come trattare le nature delle divine  cose e delle terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi  e le costumanze; et appellali « queti studii » che non trattano di parlare in comune, e perciò che ssi stavano partiti  dal remore delle genti. Et appella « vita tumultuosa » che     2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro — 7 : M-m ismisuratissime ~ 8: SI durano,  m duravano quantitade.... s\ elione moriano - 10: M' tempestade — 14: M'  medesimo ~ 15: m om. Et — 16: m buoni e savi — 18: m om. Et — m i'uomo... l'al-  trui — SO: M> et in lionore erano — m ad altre — M-m questi, M' certi —om. Et noia la dove — 25 : M-m non fecero — 26 : Tutti i mss questi — 27 : M de  trattare — 28: M-m sicome dice che l. — 29: M^ appellasi, L appellansi — mss. questi Cosi hanno tutti i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un sog-  getto, richiesto dal senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo anche  altrove la prova che le due famiglie di codici risalgono a un capostipite già corrotto).  Pure non sarebbe impossibile sottintendere dal precedente fortuna un soggetto le  fortune. spessamente l'iiuo uomo assaliva l'altro in cittade coll'arme  e talvolta l'uccideva. 9. Et poi che' savi intralassar lo studio  d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non fue curata uè pre-  giata. Ma l'altre scienzie di filosofia, nelle quali studiaro, montaro in grande onore. Et ora riprende Tulio questi  savi e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia  avea più grande bisogno per lo male che faceano i folli  arditi nelle cittadi, e perchè guastavano la cosa onestis-  sima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi pertiene alle cose oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il nostro  Catone né quelli altri savi ch'amavano drittamente il co-  mune et aveano senno e parlatura; ma dimoraro fermi a  consigliare et a difendere il comune da'garritori folli ar-  diti; e però montaro in onore et in istato sì grande che le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò dice che in  loro era autoritade, che autoritade èe una dignitade degna  d' onore e di temenza. Ma da questo si muove il conto  e ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e pos-  sibili e necessare che dovemo studiare in eloquenzia, lodala in molte guise.  CICERONE conclude che sia da studiare in rettorica. Per la qual cosa, al mio animo, non perciò meno è da  mettere studio in eloquenzia s' alquanti la misusano in publiclie et  in private cose; ma tanto più clie ' malvagi non abbiano troppo di podere con grave danno de' buoni e con generale distruzione di tutti.  Maximamente cun ciò sia la verità che rettorica è una cosa la quale  molto s'appartiene a tutte cose, è publiche e private, e per essa diviene  la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima molte  utilitadi avengono in comune se fia presta la modonatrice di tutte  cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a coloro che H'acqui-  stano lode, onore, dignitade; e per essa medesima anno li amici  certissimo e sicurissimo aiutorio.     1: M-m spesse volte — 2: m tralassaro — 8: m le chose honestissime — 10: M  (Iride, m diritte — 3f' Dela q. e. — 11: M' dirittamente, m om. — 12: M' dimorato  y f.: M 7 folli arditi, £ e da f. a. — 14: M^ J montaro perciò — 18: m e torna,  M 7 condoura tornerà per ragioni, L e mosterrà per rag. — Jlf-;» honesti ~ 19: M -m ne-  cessarie— 20: m lodarla — ^3: M* misuna, corretto poi misusa — 27: M' molto pertièno  devegna — 28: M> y hon. 7 illustra 7 gioconia, m illustra — 29: M sia — 31: M^-m 7  honore 7 dignitade.  La tema di questo testo è cotale, (H che dice Tulio:  Se alquanti di mala maniera usano malamente eloquenzia,  non rimane pertanto che 11' uomo non debbia studiare in  5. eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza), acciò  che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a' buoni  né di fare generale distruzione di tutti. Et nota che di-  strutti sono coloro che soleano essere in alto stato et in  ricchezza e poi divennero in tanta miseria che vanno men-   10. dicando. 2. Et poi dice le lode di rettorica, come tocca al  comune et al diviso, e come per lei diviene l'uomo sicuro,  cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et ap-  pena troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice chende  diviene la vita « onesta », cioè laudato intra coloro che '1   15. cognoscono; e dice «illustre», cioè laudato intra li strani;  e dice « ioconda », cioè vita piacevole, però che ' savi par-  lieri molto piacciono ad sé et altrui. 3. Et altressi molto  bene n'aviene alle comunanze jier eloquenzia, a questa con-  dizione : se sapienzia sia presta, cioè se ella sia adiunta con eloquenzia. Et dice che sapienzia è amodenatrice di tutte  cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose certo  modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che anno elo-  quenzia giunta con sapienzia sono laudati, temuti et amati;  e dice che Ili amici loro possono di loro avere aiutorio sicurissimo, però che appena fie chi Ili sappia contrastare,  poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice « cer-  tissimo » però che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia  M-m Lo testo èe cotale, M'-L La tema de questo è cotale — 3: M' aliijuanti —  6: M' de fare male — 7: m om. nota — 9: il' divegnono — 11: M huomo siguro —  13: M' troverà — 14: M-m laudata.... che cognoscono — 15: M' illustra, L illustro —  17: A/' ad altri — M-m nm. Et altressi e n— 19: Hin presta — M' giunta — 21 :M siae  ad intivedere, m a ad antivedere — 22: m om. Et — 23: M^ 7 temuti — 25: m Tia chelli  sappia, M' fie chelli il sappia — 37: M non so lascia.  Anche la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da un accomodamento  arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è spiegabilissima collomissione della parola testo (la somiglianza con questo rese più facile l' errore) e riceve  conforma dal principio del capitolo seguente, con quell'uniformità di espressione  che è caratteristica di tutto il commento.   (2) Troverai è preferibile come « lectio difflcillor ». Del resto anche in M' po-  trebbe trattarsi non di troverà, ma troverà'. corrompere per amore ne per prezzo né per altra simile  cosa. Et qui si parte il conto e fae nn' ultima conclusione  in questo modo: Tullio conclude in somma. Et però pare a me che gli uomini, i quali in molte cose   sono minori e più fievoli che Ile bestie, in questa una cosa l'avanzano, che possono parlare ; e donque pare che colui conquista cosa  nobile et altissima il quale sormonta li altri uomini in quella me-  desima cosa per la quale gli uomini avanzano le bestie. La tema in questo testo è cotale : La veritade è che  gli uomini in molte cose sono minori che Ile bestie e più  fievoli, acciò che sanza fallo il leofante e molti altri animali sono più grandi del corpo che nonn è l'uomo; e certo il leone e molte altre bestie sono più forti della persona  che ir uomo; e più ancora che in tutti e cinque ' sensi sono  certi animali che avanzano lo senso dell'uomo. Che sanza  fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1 lupo  cerviere del vedere e la scimmia del saporare, e l'avóltore   20. dell' anasare ad odorare, e '1 ragnol del toccare. Ma in  questa una cosa avanza 1' uomo tutte le bestie et animali,  che elli sa parlare. Donque quello uomo acquista bene la  sovrana cosa di tutte le buone, che di ben parlare soprastae  alli altri uomini.   25. Tullio dice di che elli tratterà-   16. Et questa altissima cosa, cioè eloquenzia, non si acquista  solamente per natura né solamente per usanza, ma per insegnamento  d'arte altressi. Donque non è disavenante di vedere ciò che dicono  coloro i quali sopra ciò ne lasciaro alquanti comandamenti. Ma anzi     S: il-m un'altra condictione — 7 : M' costui — il-m conquesta — 8: M-m la quale;  om. li — 9 : )» om. cosa e gli uomini — 11: il' de questo t. M' molti huomini....  minori 7 più fievoli chelle bestie — 15: U-m om. altre — 16: M' che tucti — 19-20: M-m  7 l'avóltore dell'odore, M']j lavoltoio delanasare adodorare, L del savorare e odorare, S et  l'avoltoio del nasare et d'odorare — M-M' 7 rangnol, m il rangnolo (ohi. tulli gli e), L a ra-  gnolo — M'-L ne! toccare — 22: M' chelli sanno - 25: M dico che {ma cfr. ^ \) — 27 : M'  per la natura — 2S: M-m nm. d'arte — 29: m certi. che noi diciamo ciò che ssi comanda in rettorica, pare che sia a  trattare del genere d' essa arte e del suo officio e della fine e della  materia e delle sue parti; imperochè sapute e cognosciute queste  cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà l'animo di ciascuno  5. considerare la ragione e ia via dell'arte.   Lo sponitore.   1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era soprastato  alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia nel  suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro.  10. Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perchè l'animo  di ciascuno sia più intendente di quello che seguirà, e così  pone fine al suo prolago e viene al fatto in questo modo:   Tullio ae fiìiito il prolago, e comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è delle cittadi la quale richiede et è  15. di molte cose e di grandi, intra Ile quali è una grande et ampia  parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica. Che al  ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che Ila scienzia  delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo da  coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte del  20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in quel  genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia, cioè  della scienzia delle cittadi.   Lo sponitore.   I. In questa parte del testo procede Tulio a dimosti-are ordinatamente ciò che elli avea promesso nella fine del pro-  lago. Et primamente comincia a dicere il genere di questa  arte. Ma anzi che Ho sponitore vada innanzi sì vuole fare  intendere che è genere, perchè l' altre parole siano meglio  intese. Ogne cosa quasi o è generale, sicché comprende  molte altre cose, o è parte di quella generale. Onde questa     1-2: M' (la tratto, poi corr. da trattar.; — 3: M-m generalmente della decta- arte —  3: m però che - 4: M-m più diligente, M' nm. più — 8: M A rinconincia — 11 : M'  (luelle, ma L quello — 14-13: M'-L richiede molte cose grandi — 16: M-m cai ver diro —  18: M-m abbiano — 30: M-m [lorromo quel genero — SG: m quella — S8: M-m y perchè  — 29: M ìì quasi generale, m è quasi geu. — 30: M onde jvirte quella gen.   parola, cioè « uomo », è generale, per ciò che comprende  molti, cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola, cioè  « Piero, » è una parte- A questa somiglianza, per dire più  in volgare, si puote intendere genere cioè la schiatta; che  5. chi dice « i Tosinghi » comprende tutti coloro di quella  schiatta, ma chi dice « Davizzo » non comprende se no una  parte, cioè un uomo di quella schiatta. 3. Onde Tulio dice  di rettorica sotto quale genere si comprende, per meglio  mostrare il fondamento e Ila natura sua. Et dice così che Ila   10. ragione delle cittadi, cioè il reggimento e Ila vita del co-  mune e delle speciali persone, richiede molte e grandi cose,  in questo modo: che è in fatti e 'n detti. 4. In fatti è la ra-  gione delle cittadi sì come l'arte W de' fabbri, de' sartori, de'  pannar! e l' altre arti che si fanno con mani e con piedi. In  detti è la rettorica e l'altre scienze che sono in parlare.  Adonque la scienza del governamento delle cittadi è cosa  generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè l'arte  del bene parlare. Ma anzi che Ilo sponitore vada più innanzi, pensando che Ha scienza delle cittadi è parte d' un altro generale che muove di filosofia, sì vuole elli dire un  poco che è filosofia, per provare la nobilitade e l'altezza  della scienzia di covernare le cittadi. Et provedendo ciò  ssi pruova l'altezza di rettorica.   6. Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende  sotto sé tutte le scienze; et è questo uno nome composto   di due nomi greci : il primo nome si è phylos, e vale tanto   a dire quanto « amore », il secondo nome è sophya, e vale   - tanto a dire quanto « sapienzia ». Onde FILOSOFIA tanto vale   a dire come « amore della sapienzia » ; per la qual cosa neuno   30. puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto eh' elli  intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad  avere intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale difiì-     / M-m cioè che comprende — 2: Af' nm. o J cioè Piero — 5: M' ovi. chi —   4-6: m om. tutto il passo da che « quella schiatla — 8: m om. per — 9: M^ demostrare —  10: jU' i reggimenti — 12: M-m om. che b — 13: Af ' l'arti (ma anche L l'arto) — m e de'pan-  nali, .)/ 7 de sartori de panni — 16-17: m o parte d'un altro generale — 1M' de  ben p. — 20: M in podio — 22: m om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia l'al-  tezza — 25: M sotto di sé — 26: m fue fdos, .W filis — 27 : m om. nome — 29: M^ de  la scienza — 31: M-m tuote l'altre — J/' 7 da ~ 32: M-m. ad amare —' M' Donde.   (1) Anche arte potrebbe essere qui un plurale, come in Tesar., X, 39-40; però  lo ronde poco probabile la forma arti che subito segue. La lezione amare di M-m fu certo suggerita dai precedenti amore e ama,  e basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di concetto a cui si riduce. nizione di filosofia : ch'ella è inquisizione delle naturali cose  e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo  è possibile d' interpetrare. Un altro savio dice che filosofia  è onestade di vita, studio di ben vivere, rimembranza della morte e spregio del secolo. Et sappie che diflfinizione  d'una cosa è dicere ciò che quella cosa è, per tali parole  che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se tu le  rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire  sia questo l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale   10. è questa: « L'uomo è animale razionale mortale ». Certo  queste parole si convegnono sì all'uomo che non si puote  intendere d'altro, né di bestia, né d'uccello, né di pescie,  però che in essi nonn à ragione; onde se tue rivolvi le  parole e di' cosi : « (/he è animale razionale e mortale ? certo non si puote d' altro intendere se non dell' uomo. Or è vero che anticamente per nescietà delli uomini  furon mosse tre quistioni delle quali dubitavano, e uon  senza cagione, però che sopr'esse tre questioni si girano  tutte le scienzie. La p-rima quistione era che dovesse l'uomo   20. fare e che lasciare. La seconda quistione era per che ra-  gione dovesse quel fare e quell'altro lasciare. La terza  quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono.  Et perciò che le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi  filosofi (2) partissero filosofia in tre scienzie, cioè Teorica,   25. Pratica e Logica, si come dimostra questo arbore.      i: M inquistione, m inquestione, L inqulslione — 2: M^ quando — 3: M enpossib'ile  — (5: Mss. quella cosa 7 per t. p. — 8: if-M' le rivuoli, L le rivolgi — il' el per bene —  .9-/0: if' lo quale questo, L la i[ualo questo — 16: m necessità, M' neccssiladc — 16-17:  .¥' luiomini in esse (L messe) — 18: sospeso, cnrr. sopresse — 19: .1/' liuomo — 20: m  la seconda che lasciare — 20-21: lU-m om. la 2" quistione — 22.: M-m om. quistione —  M-iii la natura — m tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre —  23-24 : M si convenne i savi phylosoi)hy che partissero — jf > si conviene -^ 23: M mn. e.   (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più regolare ma con una  coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa, e per tali parole ecc.   (2) Questa lezione ò comune a codici di ambedue le famiglie, e perciò la pre-  ferisco a quella di M, che pure si può difendere facendo transitivo conreìtne e  intendendo i -savi filosofi come complem. oggetto. Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è per  dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare  e che lasciai'e. La seconda scienzia, cioè logica, è per di-  mostrare la seconda quistione, cioè per che ragione dovesse  quel fare e quello altro lasciare. 10. Et questa scienza, cioè  logica, sì ae tre parti, cioè dialetica, efidica, soffistica. La  prima tratta di questionare e disputare l'uno coli' altro, e  questa è dialetica; la seconda insegna provare il detto del-  l' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e questa èe efi-  dica; la terza insegna provare il detto dell'uno e dell'altro  per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è  sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore. La tex'za scienzia, cioè teorica, si è per dimostrare  le nature di tutte cose che sono, le quali nature sono tre;  15. e però conviene che questa una scienza, cioè teorica, sia  pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e Mate-  matica, sì come dimostra questo arbore.      4: m cioè la ragione — 6: m sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano aggiunse  sotìslicha) — 7: i/' tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e dell'altro — i 1 : if infinite  — M' argomenti frodolenti 7 jier infinita pruova — 12: m apare.   (1) Conservo invece di e, comune a quasi tutti i codici, appunto per la sua  singolarità e perchè sembra indicare una differenza tra l'efldica e la sofistica-  la prima dimostra la verità di una delle due parti, la seconda pretende dimo-  strare l'una e l'altra parte.  Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia,  la quale è appellata divinitade, si tratta la natura delle  cose incorporali le quali non conversano in traile corpora,  sì come Dio e le divine cose. La seconda scienzia, cioè  5. fisica, sì tratta le nature delle cose corporali, si come sono  animali e He cose che anno corpo; e di questa scienzia fue  ritratta l'.arte di medicina, che, poi che fue connosciuta la  natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe  e delle cose, assai bene poteano li savi argomentare la sa-  io, nezza e curare la malizia. La terza scienzia, cioè matematica, sì tratta le nature de le cose incorporali le quali sono  intorno le corpora; e queste nature sono quattro, e perciò  conviene che matematica sia partita in quattro scienze, ciò  sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì come  15. appare in questo arbore:  La prima scienzia, cioè arismetrica, tratta de' conti  e de'nomeri, sì come l'abaco e più fondatamente. La seconda scienza, cioè musica, tratta di concordare voci e  suoni. La terza, cioè geometria, tratta delle misure e delle proporzioni. La IV scienza, cioè astronomia, tratta della  disposizione del cielo e delle stelle. Or si torna il conto dello sponitore di questo libro  alla prima parte di filosofia, della quale è lungamente ta-  ciuto, e dicerà tanto d'essa prima parte, cioè di pratica,   25. che pervegna a dire della gloriosa Rettorica. E sì come  fue detto già indietro, questa pratica è quella scienza che  dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo è di     3:m traile corpora — 7: #' dela mudicina — 9: M' assai poteo bone argomentare isani —  10-13 : M-m mltnno da matematica di l. 10 a l. 13 sia partita (m si e) — 16: m om. scien-  7.ia — 17: M' noveri — 18: M [a musica — SO: M astorlomia — M' tracta Io sponilore —  22: Af' si ritorna (L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro alla prima p. — 33: m ae, Jtf' oo —  24: m della prima parte — 25: m perverrà.     tre maniere: i>erciò conviene che di questa una siano tre  scienze, cioè sono Etica, Iconoiiiica e Politica, sì come  mostra la figura di questo arbore :  La prima di queste, cioè etica, sì è insegnamento di  5. bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento delle  cose oneste e dell'utili e del lor contrario; e questo fa per  assennamento di quatro vertudi, ciò sono prndenzia, iusti-  zia, fortitudo e temperanza, e per divieto de' vizi, ciò sono  superbia, invidia, ira, avarizia, gula e luxuria; e così dimoio, stra etica clie sia da tenere e che da lasciai-e jier vivere  virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè iconomica, sì  'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per covernare  e reggere il propio avere e la propia famiglia. La terza  scienza, cioè politica, sì 'nsegna fare e mantenere e reggere  15. le cittadi e le comunanze, e questa, sì come davanti è pro-  vato, è in due guise, cioè in fatti et in detti, sì come si vede  in questo arbore:      18. Quella maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magi-  sterii che in cittadi si fanno, (i) come fabbri e drappieri e li     1 : M-m però clic convion(3 — 3.m am. la ligura — ;>: Af' accostumatamente M' om. ira — 10: M^ da necnto — 1 1: m virtmliosamonte — 13: m avere, la patria e  la famiglia — 14: m fare, mantenere 7 r. — 16: M-M' 7 in due guise — M' in detti.  18: m om. tutto il g 18 — M' 7 mestieri — 19 : M che cittadini fanno   (lì Si rimane incerti fra le due lezioni, perchè il senso è il medesimo e anclie  paleograficamente la differenza è lieve: forse ì citladisi oxìgìno (i) cittadini'! Adot-  tiamo la lezione un po' più diffìcile.     altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare.  Quella eh' è in detti è quella scien^ia che ss' adopera colla  lingua solamente; et in questa si contiene tre scienze, ciò  sono Grramatica, Dialettica, Rettorica, si come dimostra  5. questo altro albore:  Et che ciò sia la verità dice lo sponitore che gra-  matica è intrata e fondamento di tutte le liberali arti et  insegna drittamente parlare e drittamente scrivere, cioè  per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo. Adunque sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire  né bene dittare. La seconda scienza, cioè dialetica, sì pruova  le sue parole per argomenti che danno fede alle sue parole;  e certo chi vuole bene dire e bene dittare conviene che mo-  stri ragioni per che, sicché le sue parole abbiano provanza   Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano e diano fede a cciò  che dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale truova  et adorna le parole avenanti alla materia, per le quali l'udi-  tore s'accheta e crede e sta contento e muovesi a volere  ciò eh' è detto. Adonque le tre scienze sono bisogno a   20. parlare et al dittare, che sanza loro sarebbe neente, acciò  che '1 buono dicitore e dittatore de' sì dire e scrivere a  diritto e per sì propie parole che sia inteso, e questo fae gra-  matica; e dee le sue parole provare e mostrare ragioni (2),     1 : Af ' artefici sanza quali le cittadi non potrebbero durare — 3: M^ ] questa si con-  tiene — 6: m Et choncio sia la v., L Et cliome ciò sia — 7: M' l'arti liberali — 9: M-  m om. e sanza sologismo; t-S silogismo — 10: M' om. alcuno — I-i: M ragione si che  le s. p. — pruova — i7 : M-m advoncnti — 18-19 : M' per bisogno al parliere et al dicta-  tore — S3: M-m mostrare con ragiono, L mostrare por ragione  Non credo necessario, data l' impossibilità di distinguer la grafia dei copisti  da quella dell' autore, ristabilire la forma esatta solecismo; la stranezza della pa-  rola spiega pure l'omissione di M-m e lo sproposito di L-S.   (2) Che questa sia la giusta lezione è confermato dal § precedente, 1.16 («ra-  gioni per che ») ; e si noti che mostrare con ragione o per ragione equivarrebbe a  provare.  e questo fae dialetica; e dee sì mettere et addornare il suo  dire che, i)oi che 11' uditore crede, che stia contento e faccia  quello eh' e' vuole, e questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore che Ha civile scienza, cioè la covernatrice delle cit-  5. tadi, la quale èe in detti si divide in due: che ll'una è co llite  e l'altra sanza lite. Quella co llite si è quella che sisi fa do-  mandando e rispondendo, si come dialetica, rettoi'ica e lege;  quella eh' è sanza lite si fa domandando e rispondendo, ma  non per lite, ma per dare alla gente insegnamento e via di   10; ben fare, sì come sono i detti de' poeti che anno messo inii  iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e l'altre vicende  che muovono li animi a ben fare. Altressì quella civile  scienzia eh' è con lite è di due maniere, eh' è ll'una artifi-  ciosa, l'altra non artificiosa. Artificiosa è quella nella quale  il parliere che connosce bene la natura e Ilo stato della  materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi conviene,  e questo è in dialetica et in rettorica. Quella che non è  artificiale è quella nella quale si recano argomenti pur per  altoritade, si come legge, sopra la quale non si reca neuna   2'^ pruova né ragione per che, se non tanto l' altoritade dello  'mperadore che Ila fece. Et di questa che non è artificiale  dice BOEZIO nella Topica eh' è sanza arte e sanza parte di  ragione. Alla fine conclude Tulio e dice che Rettorica  è parte della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo quella   25. parola dice che rettorica è la maggiore parte della civile  scienzia; e dice « maggiore » per lo grande effetto di lei,  che certo per rettorica potemo noi muovere tutto '1 popolo,  tutto '1 consiglio, il padre contra '1 figliuolo, l'amico centra  l'amico, e poi li rega(i) in pace e a benevoglienza. Or è detto   30. del genere; omai dicerà Tulio dello oflfizio di rettorica e del  fine.     1: M ordinare, m e iliraeltero e ordinare lo siidire — 3: M^ cliolll stea — 5: M-m si  vede in due — 7: M' y reclorica — 9: M' a. lo genti — i 1 : m-M in iscripto — M' 7  le g. b. 7 altro vicende — IS : M-m alla (certo da ((Ila), M' (|UOSta civ. — 13-14: mchS l'ima  e art. 7 l'altro non art., 3f' l'unaarl. l'altra none art. (X non art.) — 16: m su argomenti  che crede ohe si chenvieno, S secóndo la cosa — 19: M sopralla quale — 21 : J/' di que-  sta non artificiosa — S6: m e M' alFecto, ma L el'ctto — S8 : m M' contro al f. — wchontro  all'amico, M' contra amico. — 29: m li reca, Af' recalgli a pace 7 benev., L-S recarli a p.  Q n h. — 80 : m M' oggimai.   (1) Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si può sottintendere il  soggetto, « rettorica », dalle parole « per rettorica » che precedono. La lezione  ? ecarli, appunto perchè piii semplice e chiara, mi par da scartare : non si vedrebbe CICERONE dice che è l'ufficio di questa arte.   18. Officio di questa arte pare che sia dicere appostatamente  per fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra 11' ufficio e Ila  fine èe cotale divisamente : che nell'officio si considera quello che  5. conviene alla fine e nella fine si considera quello che conviene al-  l'officio. Come noi dicemo l'ufficio del medico curare apostatamente  per sanare, il suo fine dicemo sanare per le medicine, e così quello  che noi dicemo officio di rettorica e quello che noi dicemo fine in-  tenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare il parliere, e dicendo che Ila fine sia quello per cui cagione eili dice. In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di que-  sta arte e che è lo suo fine; e perciò che '1 testo è molto  aperto, sì sine passerà lo spouitore brevemente. Et dice   15. cotale diffinizione : officio è dicere appostatamente per fare  credere. Et nota che dice « appostatamente », cioè ornare  parole di buone sentenze dette secondo che comanda que-  st'arte; e questo dice per divisare il parlare di questo di-  citore dal parlare de' gramatici, che non curanq d'ornare   20. parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì composta-  mente che ir uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice  per divisare il detto de' poeti, che curano più di dire belle  pai-ole che di fare credere. 2. L' altra diffinizione è del fine.  Et dice che fine è far credere per lo dire. Et certo chi   25. considera la verità In questa arte e' troverà che tutto lo  'ntendimento del parliere è di far credere le sue parole  all'uditore. Donque questo è la fine, cioè far credere; che     2: M* om. ilk'Oi'O — 3: M-M' 7 lar — M-m per 1 udire - 3-4: M' om. Inlra 11' udicio  e ripete è cotale ilivisumento che no l'ollicio — M 7 è colalo — 0: m il' e curare — 9: t in-  tenderemo cli6 olicio è quello ecc. — m om. e — JO: il ella, mi e la — i3 : .tf' et che il  lino — 15: il apostamonle — M-m saltano dal l'ai ^ apposlatanicnto. — 10: .tf-m-.l/' or-  nate — 20: m diro si ornatamente et cliom))ost. — 21 : M-m mn. Kl c|uesto dice - 23: M-m  che farle credere - 24: M-m per 1 udire — 23: M 7 troverà - 26: M' del parlare   la ragione per cui fu mutata negli altri codici, mentre ò facile ammettere che sia  derivata da recahjli di M '. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi  reca, con una estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta legge  del Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S., XIV, 90-91)    'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si rivolve (1)  lo suo animo a volere et a ffare ciò che '1 dicitore intende.  3. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che '1 fine di que-  sta arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore.  5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica  bene e che sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è  questo fine: che '1 dicitore a questo intende, che nell'udi-  tore sia cotale fine che creda quello che dice; e questo fine  non desidera sempre IL PARLATORE sì come quello di sopra.   10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che è il fine e che  divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che officio  è quello che '1 parliere de' fare nel suo parlamento secondo  lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui  cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa cagione e questo fine nonn è altro se non fare credere ciò che  dice. Et di ciò pone exemplo del medico, e dice che Ilo   officio del medico è medicare compostamente per guerire   r amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo per lo   suo medicare. Già è detto sofficientemente dell' officio e della fine di rettorica; omai procederàe il conto a dire  della materia. Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella quale  tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se noi  dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia del medico, perciò  che 'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle cose  sopra le quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso (2)  dell'arte sono materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che     1 : M sinvolve, m si involve, M^-L si muove — S : M' quello olio. — 9 : M-m considera   — 10: M' om. l)ene — 15: M-m non ae altro — m se none a faro — 16: Af ' in ciò —  17-18 : M Olii, è medicare.... del medico — 19: M-m Già ae d. s. (mi s. d.) — 20: M' del fine   — ogimai procederà Tulio a dire — S,4: m e tutta l'arte — Jlf ' e sapere — S3: M-m le  malizie, cioè le malattie (glossa) — 87: M e savere — tulli i inss, apresso  Questa è senza dubbio la lezione richiesta dal senso e giustificabile con  ragioni paleografiche: un siriuolue in cui ri è parso un n ha originato il sinvolve  di M; da questo, per correzione arbitraria, è nato si muore di Mi L. Invece di  si rivolve lo suo animo  (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo) si rivolve  lo suo animo », ma forse l'espressione riesce meno naturale.   (2) La correzione è suggerita dalle parole precedenti : « lo savere che dell'arte  s'apprende». Il testo latino ha facuUas oratoria.  fossero piusori et altri meno. Che GORGIA DI LEONZIO, che fue quasi  il più antichissimo rettorico, e in oppinione che IL PARLATORE puo  molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa arte  grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa  5. arte molti aiuti et adornamenti, extimò che II' officio del PARLATORE sia sopra tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo  e giudiciale. Lo sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che materia di rettorica   10. è quella cosa per cui cagione furo pensati e trovati li co-  mandamenti di questa arte, e per cui cagione s'adoperala  scienzia clie 11' uomo apprende per quelli comandamenti.  Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli ado-  peramenti per le infertadi e per le ferute; et insomma   15. quella è Ila materia sopr' alla quale conviene dicere. Et  sopra ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che Ila materia richiede e per fare  che ir uditore creda. Et di questo è stata diiferenzia  tra' savi : che molti furo che diceano che materia puote   20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse parlare. Et se  questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine,  che non puote essere; e di questi fue uno savio, GORGIA DI LEONZIO, antichissimo rettorico; et in ciò che Tulio l'appella antichissimo sì dimostra che non sia da credere.  Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che  diede molti aiuti et adornamenti a questa arte in perciò  che fece uno libro d' invenzione et un altro della parladura,  dice che rettorica èe sopra tre maniere di cose, e catuua  maniera èe genei'ale delle sue parti; e queste sono dimo-   30. strativo, diliberativo e iudiciale, come in questi cercoletti  apiiare :     2: m cliel parlaro — 3: M-m che (loggia (w dohbia) aiiiiistare — 6: M' generi —  7: M-m giiulicalivo - IS: M-m et per (incili comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua com.,  S per qiialnni|ue com. (t bene) -- 13-14: M-m et por lo adoperamenlo et por lo inf. —  M' fedito — 15: m. M'-L sopra la quale — 19: M' dissero — ?0: m sopra la ipiale  l'uomo chonviene parlare, M' sopra la (pialo — SS: M-m di questo — S3-S4: M' 1 aix.'l-  lava — S6: M-m (lice molti aiuti — M' in ciò che, m però che — S7: Mdinvctione, hi d'in-  votione - S8: M-m materie — M' de cosa {ma L S di cose) — M^ ciasouna — 30-31:  M-m om. come ecc. e la figura.  Et a questa sentenzia s'accorda Tulio, e sopra queste tre  maniere è tutta l'arte di rettorica. 4. Ma ben puote essere  oh' e' maestri in questo punto fanno divisamente intra dire  e dittare; che pare che Ila materia di dittare sia si generale che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè man-  dare lettera. Ma dire non si puote per modo di rettorica  se non delle dette tre maniere, perciò che Tulio CICERONE reca tutta  la rettorica in quistione di parole. Et intendo che quistione  è una diceria nella quale àe molte parole sie impigliate che ssine puote sostenere l'una parte e l'altra, cioè provare  si e no' per atrebuti, cioè per propietadi del fatto o della  persona. Et ecco l' exemplo in questa diceria che fie proposta in questo modo: È da sbandire in exilio Marco Tulio  Cicero no, che davanti (i) al popolo di ROMA fece anegare molti ROMANI a tempo che '1 comune era in dubbio? In  questa proposta à due parti, una del sì et un'altra del no.  Quella del sì è cotale : « Cicero è da sbandire, perciò che  à fatta la cotale cosa *. Quella del no è cotale: « Non è da  sbandire, che ricordando pure lo nome signififica buona cosa   20. et isbandire et exìlio (2) sìgnifBca mala cosa, e non è da cre-  dere che buono uomo faccia quello che ssia da sbandire  degno né de exìlio ». 6. Grià è detto che è la materia di  quest'arte, et afferma Tulio la sentenza d'Aristotile. Et  però che elli l' àe confermata, sì dicerà di catuna dì quelle   25. tre maniere sì compiutamente che per lui e per lo sponì-     1 : m sachosta — 2: Mi tucta — 3:m tra dire od. — 4:mL del dittare ~ 5 : M' si puote —  6: M' lectoro — 7 : 3f ' se non le docte — om. perciò — m tutta rettorica — 9: M' ov'a —  il: M-m et por atrebuti, M' per ai trebuti — m cioè i)roiiietadi — 12: M sie o fie, m Ila,  M'-L fu - 14: m om. Cicero — M^ Cicerone che davanti il p. — 15: M' al tempo —  16: M imposta — 19: M' il suo nome ò buona cosa — 20: M' in exilio — 21-22: m dongno  da sb., M' dengno di sbandire in oxilio — 24: J/' la conferma   Non e' è dubbio sul testo, in cui la tradizione manoscritta è concorde;  quanto all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana di B. L., ediz. cit., p. 34.   Che et e non in sia la lezione originaria è comprovato dal seguente né  de exilio (cambiato da M< in exilio per analogia colla prima alterazione).    tore potrà quelli per cui è fatto questo libro intendere la  materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben  guardi d'intendere ciò che dice questo trattato e di Connoscere ciò che in esso si contiene, che altrimenti non po-  trebbe intendere quello che viene innanzi; e dicerà prima  del dimostrativo. Del dimostr amento. Dimostrativo è quello che ssi reca in laude o in vituperio  d'una certa personale. In questa parte dice CICERONE che, con ciò sia cosa che  Ile cause e Ile quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale  l'uno afferma e l'altro niega siano di tre maniere, sì inse-  gna Tulio avanti quale causa è dimostrativa. Ma lo sponi-   15. tore non lascerà intanto che non dica la natura e Ila radice  di tutte e tre, oltx'e che dice il testo di Tulio; et in ciò  dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la causa,  e dicerà che è il fatto della causa. La persona del par-  liere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo   20. suo fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi  crede ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto  noll'abbia; altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi  crede ragionevolemente che elli abbia fatto, avegna che fatto  non sia. 3. Il fatto della causa è quel detto o quel fatto per lo quale alcuno viene in causa e questione; et in ciò sia  cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu fai tra-     1: in poUà collii —è: M' c\ inovini. ~ 5: .W Jioooia, L ilice ora — 6: i/del dimoslratio, m  (Iella dimostrationo — 8: S si moslra — 13-14: il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m Tulio  inprima — M-m cosa — il' sia doni. — 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m Persona  del ]). 7 quella — 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo dello, m per lo s. d. e per lo s. f.  intondo suo detto e latto (pielli (nni-he il (iiielli) - SS: il-m e così intondo quello —  S4 : il' ijucl detto — SS- il' et in ipiest., m. ohi. — L siae     -- 41 -   dimento nel comune di Roma». Et Catellina risponde:  « Non fo ». In questo convenente Pompeio e Catellina sono  le persone de'parlieri; e la causa è questa: «Tu fai tradi-  mento » — « Non fo »; e chiamasi causa però che 11' uno ap-  5. pone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. 4. Et per  maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostra-  mento e che deliberazione e che iudicamento, e così sopra  che è ciascuna maniera di rettorica.   Dimostramento. Dimostramento è una maniera di cause tale che per sua propietade il parliere dimostra ch'al-  cuna cosa sia onesta o disonèsta, e per questo mostra che è  da laudare e che da vituperare; e questa causa dimostrativa  è doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire. La speciale dimostrativa è quella nella quale i parlieri si sforzano di provare una cosa essere onesta o disonesta,  non nominando alcuna certa persona; et intendo certa per-  sona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e  di cotali certe cose e determinate tra Ile genti, non intendo  dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della   20. luna, che questa quistione non pertiene a rettorica. Et  di questa causa speciale dimostrativa sia cotale exemplo :  « Il forte uomo è da laudare Dice l'altro: Non è, anzi è  da vituperare. E di questo nasce quistione, se '1 forte è  degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa, ma   25. non nomina certa persona, e perciò è speciale. 8. La causa  dimostrativa che non si puote partire è quella nella quale  i parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o diso-  nesta nominando certa persona, in questo modo. CICERONE è degno di lode. Dice l’altro. Non è. E  di questo nasce quistione, se sia da lodare o da vituperare.  Et questa quistione comprende due tempi : presente e pre-  terito. Che al ver dire di ciò che 11' uomo fae presentemente  è lodato biasmato, et altressì di ciò che fece ne' tempi pas-  sati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche storie di Roma che   35. questa causa dimostrativa si solca trattare in Campo Marzio,     5: 3/' perciò maggioro — 7 : ìlt' cheo... cheo (ma L clie... che) - saprà che è —  10: M' per sue propietadi il parladore — 14: M' i parladori — m spellale o dimostrativa  — 16: M' nm. et intendo certa persona, vi om. et — 17: M' et dele ciltadi — 18: m  cliase diterminate — 19: M-m et della gr. — 20: m non apartiene — ^i :?» om. speciale —  M-m dimostrata — M k cotale lessemplo - So: M-m om. è — 27: M' alcuna persona  essere  M-m di tre tempi — m pres., preter. e luturo — 32: M-m Et al ver dire —  33 : M-m om. di     - 42 -   nel quale s'asemblava la comunanza a llodare alcuna per-  sona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a bia-  smare quella che non era degna. E già è ben detto della  causa dimostrativa; sì dicerà il maestro della causa deli-  5. berativa.   Del diliber amento.   21. Diiiberativo è quello il quale, messo (^' a contendere et  a dimandare tra' cittadini, riceve detto per sentenzia. In questa parte dice Tulio che causa diliberativa è quella eh' è messa e detta a' cittadini a contendere il lor  pareri et a domandare a lloro quello che nne sentono; e  sopra ciò si dicono molte et isvai'iate sentenze, perchè alla  fine si possa prendere la migliore (2). 2. Et questo modo di   15. causare è quello che fanno tutto die i signori e le podestà  delle genti, che raunano li consillieri per diliberare che  ssia da fFare sopra alcuna vicenda e che da non fare; e  quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si  prende quella che pare migliore. 3. Et in ciò sia questo   20. exemplo che propone il senatore: « E da mandare oste in  Macedonia? » Dice l'uno sì e l'altro no. Et così diliberano  qual sia lo meglio, e prendesi 1' una sentenza. Et questa  quistione si considera pure nel tempo futuro, che al ver  dire sopra le cose future prende l'uomo consiglio e dili-   25. bera che ssia da fare e che noe. 4. Et questa causa dilibe-  rativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote  partire. 5. Speciale è quella nella quale si considera d'ai  cuna cosa s' ella è utile o s' eli' è dannosa, non nominando     1-3: M alcuno cli'era dengno — om. e signoria.... degna — 6: Tutti i mss. omesso,  S è messo — H : M-m che in essa - m M' i loro pareri, L illoro pareri — 12: M' da  loro - 13: M-m dicono — 14: M-m lo migliore — 15: M-m cassare (M 7 quello)   — 16: M-m raunavano — 17: M-m non daffare — 20: M' ressom])ro — M-m che  pone -22: M' il migliore — 24: m nel tempo futuro — ilf ' iirendo huomo(»nn L S l'uomo)  M-m Questa ì; causa, cioè cosa, diliberativa 7 doppia,. L e delib. e doppia —  m una e spetiale — M-m om. che — 27: M-m alcuna cosa — 28: M-m om. sellò   (1) Il testo latino non lascia alcun dubbio. La stessa corruzione, comune a  tutti i codici, è nel successivo § 22 (e posto), e il costrutto insolito la rendeva facile.   (2) Anche la lezione lo migliore è buona, ma preferisco quella di M' perchè  corrisponde esattamente alla fino del § 2.    alcuna certa persona. Et ecco l'essempio: Dice uno: “Pace  è da tenere intra cristiani.”. Dice l'altro: « Non è ». Et di  ciò nasce causa diliberativa speciale, se Ila pace è da tenere  o no. L'altra che non si può partire è quella nella quale  5. i dicitori studiano di provare e' alcuna cosa sia utile o dan-  nosa, nominando certe persone, in questo modo: Dice l'uno:  « Pace è da tenere intra Melanesi e Cremonesi. Dice l'altro: «Non è». Et già è detto della causa diliberativa;  omai dicerae il maestro del iudiciale. Ma questo sia conto  a ciascuno, che Ila propietade della diliberazione èe mostrare che ssia utile e che dannoso in alcuno convenentre.  Et questa diliberativa si solca trattare nel senato, e prima  diliberavano li savi privatamente che era utile e che no  e poi si recava il loro consiglio in parlamento e quivi si fermava la loro sentenza, e talvolta si ne prendea un'altra  migliore.  Judiciale è quello il quale, posto In iudicio, à in sé accu-  sazione e difensione o petizione e recusazione. La natura di iudicamento si è una forma la quale si  conviene al parladore per cagione di mostrare la iustizia  e la 'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare d'una cosa  s' ella è insta o centra iustizia, in cotal modo : che uno ac-cusa un altro e l’accusato si difende elli medesimo o un  altro per lui; overo che uno fa sua petizione e domanda  guidardone per alcuna cosa eh' elli abbia ben fatta, et un  altro recusa e dice che non è da guidardonare, e talvolta  dice. Anzi è degno di pena. Et questa causa si pone  in iudicio, cioè in corte davante a' indici, acciò eh' elli indichino tra Ile parti quale àe iustizia; e questo si fae in  corte palese in saputa delle genti, acciò che Ila pena del     S. in Iva — 3: M-m e so la p. — 4: M' L'altra la quale — 7 : Ai da melanesi, m tra  mei. - Af ' e li crem. — M-m l'altro dice — *: J/ E già detto — U-m cosa — 9 : M ' oggi-  mai dicera del giudioiale - 10: ;»/' om. a ciascuno — m e damostrare — 12: m ohe prima  14: m om. e — m M' in loro consiglio (ma L illoro cons.) — 14-15: A/' in loro sententia  si fermava — 18: Tuttiimss. e [tosto — i9: m accnsatione, difensione, pctitiono — Tutta mas.  recusatione {ma cfr. testo latino) — 24: m chontro a iust. — m om. che — V e medesimo, L elli med. — 27: m fatta bene — 28: m om. e dice — 32: m traile genti.  malfattore dia exemplo di non malfare, e '1 guidardone  de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et sopra  questa materia dice uno savio: « I buoni si guardano di  peccare per amore della vertude, i malvagi si guardano  5. per paura della pena ». 3. Et è questa causa iudiciale doppia: una speciale et un' altra che non si puote partire.  Speciale è quella nella quale il pai'lierc si sforza di mostrare alcuna cosa che ssia insta o iniusta, non nominando  certa persona; in questo modo: « Il ladro èe da 'mpendere,   10. perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è ». 4. Quella  che non si puote partire è quella nella quale il parliere si  sforza di mostrare una cosa essere iusta o no, nominando  certa persona; in questo modo: « È da impendere Guido  eh' à fatto furto, o no? » Od « E da guidardonare GIULIO Cesare eh' à conquistata Francia, o no? Et tutte que  ste cause iudiciali si considerano sopra'1 tempo preterito perciò che di ciò che l’uomo à fatto in arrietro è guidardonato o punito. CICERONE dice la sua sentenzia della materia di rettorica riprende quella d' Ermagoras. Et sì come porta la nostra oppinione, l'arte del parliere (0  e la sua sctenzia è di questa materia partita in tre. (cai). VI) Che   certo non pare che Ermagoras attenda quello che dice ne attenda C^)   ciò che promette, acciò che dovide la materia di questa arte in causa   25. et in questione.     1 : VI exempro allo genti — -V far malo — M il guidardone — S: M' tini benfacloro —  m om. VA — 4: M' o li malvagi seno guardano — 6: U' et una che — 7: il' il dicitore  - 9: M-m om. modo — m è da mpichare — 10: M' un altro — 12-15: M-m om. ila  nominando alla fine del paragrafo — i6: il-m om. si — i7: m per adietro — i8:m pulito  SI : M-m parlare, M' parladore, L parlatore —M Amagoras   Che sia da legger cosi dimostra non tanto la variante di M' quanto, specialmente, il trovare nel § 1 del commento lo stesso errore di Mm di fronte a  parliere di M'. Conservo, coi codici, i due attenda, quantunque il tosto latino abbia nel  primo caso attendere e nel secondo intellUjere: qui ci aspetteremmo dunque in-  tenda, e l'alterazione, per analogia col primo verbo, sarebbe spiegabilissima. Ma  anello con attenda il senso va bene; e forse una prova della somiglianza sostan-  ziale per l'autore fra attendere e intendere si ha nel § 7 del commento, dove,  riferendosi a questo passo, i due verbi sono invertiti di posto: «non pare che  Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che considerasse (= attendesse) quello  che promettea. Poi elle Tulio àe detto davanti le tre partite della  materia di rettorica sì come fue oppiuione d'Aristotile, in  questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e  5. dice che pare a llui quel medesimo, e riprende la sentenzia d'Ermagoras, il quale diceva che Ila materia del par-  liere è di due partite, cioè causa e quistione. Ma certo  e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla materia  di quest'arte confortameuto e disconfortamento e consola-  lo, mento; e lui riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli  era più novello e però dovea elli essere più sottile, e ri-  prendelo ancora però che ssi traea più innanzi dell'arte;  e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma però che  Tulio CICERONE non disfina (D lo riprendimento delli altri, si vuole lo sponitore chiarire il loro fallimento, e dice così: 3. Vero  è che, si come mostrato è qua in adietro, l' officio del parliere si è parlare appostatamente per fare credere, e questo  far credere è sopra quelle cose che sono in lite, e' ancora  non sono pervenute all' anima ; ma chi vuole considerai e  il vero, e' troverà che confortameuto e disconfortamento  sono solamente sopra quelle cose che già sono pervenute  all' anima. Verbigrazia: Lo sponitore avea propensato di  fare questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava;  onde da questa negligenzia il potea bene alcuno ritrattare per confortameuto, e questo conforto viene sopra  cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la negli-  genzia.Et se alcuno disconforta un altro che avea pro-  posto di malfare, tanto che ssinde rimane, altressi viene lo  sconforto in cosa la quale era già pervenuta all' anima. Adunque è provato che conforto né disconforto non pos-     1 : m dinanzi — 3: L dico e conferma — 4: M-m la sciencia — 6-7 : M-m parlaro — 10:  M'-L non mattamente —li: M-m om. elli — 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non  examina delli altri — m om. si — 16: M^ in qua dietro — m del parlare — 17: M-m  om. si — 18: M' et che ancora, m e anchora — SO: M' et trovare — 21: m om. già  - S3 : L pensato, S per pensato — 23: M lo tralassava, m lo lasciava — 24: M' bene  ritrarre alcuno, w lo potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta — 30: M-m sconforto  Manuzzi registra disfinire per « compiere » e anclie por « dichiarare »,  che mi sembra qui il senso piìi adatto.   (2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono di mantenm-e  questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono gh altri mss. altì-  sono essere materia di questa arte. 5. Ma consolamento  puote anzi essere materia del parliere, perciò che puote  venire sopra cosa e' ancora non sia pervenuta all' anima.  Verbigrazia: Uno uomo ferma nel suo cuore di  menare dolorosa vita per la morte d' una persona cui elli  ama sopra tutte cose. Ma un savio lo consola, tanto  elle propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora  pervenuta all'anima. Ma perciò che in questo consolamento  non ha lite, perciò che '1 consolato non si difende né non allega ragioni contra il consolatore, non puote essere ma-  teria di questa arte. 6. Or è ben vero che altri dissen che  dimostrazione non era materia di questa arte, anzi era materia di poete, però eh' a' poete s' apartiene di lodare e di  vituperare altrui. Et avegna che CICERONE no Ili riprenda nominatamente, assai si puote intendere la riprensione di loro  in ciò eh' e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse che  dimostrazione e deliberazione e iudicazione sono materia di  questa arte. Et sopra ciò nota che dimostrazione per-  tiene a' poeti et a' parlieri, ma in diversi modi : che ' poeti  lodano e biasmano sanza lite, che non è chi dica contra,  e '1 parlieri loda e vitupera con lite, che è chi dice contra  il suo dire. Et perciò dice Tulio che non pare che Erma-  goras intendesse quello che dicea, né che considerasse  quello che prometea, dicendo che tutte cause e questioni   25. proverebbe per rettorica. Or dicerà Tulio le rii)rensioni  d' Ermagora sopra causa e sopra questione. Tullio seguita Ermagoras della causa, etc.  Causa dice che ssìa quella cosa nella quale abbia contro-  versia posta in dicere con interposizione di certe persone; le quali  30. noi medesimo dicemo che è materia dell' arte e, sì come detto avemo  dinanzi, che sono tre parti : iudiciale, dimostrativo e deliberativo.     2: M' innanzi — del parlatore — 3: m non 6 jiervenuta — 5-6: M ellamava —  6-7 : III lo chonsolò, M' il consola tutto sì clid iiropone — 8: M-m che questo cons. —  .9: in e non allega — i3: m di poota.... a poeti, M' de poeti... ali poeti — M' o di vit. —  i-i: M nelle, m non le, M' non gli — i6: M' elicgli conferma — 17: m dim., dilib. et  iiivochationo — 19: M' ali poeti et ali pailadori— 5i : M II parlieri, »i 11 parlieri?, 3/«  E! parladore — m pero che è chi dicha chontro al suo dire — S-1: A/' chelgli prom. —  26: m e questione, M' sopra questioni — 30: m nm. medesimo — itf' nm. o    Sponitore.   1. Poi che Tulio avea detto che Ei-magoras non intese  se stesso dicendo che causa e questione sono materia di  questa scienzia, sì dice in questa parte che Ermagoras  5. dicea che fosse causa. 2. Et causa appella una cosa della  quale molti sono in controversia, perciò che 11' uno ne  sente uno intendimento e l'altro ne trae un'altra diversa  intenzione; sicché sopr' a cciò contendono di parole met-  tendo e nominando alcuna certa persona, che non si possa  10. partire e che propiamente e determinatamente si partenga  alle civili questioni. 3. Et di questo dice Tulio che ss' ac-  corda co llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e per  Aristotile; ma dicerà omai com' elli errò in questione. Qtd rijivende Tullio Ermagoì     as-  Questione apella quella che àe in se controversia posta   in dicere sanza interposizione di certe persone, a questo modo: Che  èe bene fuori d'onestade? Sono li senni (i) veri? Chente è la forma del  mondo? Chente è la grandezza del sole? Le quali questioni inten-  demo tutti leggiermente essere lontane dall'officio del parliere;   20. che molto n' è grande mattezza e forseneria somettere al parliere  in guisa di picciole cose quelle nelle quali noi troviamo essere con-  sumata la somma dello 'ngegno de' filosofi con grandissima fatica.   Sponitore.   1. Ora dice Tulio che Ermagoras appellava questione   25. quella cosa sopra la quale era controversia intra molti,   sicché contendeano di parole l'uno contra l'altro non no-     5 M diceva - m ch'era chausa — 7: M^ e un altro ne trae altra d. i., M na {sic)  trae, m ne atrae — 8: M-m contendemo — 10: M' nominatamente — m sautenga —  13: Jf' oggimai — 15: M' la quale ae — 16-17: M' che ben — M-iii li senni vari —  M' om. h — M-m la l'ama — 19: M-m del parlare — 20: M-m oiii. raaltozza, ilf ' om. e for-  seneria — JZ-w parlare, M' parladore — SI: l/Tiusta,//i in vista— 24 ^/-w appella-  lo: M' era questione — m tra molti — 26: M ne contendeano   (1) Traduce il latino sensus con una forma che ritorna anche nel commento;  è la stessa fusione, o confusione, cho troviamo nel francese.  minando certa persona la quale propiamente s'apartenesse  alle civili questioni. 2. Et in ciò pone cotale exemplo: «Che  è bene fuori d'onestade?» Grande contraversia fue intra' fi-  losofi qual fosse il sovrano bene in vita: et erano molti  5. che diceano d'onestade, e questi fuoro i parepatetici; altri  erano che diceano di volontade, e questi sono epicurii.  3. Altressì fue questione se ' senni sono veri, perciò che  alcuna fiata s'ingannano, che se noi credemo che ricalco  sia oro sanza fallo s' inganna il nostro senno. Altressì fue questione della forma del mondo, però eh' alcuni filosofi  provavano che '1 mondo è tondo, altri dicono eh' è lungo, o  otangolo(l\ o quadrato. 5. Altressì era questione della grandezza del sole, che alcuni dicono che’l sole è otto tanti che  Ila terra, altri più et altri meno. Et questa misura si sforzalo, vano di cogliere i maestri di geometria misurando la terra,  e per essa misura ritraeano quella del sole. Et perciò  mostra Tulio che Ermagora non intese quello che dicea,  ch'assai legiei'mente s'intende che queste cotali questioni  non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice officio però che ben potrebbe essere che '1 parliere fosse FILOSOFO,  e così toccherebbe bene a lini trattare di quelle questioni,  ma ciò non arebbe per officio di rettorica ma di FILOSOFIAf. Donque ben è fuori della mente e vano di senno quelli che  dice che'1 parliere possa o debbia trattare di queste questioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano  I FILOSOFI. Or à provato Tulio che Ermagoras non intese  quello che disse. Ornai proverà come non attese quello che  promise, in ciò che promettea di trattare per rettorica ogne  causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a guisa de' savi, i     1 : 3/' sì plenesse - 3: M-m fuori con lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori  d'hon. — .W grande (juostione — mi traili lilosali — -I : m «m. et — 5 : .V diceano hon. —  M-m OHI. questi fuoro — il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici — 6: il' diceano volontade  (S ugg. cioè piacere) — 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco — 9: S il nostro senti-  mento — iO: il perciò — id: il' diceano — IS: il Hangolo ('/), "i troangholo, .W'-i  triangolo, S otangolo — m quadro — i3: il' cotanti che terra, i cotanti chella  terj-a —16: m ritraevano la misura d. s. — 17: il' che elgli diceva. Kt assai ecc. —  S3: M' Dunque ben — M' chi dice — 24: M' debbia parlare — 25: M' et faticano —  S7: il-m non inteso — 28: M-m perche (> rectorica — 29: M-m di savi   (1) La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella di  S che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come abbre-  viatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento di Vittorino a  questo passo non parla nò di triangolo né di ottangolo.   (2) Il latino Ila in ca.     - 49 —   quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11' apongono  ad alcuna arte per la quale non si puote provare; come  s' alcuno volesse trattare d' una questione di dialetica et  aponessela a gramatica, per la quale non si pruova né ssi  5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando per argomenti  la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di Tulio.   Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto davanti. Che se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere  acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando la sua scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere,  e non avesse sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli.  Ma ora è quella forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto retto-  rica che no-lli concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi  pare del tutto malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate cose elette ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti,  et alcuna v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire del-  l'arte sì come fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la  qual cosa noi vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare  a noi che materia di rettorica è quella che disse Aristotile, della   20. quale noi avemo detto qua indietro. In questa parte dice CICERONE che se Ermagoras fosse  stato bene savio, sicché potesse trattare le quistioni e le  cause, parrebbe eh' avesse detto falso, cioè che avesse dato al parliere quello officio che nonn é suo; e così non avrebbe  mostrata la forza dell'arte, ma averebbe mostrata la sua.  Ma ora è quella forza nell'uomo, cioè tal fue questo  Ermagoras, che neuno che dicesse eh' e' non sappia rettorica nolli concederae che sia FILOSOFO. Ma perciò l'arte     1 : 3f siila pongono — 3: m trattare una q. — 4-5: M' per la quale non si porla  provare — M' om. per argomenti — 9: M^ o \)ev insegnamento parendo— 10: »i ordinato  — M-m del parlare — 11 : M-m non avesse posto (»m in et n.) — M' ([nello puote —  13: M' che fece nolli cono. — 14-15: M-m messe, A/' in esse — M-m ^ locate le cose  («4 nm. le cose) 7 lecte — 17: M dell'arti, in delle urti — itf' grandissimo — 18: Jl/ potea,  M' ]jotero — 19: ni sia quella. M' qua in adietro — S4: M-m ciò — M' cavesse  detto — 25: Af a parliere — 28: M' ch'olii — 28-29: S che non lu veruno che dicesse  ch'elli non sappia retorica non dirà giù che egli sia philosopho   (1) Il testo latino ha in ea.     che fece non pare in tutto rea ». In questa parola il cuo-  pre (1) Tulio e dimostra eh' elli avrebbe bene ijotuto dire  X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò eh' elli àe  messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno li  5. comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna  cosa nuova v' agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove  il vitupera, dicendo che fosse furo in perciò che delle scritte  d' altri maestri fece il suo libro. Ma molto è picciola  cosa dire dell' arte, ciò viene a dire eh' al parliere non s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece Ermagora, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo  li 'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la qual cosa non  seppe fare esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia d'Ari-  stotile, che dice che materia di questa arte è dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et ornai è detto sofficientemente e  diligentemente del genere, cioè generalmente, dell' officio  e della fine di rettorica; or sì dicerà il conto delle sue  parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.Tullio CICERONE dice le parti di rettorica.   20. 27. Le parti sono queste, sì come i più dicono: Inventio, di-   spositio, elocutio, memoria e pronuntiatio.     Lo sponitore. Cinque parti dice Tulio che sono et assegna ragione   per che, e quella ragione metterà lo sponitore in suo luogo.   25. Ma prima dicerà le ragioni che nne mostra BOEZIO nel   quarto della Topica, che dice che se alcuna di queste cin-     1-2: S scuopre — 4: M' con non molto.... ingegni i com. — 6: J/' vi giiingnesse —  i>f-»i la dove — 7:M* fosse ladro — m poro che dello dette scritte - 8-9: M' delli altri —  om. Ma... arte — m cosa a dire — 10: M-m a dire — 12 : m egli noi seppe fare — 14 : m  dice materia — 15-17 : M' Et oggimai ae solTicientemento detto del genere, dell' officio et  del (ine dì rectorica. Si dicerà l'autore déle sue parti — M sulficientemcnte dilig. — m ora  dirà — 20;mLLQ parti di rettoriclia — M' inveutione, dispositione, ccc — 24: S questa  — M-m che dico se alcuna  Cioè «lo difonde». La lezione scuopre di S sarà nata da un ilcuopre letto  iscuopre; come senso si ridurrebbe a una ripetizione di dimostra.  que ijarti falla nella diceria, non è mai compiuta; e se  queste parti sono in una diceria o inn una lettera, certo  l'arte di rettorica vi fie altressì. 2. Un'altra ragione n'ase-  giia BOEZIO: che però sono sue parti perchè esse la 'INFORMANO E ORDINANO e la fanno tutta essere, altressì come '1  fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto sono parti d'una casa sì  che la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non sarebbe la  casa compiuta. Et dice Tulio che queste sono le parti  di rettorica sì come i più dicono, i)erò che furo alcuni  che diceano che memoria non è parte di rettorica perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non è  parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone e dicerà di  ciascuna parte perse, e primieramente dicerà della 'uvenzione, sì come di piti degna; e veramente è più degna, però   15. ch'ella puote essere e stare sanza l'altre, ma l'altre non  possono essere sanza lei. Tullio dice della invenzione.  Inventio è apensamento a trovare cose vere o verisimili  le quali facciano la causa acconcia a provare. Dice CICERONE che invenzione è quella scienzia per la quale  noi sapemo trovare cose vere, cioè argomenti necessarii -  e nota « necessarii », cioè a dire che conviene che pure cosi  sia - e sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè argomenti ac-   25. conci a provare che così sia, per li quali argomenti veri  e verisimili si possa provare e fare credere il detto o '1  fatto d'alcuna persona, la quale si difenda o che dica in-  contro ad un' altra. 2. E questo puote così intendere il  porto dello sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia   30. sopra la quale conviene dire parole, o difendendo 1' una     i: .W manca — 3: m vi (ia, M' vi l'u - 3-4: M' dice Boelius, che poroiù — 5: m  fannola tutta essere, Af' li fanno essere tutto alti-essi ecc. — 6: M' son parte — 8 : m om.  Et — 10: m non era ~ 11: M^ dispositlone — 12: M-m dell'arte — 13: m primamente -  16: m essere o stare — 18: M' invontione (e coù semiire) — m pensamento — il' overo  simili — 19: il-m la cosa — S3: SI' om. a dire — 23-24: m pure che cos'i sia. E sap-  piano — M' nm. acconci ~ 26: M-m el facto - 27-28: m chontro ad un altra     - 52 -   parte o dicendo centra l'altra; o per aventura sia materia  sopra la quale si conviene dittare in lettera. Non sia don-  que la lingua pronta a parlare né la mano presta alla penna,  ma consideri che '1 savio mette alla bilancia le sue parole  5. tutto avanti clie Ile metta in dire né inn iscritta. 3. Con-  sideri ancora che '1 buono difficiatore e maestro poi che  propone di fare una casa, primieramente et anzi che metta  le mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della casa  e truova nel suo extimare come la casa sia migliore; e poi   10. eh' elli àe tutto questo trovato per lo suo pensamento, sì  comincia lo suo lavorio. Tutto altressi dee fare il buono  rettorico: pensare diligentemente la natura della sua ma-  teria, e sopra essa trovare argomenti veri o verisimili sì  che possa provare e fare credere ciò che dice. 4. Et già   15. é detto quello che è inventio. Ora procederà il conto a dire  quello che è dispositio.     Dice Tullio de dispositio. Dispositio èe assettamento delle cose trovate per ordine. Perciò che trovare argomenti per provare e FAR CREDERE il suo dire non vale neente chi no Ili sae asettare per ordine, cioè mettere ciascuno argomento in quella parte  e luogo che ssi conviene, per più affermamento della sua  parte, sì dice Tulio che è dispositio. 2. E dice eh' è quella   25. scienzia per la quale noi sapemo ordinare li argomenti  trovati in luogo convenevole, cioè i fermi argomenti nel  principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co' quali non  si possa contrastare lievemente, nella fine. Cosi fae il  difficatore della casa, che poi eh' elli àe trovato il modo     1 : m chontro all'altra - 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3: in o la mano alla  penna - 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M' o in iscriptura — 6-S:.il diliciatore  prima che metta lo mani a lare — mr=.)/, ma o maestro - 9: m Poi - 10: M' U suo la-  voro — i3: M-m si veri che possa - 14-16: M E già liecto, mi Ora e detto - M' om-  quello - M-m Ora procederà il conto quello che è spositio, .«' Si procederà il conto a dire  che k dispositione - SO: m diro il suo criMloro - Sfì: M trovai - ,W-»i ohi. i, m om. argo-  pienti — 27: M' ali (piali     nella sua mente, elli ordina il fondamento in quel luogo  che ssi conviene, e ila parete e '1 tetto, e poi 1' uscia e  camere e caminate, et a ciascuna dà il suo luogo. 4. Già  è detto che è dispositio; or diceva il conto che è elocutio.     5. Tullio dice della locuzione.   30. Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti  alla invenzione.   Sponitore.   I. Perciò che neente vale trovare od ordinare chi non  sae ornare lo suo dire e mettere parole piacevoli e piene  di buone sentenze secondo che ssi conviene alla materia  trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et dice che è quella scienzia per la quale noi sapemo giungere ornamento di  parole e di sentenze a quello che noi avemo trovato et ordinato. E nota che ornamento di parole èe una dignitade la quale proviene per alcuna delle parole della diceria, per la quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia. Il  grande valore che in voi regna mi dà grande SPERANZA del  vostro aiuto. Certo questa parola, cioè “regna”, fa tutte  risplendere l'altre parole che ivi sono. Altressì nota che  ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene  di ciò che in una diceria si giugne una sentenza con un'altra con piacevole dilettamente. Verbigrazia. In queste parole di Salamene. Melliori sono le ferite dell'amico che frodosi basci del nemico. Et già è detto che è elocutio, cioè  apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la diceria piacevole et ordinata di parole e di sentenzie. Omai procederà il conto alla quarta parte di rettorica, cioè memoria.     i-2: m in quello che si chonvienc et il luogo.... l'ascia, charaere3: M^ cam-  minate, ciascuna in suo luogo. Et già ecc. — 0-7: M-m avenonti alla ntentione (anche  S intenliono) — 9: M om. od — 10: M' sa adornare il suo dire — 15: m om. E -  16: M dignità della quale, m M' dignità la quale pervieneSO: M' vi sono — SI m  ,»f' perviene — 22 .- M-m om. Ai — M un'altra seutenfa con un altro, m in un'altra diceria  si giungne un'altra sententia chon un altro piacevole dil. — 23: M-m dice Salamene —  25: M' li frodolenli basci — m om. Et — 26-27: M om. e di sentenzie, m om. piacevole  el; M om. che.... parole  Ambedue le lezioni sono possibili; ma con quella di M si spiega meglio una  pretesa correzione in dice (chi avrebbe pensato, invece, a cambiare dice indi?),  mentre poi il verbo dice renderebbe superflua l'espressione in queste parole.  Dice Tulio della memoria. Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle  parole e dell'ordinamento d'esse.  Et perciò che neente vale trovare, ordinare o acon-   ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella memoria sicché  ci'nde ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice Tulio  che è memoria. Onde nota che memoria èe di due maniere:  una naturale et un'altra artificiale. La naturale è quella forza dell'anima per la quale noi sapemo ritenere a memoria QUELLO CHE NO APRENDEMO PER ALCUNO SENNO SEL CORPO. Artificiale è quella scienzia la quale s'acquista per insegnamenti delli FILOSOFI, per li quali bene impresi noi possiamo ritenere a memoria le cose che avemo udite o trovate  o APRESE PER ALCUNO DE’ SENNI DEL CORPO e di questa memoria artificiale dice Tulio eh' è parte di rettorica. Et dice  che memoria è quella scienzia per la quale noi fermiamo nell'animo le cose e le parole eh' avemo trovate et ordinate,  sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo a dire. Et già é detto che è memoria; si dicerà il conto la quinta et ultima  parte di rettorica, cioè pronuntiatio. Dice CICERONE della pronunziagione. Pronuntiatio è avenimento della persona e della voce secondo la dignitade delle cose e delle parole. Et al ver dire poco vale trovare, ordinare, ornare  parole et avere memoria chi non sae profFerere e dicere le  sue parole con avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio Però che niente — ot acconciai-e — 7: w» cene, Af' cine — M volere — 9:mom,  et — il: M' senso — IS: M' quella memoria — i-i: J»/' udito — i5: 4f' sensi — 16-,  m nnu Et — i8 : m olle parole — i9: M' noi vegnamo a dire — SO- « ultra parte, hi  ora dirà il conto la quinta jiarte, .W" il maestro - S6 : m o ornare — 27: in a chi non sae  prollbrere o diro     -òs-  che è pronuntiatio; e dice eh' è quella scienzia per la quale  noi sapemo profferere le nostre parole et amisurare et accordare la voce e '1 portamento della persona e delle membra secondo la qualitade del fatto e secondo la condizione della diceria. Che chi vuole considerare il vero, altro modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di dolore che  di letizia, et altro di pace che di guerra, ('he '1 parliere  che vuole somuovere il populo a guerra dee parlare ad  alta voce per franche parole e vittoriose, et avere argoglioso advenimento di persona e niquitosa ciera contra ' nemici. Et se Ila condizione richiede che debbia parlamentare a cavallo, si dee elli avere cavallo di grande rigoglio,  sì che quando il segnore parla il suo cavallo gridi et anatrisca e razzi la terra col piede e levi la polvere e soffi per e nari e faccia tutta romire la piazza, sicché paia che  coninci lo stormo e sia nella battaglia. Et in questo punto  non pare che ssi disvegna a la fiata levare la mano o per  mostrare abondante animo o quasi per minaccia de' nemici. Tutto altrimenti dee in fatto di pace avere umile advenimento del corpo, la ciera amorevole, LA VOCE SOAVE, la  parola paceffica, le mani chete; e’1 suo cavallo dee essere chetissimo e pieno di tanta posa e' sì guernito di soavitade  che sopr'a llui NON SI UMOVA UN SOL PELO, ma elli medesimo  paia factore della pace. Et così in letizia de' 1 parlatore  tenere LA TESTA LEVATA, il viso allegro e tutte sue parole e  viste SIGNIFICHINO allegrezza. Ma parlando in dolore sia LA TESTA INCHINATA, il viso triste e li occhi pieni di lagrime  e tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sembiante per sé e ciascuno motto per sé muova l'animo dell’uditore a piangere et a dolore. Et già é detto delle  V parti sustanziali di rettorica interamente secondo  l'oppinione di Tulio, e sì come lo sponitore le puote  fare meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a scusare sé medesimo di ciò che non àe mostrato ragione perché     2: m e misurare ~ 5: M' che a chi vuole — 0: M' noia boce — 7 : M' parlare, m  Il parliere — 8: m smuovere — i/' om. il populo — 11 : M parlantare, m p-are — 12: m  mn. elli — 14-15: M' delle nari, vi sozzi le anari — 16: il' incominci — 17: M-m om.  per — 19-20: M' humili avenimenti — m nel chorpo — 21 : M' le parole pacefiche —  22 : L di tanta jwssa — 24 : M' om. Et — mss. del parlatore — 25 : M-m levata in suso -  il' le sue parole — 26: il-m e signilichino — 27: m chinata, il' inchina, L inchinata —  28 : M-m parole iuste e dolorose — 29: il' muove — 30: m piangerò a dolore. Ora è detto —  31 : il' sustanziali parti — 32: M' il puote     — 56 —   quello sia genere et ofifìcio e fine di rettorica sì com' elli  àe fatto della materia e delle parti, e dice in questo modo.   Tullio dice che tratterà della materia e delle parti. Oramai dette brievemente queste cose, atermineremo in  5 altro tempo le ragioni per le quali noi potessimo dimostrare il  genere e IPofficio e Ila fine di quest'arte, però che bisognano di  molte parole e non sono di tanta opera a mostrare la propietade  e Ile comandamenta dell'arte. Ma colui che scrive l'arte rettorica  pare a noi che 'I convenga scrivere dell'altre due, cioè della maio teria e delle parti. E io perciò voglio trattare della materia e delle  parti congiuntamente. Adunque si dee considerare più intentivamente  chente in tutti generi delle cause debbia essere inventio, la quale  è principessa di tutte le parti.  In questa parte dice Tulio che non vuole ora provare perchè quello sia genere di rettorica che detto è  davante, né Ilo officio né Ila fine, però che vorrebbe lunglie  parole e non sono di molto frutto, e però l' atermina nel-  r altro libro nel quale tratta sopr' a cciò; et in questo presente libro tratta della materia, cioè dimostrazione,  deliberazione e iudicazione, et altressì tratta delle pai'ti,  cioè inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio. Et di tutte queste tratterà insieme e comunemente. Ma  però che inventio è la più degna parte, sì dicerà CICERONE chente ella dee essere in ciascuno genere di rettorica,  cioè come noi dovemo trovare quando la materia sia di  causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e quando  sia iudiciale; e tratterà si comunemente che mosterrà  come sia da trovare in catuna di queste cause, e come   30. ordinare e come ornare la diceria, e come tenere a me-  moria e come profferere le sue parole.     1 : M-m quella — 4 : M' Ogimai — 7 : M admostrare, ni a dimostrare — M' le pro-  picladi — 9: M-m che convenga - iO-H : M-m om. K io.... congiuntamente — IS: M-m  chente e — i3: Af' do tutte l'arti — 16: M-m quella, M -L quel — M' detto davanti —  18: M' lo termina — 20: M-m dimostrative — 23: M' congiuntamente; m om. e — 24:  M-m om. SI dicerà Tulio — i'S : M' om. sia — congiuntamente — S9: Af' come iu e. d.  q. e. sa da trovare — 30: iii nm. e come ornare  Lo sponitore parla all' amico suo. Perciò lo sponitore priega '1 suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di  tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di si dare  l'animo a cciò eh' è detto davanti, spezialmente in connoscere il dimostrativo e '1 deliberativo e '1 iudiciale che sono il fondamento di tutta l'arte, e poi a quel che siegue per  innanzi, eh' elli intenda tutto '1 libro di tal guisa che, per lo  buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo lo 'nsegnamento dell' arte, il libro e lo sponitore ne riceve-  JO. ranno perpetua laude. Della constitnzione e delle quattro sue parti.   34. (e. Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in  diceria o in questione contiene in se questione di fatto o di nome  di genere o d'azione; e noi quella questione delia quale nasce la causa apelliamo constituzione. E constitnzione è quella eh' è  prima pugna delle cause, la quale muove dal contastamento della intenzione in questo modo. Facesti. Non feci, o Feci per  ragione. Poi che CICERONE àe detto di mostrare e trattare della   invenzione e della materia insieme, sì mostra lo sponitore  in che ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chiarezza dicerà tutto avanti in che significazione si prendono  queste parole, cioè causa, controversia, constituzione e stato. Causa vale tanto a dire quanto il detto o '1 fatto d' alcuno, per lo quale è messo in lite, ed è appellato causa  tutto '1 processo dell' una e dell' altra parte. Et appellasi  causa tutta la diceria e la contenzione cominciando al  prolago e tìniendo alla conclusione; donde dice uomo:     3: M-m di darli l'animo — 7-10: M^ chel baono — ben dire — per tua laude, M-m  dello sponitore, M ne rlcevemo, m ne riceva - 13: m o questione, ilf ' om. contiene in se  questione — 14 : M-m di quella — 15: M^ constitutione ò la prima pugna — 21 : M' om.  insieme — M' mosterra, ma L mostra — SS : M delinventia, m della inventia, M^ della  inventione — 23: m tutto innanzi — Af' mi. si prendono — S7 : M' dell'una parte 7 del-  l'altra — 28: M-m la 'nlentione — M' dal prol.   La mia causa è giusta, cioè, la mia parte è giusta. Controversia vale a dire tanto come causa, e viene a dire  “controversare” cioè usare l'uno coli' altro di diverse ragioni  e contrarie. Questione tant' è a dire come '1primo detto di colui che comincia contra un altro e '1 secondo detto  di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria  nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione, et  appellasi questione per l'una e per l'altra parte della questione. Constituzione si prende et intende in quelle medesime significazioni che sono dette davanti. Stato è appellato il detto e '1 fatto'l) dell'aversario, però che' parliere  stanno a provare quel detto o quel fatto; e questo medesimo  è appellato constituzione perciò che '1 parliere constituisce  et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o di quel fatto. Et per ciò è appellato “CONTRO-VERSIA” che diversi  diversamente sentono di quel detto o di quel fatto. Qui dice lo sponitore come Tullio tratterà della Invenzione. Et poi che Ilo sponitore àe dette le significazioni di queste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della 'nvenzione. Et certo primieramente insegna invenire e trovare  quelle questioni le quale trattano i parlieri, et appellale  constituzioni e dice la proprietade di constituzione e dividela in parti. Nel secondo luogo mostra qual causa sia  simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta, cioè di quattro o di più. Nel terzo luogo mostra qual contraversia sia in scritta e quale in dicere. Nel quarto luogo  mostra quelle cose che nascono di constituzione, cioè la  diceria nella quale àe due divisioni e ragioni, e Ila giudicazione e '1 fermamento. Nel quinto luogo mostra in che guisa si debbono trattare le parti della diceria secondo  rettorica. Nel VI luogo mostra quante sono esse parti  e quali e che sia da ffare in ciascuna. Et disponesi cosi     2 : Af' vale quasi tanto — 3: M' controversia — centra l'altro diverse ragioni — 4:M'  k tanto a dire — M-m come primo — 5: m e secondo — 7: M-m parti in essere — M dn-  bitatione sanfa dubitatione — 9: M' i s'intende — 10: m dinanzi — J8: m om. VA-  IO: M' sì dicerà oggimai — 20: L a trovare — 23: m In quattro parti — M-m dimostra  - M qual cosa, m ciualo luogho — 26 : M-m sia scripta - 28 : M'-L e la ragiono el iu-  dicamento el fermamente — 29: m dimostra — 31: M luorao (tic) .— 32: M' ciascuno  M Kt diponesi, m ('dispensi, M'-L Et dispone   Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per uniformità colle frasi seguenti ; ma  la concordia dei codici per e lascia incerti sulla conesiione, che non è neppure  indispensabile per il senso.     — 59 —   il testo di Tulio per fare intendere onde procedono le qui-  stioni che toccano al parliere di questa ai'te. Ogne cosa la quale àe in sé CONTRO-VERSIA,  cioè della quale i diversi diversamente sentono sicché alcuna cosa dicono sopr' a cciò con inquisizione, cioè per  sapere se alcuna delle parti è vera o falsa, sì à' in sé que-  stione di fatto, cioè questione la quale muove di ciò che  alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia : Dice l'uno contra l'altro. Tu mettesti fuoco nel Campidoglio. Et esso risponde. Non misi. Di questo nasce una cotale questione, se elli fece questo fatto o no, et è appellata questione di fatto per quello fatto che a llui è apposto, etc. Od è questione di nome, cioè che l’una parte appone  un nome a un fatto (D e l'altra parte n'appone un altro. Verbigrazia: Alcuno à furato d'una chiesa uno cavallo o  altra cosa che non sia sagrata. Dice l’una parte contra lui. Tu ài commesso sacrilegio. Dice l'altro. Non sacrilegio, ma furto. Et nota che sacrilegio è molto peggiore  che furto, perciò che colui commette sacrilegio che fura  cosa sacrata di luogo sacrato. Donde di questo nasce una  questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere nome  furto sacrilegio, e però è appellata QUESTIONE DEL NOME. Od è questione del genere, cioè della qualitade d'alcuno  fatto, in ciò che l’una parte appone a quel fatto una qualitade e l' altra un' altra. Verbigrazia : Dice F uno. Questi  uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo  padre. Dice l'altro. Non è vero, ma iniustamente l'à  fatt; e di ciò nasce cotal questione di questa qualitade. Se l'à fatto iustamente o iniustamente, e perciò è appellata questione di genere, cioè della qualità d'un fatto e   di che maniera sia. Od è questione d'azione, cioè viene   a dire che contiene questione la quale procede di ciò,   e' alcuna azione si muta d' un luogo ad altro e d'un tempo   ad altro. Verbigrazia : Dice uno contra un altro. Tu m' ài    M' diversi — 6: M' se l'una parte — 8: 3f' un facto — 8-9: M' uno contra un  altro — M' Elgli, mie— 12-13: m che 6 allui aposto, il/' perche il facto che allui e  e apposto da questione ecc. — M-m Onde questione — i4 : M-m in nome o in facto, M'  ialla dal 1° al 2° appone — 18: m M' oin. Et — M' peggio — 20: m Onde — 21: M'  del nome del facto — 22: m di nome — 23: M-m Onde — m di genere — 25: M-m l'altro —  28: iW' OHI. e — 29: M-m om. se l'à fatto — 30: M' o di che m. - 31 : M-m Onde —  mcioò che viene — 32-34: M' dico calcuna ad un altro — om. e.... ad altro — uno a un altro   È lezione congetturale, ma sicura, come dimostra l'espressione analoga del § 16.  furato un cavallo »; et esso risponde: « Vero è, ma non tine  rispondo in questo tempo, perciò che ttu se' mio servo, o  perciò eh' è tempo feriato, o perciò eh' io non debbo rispon-  derti in questa corte, ma in quella della mia terra. Onde di questo procede una questione, la quale Tulio dice che  è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. Et dice  Tulio che tutte le quistioni che sono dette davanti sono  appellate constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice  che constituzione è la prima pugna delle cause, cioè  quello sopra che da prima contendono i parlieri, cioè il  detto dell'uno e '1 detto dell'altro, e questo sopra che  de prima contendono i parlieri si è il nascimento, cioè che  muove del contrastamento della intenzione, cioè del detto  di colui che ssi difende contra le parole dell'accusatore. Onde contastamento è appellato el primo detto del difensore e intentione è appellata il primo detto dello accusatore. Et pare che il nascimento della constituzione vegna  della difensione ch'è della accusa, non che nasca della difensione, ma perciò che del detto del difenditore si puote cognoscere se Ila causa o Ila questione è di fatto o di genere o di nome o d'azione, sì come appare nelli exempli  che sono messi davanti.  Et omai dicerà Tulio le nomora  e Ile divisioni e Ile proprietadi e He cagioni di tutte le dette  questioni.  Del fatto, et è detto congettìirale. Quando la controversia è di fatto, perciò che Ila causa si  ferma per congetture, sì à nome constituzione congetturale. In questa parte dice Tulio che quando la contenzione è per alcuno fatto che sia apposto ad altrui, sì come   davanti si dice, sì conviene eh' ella sia provata per con-     1 : M' 0(1 cigli, VI et e — 3: m e però ch'io — M' rispondere — 6 : M' se quelli —  m OHI. Et — 10: M i parliero, vi quello dello quale contendono da prima — 14: M di-  fontu — 15: m M' il primo — 16: M' appellato - 17: M-m che nascimento — 19: M' owi.  del — 23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn scrive le detto | cagioni I (piestioni — SS: Moni.  è — 26-27: M-vi om. è — per cometlere — 30: M' apposto altrui  gettare, cioè per suspezioni e per presunzioni. Verbigrazia:  Dice uno contra un altro. Veramente tu uccidesti Aiaces,  ch'io ti trovai e VIDI TRAIERE IL COLTELLO DEL SUO CORPO. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò  5. che a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'al-  tressì ferme ragioni si possono inducere per l’una parte  come per 1' altra. E poi eh' è detto della constituzione di  fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di nome.  Del nome, et è appellata ilifjìnitiva.  Quando è la controversia del nome, perciò che Ila forza   della parola si conviene diffinire per parole, sì è nominata diffi-  nitiva. In questa parte dice Tulio che quando la conten-   15 zione è del nome del fatto, cioè come quel fatto eh' è apposto altrui abbia nome, quella questione si è diffinitiva  perciò che Ila forza, cioè la significazione di quella parola  e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e rispia-  nare che viene a dire e che significa, non per exempli ma per parole brevi e chiare et intendevole.Verbigrazia. Un uomo è accusato che tolse uno calice d' uno luogo sacrato et è Ili apposto che sia sacrilegio, et esso si difende  dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or sopra questa controversia si è tutta la questione per lo nome di questo fatto: è sacrilegio o furto? Onde per sapere la veritade si conviene diffinire l'uno nome e l’altro, cioè dire la signifficazione e Ilo 'ntendimento di ciascuno nome, e poi che fie  chiarito per le parole quello che '1 nome significa, assai  bene si potrà intendere e provai e qual nome si XJonga a   30. quel fatto. Et poi eh' è detto del nome, sì dicerà Tulio  del genere.     3: m e viJili trarre, M' ol ti vidi trarre — 5-6: M'-L acciò che altress'i (L altre si) f.  r. se ne possono — 7: in ora. E — *: m om. sì — W: M' la controversia è — ii: M'-L  appellata — 13: M-m om. è — 3f ' 7 ilei facto — 16: M' om sì — 17:M' che ella airorca  — M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo sacro — 23: M' ma e furto — 24-25:  AT» se questo facto è sacrilegio furto — 26: m l'altro — M-m dare - 28: M-m che  nome — 30: m om. Ei e si    Dice Tullio del genere, et è appellato generale.  Quando è quistione della cosa qual sia, perciò clie Ila.  controversia è della forza e del genere del fatto, sì è vocata constituzione generale. In questa parte dice Tulio che quando è questione  della cosa quale ella sia, perciò che Ila controversia è della  forza del fatto, cioè della quantitade, e della comparazione  et altressì del genere, cioè della qualitade d'esso fatto, si è   10. vocata constituzione generale. Verbigrazia. La quantitade del fatto si è cotale questione : se uno à fatto tanto  quanto un altro, si come fue questione SE CICERONE AVEA TANTO SERVITO AL COMUNE ROMA QUANTO CATONE. La comparazione del fatbo si è cotale: di due partiti qual sia migliore, si come fue questione quando i ROMANI presono Cartagine  QUAL ERA MEGLIO TRA DISFARLA O LASCIARLA. Il genere del  fatto si è questione della qualità del fatto sì come davanti  fue messo F exemplo, cioè se colui che fece il fatto fece  iustamente o iniustamente.  Dice Tullio dell'azione, et è appellata translativa.  Ma quando la causa pende di ciò che non pare che quella  persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove contra  cui si conviene, o non appo coloro che ssi conviene.d) o non in tempo  che ssi conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di quella  pena che ssi conviene, quella constituzione à nome translativa, però che  ir azione bisogna d' avere translazione e tramutamento.     8: M-m o decta forfa — 9: M-m sia — M' aiiiiellala — H : M-m senno - 14. m do  fatto — i7: M-m qualità — 2'1: A/' l'accusa — 24: M convenne, M-m nm. o non   (1) La frase o non appo coloro che ssi conviene manca in tutti i codici, ma si  ricava dal latino aid non apud qiios e dal § 4 dol commento.  In questa parte dice CICERONE della controversia dell'azione, che quando sopr'acciò è Ila questione e' si conviene  che l’azione si tramuti in tutto o in parte, e perciò à nome translativa, cioè trarautativa. Et questo è o puote essere  Ijer sette maniere, le quali sono nominate nel testo, cioè:  2. Quando non muove la questione quella persona a cui la  conviene di muovere. Verbigrazia: Dice uno scoiaio contra  ad un altro. Tu se' venuto troppo tardi a scuola. Et  esso dice. A te no'nde rispondo, che non ti si conviene  muovermi questione di ciò, ma conviensi al nostro maestro. O non muove la questione contra quella persona  che ssi conviene. Verbigrazia. Fue trovato che in ROMA  si trattava tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra GIULIO Cesare, et esso dicea. Contra me non si conviene  muovere di ciò questione, ma contra CATELLINA CATILLINA che l’ àe  fatto e fa tutta fiata ». non muove la questione appo  coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone che  dee. Verbigrazia : Fue accusato il vescovo di simonia davanti al re di Navarra. Il vescovo dice. Tu non m'accusi  davante a giudice eh' io debbia rispondere, ma io son bene  tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico. O non  muove la quistione in quel tempo che ssi conviene. Verbigrazia. Uno fue accusato il giorno di Pasqua. Esso dicea. Non rispondo ora di questo, perciò che oggi non è  tempo d' attendere a cotali convenenti» non muove  questione a quella lege che ssi conviene. Verbigrazia : Uno  cittadino di ROMA era in Parigi e volea piatire contra uno  francesco secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice     3: Jtf -HI 7 si conviene, 3/' om. — 5: Af 7 puote, m e questo puole essere — M' in sette m. —  7-8: m si conviene — M' in contro a un altro — 9-iO: M' Ed elgli, m et elli — M-m om.  ti — 12: M-m muovere, M' muove questione — i4: Af alcuna —16: m questione di ciò,  M' di ciò non si conv. m. q. — ' 17: m tuttavia — M-m contra coloro — 18-19: M' che  si dee.... Il vescovo fu acc. — 21: M davante a giudici, m /> davanti a giudici, M' davanti  giudice - 24: m della Pasqua — egli — 25: M' non ti rispondo ora di ciò — 26: m M'  da rispondere — 29: M' la legge romana — m il Francesco   (1) Questa è la lezione miglioro per il senso, né si trova una valida ragione  per considerarla arbitraria, quantunque dalle due famiglie di codici sembri risultare un da rispondere: sarà stato determinato dal rispondo con cui comincia la frase che non dee rispondere a quella legge ma a quella di  Francia. O non muove la questione di quel peccato che  ssi conviene. Verbigrazia. Fue accusato uno, che non avea  il membro masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso dice. Io non risponderò di questo peccato -- non  muove questione di quella pena che ssi conviene. Verbigrazia. Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et erali  apposto che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: Non  rispondo a questa pena, perciò che non tocca a questo peccato. Donde tutte queste questioni sono translative,  cioè che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata in  tutto e tal fiata in parte, si come appare nelli exempli di  sopra.  Dice Tullio se l'una delle dette quattro cose non fosse non sarebbe causa. E così conviene che ssia l' una di queste inn ogne maniera di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna, certo  in quella non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene che  non sia tenuta causa. Poi che CICERONE àe divisate le parti della constituzione  et àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e le  loro nomerà, sì vuole Tulio provare che quando l'una di  queste questioni, che sono del fatto o del nome o della qualità del tramutare l'azione, non è intra parlieri, certo intra  loro non puote essere controversia ; e poi che 'ntra loro  non à controversia, certo il fatto sopra il quale dicessero  parole non sarebbe causa, e così non sarebbe materia di  questa arte, cioè che non sarebbe dimostrativo né diliberativo né iudiciale. 2. Et provando questo sì dimostra Tulio     i: i non si dee — 4-5: m M' Klgli dico -- 7: M' Fue accusalo uno — 8: M' nm_  perciò - m egli dice — M' non li lispondo — 9: M' non tocclia (piosto peccato — ti:  M' in altro slato, m om. e stalo - J2:M' paro — 16: M' luna de ipicste sia - 17: M tn  i|ualcosa, m in quale chosa - SS : M-M^ 7 ciascuna - S3: m provare Tulio - S3-S6: M-m  om. ^ — m tralloro - 30: m quando ([U'-sto    che Ile predette cose in questa arte sono si congiunte in-  sieme che qualuuiiue causa è dimostrativa o deliberativa  o iudiciale sì conviene che sia constituzione o del fatto o del  nome o della qualitade o dell' azione, et e converso che  5. qualunque constituzione è del fatto o del nome o della  qualità o dell'azione sì conviene che sia dimostrativa o  deliberativa o iudiciale. Et omai perseverra Tulio sua ma-  teria per dicere di ciascuna parte per sé.  Del fatto. La contraversia del fatto si puote distribuire in tutti tempi: che ssi puote fare quistione che è essuto fatto, in questo modo. Ulisse uccise Aiace o no ? Et puotesi fare questione che ssi fa  ora, in questo modo Sono i Fregelliani in buono animo verso lo  comune o no ? Et puotesi fare questione che ssi farà, in questo   15. modo : Se noi lasciamo Cartagine intera, everranne bene al comune  no? In questa pai'te dice CICERONE che Ila CONTRO-VERSIA la quale è di fatto che ssia apposto ad altrui, la quale àe nome constituzione congetturale sì come fue detto in  adietro e messo in exempli, sì puote essere in tutti tempi,  cioè preterito, presente e futuro. Nel PRETERITO pone  Tulio r exemplo della MORTE D’AIACE, che fue cotale.  Stando l'assedio di Troia sì fue morto il buon Achille,  et apresso la sua morte fue grande questione delle sue armi  intra Ulisse et Aiace. Et certo Ulisse fue, secondo che  contano le storie, il più savio uomo de' Greci e '1 milìor  parliere, sicché per lo grande senno che i-llui regnava e  per lo bene dire niettea in compimento le grandi vicende, alle quali altre non sapea pervenire, e perciò adoperò e' più  di male contra' Troiani per lo suo senno che non fecero   M dimoslraliva — 3: M' constitutione del facto — 4-6: M-m om. ot e conweiso....  dell'azione — 7 : M' Et oggimai perseguita — 10: M' in dui tempi — 11: m clie exututo —  13: M* de buono animo — 14: m om. che ssi farà — 15: M-m, L in terra — ikf' aver-  ranne, m e veramente bene — S3 : M' Tulio la morto — 24: M* a Troia — 26-27: M'  secondo che recitano le storie, fue M-m et niilior — 29: M* per .ben dire — 30: Mie  quali, m le quali oltre non sapeano — M adopio 7, m adoppio più, M' adopero elgli  M' in contro a — la non fé, L non fece     quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si parve uianifestameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale fue Troia perduta e tradita; ma veramente in guerra non si  5. fatigava molto con arme e non era di gran prodezza, ma  tuttavolta dimandava che Ili fossono CONCEDUTTE L’ARMI D'ACHILLE, e dicea che nn'era degno e ch'avea in quella  guerra ben fatta l'opera perchè etc Et dall' altra parte  Aiaces era uno cavaliere franco e prode all'arme, di gran  guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto** (D  francamente avea portate l'armi in quella guerra, e perciò  domandava l'armi d'Achille e dicea che non si conveniano  ad ULISSE. Onde alla fine l'armi furono concedute ad  Ulisse, per la qual cosa montò tra lloro TANTA INVIDIA che divennero nemici mortali ; et in questo mezzo tempo e  morto Aiaces e fue della sua morte ACCUSATO Ulixes, et  esso si difendea e negava ; e di questo sì era QUESTIONE DI FATTO in preterito, cioè che già era fatto in tempo passato. Inol presente tempo mette Tulio l' exemplo de' Fragellani, che furo una gente i quali fui'ono accusati in ROMA eh' elli aveano male animo contra il comune. Et elli si difendeano e diceano che 11' aveano buono e dritto ; e di ciò  si era QUESTIONE DI FATTO PRESENTE, cioè se sono ora presentemente di buono animo o no. Nel FUTURO mette CICERONE l’exemplo di CARTAGINE, la quale fue una delle più nobili  cittadi e delle più poderose del mondo, e tenne guerra  contro a ROMA, sì eh' alla fine I ROMANI vinsero e presero  la terra ; e furo alcuni che voleano che Ila cittade si disfacesse per lo bene di Roma, ET ALTRI CONSIGLIARO DEL NO perciò che '1 meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse  intera, e di ciò è QUESTIONE DEL TEMPO FUTURO, cioè se  bene o male n'averrà se Cartagine rimanesse intera o s'ella  si disfacesse. Ma poi che Tulio à detto della controversia  del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo modo.     i: M' ne non era. — 6: M' ben dengno — 7 : M' ben l'opera perchè, L bene adope-  rato perchè — 9: m orti, e sanza molto — 10: M-m provale — 14: m iim. mezzo —  15 : m 7 dela sua morte fue aco. — 16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò  che già ecc. (vi om. in perciò) — 18: M' Fregiani — 19: M' che fuoro accusati — SO: SI'  comune de Roma — 22 : m om. si — S6: M incontra — S7 : m om. e — M' vollero (ma L  voleano) — 28: m om. et — M' di no  m pero che meglo ne potrebbe loro intervenire  M-m, L in terra — Af' e questo nel tempo futuro — M-m che bene — 31: M, L'in terra   (1) Così hanno i mss. e perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche  parola (anzi itf " dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o parlare. Basti  averlo notato, senza pretendere d' indovinare.  Del nome. Controversia del nome è quando lo fatto è conceduto, ma  è questione di quello eh' è fatto in che nome sia appellato; et in  questo conviene che sia controversia del nome, perciò che non  s'accordano della cosa; non che del fatto non sia bene certo, ma  che quello ch'è fatto non pare all'uno quello eh' all' altro, e perciò  l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un altro. Per la qual cosa  in questa maniera la cosa dee essere diffinita per parole e breve-  mente discritta, come se alcuno à tolta una cosa sacrata d'uno luogo  privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego, che certo in  essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia furo e  che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che Ila cosa conviene  avere altro nome che quello che dicono li aversarii. In questa parte dice CICERONE della controversia del   nome ; e perciò che di questo è molto detto davanti, sì siue  trapassa lo sponitore brevemente, dicendo solamente la  tema del testo, sopra '1 quale il caso è cotale: Roberto  accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa sacrata, si come UNO CALICE o altra simile cosa la quale sia  diputata a' divini mistieri, e dice che Ila tolse d'uno luogo  privato, cioè d'una casa o d'altro luogo non sacrato. Viene  l'accusato e confessa il fatto. Dice l'accusatore. Tu ài  fatto sacrilegio. Dice l'accusato. Non ò fatto sacrilegio, ma furto. Et così sono in concordia del fatto, ma non della cosa, cioè della proprietade per la quale si possa sapere che nome abbia questo fatto, perciò eh' all' accusatore  pare una, che dice ch'è SACRILEGIO, et all'accusato pare  un' altra, che dice eh' è FURTO. Onde in questa maniera di CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che dice sopra  questa materia dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE     3 : it 7 (li questo — 9 : M-m distrecta —10: M- sacrato — M-m per furto o per sacrilegio, L furto sacrilegio —11: M-m con l'altro — m furto — 12: M-m che sacrilegio, A/' che  sia sacrilego — il/' scriptione — 16:Mom. detto — M' nm. si — 18: m sopralla quale - J/'  Uberto : M' tolto — 19 : m cosa simile — SI: M-m ad veruno mistieri (m mistiere) —  23-24: M il l'atto. Et dice laccusato — m Non o, ma furto — 27-28: m però chellachusatorc...  una diosa — 2H-29: M-m om. sacrilegio.... cli'ò — 30: jV' jjarladore — 3t: M' didinita     - G8 -   che cosa è SACRILEGIO e che è FURTO; e così dee mostrare  come questo fatto non à quel nome che dice l'aversario. Ed è detto della CONTROVERSIA del nome; omai dicerà Tulio CICERONE di quella del genere, in questo modo :     5. Del genere.   ^Z. (e. IX) Controversia del genere è quando il fatto è   conceduto e sono certi del nome d' esso fatto, ma è questione della   quantitade del fatto o del modo o della qualitade, in questo modo :   giusto ingiusto - utile o inutile - e tutte cose nelle quali è questione chente sia quel fatto.  In questa parte dice Tulio CICERONE della questione del genere,  e di questa è tanto detto dinanzi che 'n poche parole di-  morerà lo sponitore ; e dice che quella controversia è del genere nella quale Y accusato confessa il fatto et è in con-  cordia coir accusatore del nome d' esso fatto, ma sono in  discordia della quantitade del fatto, cioè se grande o pic-  colo o molto o poco. Verbigrazia. Un gran romano  quando dovea cacciare i nemici del suo comune si fuge. E accusato eh' ha fatto danno e male alla inaestà di Roma; l'accusato confessa il fatto e '1 nome del  facto. Dice l'accusatore. Questo è grande DANNO.  Dice  l'accusato : « Non è grande, ma PICCOLO. Ed è la discordia  tra loro della quantità, cioè se quel male è grande o piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della comparazione del fatto, sì come fue detto qua indietro nell'exemplo  di Cartagine, qual fosse la migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in discordia della qualitade del fatto, sì  comepare in exemplo d'ORESTE che uccide la sua madre, ed e accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE si  difende e dice che l'à morta giustamente, ma bene con-     OM,     8: M'in modo della qualitndo — 9: m o non giusto — 12: M' tracia — i3: M-m  detto — VI di questo — M die poclie p. — m dimora, Af' <limorra - 16-17: M' ohi. ma  sono.... del fatto — 20: M-m t>m. e male — S3: M-m nm. Ed — So: >/' Or sono, M-m  OHI. - 26: M' nm. si - 27 : M' o disfare - 2S : M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo  di ((uestl , M-vi dotesles — 30-.il : m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M' nm. si - M-m cliellavea     - 69 —   fessa il fatto e 1 nome del fatto; ma sono in discordia della  qualità, cioè se 11' àe fatto GIUSTAMENTE O INGIUSTAMENTE. Ben  è vero che Tulio CICERONE non mette in exemplo della quàntitade  nel testo, né della comparazione, se non solamente della  5. qualitade ; e questo fae perciò che più sovente ne vien tra  Ile mani che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte cose  nelle quali si confessa il fatto e '1 nome del fatto, ma è  questione della qualità d'esso fatto, sì è controversia del  genere. E poi che Tullio CICERONE à detto di questa questione del genere secondo il suo parimento, sì procede immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in questa  controversia del genere. A questo genere Ermagoras sottopuose IV parti, ciò sono DELIBERATIVO, DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale suo  fallimento non mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in  breve, perciò che sse noi ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che noi lo seguissimo sanza cagione; o se lungamente soprastessimo  in ciò, paia che noi facessimo dimoro et impedimento agli altri insegnamenti. Se deliberamento e dimostramento sono generi  delle cause, non possono essere diritte parti d'alcuno genere di  causa, perciò che una medesima cosa puote bene essere genere d'una  e parte d'un' altra, ma non puote essere parte e genere d'una me-  desima. Et certo deliberamento e dimostramento sono genera delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur iudiciale sola-  mente, è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere che non  sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice che  Ile cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande forseneria. Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono simili intra lloro  e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo fine  al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son ge-  neri delle cause, e così deliberamento e dimostramento non possono     4: M> nel testo exemiilo - 5: M' in tra le mani — iO: m om. secondo il suo pari-  mente — M mantenente — 13: M-m II (juale lue — i7 : 3/' nm. i)erciò — cene passas-  simo — 18: m stessomo - 19: M' dimora, m imped. 7 dimoro — 20: M-m dim. —  22 : m M' causa — M-m genere 7 parte d' una medesima - 23 : M' Ma none, vi Ma anno  ale. — 26: M-m om. e deliberativo — 27: M' ch'elli - 28: M' essi... inseffnamenti —  28-29 : M 7 grandi; fors (?), m 7 grande forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. — .12 :  M 7 certo — 3:i : M' de cause... dimost. 7 del.    essere a diritto tenute parti d'alcuno genere dì causa. Dunque ma-  lamente disse ch'elli fossero parte della constituzione del genere.  46. (e. X) Et s'elle non possono essere tenute diritte parti della  causa del genere, molto meno fien tenute parti della diritta parte della causa; e parte della causa è ogne constituzione; donde no la  causa alla constituzione, ma la constituzione s'acconcia alla causa.  Ma dimostramento e diliberamento non possono essere tenute diritte  parti della causa del genere, perciò che sono generi: donque molto  meno debbono essere tenuti parte di quello ch'esso dice. Appresso ciò, se Ila constituzione et essa e ciascuna parte della con-  stituzione è difensione contra quello eh' è apposto, conviene che  quella che no è difensione non sia constituzione ne parte di constituzione. Et certo deliberamento e dimostramento non sono constituzione. Dunque se constituzione et ella e la sua parte è difensione contra quello eh' è apposto, il dimostramento e '1 diliberamento non  è constituzione ne parte di constituzione. Ma piace a Itui che ssia  difensione. Dunque conviene che Ili piaccia che non sia constituzione,  né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile fie condotto,  se esso dica che constituzione sia la prima confermazione dell' accusatore o Ila prima preghiera del difenditore ; e così seguiranno  lui tutti questi sconvenevoli. Appresso ciò, la causa congettu-  rale, cioè di fatto, non puote d'una medesima parte inn un medesimo genere essere congetturale e diffinitiva ; et altressì la diffinitiva  causa non puote essere d'una medesima parte inn uno medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna constituzione  ne parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza et altrui;  perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura ; se  l'altra si prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non si  cresce la forza della constituzione. Veramente la causa deliberativa insieme d'una medesima parte in un medesimo genere suole avere  la constituzione congetturale e generale e diffinitiva e translativa, et  alla fiata una e talvolta piusori. Adunque, essa non è constituzione  né parte di constituzione. Et questo medesimo suole usatamente  advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo detto   3,5. davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento, sono generi  delle cause e non parti d'alcuna constituzione.     1 : M' a diricto essere tenute parte — 5: M-tn om. parto delln causa ì- — vi om. no -  7: JV' tenuti — 9 : m tenute parti, il/' im. tenuti — M-m cliossi dice — iO: M-m chella  const. — 11: M-m ? difensione — M' (piella - IS: M-m non sia la constitutione — 13:  m om. Et — 14: M 1 dunque le const., m Dunque la const. — 15: M' nm. e '1 dilibera-  mento — 16-18: m om. i due periodi — ^0 : m seguiteranno - l' 1 : M-m si convenevoli -  23: M'^ diffinitiva, m chon dilf. — 25 : M-m om. e translativa - 26: M-m om. nk - M' ne te-  nere — 2S: m il novero — il/ sic radoppia — 31: m coniotturalc generale — 32: i wim. illusori     — (i     Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che  Ila controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò  sono deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale; della  5. qual cosa Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra molte  ragioni come Ermagoras errava malamente, e questo pruova  manifestamente per argomenti dialetici: che dimostramento  e deliberamento sono generi delle cause si che Ile cause  sono parti di loro; e poiché sono generi, cioè il tutto delle   10. cause, non possono essere parte delle cause, acciò ch'una  cosa non puote essere tutto d'una cosa e parte di quella  medesima. 2. Et così per molte ragioni o vuoli argomenti  conclude Tulio che Ermagoras avea mal detto, e poi se-  guentemente dice la sua sentenza : quali sono le parti della constituzione del genere, cioè della quantitade e del modo  e della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi fue detto.  Et in ciò incomincia la sentenzia di Tullio in questo  modo :   Le parti della constituzione generale.   20. ^S. (e. XI) Questa constituzione del genere pare a noi ch'ab-   bia due parti : Iudiciale e negoziale.   Lo sponitore.   1. Poi che Tullio àe ripresa l' oppinione d' Ermagoras  delle quattro parti, si dice la sua sentenza e dice che sono  25. pur due parti, cioè quelle altre due che dicea Ermagoras:  iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua sen-  tenza, la quale vince quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì  dice e dimostra che è iudiciale e che è negoziale, in questo  modo  4: M' dimostrativo, deliberativo ecc. — 6: M-m provava — 9: m genero — 10: M el  acciò — 11 : M-m tiicta — 13:M^ conchiude Tulio Ermagoras avere — 17 : il/' comincia —  23 : m ripreso — 28: M' che e iuridiciale {e cosi sempre), M-m che iudiciale 7 che {ni om.  che) negotiale ludiciale è quella nella quale si questiona la natura dì  dritto e d' iguaglianza e la ragione di guiderdone o di pena.   Sponitore.   5. 1. La iudiciale coustituzioue è quella nella quale per   diritto, cioè per ragione provenuta per usanza e per igual-  lianza, cioè per ragione naturale o per ragione scritta, si  questiona sopra la quantitade o sopra la comparazione o  sopra la qualitade d'un fatto, per sapere se quel fatto è  giusto o ingiusto o buono o reo. Altressì è iudiciale  quella nella quale è questione d'alcuno per sapere s'egli  è degno di pena o di merito. Verbigrazia. Alobroges è  degno d'avere merito di ciò che manifestò la congiurazione  di Catenina? e questionasi del sì o del no. Et anche questo exemplo. È Giraldo degno di pena di ciò che commise  furto ? e questionasi del si o del no. Et poi che à detto  Tulio del iudiciale, si dicerà dell'altra parte, cioè della  negoziale. Negoziale è quella nella quale si considera chente ragione  sìa per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia  sono messi i savi di ragione. Dice CICERONE che quella constituzione è appellata negoziale nella quale si considera per usanza civile, cioè per   quella ragione la quale i cittadini o paesani sono usati di   tenere i-lloro uso o in loi'o costuduti, o per equitade, cioè   per legi scritte, chente ragioni debbiano essere sopra quella     2: m quello nel (juale — 3: M'-L ella ragione di diritlo, S di merito — 6: m perve-  nuta — 8.me sopra la comp. — 9: m se questo giusto —il: M^ si questiona d'alcuno  selglie ecc. — 12-14: m o di morte — M-m o alabroges di Catenina et questionisi del si  et del no (m di si o di no), L e questo exemplo —16: m quistionìsi... om. Et — A/ 7 del  no — 16-17: M' Tulio a detto dela giuridicialo — 20: M' Di negotiale — 26: M' om.  paesani — 27 : M' i loro costuduti m illoro chostuduli, M' in loro constituti — M-m  equalitade — S8 : M' cliente ragione debbia  constituzione. 2. Et intra la iudiciale e la negoziale àe co-  tale differenzia : che Ila iudiciale tratta sopra le cose pas-  sate et intorno le leggi scritte e trovate ; ma la negoziale  intende intorno le presenti e future (1) et intorno le legi et  5. usanze che saranno scritte e trovate.Et questa è di molta  fatica, perciò che' parlieri s'affaticano di grande guisa a  provarla et a formare nuove ragioni et usanze allegando  in ciò ragioni da simile o da contrario. Et questa questione  si tratta davante a' savi di legge e di ragione, ma in provare la iudiciale basta dicere pur quello che Ila ragione  ne dice. 4. Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e  che è la negoziale, sì dicerà delle parti della iudiciale per  meglio dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo  dell' Arte.  Di due parti di Iudiciale.  La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono assoluta et  assuntiva. In questa parte dice Tulio che quella questione la quale è iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due  parti. Una eh' è appellata assoluta e l'altra la quale è appellata assuntiva ; e dicerà di catuna per sé.      3 : M interno — 4: i mss. futuro — M' il presente — 8 : m in se ragioni — 9 : M  assaivi, m si tratta da savi — 10: M pur di quello — 16: M' si divido — 21 : M' luna  la quale è appellata - M-m e assunptiva  Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e futuro) sembri ottima, prefe-  risco ricorrere alla lieve correzione di futuro in future.: M* ha tendenza a cam-  biare, e quindi non è improbabile che, trovando già l'errato futuro, abbia voluto  accordare con esso l'aggettivo precedente, le presenti. Non saprei invece come  spiegare un cambiamento inutile in M-m.  Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione o  di ragione o d' ingiuria. Dice CICERONE che quella questione iudiciale del genere   èe appellata assoluta la quale in sé medesima è disciolta  e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene in  sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o  sopra la comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce  s'egli é di ragione o d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto  o ingiusto o buono o' reo, sì come in questo exemplo donde  fue cotale questione. Verbigrazia : Fecero quelli da Teba  giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria fe-  cero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare un trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per sé  sanza neuna giunta et in sé contiene forza della pruova,  perciò ch'era cotale usanza. Assuntiva è quella che per sé non dà alcuna ferma cosa  a difendere, ma di fuori prende alcuna difensione ; e le sue parti   sono quattro : concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato e  comparazione.      S:M-m slesso — 7: M-m nm. ai — fi: M-m «m. o sopra la (luantilude — 7 invece ili  0—9: M' in f|uel facto — 12: M-m Ino - »« di Teba — 14-13: m et cerio questo trofeo  fatto faro per sengnale della loro Victoria jiiuce per so medesimo — 16: M' la forfa —  1 9 : M-m ohi. olio per sé non dà alcuna CICERONE dice che quella constituzione è appellata assuntiva della quale nasce questione, la quale in sé non à  fermezza per difendersi da quello peccato eli' è allui appo-  5. sto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argomento da difendersi; si come nella questione d'Orestes, che  fue accusato eh' avea morta la sua madre, et elli dicea che  ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire parca crudel  fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione  com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difen-  sione d'un altro fatto di fuori e dice: « Io l'uccisi giusta-  mente, perciò ch'ella uccise il mio padre ». Et così pare che  con questa giunta piaccia la sua ragione. Efc questa co-  tale questione assuntìva à quattro parti, delle quali il testo   15. dicerà di catuna perfettamente per sé.   Concedere e concessione è quando l'accusato non difende  quello eh' è fatto ma addomanda che ssia perdonato ; e questa si  divide in due parti, ciò sono purgazione e preghiera.   20. Sponitore.   I. Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione  assuntìva e com' ella si divide in quattro parti, sì vuole di-  cere di ciascuna per sé divisatamente perchè '1 convenentre  sia più aperto. 2. Et primieramente dice che é concedere, e dice che quella constituzione é appellata concessione  quando l'accusato concede il peccato e confessa d'averlo  fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e questo puote es-  sere in due maniere: o per purgazione o jjer preghiera, e  di ciascuna di queste dirà Tulio partitamente, e prima   30. della purgazione.     3: M> non àe in se — 5: M' di quello — 7 : M' Pt elli rispondea — 8-iO: M-m om.  Kt certo.... giustamente — i4: M' nm. assuntìva — 15: M' per se perfectamente — 17: M'  o concessione - 18 : 3f ' domanda chelgli sia p. — m. 7 questo — 21 : m che e quale, M'  che 7 quale 6 — 23: m di chatuna — 24: M-m concede — 26: m confessa il pechato  d'averlo facto  Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si ri-  muove, e questa sì à tre parti : imprudenzia, caso e necessitade. Dice CICERONE che quella maniera di concedere la quale   è per purgazione sì è et aviene quando l'accusato confessa,  ma lievasi la colpa e dice che quel fatto non fue sua colpa ;  e questo puote fare in tre maniere, delle quali è prima  Imprudenzia, cioè non sapere. 2. Verbigrazia : Mercatanti   10. fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne  loro crudel fortuna di tempo che Ili mise in pericolosa  paura, per la quale si botaro che s' elli scampassero e per-  venissero a porto che elli offerrebboro delle loro cose a  quello deo che là fosse, et e' medesimi F adorrebbero. Alla fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato Malcometto ed era tenuto deo. Questi mercatanti l' adoraro come  idio e feciorli grande offerta. Or furono accusati ch'aveano  fatto contra la legge ; la qual cosa bene confessavano, ma  allegavano imprudenzia, cioè che non sapeano, e perciò   20. diceano che fosse perdonato. Et di ciò era questione, se  doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è caso,  cioè impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare  quello che ssi dee fare. Verbigrazia : Un mercatante caur-  sino avea inprontato da uno francesco una quantità di pe-   25. cunia a pagare in Parigi a certo termine et a certa pena.     6: M-m om. b — 7 : M-m imi. non — 8: M' Kl puotesi l'art! — o In prima — tO: M  per mare oltramare, di passavano per maro in nave — Jf sopravenne — li: mi miseli,  JV/' om. che — 14: M' edelgli medesimi — 15: M' Macliometlo, m Maometto — 17: M'  fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or — 19: M' noi sapeano — 21: m puliti —  S4 : m inprontato moneta da uno franeesclio     Avenne che '1 debitore, portando la moneta, trovò il fiume  di Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare  né essere al termine che era ordinato. Colui che dovea  avere domandava la pena, l' altro confessava bene eh' avea  5. fallito del termine, ma non per sua colpa, se non che '1 caso  era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e però  dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione,  se Ila dovea pagare o no. La III maniera è necessitade, cioè che conviene che ssia così et altro non potea fare. Verbigrazia : Statuto era in Costantinopoli che qualunque  nave viniziana arrivasse nel porto loro, la nave e ciò che  entro vi fosse si publicasse al segnore. Avenne che merca-  tanti genovesi allogare una nave di Vinegia e passaro  con grande carico d'avere. Convenne che per impeto di tempo per forza di venti, centra' quali non si poteano pa-  rare, pervennero nel porto e fue presa la nave e le cose  per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti che Ila nave  era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso porto,  e però diceano che non doveano perdere le cose ; e di ciò era questione, se Ile doveano perdere o no. Tutto altressì  i Veniziani, cui fue la nave, raddomandavano la nave o la  valenza; i mercatanti diceano che l'amenda non dovea es-  sere domandata, perciò che per necessitade e non per volontade erano iti in quel porto. Et poi' che Tullio àe detto  della purgazione e delle sue parti, si dicerà della preghiera. Preghiera è quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso  quel peccato e confessa che 11' àe fatto pensatamente, ma sì domanda  che Ili sia perdonato, la qual cosa molte rade fiate puote advenire.     1 : M-m avieno — S : M-m polea — 3: M' a. termine ordinato — 5 : M' al termine -  5-6: M impedimento, M* ma nel caso era avennlo 7 avea impedimentita — il: M' nel  loro porto — 13: m una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano — 14-15:  M per un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di vento — 18: M^ in quel  porlo — SO: M' ora la questione — m dovea — 22: M' che por lamenda — 24 :m om.  Et — 28-29: m domandasi — M' om. molto   (1) Questa lezione di w è confermata da impedimentita di Jf*, cioè dall'altra fami-  glia di codici. Lo scambio, avvenuto in M, con impedimento era facilissimo e lo favoriva  il fatto che il senso restava quasi il medesimo : « la sua venuta avea avuto impedi-  mento ^>.  Così leggo con w, poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto  (impedimento è correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo, ana-  loga, a quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla magna tempestas  di cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul quale è modellato il nostro CICERONE dimostra in questa picciola parte del testo  che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che  allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa  5. e dice che fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce  che ir à fatto pensatamente, ma tutta volta domanda per-  dono. 2. Onde nota che questa preghiera puote essere in  due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia : In questo  modo è la preghiera aperta : Dice l' accusato. Io confesso bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e per  reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera  ascosa è in questo modo : « Io confesso eh' io feci questo  fatto e non domando che voi mi perdoniate ; ma se voi  ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe fatto al comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato ».  3. Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono adve-  nire rade volte, (l) spezialmente davante a' giudici che sono  giurati a lege sie che non anno podere di perdonare. Ben  puote alcuna fiata lo 'mperadore e '1 sanato avere prove-   20. denza in perdonare gravi misfatti, sì come poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare  e di disgravale secondo lo loro parimento. Et poi che  Tullio àe detto della prima parte della constituzione as-  suntiva, cioè della concessione e che cosa è concedere, et à  delle due maniere di concedere detto, cioè di purgazione  e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè rimuo-  vere lo peccato. Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si sforza di  rimuovere quel peccato da se e da sua colpa e metterlo sopra un     S : M' mostra — 5 : M' elicigli lece — 6' : M' nppensatainentc — 8 : M' nascosa —  14: M' om. bene — 17 : M^ fiato (ma L volte) — li ([uali sono — 18: M noniianno —  19: m prudenzia — SS: m eclisgravare, M> 7 disgravare — ni lo loro parere, L illoro pa-  rere, S il loro piacimento — m om. Et — So: M' m e a detto delle duo maniere ecc. -  30 : M' mettelo (ma L metterlo)   (1) Conservo volte appunto perchè questa parola in itf è meno frequente di  fiate Q non si può considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sosti-  tuito per uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29). altro per forza e per podestà di lui ; la qual cosa si puote fare in  due guise: o mettere la colpa o mettere lo fatto sopr'altrui. Et certo  la colpa e la cagione si mette sopra altrui dicendo che quel sia  fatto per sua forza e per sua podestade. Il fatto si mette sopr'altrui  5. dicendo che dovea un altro e potea fare quel fatto. In questo luogo dice CICERONE eh' è rimuovere lo peccato e come si puote fare, et è cotale il caso : Uno è accu-  sato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione si  leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice  bene che 11' à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e si-  gnoria il costrinse a ffare quel male ; e questo rimovimento  del peccato dice Tullio che ssi puote fare in due guise :  l'una si mette la colpa e la cagione sopra un altro, l'altra   15. si mette il fatto sopra altrui. Et certo la colpa e la cagione si mette sopì'' altrui quando l'accusato dice che elli  à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à sopra lui  forza e signoria. Verbigrazia. Il comune di Firenze elesse  ambasciadori e fue loro comandato che prendessero la paga   20. dal camarlingo per loro dispensa et immantenente andas-  sero alla presenzia di messer lo papa per contradiare il  passamento de' cavalieri che veniano di Cicilia in Toscana  contra Firenze. Questi ambasciadori domandare il paga-  mento e '1 signore no '1 fece dare, e'I camarlingo medesimo negò la pecunia, sicché li ambasciadori non andaro e' ca-  valieri vennero. Della qual cosa questi ambasciadori fuorono accusati, ma elli si levaro la colpa e la cagione e     3: m la chosa — 7: Af' die e rimuovere — 9: M' do malilicio - i4 : m luna mette,  M' l'una si e mettere — ^5: M' si e mettere — m om. Kt - 20: Af inmanlenenente, it/'  incontanente — 21 : m cliontradire - 23: M-m domandano — 24: M m il segnore — m  e il chamarlengo — 25: m il nego di dare la pecliunia — 26:m li anbasciadori — 27 :M'  si levano miseria sopra '1 signore e sopra '1 camarlingo, i quali  aveano la forza e la seguoria e non fecero lo pagamento.  3. Mettere il fatto sopr' altrui è quando l'accusato dice  ch'egli quel fatto non fece e non ebbe colpa né cagione  5. del fare, ma dice che alcuno altro l'à fatto et ebbevi colpa  e cagione, mostrando che quell'altro sopra cui elli il mette  dovea e potea fare quel male. Verbigrazia : Catone e Catenina andavano da ROMA a Kieti, et incontrarono uno  parente di Catone, a cui Catellina portava grande maialo, voglienza per cagione della coniurazione di Roma, e perciò  in mezzo della via l'uccise. Né Catone non avea podere di  difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma rimase  intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si  n'andò inn altra parte molto avaccio e celatamente. In questo mezzo genti che passavano [per la via] per lo camino trovaro il morto di novello, e Catone intorno lui, sì PENSARO CERTAMENTE CHE CATONE AVESSE FATTO IL MALIFICIO, e  perciò fue esso ACCUSATO di quella morte; ond'elli in sua  defensione levava da ssè quel fatto dicendo che fatto noll'avea e che no'l dovea fare, perciò ch'ERA SUO PARENTE, e  dicea che noU'arebbe potuto fare, perciò eh' elli era malato di sua persona. Et così recava il fatto e LA COLPA SOPRA CATELLINA, perciò che '1 dovea fare come di suo nemico  e poteal fare, eh' era sano e forte e di reo animo. Et poi che Tulio àe insegnato rimuovere lo peccato, sì insegnerà  in questa altra partita riferire il peccato.     Ttillio dice che è riferire il peccato.   58. Riferire il peccato è quando si dice che ssia fatto  per ragione, in perciò che alcuno avea tutto avanti fatto a liuì  30. ingiuria.     i : m 7 al chamai-lingo — 4-ò: M om. ch'egli... ma dice — m nel fare — 5 : Af ' che un  altro — 9: VI om. grande — 12 : m di suo corpo malato — 15: M^ gente — J/' m om. per  la via - 16: m il novello morto — 18 : M' tn fu elgli - 1!) : M' chelgli facto — 20-Sl :  m avea nel dovea fare — o?n. e dicea che — Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli — 23: m  pero chelli dovea fare — 25: M-m om. si — M' insegna — 26: M' jxirte — M-m refre-  nare (sempre) — : vi pero che — da\anti   (1) Le parole per la via sono con tutta probabilità una glossa o una variante  di per lo camino; infatti mancano in codici delle due famiglie.     81     Lo sponitore.   I. Dice Tullio che riferire il peccato è allora quando  l'accusato dice ch'elli àe fatto a ragione quello di che elli  é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta tale ingiuria che dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come apare  neir exemplo d' Orestes, che fue accusato della morte di sua  madre, et esso dicea che ll'avea morta a ragione, perciò che  primieramente avea ella fatta a llui ingiuria, cioè ch'avea  morto il padre d' Oreste; e di questo nasce cotale questione se Oreste fece quel fatto a ragione o no. Et poi che  Tullio àe insegnato riferire lo peccato, sì insegnerà ornai  che è comparazione. CICERONE dice che è comparazione. Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende cfie fue diritto et utile, e dicesi che quello del quale è fatta la ripren-  sione fue commesso perchè quell'altro si potesse fare. In questo luogo dice CICERONE che quella questione è appellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à fatto quello eh' è a llui apposto, i^er cagione di poter fare un altro  fatto utile e diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel  più alto officio di ROMA, sentìo che coniurazione si facea  per lo male del comune, ma non potea sapere chi né come.  Alla fine diede dell'avere del comune in grande quantitade   25. ad una donna la qiiale avea nome Fulvia, et era amica per  amore di Quinto Curio, il quale era sapitore del tradimento ;  e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose in tale ma-  niera eh' elli difese la cittade e '1 comune della molt'alta  tradigione. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo ma-     2 : M' allocta — 4 : M' facla prima — 5 : M' prenderne (ma L prendere) tale vendctla  — pare — 6: M' dela sua madre — 8: m prima — J/' facto, m aliai fatto - iO: m om.  El — 14: M-m quanto un altro — 16: M' per quell'altro - 18: JW in questa parte —  19: M-m che facto — 26: M^ ora parteDce — 28: M' dela mortalo     lamente dispeso l'avere di Roma. Et elli in defensione di  sé dicea che quelle spese avea fatte per fare un altro fatto  utile e diritto, cioè per scampare la terra di tanta distruzione, e quello scampamento non potea fare sanza  5. quella dispesa; e cosi mostra che '1 fatto del quale elli è  ripreso fue fatto per bene. Et poi che Tullio àe detto delle  quattro parti della constituzione assùntiva, la quale è parte  della iudiciale sì come pare davanti nel trattato della con-  stituzione del genere, sì ridicerà elli brevemente sopra la questione traslativa, della quale fue assai detto in adietro,  per dire alcuna cosa che là fue intralasciata. Come Ermagoras fue trovatore della questione translativa. Nella IV questione, la quale noi appelliamo translativa,  certo la controversia d'essa questione è quando si tenciona a cui convegna fare la questione, o con cui od in che modo, o davante  a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e sanza fallo tuttora è  controversia o per mutare o per indebolire l'azione. Et credesi che  Ermagoras fue trovatore di questa constituzione; non che molti antichi parlieri non l' usassero spessamente, ma perciò che Ili scrittori   20. dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non la misero in  conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata, molti l'anno  biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non pur in pru-  denzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per invidia  e per maltrattamento. Questo testo di Tullio è assai aperto in sé medesimo,  e spezialmente perciò che della questione o constituzione  translativa è assai sufficientemente trattato indietro in     i : M' l'avere del comune — 3:3/' diiicto 7 utile - 4: M' non si pelea fare —  7: M< om. assiintiva - 8: M' iuridiciale — //: M-m che ella l'uo translassala — lS:M-m  emargonis — 13: M Uela quarta q. (e punto ilnpn translativa) — 15-1 (!: M' davanti cui  — M-m sanfa follia — 19: M' parladori — 23: M' cambiano - S4 : M' per mal.   (1) La traduzione non è esatta, poicliè il testo latino dice: quos non tamim-  prudentia falli indamus (res enim perspìcua est) quam invidia atque óbtrectatione  quadam inipediri. Si potrebbe proporre per congettura non per imprudenzia ; ma  non sembra contraddirvi il 8 -3 del commento parlando di '' alquanti che non  erano bene savi ,, ?   altra parte di questo libro, e là sono divisati molti exempli  per dimostrare come si tramuta 1' azione quando non  muove la questione quelli che dee, o centra cui dee, o in-  nanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel tempo che .  5. dee. Z.Sicchè al postutto in(i) questa translativa conviene che  sempre sia : o per tramutare l' azione in tutto, come ap-  pare indietro nell'exemplo di colui che risponde all'aver-  sario suo: « Io non ti risponderò di questo fatto né ora né  giamai »; e così in tutto tramuta l'azione dell'aversario etc. O é per indebolire l'azione in parte ma non del tutto, si  come appare nell' exemplo di colui che risponde all' aver-  sario suo : « Io ti risponderò di questo fatto, ma non in  questo tempo» o «non davante a queste persone». Et dice  Tullio che Ermagora fue trovatore della translativa constituzione, cioè che Ha mise nel conto delle quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue ripreso  da alquanti che non erano bene savi e che aveano invidia  e maltrattamento contra lui. Nota che invidia è dolore  dell'altrui bene, e maltrattamento è dicere male d'altrui. Tullio dice che davanti diceva   exempli in ciascuna maniera di constituzioni. Già avemo disposte le constituzioni e le loro parti; ma li   axempli di ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare   quando noi daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò   25. ch'allotta sarà più chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo   si potrà a mano a mano aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al processo del suo libro,  brievemente ripete ciò eh' à detto avanti, dicendo che dimo-     2: M-m si traclava — 3: M^ che dee conLra cui dee ~ 6: M come pare — 8: M'  non ti rispondo — iO: M-m Oo, M' Onde — M imparte — m non in tutto — H : M' pare —  13 : Mi dinanzi a ([. — 14: M translatore, m traslatotore — 15: M^ìa conto —17: 3f dal-  quanti — 18 : M-m male tractamento con altrui — 21: M-m construclioni — 22: M exposte  le e. 7 loro parti — 24: Mi di loro argomenti — 25: M' de l'argomentare — 26:m della cosa  — 29: M ke detto, m che detto — Jlf ' dinanzi   (1) L'essere attestato in da tutti i codici rende esitanti a toglierlo, come la  sintassi e il senso sembrano richiedere. Forse si può sottintendere dal periodo pre-  cedente la parola questione : " conviene che sia questione in questa transla-  tiva „ ecc.   strato à che sono le constituzioni e le loro parti, ma in altra  parte porrà certi exempli in ciascuno genere delle cause,  cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e nel iudiciale,  quando ti'atterà il libro di ciascuno in suo stato. E da cciò  si parte il conto e torna a trattare secondo che ssi con-  viene all' ordine del libro per insegnamento dell' arte. Qual cai/sa sia simpla e quale congitmta. Poi eh' è trovata la constituzìone della causa, ìmmantenente  ne piace di considerare se Ila causa è simpla o congiunta. Et s'ella è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di piusori  questioni o d'alcuna comparazione. Apresso al trattato nel quale Tullio àe insegnato tro-  vare le constituzioni e le sue parti, si vuole insegnare qual causa sia simpla, cioè pur d'uno fatto e qiiale sia con-  giunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia congiunta  d'alcuna comparazione, e di ciascuna dice exemplo in  questo modo :   Della causa simpla. Simpla è quella la quale contiene In sé una questione   assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia contra coloro  di Corinto o non ? ». Dice CICERONE che quella causa è simpla la quale è pur d'uno fatto e che non è se non d'una questione solamente.   Verbigrazia : La città di Corinto non stava ubidiente a   Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se paresse     2 : M-m om. parte — m delle cose — 4-5 : J/' Et di ciò si diparte l'autore, m 7 accio —  8: M mantenente, m inmantanento — 9: m simplice (sempre cos'i) M' sedella — li: M-m  compi^ratione — 13: M' il tractato — 15: M (|ualcosa, «i quale chosa — /*: M< l'exeni-  plo — 21: M' m (pielli — 25 : vi iliinn chosa — SO : M-m <m. stava — A/' ali Romani   loi-o di mandare oste a fai"e la battaglia centra loro, o  no. Et così vedi che causa simpla è pur d'una questione del  sì o del no.   Della causa congiunta.   5. 64. Congiunta di piusori questioni è quella nella quale sì   dimanda di piusori cose in questo modo: « È Cartagine da disfare  da renderla a' Cartagiartesi, o è da menare inn altra parte loro  abitamento ? Poi che Tullio à detto della causa simpla, sì dice della   congiunta, dicendo che quella causa è congiunta nella quale  àe due o tre o quattro o più questioni. Verbigrazia : I Romani vinsero a forza d'arme la città di CARTAGINE, et  erano alcuni che diceano che al postutto si disfacesse; altri diceano che Ila cittade fosse renduta agli uomini della  terra, altri diceano che Ila cittade si dovesse mutare di quel  luogo et abitare in altra parte. E così vedi che questa causa  è congiunta di tre questioni che sono dette. Della causa congiunta di comparazione.  Dì comparazione è quella nella quale contendendo si que-   stiona qual sia il meglio o qual sia finissimo, in questo modo :  « È da mandare oste in Macedonia contra Filippo inn aiuto a' com-  pagni, è da tenere in Italia per avere grandissima copia di genti  contra Anibal ? Poi che Tullio avea detto della causa la quale è con-  giunta di piusori questioni, sì dice di quella causa eh' è  congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o     i : M-m o fare — 2 : M^ om. Et — Jlf om. b — 5 : M' om. questioni — 6 : m di più  sore — 7 : M' da. rendere a Cartaginesi — 12 : m due tre o quattro questioni — J3: m  per forza — om. la cittade di — J4: M' elio a! postutto diceano cliella si disfacesse —  17: M-m om. che — 18: m essere coniunta di tre (luestioni dette — 21: 3/' o quale finis-  simo — 22: M' incontro a Filippo — 28: M-m di due, di tre — m om. o di quattro   (1) Certamente il traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur.   di più cose, nella quale si considera qual partito sia il mi-  gliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e  l'uno migliore che 11' altro, per sape];e qual sia finissimo,  cioè il sovrano di tutti. Verbigrazia : I Romani aveano mandata oste in Macedonia contrà Filippo re di quello  paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla guerra  d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi  di Roma diceano che '1 migliore consiglio era mandare  gente in Macedonia, per attare l'altra loro oste la quale  10. era in questa contrada; altri diceano che maggior senno  era di ritenere la gente in Italia, per adunare grandissima  oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il mi-  gliore o '1 finissimo partito : o tenere o mandare la gente.   Della contraversia inn iscritto et in ragionamento.   15. 66. Poi è da pensare se Ila controversia è in scritta o è in   ragionamento.   Lo sponitore.   1. Apresso ciò che Tulio à dimostrato qual causa è sim-  pla e quale è congiunta e quale di comf)arazione, sì vuole   20. fare intendere quale contraversia nasce et aviene di cose  e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento, cioè  di dire parole e di cose che non sono scritte ; e cosi vuole  CICERONE aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e' altre  de' dire a ciascun ponto di tutte le cause che possano inter-   25, venire ; e perciò dicerà della scritta per sé e del ragiona-  mento per sé, e di ciascuno partitamente in questo modo :   Della contraversia che nasce di cose scritte.   67. Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna qua-   litade di scrittura Ce. XIII). Et certo le maniere di questa che   30. sono partite delle constituzioni sono cinque : Che talvolta pare che Ile     i-2: m sia ihigloru ili lUie ecc. — il/' o Ire o iiifi — •/: iV/' ohi. cion il sovrano — 5: M'-L   (li i|iielli del paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste — * : hi elio mogio — iO: m   J/i in ipiella contrada — il : M' om. di — m a rilenore gente — 12 : M contra nibal, i»  contro ad Anibal — 15: M-m e scripla, If' e in scriplo o in ragionamento — /*' : M-m  i|ual cosa — 19: m quale e — 22: M-m om. dire e che non sono scritte — 23: M' mo-  strare - 24: m possono — 25: M'E cosi — 29: M da. questa — 30:M' dale constilutioni parole medesimo iU siano discordanti dalla sentenzia dello scrittore ;  e talvolta pare che due legi o più discordino intra sé stesse; e  talvolta pare che quello eh' è scritto signiffichi due cose o più ;  e talvolta pare che di quello ch'è scritto si truovi altro che non è  5. scritto ; e talvolta pare che ssi questioni in che sia la forza della  parola, quasi come in diffinitiva constituzione. Per la qual cosa noi  nominiamo la prima di queste maniere di scritto e di sentenzia; il  secondo appelliamo di legi contrarie, la terza apelliamo dubiosa,  la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta apelliamo diffinitiva. Poi che CICERONE  à dimostrato qual causa sia pur d' un  fatto o di più, immantenente vuole dimostrare qual con-  traversia è in scritta e quale in ragionamento; et in questo  dice primieramente di quella ch'è inn iscritto, cioè che   15. nasce d'alcuna scrittura. Et questo puote essere in cinque  modi. Il primo modo è appellato di scritto e di sentenza,  pei'ciò che Ile parole che sono scritte non pare che suonino  come fue lo 'ntendimento di colui che Ile scrisse. Verbi-  grazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale erano scritte queste parole: « Chiunque aprirà la porta  della cittade di notte, in tempo di guerra, sia punito nella  testa ». Avenne che uno cavaliere l'aperse per mettere  dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a Lucca,  e perciò fue accusato che dovea perdere la testa secondo la legge scritta. L'accusato si difendea dicendo che Ila  sentenzia e lo 'ntendimento di colui che scrisse e fece la  legge fue che chi aprisse la porta per male fosse punito ;  e cosi pare che Ile parole scritte non siano accordanti alla  sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce controversia intra loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza. La  seconda maniera è apiiellata di contrarie leggi, perciò che     1 : M' m medesime — m dalle sententie — 2: me téilora -- M' si discordino — 3: M'  significa — 4: M-m o talvolta — M' che nono che scripto — 6: M-m nm. in — A/' mdilTì-  nitiva ([uestione — 11: M-m qual cosa — 13: M-m e Sbripta - m e in ragionamento —  14 : m primamente — 18 : M om. fue — 20: M ai)iira, m apira — 21 : M-m om. in tempo  di guerra — M' si sia punito della testa — 23: M' si difende — 30: m se si dee — M'  lo scritto — 31 : M' om. maniera   (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai medesimo.     — 88 -   pare che due leggi o più discordino intra sé stesse. Ver-  bigrazia : Una legge era cotale, che chiunque uccidesse il  tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse.  Et nota che tiranno è detto quelli che per forza di suo  5. corpo o d'avere o di gente sottomette altrui al suo podere.  Un'altra legge dice che, morto il tiranno, dovessero essere  uccisi cinque de' pili prossimani parenti. Or avenne che  una femina uccide il suo marito, il quale era tiranno, e  domanda al senato per guidardone e per nierito un suo figlio. LA PRIMA LEGGE concede che ssia dato, l'altra comanda CHE SIA MORTO. E così sono due leggi contrarie, e  perciò nasce questione se alla femina debbia essere renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La terza  maniera è apellata DUBBIOSA, perciò che pare che quel eh' è scritto SIGNIFICHI DUE COSE O PIU.  Verbigrazia. Alessandro  fa testamento nel quale fa scrivere così. Io comando  che colui eh' è mia reda dia a Cassandro C vaselli d'oro  e quali esso vorrà. Api^esso la morte d'Alessandro venne  Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e che a llui piacessero. Dice la reda. Io ti debbo dare que'ch'io  vorrò. Et cosi di quella parola scritta nel testamento, cioè,  i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere del cui  volere ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione  intra loro. La quarta maniera è appellata RAGIONEVOLE,  perciò che di quello eh' è discritto si truova e se ne ritrae  altro CHE NON E SCRITTO O DETTO. Verbigrazia : Marcello entra nella  chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il crocifixo, e taglia  le imagini di là entro. E accusato, ma non si truova  neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non era che nne scampasse sanza pena. E perciò il  suo adversario ritraeva d'altre leggi scritte quella pena  che ssi convenia a Marcello ragionevolemente. La quinta  maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò che pare che ssi  questioni LA FORZA D’UNA PAROLA  scritta, sicché conviene     i : M' si discordino - M stesso — m tralloro - 5 : M^ di genti - 6-7: m L essere  morti - Jl/' om. de' — 7 : M'-L una femina il suo marito.... uccise — 9 : m e merito —  10: M' che le sia dato, l'altra leggie — iS: m nasce controversia — Mm sella femina —  13: m se dee — 14-15: M' che lo scritto — i6: Jtf' cos'i scrivere — 1 7 : M-m om. coUii  eh' è — 18: M' i quali — 19: M' cento vaselli d'oro — 20: J/' la rede. [o ti voglio dare  - m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6 : M-m Martello - S7 : M'  San Piero — 38 : M-m om. Fue accusato - /. trovava — 29-30 : m alcuna legge.... colalo  maliflcio, e convenevole non era che scampasse — 32 :M' che si conviene — Mm Martello     — 89 —   che quella parola sia diffinita e dicasi il proprio intendi-  mento di quella parola. Verbigrazia : Dice una legge. Se '1 signore della nave n'abandona per fortuna di tempo  ed un altro va a governarla e scampa la nave, sia sua. Avenne che una nave di Pisa venne in Tunisi e presso al  porto sorvenne sì forte tempesta nel mare, che '1 signore  usce della nave et entra inn una picciola barca. Un altro  ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto là entro  che '1 mare torna in bonaccia, e la nave campa in terra.  E perciò dicea che la nave e sua secondo la legge, perciò  che '1 segnore l'abandona et esso l'avea difesa. Il  segnore dicea che perch'elli entra nella picciola barca  non abandona perciò la nave ; e cosi era questione intra  loro sopra questa PAROLA dell'ABBANDONO della nave ; e per   15. sapere LA FORZA d'essa parola conviene che ssi difinisca e  dicasi il proprio intendimento. 6. Già à detto Tullio di  quella contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque  parti. Omai dicerà di quella contraversia eh' è in ragio-  namento.   20. Della contraversia la quale nasce di ragionamento.   68. Ragionamento è quando tutta la questione è inn alcuno argomento e non inn ìscrittura. Quella è contraversia in ragionamento nella quale non si considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma  prendesi argomento e pruova per parole FUORI DI SCRITTA a dimostrare che dee essere sopra quella questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo che Italia è migliore paese che  Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò era questione ti'a  lloro, e perciò conviene recare argomenti in ragionando  per mostrare che nne dee essere, e questo senza scritta  acciò che sopra questo no è legge né scrittura.     3: m om. della nave — M' labandona — S : M' de Pisani — M-m di Tunisi — 6 : M  sovenne, m venne, L sopravenne — M^ di mare — 7-8 : M' usci di fuori — un altro corse  a governare la nave — 9: m campo intera —11: m et egli — 12: m pichola nave —  13: 3f' non avoa abbandonata perciò 1. n., m non pero elli abandonava la grande — 14: M'  di questa parola, m sopra questo abandono — 15: M-m la forma — m ripete conviene —  16: m dicha — 22: m e none — 24 : M' Qurlla controversia 6 in rag. — 28: M' Anibal —  29 : m lodovico, M'-L loodico, S dice l'altro, dico che no — 31 : m 7 questo e senza scritta    Delle IV parti della causa. Adunque, poi che considerato è il genere della causa e  cognosciuta la constituzione et inteso quale è simpla e quale è con-  giunta, e veduto quale contraversia è di scritto e di ragionamento,  5. ornai fie da vedere quale è la quistione e quale è la ragione e  quale è il giudicamento e quale è il fermamento della causa ; le  quali cose tutte convengono muovere della constituzione.   In questa parte dice CICERONE che poi ch'elli à insa-  lo, gnato che è lo genere delle cause, cioè dimostrativo e diliberativo e giudiciale, et à fatto cognoscere che è la constituzione, cioè e qual sia congetturale e quale diffinitiva e  quale translativa e quale negoziale, et à fatto intendere  quale è simpla e quale congiunta, cioè qual contiene in sé una questione o più, et à fatto vedere qual contraversia  è inn iscritto e quale in ragionamento, sì come tutti questi  insegnamenti paionsi adietro là dove lo sponitore l'à messo  inn iscritto e trattato di ciascuno sufficientemente, ornai  vuole CICERONE procedere e dimostrare apertamente qual sia  20. la questione e la ragione e '1 giudicamento e '1 fermamento  della causa ; le quali cose tutte muovono e nascono della  constituzione, ciò viene a dire che la constituzione è il  cominciamento di queste cose. Questione è quella contraversia la quale s'ingenera del   contastamento delle cause in questo modo : « Non facesti a ragione -  Io feci a ragione». Questo è contastamento delle cause nella quaied)     2: m om. 6—3: m om. cognosciuta — M intesto — Af' qual congiunta — 4: M-m  quale conti'aversia <ii scripto — m o di ragionamento — 5: A/' oggimai sarà — 5-6: M' ha  sulo il primn b — M-m il confermamento — 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte cose le quali conv. -  9: M chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10: M' diliberativo, ilimostrativo — i2: in  cioè qual sia — 13: M-m a facto cognoscere — 14: m quale simplice - 17: M' amaeslra-  menti — M paio sàdietro, Mi-L jiaiono in adiotro — 18: M 7 tracio — 22: M-m um. ciò  V. a d. e. la constituzione — 25 : M -L Di (|uistione — m si genera — 26-27 : M' de cause  — M-m om. a — M' il contrastamento ~ L nele quali, S nel quale   (1) Evidentemente dovrebbe dire nel quale; ma appunto per questo non saprei  spiegare come alterazione volontaria né come svista il nella quale (dato tanto da  M quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto dovuto a una distratta traduzione del  latino Causarum haec est conflictio, in qua constitiUio constai.  è la constituzìone, e di questa nasce contraversia la quale noi ap-  pelliamo questione, in questo modo: se fatto l'à a ragione o no.   Lo sponitore.   1. Nel testo il quale è detto davanti insegna Tullio  5. cognoscere e sapere che è la questione; et in ciò dice che  questione è quella che ssi conviene considerare sopr' a cciò  di che le parti tencionano, e così s'ingenera del contasta-  mento delle parti, cioè di quello che 11' uno appone e l'altro  difende. Verbigrazia : Dice la parte che appone all'altra .   10. « Tu non ài fatta i-agione, che tu prendesti il mio cavallo »;  e la parte che ssi difende risponde e dice : « Si, feci ra-  gione Or è la causa ordinata, cioè che ciascuna parte à  detto, l'una accusando e l'altra difendendo, e questa è ap-  pellata constituzione. Sopra questo si conviene sapere se   15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è quello che Tullio  appella questione. Dunque potemo intendere che quando  le parti anno detto e quando l'accusatore àe apposto in.  contra l'aversario suo e l'accusato àe risposto o negando  o confessando, sì è la causa cominciata et ordinata ; e però   20. infine a questo punto èe appellata constituzione, cioè viene  a dire che Ila causa è cominciata et ordinata ; da quinci  innanzi, se l'accusato niega e diféndesi, si conviene che ssi  connosca se Ila sua defensione è dritta o no, cioè quando  dice : « Io feci ragione » conviensi trovare s' elli à fatto   25. ragione o no, e questa è appellata questione. 3. Et perciò  che la scusa dell'accusato, a dire pur così semplicemente:  « Io feci ragione », non vale neente se non ne mostra ra-  gione per che e come, insegnerà Tullio immantenente che  ragione sia.   30. Di ragione.   71. Ragione è quella che contiene la causa, la quale se ne  fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in contraversia. In questo  modo mo sterremo, per cagione d'insegnare, un leggieri e manifesto     4: M-m nel quale - 6: M' 6 quella — m sopra quello — 10: M' facto ragione —  i5: M dopo ragione ripete che tu prendesti il mio cavallo — 13: m luna luna — M' {(uesto —  15: M^ m facto — 15-16: M' Et questo.... comune questione — 17: M-m posto — 19: M  S l'accusa - SO: M' m ciò viene a dire — SS: M-m om. sì — S4: M' facta — S5: M'  e facta questione — S6: M-m om. Et - l'accusa — S7 : M' m se non mostra — S8 : M'  si insegnerà — 31 : m se non fosse — 3S : M' non vi rim. — 33: M-m d'insegnare leg-  gere manifesto exemplo   exemplo. Se Orestres fosse accusato di matricidio et elli non dicesse:  « Io il feci a ragione, perciò eli' ella avea morto il mio padre »,  non avrebbe difensione; e se non l'avesse non sarebbe contraversia.  Dunque la ragione dì questa causa è eh' ella uccise Agamenon.   5. Lo sponitore.   1. Si come appare nel testo di Tulio, ragione è quella  clie sostiene la causa in tal modo che, chi non assegna e  mostra la ragione della sua causa, certo non sarà contro-  versia, cioè non à difensione; e cosi la causa dell'aversario   IO. rimane ferma e non à contastamento. 2. Verbigrazia: Vero  fue che Ila madre d'Orestres uccise Agamenon suo marito  e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per movi-  mento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre.  Fue accusato di matricidio, et elli confessa, ma dice che '1   15. fece a ragione; se non dice perchè e come, la sua difen-  sione non vale neente, e se la difensione non vale neente  non è contraversia né questione. 3. Ma se dice cosi : « Io  lo feci a ragione perciò ch'ella uccise il mio padre », sì  mantiene la sua causa e vale la sua difensa, mostrando la   20. ragione e la cagione perch'elli fece il matricidio. Et poi  che CICERONE à dimostrato che è questione e che ragione, sì  dimosterrà che è giudicamento.  Giudicamento è quella contraversia la quale nasce de lo 'nde-  25. bolire e del confirmare la ragione. Et in ciò sia quel medesimo  exemplo della ragione che noi aven detta poco davanti : « Ella avea  morto il mio padre ». Dice il savio: « Sanza te figliuolo convenia  eh' essa madre fosse uccisa ; perciò che 'I suo fatto si potea bene  punire sanza tuo perverso adoperamento ». (e. XIV) Di questo  30. mostramento della ragione nasce quella somma controversia la quale  noi appelliamo giudicamento, la quale è cotale: se fosse diritta cosa  che Orestres uccidesse la madre, perciò ch'ella avea morto il suo padre.     i : m di martecidio — 2 : M-m om. ella — 4 : M-ni chelluccise a ragione — 7-8 : M'  mostra 7 assegna ragione — 10: M' m 0111. Vero — 13: M' om. cioè.... di matricidio —  16: M-m om. e so la difensione non vale neente (A/' ef))unge neente) —19: m difesa —  20: m om. El — 22: M-m dimostra — 24: M' om. quella — M-m ohi. nasce — 25: M-m  in ciò a quel med. — 26: M' aveino dello — 27 : M' Dice l'avversario — 2S: M-m si  potrà — 29 : M' sanila il tuo p. — — 31 : M' se fu    Cicerone dice e insegna che è ragione; et perciò  che della ragione nasce il giudicamento, sì tratta egli  del giudicamento per dimostrare come e quando et in che  5. luogo sia. Verbigrazia : L'accusato assegna ragione perchè  fece quel fatto e conferma la sua difensa per quella ra-  gione. L'accusatore dice contra questa difensa et indebo-  lisce la ragione dell'accusato, linde di ciò che conferma  l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la infievolisce   10. e falla debole, sì ne nasce una questione la quale è appel-  lata giudicamento, perciò che quando ella è provata si  puote giudicare. 2. Et in ciò sia quel medesimo exemplo  di sopra : Orestres assegna la ragione per la quale elli  uccise Clitemesta sua madre: perciò ch'ella avea morto   15. Agamenon ; e così conferma la sua defensione. Ma contra  lui dice l'aversario. Tu non la dovei punire né non con-  venia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea pu-  nire sanza tua perversità, e sanza tua così crudele opera,  come del figliuolo uccidere sua madre ». Et così indebolia la ragione d' ORESTE e mettealo in vituperoso abominio,  e sopra questo, cioè sopra '1 confermamento e sopra lo 'nde-  bolimento della ragione, nasce questione la quale è appel-  lata giudicamento perciò che ssi puote giudicare. 3. Et omai  à detto Tullio che è questione e che è ragione e che è   25. giudicamento ; sì dicerà che è fermamento.   Del fermamento.   73. Fermamento è il firmissimo et appostissimo argomento  al giudicamento, come se Orestres volesse dire che ll'animo il quale  la madre avea contra il suo padre, quel medesimo avea contra lui  30. e contra le sue sorelle e contra il reame e contra l'alto pregio  della sua ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte guise  doveano i suoi figliuoli prendere in lei la pena.     2: M-m om. è — 3-4: M-m che deliboragione nasce del iuilicamento por dimostrare  ecc. — 5: M' om. sia — M' assegno —7:3/' quella — 3/ difesa — 8-10: M' che rimo con-  ferma 7 inforfa la sua ragione.... fa debole — M-m isforca — m la indebolisce — IS : m a  quello med. — 13: M' assegna ragione — 16: M 7 non convenia, m e non si convenia —  17: m 7 convenia punirla — 18-19: M' om. tua e del — m la sua madre — 21-22: M<  sopra confermamento dela ragione — 23: m om. Et — 24: M i ohe ragione, m nm. —  27: M-m om. è — 30: M' \n serocchie.... l'altro pregio   Poi che Tullio aè dimostrato che è questione e ra-  gione e giudicamento, sì dice in questa parte che è fer-  mamento. E certo lo 'nsegnamento suo è molto ordinata-   5. , mente : che primieramente è questione intra Ile parti  sopr'alcuna cosa la qual'è aposta ad uno e detto sopra lui  che non à fatto bene o ragione, et elli in sua difesa dice  ch'à fatto bene o ragione, e di questo nasce la questione,  cioè se esso à fatto ragione o no. Apresso dice l'accusato  10. la cagione per la quale elli avea ragione di fare ciò, e  questa è appellata ragione. Et quando l'accusato à detta  la ragione, il suo adversario dice contra quella ragione et  indebolisce quello dove l'accusato ferma la ragione, e  questa è appellata giudicamento.   15 Fermamento. Poi che Ila questione del giudicamento è nata, si  conviene che ll'accusato tragga innanzi i fermissimi argo-  menti bene apposti contra il giudicamento. Verbigrazia :  Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella avea  morto il padre, e così assegna la ragione perch'elli l'uccise;  il suo adversario mettendolo in questione di giudicamento  dice c'a llui non si convenia ma ad altrui, e così indebo-  lisce la sua ragione. 3. Or conviene che Orestres dica ma-  nifesti argomenti, e dice così. Tutto altressì coni' ella   25. uccise il suo marito mio padre, così avea ella conceputo  d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea ingenerate  di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et  abassare l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio  la nostra famiglia ». Ed in questi argomenti accoglie fermissima defensione della sua ragione contra il giudicamento,  e dice: « Perciò ch'ella fece così disperato maleficio et     2: M-m ragione 7 ((iiestione (m nm. 7) — 3: M' s\ dicerà (mn S dico) — 5: M-m que-  stioni — 6: M' sopralcuna causa la qua'.e appella ad uno 7 detto contra lui — 8: Mhii om.  ch'à fatto bene ragione — 9: M' se elgli, m selli — M' a l'acto a ragione — H : M\ m*  detto — i3;Jf fermava — i4: m questo e apellato - 17:,AV nelaccusalo trarre —  18: M» appostati - i9: M' clielgli uccise.... chella uccise — SI: A/ niente dolo - S3: M'  om. sua — JW i fermissimi argomenti — 29: M 7 dinquesti, »i 7 in <juesti, 3/' 7 di questi La rubrica di M (clie di regola seguo) ha qui ludicamento, certo per effetto  della parola precedente.   avea pensato di fare cotanta crudelitade, sì fue al postutto  convenevole che Ili suoi propii figliuoli ne le dessero pena  e non altri >. Et questi sono fermissimi argomenti ne' quali  dice che '1 fatto della madre fue crudele, superbo e mali-  5. zioso. 4. Et nota che quel fatto è appellato superbo il quale  alcuno adopera centra' maggiori, sì come quella fece ucci-  dendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il quale  alcuno adopera contra' suoi, sì come quella fece contra la  sua famiglia. Et quello è malizioso fatto il quale è molto   10. fuori d'uso, sì com'è contra naturale usanza ch'alcuna fe-  mina uccida il suo marito e figliuoli e distrugga un alto  reame. 5. Onde questi fermissimi argomenti e' quali l'ac-  cusato mette davanti per confermare le sue ragioni et  incontra lo 'ndebolimento che facea l'aversario, sì è ap-   15. pellato fei'mamento.   In quale constiti izione non à gindicamento. Et certo neil'altre constituzioni si truovano giudicamenti a  questo medesimo modo ; ma nella congetturale constituzione, perciò  che in essa non s'asegna ragione (acciò che '1 fatto non si concede)  20. non puote giudicamento nascere per dimostranza di ragione; e però  conviene che questione sia quel medesimo che giudicamento: « fatto  è, nonn è fatto, sé fatto o no ». Che al vero dire, quante consti-  tuzioni lor parti sono nella causa, conviene che vi si truovino  altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti.   25. Lo sponitore.   1. In questa parte del testo dice Tullio che, sì come  per lui è stato detto davanti, così si possono trovare giu-  dicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella consti-  tuzione congetturale, della quale è molto trattato inn  30. adietro, perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna  1 : Af' avea pensala cotanta crudeltade — 2: M nelle, ÌU-L lene dessero — 3 : Mi lor-  lissimi argomenti — 5: m nel quale — 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro Agamenon — m ohi. è —  8: M' luomo adopera — 9: m om. è ambedue le volte — il : A/ un altro — IS-i^-.M' om.  et, 7» e contro allo — i7 : M' ì giudicamenti — 22: Mi se facto e. no ~ quante questioni —  26 : m om. che — 28 : vi nella questione   (1) Si potrebbe anche leggere non n' asegna; ma in M' è scritto qui e qual-  che riga più sotto non assegna, mentre la grafia col doppio n 6 frequente in M  (cfr. pag. seg., 1. 6, nonn abisogna).    ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere giu-  dicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea  morto Aiaces. Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel  fatto che gli è apposto. Et perciò non conviene che sopra '1  5. suo negare assegni alcuna ragione. Et poi che nonn asegna  ragione, il suo adversario nonn abisogna d' indebolire la  ragione dell'accusato. Dunque nonde puote nascere giudi-  camento ; e perciò conviene che in queste constituzioni  congetturali la questione e lo giudicamento siano ad una  10. cosa: che là ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et Ulixes  dice « Non uccisi », la questione e '1 giudicamento fie sopi-a  questo, cioè se ll'uccise o no. 3, Poi dice CICERONE che quante  constituzioni à una causa, altrettante v'à questioni e ra-  gioni e giudicamenti e fermamenti. Dell'altre parti della causa.   75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da consi-  derare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee pur  pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se le  parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente congiungere  20. et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime traghe quelle  che sono da dire poi.     Sponitore.   1. Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa  et àe inteso ciò eh' elli n' àe insegnato per tutto il libro  25. insine a questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la  quale convegna che dica, sì dee il buono parliere pensare  con molta diligenzia e considerare nella sua mente, anzi  che cominci a dire, tutte le parti della sua causa insieme  e non divise. Che s'elli pensasse in prima pur quella che     4: m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a ragione — 8: M-m om. e —  9: M-m la constituzione — i 1 : M' sie sopra q., m fla — i3: M-m otn. v'à — 17: M-m  e al ver dire — 18: M' in prima quello — M-m om. dicere — S che è da dire inprlma —  19: M-m om. in prima — M' tu le vuoigli — M isforcatamonte, m sforfatamenie congiun-  gnerle — 20: M' i raunaro — M-m elio esse medesime — S4: M'-L tutto il titolo, i' tutto  il telo (tic) — S8: i/' causa sua — S9: M' pur quello che sia da dire (Z. aggiunge in  prima)  prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire poi,  senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo  et il mezzo dalla fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole  colla natura della causa et in innanzi pensa che ssi con-  venga dire davanti e che poi, certo la comincianza fie tale  che nne nascerà ordinatamente il mezzo e la fine. Tutto  altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima pur  della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che  Ilo cominci, e de' aver (D la lana e '1 coloi*e e la grandezza  del drappo, e provedesi di tutte cose che sono mistieri, e  poi comincia e fae il drappo. Di VI parti della diceria. Per la qual cosa, quando il giudicamento e quelli argo-  menti che bisognano di trovare al giudicamento saranno diligente-  15. mente trovati secondo l'arte e trattati con cura e con cogitatione,  ancora sono da ordinare l'altre parti della diceria, le quali pare a  nnoi ai tutto che siano sei : Exordio, narrazione, partigione, confer-  mamento, riprensione e conclusione.   Sjtoììitore.   20 _ I. Poi che Tullio sufficientemente à dimostrato la chiarezza delle cause et àe comandato che '1 buono parliere  innanzi pensi tutte le parti della causa per accordare il  mezzo e la fine colla comincianza del suo dire, si che sia  l'una parola nata dell'altra, sì dice esso medesimo che poi   25. che tutto questo eh' è fatto,(3) e trovato il giudicamento della     1 : M' che sia da dire poi —4: M' m om. in — 5 : M' la incomincianca, m il comin-  ciamento — 6: M' che nostera (corr. moslera), L mosterra, S mostra — 7: if ' in prima —  9-10: M' anzi che cominci.... accio mestieri — m sono mestiere — 11: M^ i\ suo drappo  ordinatamente, L affare il s. d. ordinatamente — 14 : M^ che si bisognano -17: M' che  sono sei.... petitione invece di partigione — 20 : M^ a sofficientemente dem. — S3: M' el  Dne con la incomincianpa — M-m om. sì — 24: M om. nata — 25: M^-L questo e facto   (1) Tutti i codici hanno 7 daver 7 davere, che può esser nato facilmente  dall'aver preso il de' per la preposizione di. Tanto il senso quanto la sintassi sa-  rebbero poco chiari leggendo e d'aver.   (2) Preferisco la lezione di M perchè non è probabile che la parola ordinata-  mente, che si trovava in evidenza in fine al discorso, sia sfuggita al copista. Forse  l'aggiunta If' (L) fu determinata AaW ordinatamente di poche righe prima.   (3) Cioè " dopo che tutto questo è fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p. 20,  n. 2, p. 21, n. 1 e qui dopo p. 99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si spiegano con  quelle di M-m, ma non viceversa. causa e ciò che vi bisogna secondo i comandamenti di ret-  torica (i quali si convengono trattare con molto studio e  con grande deliberazione) ; anco sopra tutto questo si con-  vengojio pensare l'altre parti della diceria, delle quali non  5. è detto neente, e sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà  il libro interamente.   Lo sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto inn adietro. Et sopra questo punto, anzi che '1 conto vada più  innanzi, piace allo sponitore di pregare il suo porto, per cui amere è composto il presente libro non sanza grande  afanno di spirito, che '1 suo intendimento sia chiaro e lo  'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente a intendere  le parole che son dette inn adietro e quelle che seguitano  per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto e   15. nobile parladore, della quale scienzia questo libro è lu-  miera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro tratti pur sopra  controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in  tendone, et insegna cognoscere le cause e Ile questioni, e  per mettere exempli dice sovente dell'accusato e dell' ac-   20. cusatore, penserebbe per aventura un grosso intenditore  che Tullio parlasse delle piatora che sono in corte, e non  d'altro. 4. Ma ben conosce lo sponitore che '1 suo amico  è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la  propria intenzione del libro, e che Ile piatora s'aparten-   25. gono a trattare ai segnori legisti ; e che rettorica insegna  dire appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa  no è pur di piatora né pur tra accusato et accusatore, ma  é sopra l'altre vicende, sì coinè di sapere dire inn amba-  sciarie et in consigli de' signori e delle comunanze et in   30. sapere componere una lettera bene dittata. 5. Et se Tullio  dice che nelle dicerie intra le parti sono le constituzioni e  questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si dee  pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le     1: M' Olii, vi — S: vi làlluro — 3: M liberalione - M ancora, m aiicir — 4 : m le  IKirli — 5: M-m oiii. per sé — 8-9: Mi cliel maestro.... più avanti — iO: m questo libro —  i3: m mii. clie son — M' seguiranno — i4: in per lo innanzi — i8: vi insegni — o»n. o  dinanzi a per — i9:m exenpro — 20: M-vi 7 penserebbe — .?;: if' trattasse — S2:m  ha bene — 24-2.^: Af si pertegnono - m 7 a singnorì — M-m le giustitio — 26- M' ap-  postamento — M' in sapere — 2M 7 nele comunanze, (L e dello), mi delle co-  munanze — 31 : m trailo parti - 32: M-m im. e ragioni, e l'ermamento — m ohi. si     — 99 -   genti insieme di diverse materie, nelle quali adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere e dicelo in un suo  modo e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione ;  e r uno appone e l'altro difende, e perciò quelli che appone  5. contra l'alti-o è appellato accusatore e quelli che difende  èe appellato accusato, e quello sopra che contendono è ap-  pellata causa. Onde se l’uno appone e l'altro niega, al  postutto di questo non puote nascere questione se non di  sapere se quella cosa che niega elli l'à fatta o detta o no.  Ma quando l'uno appone e l'altro difende, sì è la causa  incominciata et ordinata tra lloro. Et questo è la constituzione della quale nasce la questione, cioè se Ila sua difesa  è a ragione o no; e poi ciascuno contende come pare a llui  per confermare le sue parole e per indebolire quelle del'altro, sì come appare per adietro nel trattato della questione e della ragione e del giudicamento e del fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come dicono li  exempli messi inn adietro, che ORESTE e accusato in  corte della morte di sua madre ; ma le genti ne contendeano intra loro, che 11' uno dicea che non avea fatto né  bene né ragione, e questo è appellato accusatore, un altro  dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto bene e ragione, e questo è appellato nel libro accusato.  De consiglieri. Così aviene intra' consiglieiù de' signori e delle comunanze, che poi che sono aserablati per consigliare sopra  alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa la quale è messa  e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et all'altro  pare un'altra; e cosi è già fatta la constituzione della causa,   30. cioè eh' è cominciata la tencione tra lloro, e di ciò nasce  questione s' elli à ben consigliato o no. Et questo è quello  che Tullio appella questione. 9. Et perciò l' uno, poi ch'elli  àe detto e consigliato quello che llui ne pare, immante-     2 : M ndicc — M' di.cela — m in suo modo ~ 3 : M' in contentione ~ 4: M n lalti-o  appone, m laltio appone — M-m quel — 6: M quello che, m quello di che — 7-9: m om.  al postutto.... che nioga — M che quella cosa — M' selgli la facta — il : m cominciata —  M' intra loro 7 questa — 13: M-m è ragione - 16: M om. il 1" e 3° e, hì il 1" e S° -  20 : m tralloro — dicea chelli — 21 : m o ragione — 22: m ave fatto — 25: M' adiviene - mi  tra cons. — 27: M-m. e in essa — 28: m davanti a loro — M-m om. cosa et — 30: M'  lantentione — 31 : M-m selli alta consigliato —  m che allui   nente assegna la ragione per la quale il suo consiglio èe  buono e diritto. Et questo è quello che Tullio appella  ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la cagione e la ra-  gione per che, si sforza di mostrare perchè s'alcuno consigliasse o facesse il contrario come sarebbe male e non  diritto ; e così infievolisce la partita che è contra il suo  consiglio; e questo è quello che CICERONE lappella GIUDICAMENTO. Et poi ch'elli àe indebolita la contraria parte,  sì raccoglie tutti i fermissimi argomenti e le forti ragioni   10. che puote trovare per più indebolire l'altra parte e per  confermare la sua ragione ; e questo è quello che Tullio  appella fermamente. 12. Et certo queste quattro parti, cioè  questione, ragione, giudicamento e fermamento, possono  essere tutte nella diceria dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò eh' è detto di sopra. Et puote bene essere  la sua diceria pur dell'una, cioè pur infine alla questione,  dicendo il suo parere e non assegnando sopra ciò altra  ragione. Et puote bene essere pur di due, cioè dicendo il  suo parere et assegnando ragione per che. Et puote bene essere pur di tre, cioè dicendo il suo parere et assegnando  ragione per che et indebolendo la contraria parte. Et puote  essere di tutte e quattro sì come fue dimostrato di sopra.  13. Quest' è la diceria del primo parliere. E poi ch'elli à  consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si leva   25. un altro consigliere e dice tutto il contrario che àe detto  colui davanti ; e così è fatta la constituzione, cioè la causa  ordinata, e cominciata la tenciouB ; e sopra i loro detti,  che sono varii e diversi, nasce questione, se colui avea bene  consigliato o no. Poi dimostra la ragione perchè il suo   30. consiglio è migliore. Apresso indebolisce il detto e '1 con-  siglio di colui ch'avea detto dinanzi da llui ; e poi ricon-  ferma il consiglio suo per tutti i più fermi argomenti che  può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti  possono essere nel detto del primo parliere e nel detto   35. del secondo e di ciascuno parlamentare. 14. Cosie usata-     3-4: M' la ragione 7 la cagione.... clie s'olciin — 6: M' a diriclo — m la parie — 8:m om  Et - i5: M-m cagione, ragione ecc. — i4: 3f' d'uno — y5:3f'pare— i 6 : 3f-m om. cioè  pur — 17: m pero — M' altre ragioni — 18-19: M-m ohi. pur ~ M-m in suo parere as-  sengnanJo perche — SO: M' il suo pare — 21 : M^ la contraria partita - SS: m di tulli  e q. — 25-26: Jlf' tutto il contrario di colui ca detto davanti — 27 : M' lunlcntione — m  la tencionc sopra — S8: M' om. sono -- M 7 se colui — 31-32: in rilennu — 3/' il suo  consiglio — 33: M' ([uattro jiarti — 33: M' ciascuno che vuole parlamentare  mente adviene che due persone si tramettono lettere l' uno  all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o  inn altro, nelle quali contendono d'alcuna cosa, e così  fanno tencione. Altressi uno amante chiamando merzè alla  sua donna dice parole e ragioni molte, et ella si difende  in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle  del pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote  assai bene intendere che Ha rettorica di Tullio non è pure  ad insegnare piategiare alle corti di ragione, avegna che  neuno possa buono advocato essere né perfetto (2) se non  favella secondo l'arte di rettorica.   15. Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento ch'è scritto inn  adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che  sono in tencione et in contraversia tra alcune persone, le  15. quali contendano insieme 1' uno incontra l'altro; e potrebbe  alcuno dicere che molte fiate uno manda lettera ad altro  nela quale non pare che tendoni centra lui (altressi come  uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua donna,  nella quale non à tencione alcuna intra llui e la donna),  é di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo  sponitore medesimo di ciò che non dessero insegnamento  sopra ciò, maximamente a dittare lettere, le quali si co-  stumano e bisognano più sovente et a più genti, che non  fanno l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi volesse  bene considerare la propietà d'una lettera o d'una can-  zone, ben potrebbe apertamente vedere che colui che Ila  fa o che Ila manda intende ad alcuna cosa che vuole che   1: m adiviene - 3: M^ om. o inn altro ~ 6: m slorza — 7 : m i molti — 9: m in  insegnare - M' piatire — 10: M-m neuno buono advocato possa essere perfetto— 11: M  della rectorica — 13 : «i intorno a (pielle — 15 : m chontendono — M' conlra.... 7 parebbo —  16: Mi molte volte manda Inno lectere alaltro, m molto volte uno manda lettere a un altro  (ma ambedue nela (piale) — 17 : M che contenda tencioni — 18: 1/' per amore, fa  e, L uno che ama per amore fa e. — 19: m tra lui — 23: M-m om. et — 24: m  traile genti     (1) Le parole inn altro, che sembrano inutili, non possono essere un'ag-  giunta di copisti, ai quali invece doveva venir fatto di ometterle, come in M* e  in i.Dando a volgare il senso limitato di volgare italico, si intende l'altro  per gli altri linguaggi, specialmente il provenzale e il francese. Brunetto vuol dire che la rettorica di CICERONE non serve solo ai legisti, quantunque nessuno possa divenire valente avvocato, e tanto meno perfetto,  senza averla studiata. Questa è l'idea espressa dalla lezione di ilf • ; con quella  di M-m, più semplice a prima vista, non si spiega la relazione fra buono e perfetto sia fatta per colui a cui e' la manda. Et questo i)uote  essere o pregando o domandando o comandando o minac-  ciando o confortando o consigliando ; e in ciascuno di  questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la canzone  5. o negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che  manda la sua lettera guernisce di parole ornate e piene  di sentenzia e di fermi argomenti, sì come crede poter  muovere l'animo di colui a non negare, e, s'elli avesse  alcuna scusa, come la possa indebolire o instornare in tutto. Dunque è una tendone tacita intra loro, e così sono  quasi tutte le lettere e canzoni d'amore in modo di ten-  done o tacita o espressa ; e se cosi no è, Tullio dice manifestamente, intorno '1 principio di questo libro, che non  sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no tencione che sia, CICERONE medesimo, luogo innanzi, isforza  i suoi insegnamenti in parlare et in dittare secondo la  rettorica ; e là dove Tullio sine pasasse o paresse che dica  pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo sponitore  isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e sì intende-   20. volemente che '1 suo amico potrà bene intendere l' una  materia e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire  di quelle partite della diceria o d'una lettera dittata, delle  quali non avea detto neente in adietro: e queste parti sono  sei, sì come apare in questo arbore.    I e. 2   ^'Olii'     /^M/     25. Queste sono le sei parti che Tullio mostra certamente   che sono nella diceria o nella pistola, specialmente in     i: m per cholui che la manda — 2: M' essere pregando — 3: M-m o in — 6: Jf'  manda guernisce la sua lederà d'ornati^ parole — il : M tucto lelcrre, m tutte lettere o  clianzoni, M' o lo cannoni - iS: M-m o e tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. -  14-15: M' o di tenciono o di non tencione — da quello luogo innanci inforfa — 16: M'  IH secondo rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21: M'  m comincia — 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il' pare in  ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3» Divisione, ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7  nella pistola (ma c/r. l. 22)    quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto  dello sponitore qui adietro ; e, sì come detto fue in altra  parte di questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle  cause le quali sono in contraversia et in tencione. Et ben  . dice tutto a certo che Ile parole che non si dicono per  tencione d'una parte incontra un'altra non sono per forma  né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè  la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencionare né di contendere, anzi è uno presente che uno manda ad un altro, nel quale la mente favella et é udito colui  che tace e di lontana terra dimanda et acquista la grazia,  la grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose  mette inn iscritta le quali si temerebbe e non saprebbe  dire a lingua in presenzia; sì dirae lo sponitore un poco dell'oppinione de' savi e della sua medesima in quella parte  di rettorica ch'apartene a dittare, si come promise al co-  minciamento di questo libro. 20. Et dice che dittare é un  dritto et ornato trattamento di ciascuna cosa, convene volemente aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del dittare, e perciò conviene intendere ciascuna parola d'essa  diffinizione. Unde nota che dice « dritto trattamento »  perciò che Ile parole che ssi mettono inn una lettera dit-  tata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il nome  col verbo, e '1 MASCUNINO [sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino, e lo singulare e '1 plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e l'altre  cose che ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo sponitore  dirà un poco in quella parte del libro che fie i)iù avenente;  e questo dritto trattamento si richiede in tutte le parti  di rettorica dicendo e dittando. 21. Et dice « ornato trat-   30. tamento » perciò che tutta la pistola dee essere guernita  di parole avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze;  et anche questo ornato si richiede in tutte le i)arti di ret-  torica, sì come fue detto inn adietro sopra '1 testo di Tullio.  22. Et dice « trattamento di ciascuna cosa » perciò che,   35. si come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire puote     1:M' pare — 4:M oin. sono — m le quali e In contr. e tencione. Et dico — 5-6: M' non  sodono — m om. per te.ncione — a un altro — 8 : M'de tencione — iO : M' 7 ae udito —il: M'  om. la grazia — 12-13: M la gra — M' sinlorca — m/ molte cose — M' m in iscriptura  — Mi non, ma L e non — 14: m lo sponitore dira uno pocho — 16: M' om. di relto-  rica — 19: M-m aconcia a quella cosa, !/'-/> a quella cosa aconcia — 23: M-m adietro,  M' a diricto — 24-25: M' m el mascolino (m il maschulino)col leminino — 3/' el plurale  el singulare — M-m pulare — 27 : m fia M' in tutte parti — 33 : M-m nel lesto —  34 : m om. Et — 35 : m si puote    essere materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla  sentenzia di CICERONE, che dice che Ila materia del parliere  non è se non in tre cose, ciò sono dimostrativo, deliberativo  e iudiciale. Et dice « convenevolemente aconcio a quella cosa » perciò che conviene al dittatore asettare le parole  sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore dicere  parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle  non fossero aconcie alla materia. 23. Così è divisato il dit-  tatore da cciò che dice Tullio; e perciò di queste due   10. materie, cioè del dire e del dittare, e dello 'nsegnamento  dell'uno e dell'altro potrà l'amico dello sponitore prendere  la dritta via. Et per questo divisamento conviene che Ile  parti della pistola si divisino da queste della diceria che  Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narrazione, partizione, conferm amento, riprensione e conclusione.  24. 1. E oppinione di Tullio che exordio sia la prima parte  della diceria, il quale apparecchia l'animo dell' uditore a  l'altre parole che rimagnono a dire, e questo è appellato  prologo della gente. //. Et dice che narrazione è quella   20. parte della diceria nella quale si dicono le cose che sono  essute o che non sono essute, come se essute fossoro ; e  questo è quando uomo dice il fatto sopra '1 quale esso  ferma la forma della sua diceria. E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e contato il fatto et   25. e' si viene partiendo la sua, ragione e quella dell'aversario  e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ; et in questo  modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e pivi  contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore ;  et allora pare ch'ai tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et   30. dice che confermamento è quella parte della diceria nella  quale il parlieri reca argomenti et assegna ragioni per le  quali agiugne fede et altoritade alla sua causa. F. Et dice  che riprensione (1) è quella parte della diceria nella quale il     5: Mi agoisare — 6: m om. Et — 7 : M' non varrebbe — 8: M' j cosi e divisato da  ciò — 10: Jf maniere — i3: M^ da quelle — i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Op-  pinione di Tulio e — M exordìa — 18: M rimagnono udite, m om. a dire — 21 : M is-  sate — 22: M 1 quando — M^ m l'uomo — om. esso 23  M' forma la sua diceria —  25 : M' edesso viene partendo, m e viene ripetendo.... del chonpagno — 28 -. M7 nfììcale (?),  m e ficliale, M' 7 afficcalle — 29: M' paro cabbia detto — m detto il fatto - 30 : M' con-  fermagione — 33: i mss. responsione — M-m 7 quella   (1) Non esito a scostarmi dai codici per la concorde lezione degli altri luoghi,  che corrisponde al latino reprehensio. Il passaggio da reprensione a responsione è  facilissimo attraverso un repensione.     I)arliere reca cagioni e ragioni et argomenti per li quali  attuta e menoma et indebolisce il confermamento dell'aver-  sario. VI. Et dice che conclusione è Ila fine e '1 termine  di tutta la diceria. 25. Queste sono le sei parti che dice  5. Tullio che sono e debbono essere nella diceria; e di cia-  scuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma in  questo eh' è detto puote uomo bene intendere che queste  sei medesime possono convenire inn una pistola, di tal ma-  teria puote ella essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia   10. sia, nelle tre di queste sei parti s'accorda bene la pistola  colla diceria, cioè nello exordio, narrazione e nella con-  clusione; ma ll'altre tre, cioè partigione, confermamento  e reprensione, possono più lievemente rimanere e non  avere luogo nella pistola. Tutto altressì la pistola àe V parti, delle quali l'una può bene rimanere e non avere  luogo nella diceria, cioè «salutatio»; l'autra, cioè «petitio»,  avegnachè Tulio no Ila nominasse in tra Ile parti della  diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera ch'ap-  pena pare che diceria possa essere sanza petizione. Dunque   20. le parti della pistola sono cinque, ciò sono salutazione,  exordio, narrazione, petizione e conclusione, sì come ap-  pare in questo arbore :      26. Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio in-  tralasciò la salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo  25. lo sponitore ne renderà bene ragione in questo modo. Certa  cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle dicerie che ssi     l-S: m ragioni 7 cagioni — Jlf' l'aiingatore — wn. cagioni e — per li ifiiali allassa -  M-m il fermamente — 3 : 3/' il line — 4-5 : m Questo.... che Tulio dico che debbono essere —  6 : M' m illibro qua innanzi — 7 : jn luomo -- Af ' om. bone — m che tutte 7 queste  sei — 8-9 : M tal maniera — M-m da qualunque, M^ de ([ualunque — li : 3f' in exordio —  M' m 7 conclusione —12: M' om. tre e soitiiuisce di\hione rt partigione M salta  dal lo al 2" aver luogo — 22: M' pare 'in questo albero — 24: ilf intrallassò, m lasciò —  25: Af' ne renda, L ne rende - 26: M^ cliellibro di Tulio tracia     — 106 -   fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di contare'!) il  nome del parlieri né dell' uditore. Ma nella pistola bisogna  di mettere le nomora del mandante e del ricevente, c'altri-  mente non si puote sapere a certo né l'uno né l'altro.  Apresso ciò, la salutazione pare che sia dell'exordio ; che  sanza fallo chi saluta altrui 'per lettera già pare che co-  minci suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio com-  piutamente, non curò di divisare della salutazione né distendere il suo conto intorno le saluti, maximamente perciò che pare che rechi tutta la rettorica a parlare et in controversia tencionando. Et in perciò furo alcuni che  diceano che Ila salutazione non era parte della pistolaj  ma era un titolo fuor del fatto. Et io dico che la salu-  tazione è porta della pistola, la quale ordinatamente chiarisce le nomora e' meriti delle persone e l'affezione del  mandante. Et nota che dice « porta, cioè entrata della  pistola, e che chiarisce le nomora, cioè del mandante e  del ricevente; e dice i meriti delle persone, cioè il grado  e l'ordine suo, sì come a dire: Innocenzio papa, Federigo Imperadore, Acchilles cavaliere, Oddofredi  Judice, e cosi dell'altre gradora. Et dice « ordinata-  mente », cioè che mette il nome e '1 grado di ciascuno  come s'a viene; e dice «l'affezione del mandante», cioè com'elli  manda al ricevente salute o altra parola di bene, o per   25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè secondo  la sua volontade. 28. Adunque pare manifestamente che  Ila salutazione è così parte della pistola come l' occhio del-  l' uomo. Et se l'occhio è nobile membro del corpo dell'uomo,  dunque la salutazione é nobile parte della pistola, c'altressi   30. allumina tutta la lettera come l'occhio allumina l'uomo.  Et al ver dire, la pistola nella quale non à salutazione è  altrettale come la casa che non à porta né entrata e come '1     1 : M-m bisogna contare — S-3 : M' nome del dicitore — M-m bisogna mettere -  M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m om. 7 del ricevente — M-m 7 altrimente — 4: M' non  si porrebbe — 7-9: M-m om. dello exordio — non curo divisare salutalione 7 distemdere -  ìli intorno alle salutationi — 10: M' om. et — 11-12: M' Et jìerciò funro — ciie saluta-  lione — 15: m e mèli — 16: m om. Et -17: M-m om. 1° e, hi 01». cioè — S3 : M' om. di —  24 : M' 7 altra — 2,5 : M eirectione — m om. secondo la sua afTezione cioè — 26: M' parte  (ma t espunto) — 28 : M 3/' om. dell'uomo, m om. del corpo (A completo) — 29: iW' e la  salutatione n. p. — m e altres'i — 32 : il/' ne jiorta   (1) La lezione bisogna contare darebbe piuttosto il senso di « conviene dire »,  mentre qui si richiede un «c'è bisogno di dire».     - Itì7 -   corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla chi dice che  salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s' in-  chiude W e sugella dentro ; ma '1 titolo della pistola è la  soprascritta di fuori, la quale dice a cui sia data la lettera.  Ben dico c'alcuna volta il mandante non scrive la salu-  tazione, o per celare le persone se Ila lettera pervenisse  ad altrui o per alcun' altra cosa o cagione. (2) Né non  dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per desiderio  d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole che   10. portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire pur  salute. Et a' maggiori non dee uomo mandare salute, ma  altre parole che significhino reverenzia e devozione; e tal-  volta no scrivemo a' nemici altro che Ile nomora e tacemo  la salute, o per aventura mettemo alcuna altra parola che   15. significa indegnamento o conforto di ben fare o altra cosa;  sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad altri uomini  che non sono della nostra catholica fede o a' nemici della  Santa Chiesa tace la salute, e talvolta mette in quel luogo  spirito di più sano consiglio o connoscere la via della veritade o ahundare inn opera di pietade et altre simili cose.  Adunque provedere dee il buono dittatore che, si-  milemente come saluta l'uno uomo l'antro trovandolo in  persona, così il dee salutare in lettera mettendo et ador-  nando parole secondo che la condizione del ricevente richiede. Che quando uomo va davante a messer lo papa o  davante ad imperadore o a alti-o segnore ecclesiastico o  seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina la  testa, et alla fiata si mette in terra ginocchioni per basciare     2-3: M' anche — M-ìn si richiude — M' ma titolo — M 7 \a. s. — 5 •m iscrive salu-  tatione — 6-7: M' venisse ilata altrui per alcuna cagione — Mo per cagione dalcunaltra cosa  cagione ; m id., ma oiii. cagione — 8-9 : M^-L ma ora per d. d'a. or (ina L 0) per s. si man-  dano, M-m per solazzo di loro si mandano — il: M' a maggiore — M-m non debbono - 12: M*  che significanza abbiano di revercntia 7 dev. — 13-14: M' a nomici non scrivemo — M-m 7 per  aventura —16: M-m il papa scrivendo... om. altri —19: M-m di chonnoscere — M' conoscere  via de veritade— 20: M' opere (mai opera) — om. altre — 21  il/' dee prevedere — 22  M' un  huomo un altro— ^ó:ni Quando luomo — 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a lom-  j)eradore — 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in — M' ginocohione in terra     (1) S'inchiude è più esatto di si richiude. Lo scambio fra n e l'i occorre altre  volte: cfr. p. 37, n. 1.   (2) In 3f e' è qualcosa di troppo. Non importa dire che m ha accomodato di suo,  perchè la parola cagione come finale è confermata da M'; forse 1' errore nacque  dall'avere scritto subito pei- cagione e voler poi rimediare.   (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo davvero di avere indo-  vinato; potrebbe anche mancare qualche parola.  il piede al papa o allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo  dettatore nominare lo ricevente e la sua dignitade coij  parole di sua onoranza e metterlo dinanzi ; apresso dee  nominare sé medesimo e la sua dignitade, e poi dee scri-  5. vere la sua affezione, cioè quello che desidera che venga  a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro che sia  avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di  quella guisa e di quelle parole che ssi convegnono al man-  dante et al ricevente. 31. Che quando noi scrivemo a' magio, giori di noi o di nostro paraggio o di minore grado, noi  dovemo mandare tali parole che ssiano accordanti alle  persone et allo stato loro. Et non pertanto eh' io abbia  detto che '1 nome del maggiore si de' mettere dinanzi e  del pare altressì, io oe ben veduto alcuna fiata che grandi  15. principi e signori scrivendo a mercatanti o ad altri minori  , mettono dinanzi il nome di colui a cui mandano, e questo  è contra l'arte ; ma fannolo per conseguire alcuna utilitade.  Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in fare la saluta-  zione avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa me-  20. desima conquisti la grazia e la benivoglienza del ricevente,  sì come noi dimostramo avanti secondo la rettorica di CICERONE. Et bene è questa materia sopr'alla quale lo sponitore po-  trebbe lungamente dire e non sanza grande utilitade. Ma  considerando che Ila subtilitade perché '1 verbo non si mette  25. nella salutazione, e che "1 nome del mandante si mette in  terza persona per significamento di maggiore umilitade, e  che tal fiata si scrive pur la primiera lettera del nome,  par che tocchi più a' dittatori IN LATINO che’n VOLGARE,  sene passex'à lo sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio per dicere dell'altre parti della diceria e di quelle  della pistola, sì come porta l'ordine. Et in questo luogo  si parte il conto della salutazione, e dirà dell' exordio in  due guise. L’una secondo ciò che nne dice Tullio e che     i : M' y allomperudoi'o — S-3: M-m dignilailo corporale di — m aggiunge di reve-  renza 7 ^ 4: M^ nm. S" e — 3: M-m oirectione — ([nella — 7 : m tuttavia — M' guani ino  clic l'airectione — 9-10: M' ali maggiori — M-m ili nostro .grado — i2: M' alloro slato —  M-m om. ch'io abbia dolio — i3: in il nome — M' si debbia — 13-16: m sengnori —  M-m scrivono -- m e mellone — M' elgli mandano — 17: Af-w por sognile — 18: mom.  et adveduto — 19: M' dongiii jìarle — 20: M-mnm.ìa grazia e — 21-SS: il/' dimoslor-  remo, m dimostraiiio davanti — Af' m Et bene cpiesta — 24: JZ-m uhella subtitade, A/' che  sotti! itude — 23: M<- in salutalione 7 perche! nome — 26: M-m utilitade — 27: M' 7 per-  che.... pur una lederà — m la prima — 28: m om. in Ialino — 31-32: L Et in questa  parte — ilf' dala salutalione — 33: M' om. ci6     — 109 -   pare che ss'apartegna a diceria, l'altra secondo che ssi con-  viene ad una lettera dittata et ad una medesima diceria,  oltre quello che porta il testo di Tullio.   Exordio.   5. 77. Et perciò che exordio dee essere principe di tutti, e noi   primieramente daremo insegnamenti in fare exordio. Vogliendo CICERONE trattare dell' exordio prima che  dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe dell'altre  10. parti tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che ssi  mette e si dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che  nel exordio pare che noi aconciamo et apparecchiamo  r animo dell' uditore ad intendere tutto ciò che noi vo-  lemo dire di poi.   15. Dell' exordio.   78. (e. XV) Exordio è un detto el quale acquista convene-  volemente 1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a dire ;  la qual cosa averrà se farà l' uditore benivolo, intento e docile.  Per la qual cosa chi vorrà bene exordire la sua causa, ad lui  20. conviene diligentemente procedere e conoscere davanti la qualitade  della causa.   Lo sponitore.   1. Poi che Tullio avea contate le parti della diceria,   sì vuole in questa parte trattare di ciascuna per se divi-   25. satamente, e prima dello exordio, del quale tratta in questo     2 : Af' e la diceria medesima — 3: m oltre a quello — 5 : M-mom.e — 6: M' oxordii —  iO: m nm. tutte — M-m certo e (m a) ragione, L e certo eglie ragione — 10-li M' luna  pei che, m luna che — M-m 7 davanti si dice — 13-14 : m quello die noi poi volerne diro —  M' dire poi — 18: m dolce (cosi sempre in seguito) M' converrà — om. procedere e —  24 : M' divisamente, ma L divisatamente   Questa lezione è quella che spiega meglio le altre: soppresso il de, nacque  è ragione di M, che m, colla pretesa di accomodare,' peggiorò in a ragione; la  variante di L deriva certo dal non aver inteso il significato di de ragione (= se-  condo ragione).     - no -   modo: Primieramente dice che è exordio, mostrando che  tre cose dovemo noi lare nell'exordio, cioè fare che 11' udi-  tore davanti cui noi dicemo sia inver noi benivolente et  intento e docile a cciò che noi volemo dire. Et perciò ne  5. conviene connoscere la qualitade del convenente sopra '1  quale noi dovemo dire o dittare. 2. Nel secondo luogo divide  l'exordio in due parti, cioè principio et « insinuatio », e mo-  strane in qual convenentre noi dovemo usare principio et  in quale « insinuatio ». 3. Nel terzo luogo ne fa intendere   10. donde noi potemo trarre le ragioni per acquistare beni-  voglienza et intenzione e docilitade, e come noi dovemo  queste tre usare in quello exordio eh' è appellato principio  e come in quello eh' è appellato « insinuatio ». 4. Nel quarto  luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. Et perciò dice   15. che exordio è uno adornamento di parole le quali il par-  lieri e '1 dittatore propone davanti nel cominciamento del  suo dire in maniera di prolago, per lo quale si sforza di  dire e di fare sì che l'uditore sia benivolo verso lui, cioè  che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e procacciasi di dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al suo  detto; similemente si studia di dire e di fai'e sì che l’uditore sia docile, cioè che pi'enda et intenda la forza delle  parole. 6. Et perciò dico che immantenente che 11' uditore  è docile sicché voglia intendere e connoscere la natura   25. del fatto e la forza delle parole, sì è elli intento ; ma perchè  l' uditore sia intento a udire, puote bene essere che non sia  docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà il  conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1 par-  liere che non conosce dinanzi di che maniera e di cliente   30. ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire  alle tre cose che sono dette inn adietro, cioè che 11' uditore  sia benivolo, intento e docile, si dicei'à Tullio quante e  quali sono le generazioni delle cause, in questo modo:     1 : m Prima — MM' nm. è — 2-3 : m liiditore sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco  a quello ecc. — 4-5: m ci conviene — 7-8: m nm. et — e mostra — 9: M' nensegna,  L insegna dove — JO: M' potremo — ii: M' ,allenlione - 13: M nm. in — 15: m i  parlieri, M' il parladore —17: M' perla (piai cosa — 19: ni jiiaoci il suo p. — procliac-  cisi — 20 : M-m 7 fare sicché — m attento — 21 : M' 7 fare — 22 : il/' ciò che imprenda —  «1 le parole — ^.5: hi nm. e la l'orza delle i>arole - 26: m che non 0—27: M' ohi. tre —  28-29: M' vorrà suo luogo — chel dicitore — 7 di che ìnjj.     - Ili -   Qualitadi delle cause.   79. Le qualitadi delle cause sono cinque: onesto, mirabile  vile, dubitoso et oscuro.   Sponitore.   5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le qualitadi   delle cause, cioè di quante generazioni sono le dicerie.  Et s' alcuno m' aponesse che Tullio dice contra ciò che esso  medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e  le qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale,   10. et or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, du-  bitoso et oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono  qualitadi substanziali sie incarnate alhi causa che non si  possono variare. Onde quella causa eh' è deliberativa non  puote essere non deliberativa, e quella eh' è dimostrativa   15. non puote essere non dimostrativa ; altressì dico della iudi-  ciale. 2. Ma quella causa eh' è onesta puote bene essere non  onesta, e quella eh' è mirabile puote essere non mirabile,  e così dico della vile e della dubbiosa e della oscura.  Adunque sono queste qualitadi accidentali che possono   20. essere e non essere; ma le prime tre sono substanziali che  non si possono mutare.   Dell'onesta.   80. Onesta qualitade di causa è quella la quale incontanente,  sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.   25. Lo sponitore.   I. Quella causa è onesta sopr'alla quale dicendo parole,  immantenente, sanza fare prolago, l' animo dell' uditore si  muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice  sopra '1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa-     3: M' dubbioso — 7 : M' m cholgli medesimo — 8: M-m om. elio - M^ li generi —  10: M' dubbioso — 1 1: m io rispondo che le prime tre — 13 -.M' puole — 13-14: M-m ml-  lann dal lo al S° deliberativa — 15 : M-m essere dimostrativa — 17 : L bone essere bene non  mir. — 19: M-m om. queste — 23: M incontenenlo — 27: M-m mantenente     iole per acquistare la benivoglienza dell'uditore, perciò  che ll'onestade della causa l'à già acquistata per sua di-  gnitade, sì come nella causa di colui che accusa il furo o  che difende il padre o l'orfano o le vedove o le chiese. Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui  che de' audìre. Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale  10. convenente che dispiace all'uditore, perciò eh' è di sozza  e di crudele operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è  centra noi et è straniato dalla nostra parte; et in questo  abisogna d'acquistare benivolenzia sì che l'uditore intenda,  sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo padre  15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che  una medesima causa puote essere onesta e mirabile : onesta  dall'una parte, cioè di colui che difende il suo padre, mi-  rabile dall'altra parte, cioè di colui medesimo che è coutra  la sua madre propia. E di questo uno exemplo si puote  20. intendere tutti i somiglianti. Vile è quello del quale non cura l'uditore e non pare che  sia da mettere grande opera a intendere.   Lo sponitore.   25. 1. Quella causa è appellata vile la quale è di picciolo   convenente, sì che non pare che ne sia molto da curare e  l'uditore non sine travaglia molto ad intendere, sì come  la causa d' una gallina o d'altra cosa che sia di poco valere.  Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì che   30. ir uditore sia intento alle nostre parole.     1: M' om. la — id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato — i3: M' bisogna — 14: M-m  om. nella oanaa di colui c'avcsso morto — 15: M a facto, m a l'atto — 19: M\a sua iiropria  madre — 26: M-m om. ne — 27 : M' non si maraviglia — 28: hi di jioclio valoro, Jt/' de  piccolo valoro — 89: Mi nm. di l'are si    Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia o la  causa è In parte onesta et In parte è sozza e disonesta, sicché  Ingenera benlvolenzla e offenslone.  Quella causa è appellata dubitosa nella quale l'uditore non è certo a che la cosa debbia pervenire o a che  sentenzia alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes  che dicea ch'avea morta la sua madi e giustamente per due   10. ragioni : 1' una perciò ch'ella avea morto il suo padre, l'altra  perciò che '1 deo APOLLO glile comandò. Onde l'uditore non  è certo la quale di queste due cagioni cagia in sentenzia.  Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte  d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di diso-   15 nestade e perciò dispiace all' uditore, si come nella causa  de filio: O d'un furo che fue accusato d'un furto e '1 suo  figliuolo si sforzava (ii difenderlo in tutte guise. Certo la  causa era onesta quanto in difender lo padre, ma era diso-  nesta quanto in difendere lo furo.   20. Dell'oscuro.   84. Oscuro è quello nel quale l' uditore è tardo, o per aventura  la causa è Iv^plgllata di convenentl troppo malagevoli a conoscere.  Dice CICERONE che quella causa è appellata oscura nella   25. quale l'uditore è tardo, cioè che non intende ciò che portano   le parole del dicitore sì bene ne sì tosto come si conviene,   perciò che non è forse ben savio o forse eh' è fatigato per     2: M-m eia sentenzia — 3: M' in parte socca — 4: M-m o offensione — 7-8: M' o  in clie sententia torni ala fino 10: m il suo marito — li: M chel deo apellollil, m chello  lio appello il, M^-L che dio appello glile comando — 13: M' quella parte dove parte —  16: M do fili?, *i demi?, Mi-L dun figluolo dun ladro - do furto, el figUiolo ~ 17 : m s\  sforza — 19: M' lo furto — 24: ino oschura apellata — 23-26: 3f-»i portava — del dicta-  tore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~ 27:M' om. il 1" forse — M-m 7 forse - faligata   (1) L'abbreviatura insolita ài M e m porta a supporre una formula giuridica  latina, quantunque tale abbreviatura non sembri equivalere proprio a un de filio  (la lezione di M'-L è certamente secondaria). forse nella sigla si nasconde  qualche nome proprio? li detti d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per  aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni che  sono oscure e malagevoli ad intendere.   Della divisione dell' exordio.   5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono tanto diverse,   sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in  ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si divide in  due parti, ciò sono principio et « insinuatio ».   Lo sponitore.   10. I. Perciò - dice Tullio - che le generazioni e le quali-   tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in cinque  modi sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è  accordante all'altro, sì conviene che in ciascuna qualità  di cause et in catuno de' detti cinque modi abbia suo modo   15. di fare exordio, tale che ssi convegna alla qualitade so-  pr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. 2, Et  vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che  exordio è di due maniere : una eh' è appellata principio et  un'altra ch'jè appellata « insinuatio » ; e di ciascuna dirà elli   20. interamente. E così dovemo e potemo sapere che le cause  sopra le quali dice alcuno parlieri o sopra le quali scrive  alcuno dittatore sono cinque, cioè sono: onesto, mirabile,  vile, dubitoso et oscuro, sì come apare in adietro. Et sopra  tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più, cioè   25. principio et « insinuatio ». Principio è un detto il quale apertamente et in poche  parole fa l'uditore benivolo o docile o intento. Quella maniera de exordio è appellata principio   quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente alla     1 : M^ parladori — 3: M' mn. oscuro o — fi: m diversi, dispari — 7:m di cose — 8:M' cioè  principio 7 insiniiatione (sempre) — / i : m dolio cose — M' dele qualitadi sono tante divei-se --  Melo che sono— 13: M' coU'altro — i4-i5: M' si abbia s. m. in fare — A/' «hi.cìò — 18-19:  m una che apjinllala ins. 7 una che ajiiiollata pr., M' uno che sajiplla pr. 7 un altro che apellnlo  ins.,7 di ciascuno — 21 : vi .ilchimo parlinre dice — M-m 7 sopra — M' dice alcuno dictalon» —  22: M-m honesta - 23: M* jiare — 31 : M' il dicitore ol dictatore — M-m incontenonte     comincianza del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno  infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa  l'animo dell'uditore benvolente a llui et alla sua causa,  o talora il fa docile o intento, si come fece Pompeio par-  5. landò a' Romani sopra '1 convenente della guerra con Julio  Cesare, che fece tale exordio : « Perciò che noi avemo il  diritto dalla ifostra parte e combattemo per difendere la  nostra ragione e del nostro comune, si dovemo noi avere  sicura spei'anza che li dii saranno in nostro adiuto ». Dell' insinuatio. Insinuatio è un detto il quale, con infingimento parlando  dintorno, covertamente entra nell’animo dell'uditore. CICERONE dice che quella maniera de exordio è apellata  « insinuatio » quando il parlieri o '1 dittatore fa dinanzi  un lungo prolago di parole coverte, infingendo di volere  ciò che non vuole, o di non volere quello che dee volere,  e così va dintorno con molte parole per sorprendere l'animo  dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento; sì come  disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona  in gravosi tormenti: « Insin a oi"a v'ò io pregato che mi  traeste di tante pene ; oimai non dimando se non la morte,  ma grandissimi tesauri avrei dato a chi m' avesse scam-  pato ». Et in questo modo covertamente s'infingea di non   25. volere quello che volea, per venire in animo di loro che Ilo  scampassero per avere, da che mercè non valea. 2. Et cosie  à divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»; omai  dicerà quale di questi due modi de exordio dovemo usare  in ciascuno de' cinque modi delle cause, cioè nell'onesto,   30. nel vile, nel mirabile, nel dubitoso e nell' oscuro.     i: M' alancomincianza — m sanza alcliuno - 2-- M' om. et — 3: M' benivolente,  m benivolo — M^ o ala sua causa : m come fé — 5-6: M' a Romani parlando del  convenente, — cotale — 9: M diede saranno — IS: m intorno — 15: M-m i parlieri,  M' il parliere — M o dictatore — 17 : m quello che non vuole — iW' in (juello che vuole —  20-21 : L Sitio — m teneano... gravi tormenti — 2S: M' oggimai non domando io —  23: M' dati — wi dato chi — 26: m merco domandare — 27: M' a divisatoli maestro —  28 : M-m (|uali — M' noi dovemo — 29: M' de cause, M in ciascuno di delle causo, m in  ciascheduna delle chause   (1) Per tutte le citazioni di autori classici, che da questo punto alla fine son  molto frequenti, rimando al mio studio su La «Rettorica» italiana di Brunetto Latini  pp. 35-50; ivi son ricercate e discusse le fonti di questi esempii, e così riesce anche  piti facile rendersi conto della costituzione del testo.   Della mirabile.   88. Nella mirabile generazione di causa, se il'uditore non fosse  al tutto turbato contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per  principio. Ma s'ei troppo malamente fosse straniato ver noi, allora   5. ne conviene rifuggire a « insinuatio », in però che volere così isbri-  gatamente pace e benivoglienza dalle persone adirate non solamente  non si truova, ma cresce et infiamasi l'odio.   Lo sponitore.   1. Inn adietro è bene detto che quella causa è appel-  lo, lata mirabile la quale è di rea operazione, sicché pare che  dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio CICERONE che quando la  nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che  Il'uditore non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora  potemo noi acquistare la sua benivolenza per quel modo  15. de exordio eh' è appellato principio, cioè dicendo un breve  prologo in parole aperte e poche. 2. Ma se 11' uditore fosse  adiroso e curicciato contra noi malamente, certo in quel caso  ne conviene ritornare ad altro modo de exordio, cioè « insi-  nuatio », e fare un bel prologo di parole infinte e coverte,  20. sicché noi possiamo mitigare l' animo suo et acquistare la  sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'ai ver dire,  quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acqui-  stare da llui pace così subitamente per poche et aperte  parole dicendo il fatto tutto fuori, certo non la troverebbe,  25. ma crescerebbe l' ira et infiamerebbe l' odio ; e perciò dee  andare dintorno et entrarli sotto covertamente.   Della causa vile.   89. Nella causa la quale è di vile convenente, per cagione di  trarrela di vilanza e di dispetto, ne conviene fare l'uditore intento. S : M-m Della mirabile — ?» e solluditoro — 3 : M^ del tutto — 4 : 3/' se — m se troppo  fosse crucciato — 5: Mi fuggire — m ci conviene.... chosi di presente - 7: m crescesi —  9: M-m ubiamo detto — i2: M^ alcuna volta — 13: m crucciato — 14: M' potremo  (ma L lìotemo) — 15: M-m in breve — 17 : M' iroso 7 crucciato verso noi, m adirato contra  noi molto, — 18: m tornarne — M alaltro modo —19: M-m nni. fare — converte — M iulì-  nito — 20: M' otii. la — SS: M^ cruccioso, m crucciato — S3: in per i)Oclie )iaroIo  7 aperte — S6: M-m darò dintorno — M entrali, M' intrarli, wi rilrarlo sottilmente sotto  coverta — S8 : M e diviene convenente m udiviene e. — S9 : M' trarla de viltanca 7 de  dispregio  Quando la nostra causa ella è vile, cioè di piccolo  convenente sicché l' uditore poco cura d' intendere, allora  ne conviene usare principio et in esso fare che 11' uditore  5. sia intento alle nostre parole; e questo potenio ben fare  traendola di viltanza e facciendola grande et innalzandola,  sì come fece Virgilio volendo trattare de l'api: «Io dicerò  cose molto meravigliose e grandi delle picciole api ».   Della dubbiosa qualità. Nella dubbiosa qualità di causa, se Ila sentenza è dubbia   si conviene incominciare l'exordio dalla sentenzia medesima. Ma se  Ila causa è in parte onesta e in parte disonesta si conviene acqui-  stare benivolenzia, sicché paia che tutta la causa ritorni in onesta  qualitade. La causa dubitosa, si come fue detto in adietro, èe  in due maniere: 1' una che Ila sentenzia è dubbia, sì come  apare nelF exemplo d' Orestes, che per due ragioni e cagioni  dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel caso   20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella ragione  dalla quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler pro-  vare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma  se '1 convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto  et in parte disonesto, in quello caso dee il buono parlieri   neir exordio acquistare la benivolenzia dell' uditore per  principio, sicché tutta la causa paia che sia onesta. 2: M' m om. ella — m cioè di vile convenente 7 di picciolo — ,9: 3f' -Ldelontendere —  4-5 : M 7 mezzo, m e mezzo a fare... atento — 6: m vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. —  7 : m tràre — 8: M' om. molto — iO: M' Dela dubitosa — li: m cominciare — i2 : M-in om.  è in parte onesta — M' parte lionesla 7 parlo dis. — i7 : M-m cliella causa — hi dub-  biosa — i8: M> om. apare — cagioni 7 ragioni — m om. 7 cagioni — 19-20 : m in questo  dovea elli com. — 21 : M' la (juale — 22: M-m 7 per qua! (?;i om. 7) — M' sigli crede  davere — 23: m om. sia — M'-L honesta.... disonesta — 25: M' acquistare nelexordio  benivolenca daluditore — M libenivolentia — 26 : M-m om. che sia   (1) Cioè « fondandof3i sulla quale egli si propone di dimostrare la sua causa. L'oscurità della frase ha determinato la falsa correzione in ilf'.   La causa onesta. Quando la causa fie onesta, o potemo intralasciare lo prin-  cipio, 0, se ne pare convenevole, comincieremo alla narrazione o  dalla legge, o d' alcuna fermissima ragione della nostra diceria.  5. A\a se ne piace usare principio, dovemo usare le parti di benivo-  glienza per accrescere quella che è. Quando il conveniente sopra '1 quale ne conviene dire  è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò quando noi venimo a dire noi potemo bene  intralasciare lo principio e non fare neuno exordio né  prolago di parole, e cominciare la nostra diceria alla nar-  razione, cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare  da quella legge che tocca alla nostra materia o da quella  ragione che sia più fermo argomento e più certo. Ma se  nne piace usare ijrincipio e fare alcuno prologo, certo noi  lo potemo bene, non per acquistare benivolenza ma per  crescere quella che v' è. Et perciò in detto caso il nostro   20. principio dee essere in parole apropiate a benivolenza.   Della causa ohscura.   (e. XVI) Nella causa la quale è oscura conviene che nel  nostro principio noi facciamo che ir uditore sia docile.   Lo sponitore.   25. 1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia   oscura. Et perciò dice Tullio che nella causa la quale sia     2 : M' m tia — 3 : i« / Se ci paro — -i : M-m o alla legge, J/' o data leggo — M o alcuna,  )/i adalcluina, Mi o dalcuna — 5: Miw paro, m non paro — 6 : il/i om. che h - 9: M-m  nm. certo - facto pro])io — iO: M-m sanja molto ailorn. — i i : Mi j perciò — M noi  doviamo a dire, m noi doviamo diro — i2: m alchuno oxordio — 13-15: M-m no comin-  ciare ~ M' 1 cominciare do quella legge - M-m o a ([uolla ragione — 16: M' la (jualo  sia — 18: M' ben faro — 19: M-m il docto, M' in (juesto caso — 25: M' mostrato (|ualo  causa e 7 (juando sia (ma L ([uando sia) — 26: M' la quale e   (Cioè «quando cominciamo a parlare». L'accordo di Jlf e JVf ' ronde sicuro  a dire, e con questo si escludo la lezione, buona in apparenza, di m {doviamo dire)  come evidente accomodamento di M.   oscura all' uditore a intendere noi dovemo usare quella  parte de exoi'dio la quale è appellata principio, et in  quello dovemo noi si dire che 11' uditore sia docile, cioè  ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in que-  5. sto modo: che noi diremo in poche parole sommatamente  la sustanzia del fatto dell' una parte e dell' altra. Et poi  che noi vedremo che U' uditore sia apparecchiato in via  d' intendere (1) il fatto, noi andremo innanzi a dire la nostra  ragione sì come si conviene al fatto.   10. Le ragioni delle cose.   93. Et perciò che infìn ad ora noi avemo detto che ssi con-  viene fare nell' exordio, oimai rimane a dimostrare per quali ra-  gioni ciascuna cosa si possa fare.   Sponito7-e.   Infino a questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò che   ssi conviene dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli àe  detto in quale exordio ed in qual causa ne conviene usare  parole per acquistare benivolenza, sì vuole elli da qui in-  nanzi mostrare le ragioni come si puote ciò fare ; e questo   20. insegnamento fa bene di sapere.   De' quattro luoghi della temperanza.   94. Benivolenza s' acquista di quatro luogora : dalla nostra  persona, da quella de' nostri adversarii, da quella dell! giudici e  dalla causa. Lo sponitore. In questa parte insegna CICERONE acquistare benivo-  lenza, e perciò ch'ella non si puote avere se non per quello  che ss' apartiene alle persone et al fatto, sì dice che quattro  luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogp     i: if-»» om. all'uditore a intendere — 2.M^As lexordio — 4: Af' chela intenda et senta -  5: m dopo diremo r(pe(e in ([uesto modo — 6:m la natura — om. Et — 7-8: 3f' apparecchiato  intendere, m-L appareccliiato a intendere — 12: m a mostrare — 15: M-m In  ipiosto luogo — om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale causa, i e in quale  causa — M-m luoghi, della nostra p. — 27-28: M' da quello... alla persona   (1) L' espressione certamente è ridondante {in via sembra quasi una variante  di apparecchiato), e perciò quasi tutti i testi l' hanno ridotta alla forma pili sem-  plice e comune. Il segno 7 di M' deriva da una errata lettura di a, che anche  in quel codice ha una forma simile alla nota tironiana.    si è la nostra persona e di coloro per cui noi dicemo. Il  secondo luogo si è la persona de' nostri adversarii e di  coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la persona  de' giudici, cioè la persona (l) di coloro davanti da cui noi  5. dicemo. Il quarto luogo si è la causa e '1 fatto e '1 conve-  nente sopra '1 quale noi dicemo. E di ciascuno di questi  dicerà il conto ordinatamente e sofficientemente.   Tallio sopra lo lìvolago.  Dalla nostra persona se noi dicemo sanza superbia de'  10. nostri fatti e de' nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che  nne sono apposte e le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i  mali che nne sono advenuti et li 'ncrescimenti che nne sono pre-  senti; e se noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino.   Sponitore.    1. Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è   dicere della persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo,  quelle pertenenze perle quali l' uditore sia benivolo verso  noi. Et sappie che certe cose s' apartengono alle persone  e certe alla causa; e di queste pertinenze tratterà il conto   20. sofficientemente, e fie molto bella et utile materia ad impren-  dere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare benivo-  lenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi di-  cemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' no-  stri fatti e de' nostri officii. Et intendi (2) che dice « fatti »   25 quelli che noi facemo non per distretta di leggo o per  forza, ma per movimento di natura. Et così dicendo Dido     1 : m Olii, si — 2: M-m om. luogo — m ohi. si — 5 : m om. si — J : M-in om. la jiersoiia — Afiia  coloro — m davanti a chui, il/' davanti cui — 5: M^ il facto — m om. ól convonento — 6-7 :  M' om. di questi — dioera lautore — m om. e soBìcientemento — 9-10: M-m Alla nostra p. —  di nostri faoti — Ai' lo nostre colpo — 12: il/' che sono presenti —  M' i scongiura-  mento — 16: M^ dola nostra persona 7 di coloro — 17: m aparlenentle — 20: m om.  suflicientementc — M-mom. materia — 22: m om. moiio — 2-i:M-m intende, L intendo —  25: m diciamo per distretta — 26: M-m dicendo didio   (1) Le parole la persona sono superflue, e perciò a prima vista si preferirebbe  la lozione di M-m; ma è molto più probabile l'omissione di parole inutili che la  loro aggiunta in Af'.   (2) Scrivo cosi per analogia col § 4; ma anche la lezione di Mm, intende,  potrebbe conservarsi come una forma di 2" persona dell' imperativo (per la desi-  nenza e non mancano esempii). d' Eneas acquistò la benivolenza degli uditori: « Io » dice  ella, « accolsi e ricevetti in sicura magione colui eh' era  cacciato iu periglio di mare, et quasi anzi eh' io udisse  il nome suo li diedi il mio reame ». Et cosi dice che ella  5. si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugia dalla  distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè  e pietade delle strane genti per natura, non per distretta.  Ma offici sono quelle cose le quali noi facemo per distretta,  non per movimento di natura. Onde dice Tullio che dell'uno   10. e dell'altro dovemo dire temperatamente sanza superbia.  4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo da dosso a noi  et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci sono  messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati  que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al  viso, sì come fue apposto a Boezio eh' elli avea composte  lettere del tradimento dello 'mperadore. Il quale pec-  cato removeo elli per una pertenenza di sua persona, cioè  per sapienza, dicendo cosi. Delle lettere composte falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe mani-   20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione  dell' accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe  eh' altre pensa in centra ad un altro, ma nolle pone davante  al viso, sì come molti pensavano che Boezio adorasse i do-  moni per desiderio d'avere le dignitadi; e questa sospeccione   25. si levò elli parlando alla Filosofìa, che disse: « Mentirò che  pensaro ch'io sozzasse la mia coscienza per sacrilegio (o per  parlamento de' mali spiriti). Ma tu, filosofìa, commessa in me  cacciavi del mio animo ogne desiderio delle mortali cose ».•  Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea sapien-   30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido fallimento ».  Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione che  '1 suo marito avea dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me  della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura pro-  dezza non dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il terzo     1 : M' deluditore — 2: S m sicuro porto — 4: M' il suo nomo — Mìi dica — m il roame  mio — 5: A/' dela — 7: m M' 7 non — 0: m L ^ non por m. — 13-14: m ci sono aposto  (om. sopra) — M' appellate.... apjioste — 16: M \e lectoro — 17: M' elgli rimovca — ciò  fu — 18: M' falsamente composte — 20-21 : M-m jiartita ....stati.... dellaccusato —  22: m centra un altro — ^f' appone — 25: m parlando olii — 25-27: M-m Mentita chi  solcasse — om. per sacrilegio.... spiriti — 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è solo in L;  M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via — 29: M-m paro —  31 : m schusare 7 levare — 33: m della biltade mia   modo è se noi contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncre-  scimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'ave-  nuto era, acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: « Per  guidardone della verace vertude sofferò pene di falso incol-  5. pamento ». Et Dido, dicendo i suoi mali dopo il dipartimento  d'Eneas, acquistò la benivolenza per la sua misa ventura, e  disse : « Io sono cacciata et abandono il mio paese e Ila casa  del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi cammini in caccia  de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di   10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare  i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Ce-  sare, guardate le catene e pensate che questa testa è presta  a' ferri e' membri a spezzamento». Altro modo è se  noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino,   15. cioè devotamente e con reverenza chiamare merzede con  grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata  sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio, vegiendosi  alla pugna della mortai guerra di Cesare, confortando i  suoi di battaglia disse: «Io vi priego de' miei ultimi fatti   20. e delli anni della mia fine, perchè non mi convenga essere  servo in vecchiezza, il quale sono usato di segnoreggiare  in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata sono  aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì  come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad   25. Eneas: «Io » disse ella « non dico queste parole perch'io  ti creda potere muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon     4 : M-m fossero peno — 5 : M-m Et dicio dicondo — 6-7: m dicendo — M-m chaccialo —  8: M el mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio — 12-13 : itf' epresso  — li membri — M 7 membri, m 7 i membri — La sprezzamento — 14: M-m 7 scongiura-  mento — Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino - 13: m om. cioè — chiamando —  19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli amici lino, m delli anni /siche — 21: M servo  in vilezza la (piale, m servo 7 in vilczza il quale — 22-23: M-m om. sono aperte, m anlhe  il 2° talfiata — 24: M di diedi — 26: M' o perduto, m chio perduto   (l) Il testo di Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo esempio,  ha ultima fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi fatti. Non  credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un latinismo come  fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta) manca di ogni probabilità  in quel tempo; sarà dunque da risalire a un'alterazione facilissima del latino,  ultima facta, che certo riusciva più intelligibile della frase poetica originale.  Quanto al servo in vecchiezza (che corrisponde a ne discam servire senex), se po-  tesse supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si spiegherebbe meglio come sia nato  l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola servo risvegliò l'idea di «condizione  vile, meschina».   pregio e la castitade del corpo e dell' animo, non è gran  cosa a perdere le parole e le cose vili ». 8. Ma scongiura-  mento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o  per anima o per avere o per parenti o per altro modo di  5. scongiurare, sì come DIDONE fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le lance e per le saette  de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco fuggirò,  per li dei o per l'altezza di Troia, etc.  Or à detto il  conto del primo luogo donde muove la BENEVOLENZA, cioè  10. della nostra persona e di coloro che sono a noi ; ornai  dirà il secondo luogo, cioè della persona delli adversarii  e di coloro contra cui noi dicemo. Dalla persona delli aversarìi se no! li mettemo inn odio  15. invidia o in dispetto.   Lo sponitore.   1. Acquistai'e benivolenza dalla persona de' nostri ad-  versarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per  le quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario  20. malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo  modo è dicere le pertenenze delle loro persone per le  quali siano inn odio dell'uditori; il secondo che siano in  loro invidia; il terzo che siano in loro dispetto; e di cia-  scuno di questi tre modi dirà il testo bene et interamente.   25. Tullio.   97. Inn odio saranno messi dicendo com' ellino anno fatta  alcuna cosa isnaturatamente o superbiamente o crudelmente o ma-  liziosamente.  M om. a — 711 lo chose vili 7 le i»arole — 4: M' o per parenti por avere — m oin.  rli scongiurare — 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s. de tuoi f., per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi parianti 7 per li compagni - 8-0 : M' om. etc. —  Et ora a detto il maestro — om. la — Ì0:m dalla nostra parte — YS: 3i' odindispregio —  19: M-m om. a noi M' deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia — m loro in  invidia.... loro in dispetto — 26-27: M' comelgli anno alcuna cosa facta — vi 0»». isnatur.  e o maliziosamente     Noi potemo i nostri adversarii mettere ina odio del-  l' uditore se noi dicemo eh' elli anno alcuna cosa fatta isna-  turalmeute, contra l'ordine di natura, si come mangiare  5. .calane umana et altre simili cose delle quali lo sponitore  si tace presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto  superbiamente, cioè non temendo né curando de' signori né  de' maggiori, avendoli per neente. O se noi dicemo ch'elli  abbiano fatto crudelmente, cioè non avendo pietà né mise-   10. ricordia de' suoi minori né di persone povere, inferme o mi-  sere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente,  cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso.  2. Et di tutto questo avemo exemplo nelle parole che BOEZIO  dice contra NERONE imperadore. Ben sapemo quante ruine fece ARDENDO ROMA, tagliando i parenti et uccidendo il  fratello e sparando la madre. Altressì fue malizioso fatto  il qual racconta Euripide di Medea, che sta scapigliata  tra' monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à detto  lo sponitore sopra '1 testo di Tullio come noi potemo met-   20. tere il nostro adversario in odio et in malavoglienza del-  l' uditore. Da quinci innanzi dicerà come noi li potemo  mettere in loro invidia.   Tullio.  In invidia dicendo la loro forza, la potenza, le ricchezze,  2.5. il parentado e le pecunie, e la loro fiera maniera da non sofferire,  e come più si confidano in queste cose che nella loro causa.   Sponitore.   1. Noi potemo conducere i nostri adversarii in invidia  et in disdegno dell' uditore se noi contiamo la foi'za del     3-4: M' chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla stessa maria) — isnaluratamente contra online M' tace ora presentemente — m al ])rosonte — M-m 7 se noi dicemo che labian — 7-8: M  tenendo M^ 7 non venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do maggiori — M-m 3/' che-  labbiano — 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero — M-m Et se dicemo  cliollabbiano — 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata contra b. u., m om. cosa — o  disleale 7 contro a b. u. — 13: M' exemplo avemo — lo : M' uccidendo i parenti, talgllaiido  il fratello — M-m i fratelli — 17 : S Euripide — M-m di medici — IS: M corresse moni-  menti in moUimenti — 20: m om. in odio et - Af' in malavoglienca — 21-22: M Da ipii -  3f' diceremo.... li potremo mettere loro in invidia — 24 : M-m om. In —26: M' si lidano —  28-29: Af' i nostri avorsari conducere ....degliuditori   Cfr. Magoini, La ReUorica italiana di B. L., pp. Bl-52.   corpo e dell' animo loro ad arme e senza arme, et la po-  tenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè  servi, ancille e posessioni, e '1 parentado, cioè schiatta,  lignaggio e parenti e seguito di genti, e le pecunie, cioè  5. denari, auro et argento, in cotal modo che noi diremo  come ' nostri adversarii usano queste cose malamente et  increscevolemente con male e con superbia, tanto che sof-  ferire non si puote. 2. Cosi disse Salustio a' Romani : « Ben  dico che Catenina è estratto d'alto lignaggio et à grande   IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in tra-  dimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Ca-  tenina centra ' Romani : « Appo loro sono li onori e le  potenzie, ma a nnoi anno lasciati i pericoli e le povertadi >.  3. Et ora è detto della invidia contra i nostri adversarii;  sì dicerà il conto come noi li potemo mettere in dispetto.   Tullio.  In dispetto degli uditori saranno messi dicendo che siano  sanza arte, neghettosì, lenti, e clie studiano in cose disusate e sono  oziosi in iuxuria.   20. Sponitore.   I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto  degli uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se noi  diremo che sono uomini nescii sanza arte e sanza senno,  da neuno uopo e da neuna cosa; o che sono neghettosì,   25. che tuttora si stanno e dormono e non sì muovono se non  come per sonno; o diremo che sono lenti e tardi a tutte  cose; o diremo che studiano in cose che non sono da neuno  uso né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in Iu-  xuria dando forza et opera in troppo mangiare, in nebriare,   30. in meretrici, in giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il     2-5: Af' om. e le signorie, poi continua: E le pecunie, ciò sono i danari e seni 7 an-  celle 7 possessioni. ¥A parentado... di genti, in cotal modo ecc. — 6: M' come i nostri aversarii —  11 : M^ in tradimento 7 distructione de terra 7 <le gente, m in tradimenti distructioni —  12: M-in a Romani — 13 : m lasciato — 14: M iì detta — L'i : M' o»i noi — in dispregio  (l. 17 idem) 17: M' om. degli uditori — 18: M disulate — 19: M octosi, m ottosi —  22: M' om. degli uditori — 23: 3f' siano, m sieno — M' sanza sonno? sanza arte di neuno  huopo - 24: m om. da neuno uopo e — 25 : m si stanno, dormono - 26: M' per sonno/  7 diceremo, L per sogno — 27-28 : m alclumo uso — M ' 7 dicoremo — 29-30: M' de troppo  mangiare .T ebriare. in puttane — m 7 in bere — M in cliaverne M' a decto luditore come —  )?t om. Et     - 126 —   conto come noi potemo acqnistare la benivolienza dell'udi-  tore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn odio  et in invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote  ciò fare. Ornai tornerà alla materia per dire come s' acqui-  5. sta benivolenzia dalla persona dell' uditore, e questo è il  terzo luogo.   La benivolenza dell'uditore.   lOO. Dalla persona dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo  che tutte cose sono usati di fare fortemente e saviamente e man-  10. suetamente, e dicendo quanto sia di coloro onesta credenza e quanto  sia attesa la sentenza e l'autoritade loro.   Lo sponitore, (i) '   1. Noi potemo acquistare la benivolenza delli uditori  dicendo le buone pertenenze delle loro persone e lodando   15. le loro opere per fortezza e per franchezza e per prodezza,  per senno e per mansuetudine, cioè per misurata umilitade,  é dicendo come la gente crede di loro tutto bene et one-  stade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra que-  sto fatto, credendo fermamente che fie si giusta e di tanta   20. autoritade che in perpetuo si debbia così oservare nei si-  mili convenenti. Di forte fatto Tulio lodò Cesare dicendo:  « Tu ài domate le genti barbare e vinte molte terre e sot-  toposti ricchi paesi per tua fortezza». 3. Di senno il lodò  e' medesimo parlando di Marco Marcello: «Tu nell'ira,   25. la quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consel-  lio ». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: « Tu nella  vittoria, la quale naturalmente adduce superbia, ritenesti  mansuetudine ». 5. D' onesta credenza il lodò Tallio in     2-3: M' in odio deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia — M-m om. si —  8: Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi — M-m 7 suavomento  {m nm. 7) 10 : i mss., ambedue le volte, quando — M' di loro — li: M-m intesa — 13: M-m  om. delli uditori — M^ deluditore — 14: M' dicendo che buone  M-m om. e per fran-  chezza — M' 7 per senno — 17: m M' om. e — 19: Jtf' credendo che la loro sententia  sia si giusta — m che sia — SO: M-m ne in simili, M'-L ne simili — 23-84: m e lodo,  M' il lodano 7 medesimo parlano — m marche metcllo M-m om. molto — Af tu  ritenesti a consellio, m tu ritenesti consiglio — 26: M ilio Tullio tu ecc., m di mansueto  fatto /7 nella vittoria — 27 : M adato, m adato, L odduce — 28: m om. credenza il lodò  Tullio   (1) In tutti 1 codici l'interpunzione di questo passo è variamente errata, né  metterebbe conto darne notizia.    questo modo: Cesare volle alcuna fiata male a Tullio, ma  tutta volta lo ritenne in sua corte; e non pertanto Tullio CICERONE era sì turbato in sé medesimo che non potea intendere a  rettorica si come solea, insin a tanto che GIULIO CESARE non li  5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio. Tu ài renduto  a me et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era,  ma in tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene  sperare »; e questo dicea perchè l'avea ritenuto in corte,  sicché tuttora avea buona credenza. 6. D' attendere la sua   10. buona sentenza lodò Tullio Cesare parlando di Marco Mar-  cello: «La sentenza eh' é ora attesa da te sopra questo con-  venente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire (D  a tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete  di lui atterranno tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come   15. s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà  Tullio coni' ella s'acquista dalle cose.   La benivolenza delle cose.  Da esse cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa,  per dispetto abasseretno quella delii adversarii.   20. Sponitore.   1. Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse  cose, cioè da quelle sopra le quali sono le dicerie, dicendo  le pertenenze di quelle cose in loda della nostra parte et  in dispetto et in abassamento dell' altra; sì come disse  25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare :  « La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò  eh' ella è migliore che quella de' nemici, ne dà ferma spe-     4 : M' om. non — 6: M-m la causa dm t. — i a me la mia primiera vila e liisanza —  7: tutti, eccetto L, m'avea — M-m la sua insegna — 8 : M' 7 in questo (?«re i et ((uesto) —  9: M' buona speranna — 10: M-m lodo Cesare di Tullio - IS: M-m ma ad {m a) con-  venire, M-L ma dee convenire - 14: Mt per lui — i5: 3f' dele persone — i8:M-mom.  so — L sar|uista bonivoglienza se noi ecc. (ma nel latino manca) —19: M' m 7 per disp. —  21 : M' deluditofo, m delli uditori — 24 : m nm. in dispetto — M-m om. idi — 25: M confer-  mando la sua gente — 26: m M'-L e piena — Lo pero chella — 27 : m forma  speranza   (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura del codice può considerarsi fusa (come  avviene nella pronunzia) con quella precedente di ma con quella seguente di ad.  Bel resto basterebbe anche « convenire, quasi come un futuro (« converrà »)  scomposto nei suoi elementi.     - 128 —   ranza d'avere Dio in nostro adiuto(i)». 2, Et ornai à divisato  il conto le quattro luogora delle quali si coglie et acquista  la benivoglienza, molto apertamente et a compimento; sì  ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore intento. Di fare V uditore intento.   102. Intenti li faremo dimostrando che in ciò che noi diremo  siano cose grandi o nuove o non credevoli, o che quelle cose toc-  cano a tutti a coloro che 11' odono o ad alquanti uomini illustri,  ai dei immortali, a grandissimo stato del comune, o se noi prof-  10. terremo di contare brevemente la nostra causa, o se noi propor-  remo la giudicazione, o le giudicazioni se sono piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento d'acquistare la benivolenza di quelle persone davante cui noi   15. proponemo le nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi  et invìi in piacere di noi e della nostra causa e che siano  contrarii e malevoglienti a'nostri adversarìi, sì vuole Tullio  medesimo in questa parte del suo testo insegnare come noi  I)otemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel cominciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi odono,  sì che vogliano achetare i loro animi e stare a udire la  nostra diceria; e di questo potemo noi fare in molti modi  de' quali sono specificati nel testo dinanti, et in altri simili  casi. 2. Et posso ben dire manifestamente che ciascuna per-   25. sona sarà intenta e starà ad intendere se io nel mio comin-  1: m nm. Et — 3 : 3f' nm. la — hi odi. molto — 4: m alento — 8-9: A/' o aliquanlì....  o ali iilii imm. o a — M |)iQrRremo, vi protreremo {lat. pollicebimur) — iO: M-m owi. bre-  vemente — VI proiroromo la giuil. — i3 •M-m Quamlo Tullio a dato — 14: — J/tlavento —  — 7/1 (lavante a cimi — 13-16: 3/' loro siiivii 7 dlrirvi — 17: vi malagevoli — 19: M'  nel nostro exorilio — vi nm. nel coniiiiciamento — 21 : 3f' si che noi vogliamo — 32-23:  3f ' Et questo.... i (jua'.i.... davanti — vi om. el — 25: M-m sono noi mio com.   (1) Cfr. Lucano, Phars., VII, 349: " Causa iubet melior superos sperare secun-  dos „. Solo la lezione di M corrisponde anche per la forma sintattica.   (2) Si rimano alquanto in dubbio sulla lezione da preferire, perchè tra un Avendo  e un Quando la differenza grafica ò lieve, data la somiglianza di una forma di A  con Q. Ma il gerundio Avendo, con una costruzione meno comune, più difficilmente  può esser dovuto a un copista; d'altra parte il quando in senso di " dopo che „  non è dell'uso di Brunetto, clie adopra continuamente la formula " Poi che Tullio  ha detto „ "ha insegnato ,, (S'intende clie l'inserzione di a davanti a dato  diveniva necessaria leggendo Quando).  -ciamento dico eli' io voglia trattare di cose grandi e d'alta  materia, sì come fece il buono autore recitando la storia  d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento : « Io diviserò  e conterò così alto convenente come di colui che conquistò   ó. il mondo tutto e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie  inteso s' io dico eh' io voglia trattare di cose nuove e con-  tare novelle e dire eh' è avenuto o puote advenire per le  novitadi che fatte sono, sì come disse Catellina : « Poi che  Ila forza del comune è divenuta alle mani della minuta   10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi (i)  potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile  populo sanza onore e sanza grazia e sanza autoritade ».  4. Altressì fie intento s' io dico eh' io voglia trattare di  cose non credevoli, sì come '1 santo che disse : « Il mio   15. dire sarà della benedetta donna la quale ingenerò e par-  turio figliuolo essendo tuttavolta intera vergine davanti  e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare es-  sere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era  cosa da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che   20. venisse 'n essa terra (2) a rapire Elena ». 5. Altressì fie intento  s'io dico che '1 convenente sopra '1 quale dee essere il mio  parlamento a tutti tocca od a coloro che 11' odono, sì come  disse Gate parlando della congiurazione di Catellina: « Con-  giurato anno i nobilissimi cittadini incendere e distruggere     1 : M traclai-e cose, m cliio voglia di trattare chosa grande — 2 : M actoro, m attor.j —  4-5: M' recontcro.... conquise.... 7 mise — 5-6: M' fia inlento sic dica.... 7 contrario no-  velle - 7: M' 7 puote — 9: M storca — m e venuta.... gente minuta — 10: m M'-L non  potenti — iy : J>f' noi a cui — 13: M Altre si — 14-15: M'-L sicome disse il santo  che disse - i II mio dotto — 16: M' partorie il figluplo — M^ -j di. poi — M-m om.  la quale.... natura — 19: M-m oni. folle — m om. che venisse — SO: M nessa terra, m in  essa terra, M'-L nela nostra terra — M arape — 22: M' tocclia a tutti coloro -- 24: M'  anno nob. citt. dincendore   (1) Nonostante l'accordo di tutti gli altri codici, mi attengo a M, la cui lezione  è confermata dal testo di Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque igno-  biles „ ecc. Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo la  dignità delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in qualcuno dei  primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla negazione: non potenti.  Favoriva l'errore anche il tono insolito della frase " noi nobili, noi potenti ,.,  mentre le parole " in podere del populo grasso „ inducevano a considerare " non  potenti „ i nobili.   (•2) Intendo in essa terra (come scrive m), cioè " nella patria stessa „ , in ipsa  terra. Leggendo con 21f » nella nostra terra si avrebbe lo stesso senso in forma più  chiara; ma non saprei allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso  il nostra, un nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece  nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi simile a l.— iso-  la patria nostra, e '1 lor capitano ne sta sopra capo. Adun-  que dovete compensare clie voi dovete sentenziare de' cru-  delissimi cittadini che sono presi dentro nella cittade » Altressì fie intento s' io dico clie Ila mia diceria tocca  5. ad alquanti uomini illustri, cioè uomini di grande pregio   e d'alta nominanza in traile genti sì come disse Pompeio  parlando della battaglia civile: « Sappiate che l'arme de' ne-  mici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato ». Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano a'dei,  10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo   di fare cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di  sopra potrebbero ornai trarre il populo delle sue mani » (2). Altressì fie intento s' io dico nel principio di dire la mia  causa brevemente et in poche parole, sì come disse il poeta   15. per contare la storia di Troia: «Io dirò la somma, come  Elena fue rapita per solo inganno e come Troia per solo  inganno fue presa et abattuta ». 9. Altressì fie intento s'io  nel mio exordio propongo la giudicazione una o più, cioè  quella sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò   20. la mia provanza, sì come fece Orestes dicendo: « Io pro-  verò che giustamente uccisi la mia madre, imperciò che  dio Apollo il mi à comandato, perciò che uccise il mio  padre». IO. Et di tutti modi per fare l'uditore intento  potemo noi coUiere exempli in queste parole che disse Tullio a Cesare parlando per Marco Marcello: « Tanta     1 : M-m 7 lor — M' ne sopra capo — 2-3 : m dovete pensare, Mi pensale — M-m esmarn  {m esimare) de nobilissimi citi. — M' ohe sono dentro ala cittade (anche m dentro alla) M fue, m (la — 5-6: M' cioè de gr. — M-m 7 da tale nominanca — 7 : M-m che  latine —M-m sano, M' senato M' fia intonto O-ll: M-m poi chelll anno  conceputo di faie tanti iniipii mali gridava (m om. gridava) M apena ornai —3f' nel cominciamento — 14: Jf' o in jioclie parole M' om. Io dirò.... e  come Troia, M om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio exordio Mi sopra che infomliiro il mio dire e fondata — m sopralla quale —M-m che io  ajmllo il mio comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com. (/.. lo mavea), 7 perciò cliella m atento M' exemiilo M-m om. a — M' parlando a lui   Questo periodo è d'incerta lezione, male varianti registrate in nota sono  palesi accomodamenti, specialmente il pensate di Jtf ' per evitare la ripetizione  di dovete; co.si esmare esimare può esser nato da una sigla di sentenziare (0 si  tratterà di fmare, fermare?). Glie sia poi da leggere crudelissimi cittadini ò con-  fermato, oltre che dal senso, dalla parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto  di Sallustio ; nobilissimi ò derivato dalla frase del periodo precedente. La lezione di M., che è tutta accettabile, dà ragione degli errori di Mm:  il primo elli parve plurale, e quindi si fece elli anno; il ma unito con Mi divenne  mali e portò con sé altri cambiamenti. Ma non giurerei che tutto sia genuino"  mansuetudine e cosi inaudita e non usata pietade e cosi  incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo mi  posso io(l) tacere nò sofferire ch'io non dica». Et poi che  Tullio à pienamente insegnato come per le nostre parole  5. noi potemo fare intento l'uditore, si dirà come noi il po-  terne fare docile.   Come l'uditore sia docile.  Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente   e brevemente la somma della causa, cioè in che sia la contraversia. E certo quando tu il vuoti fare docile conviene che tu insieme lo   facci attento, in però che quelli è di grande guisa docile il quale  è intentissimamente apparecchiato d'udire. Quelle persone davanti cui io debbo parlare posso io fare docili, cioè intenditori, da tal fatto: se io nel mio exordio, alla 'ncviminciata della mia aringhiera, tocco un poco  d^l fatto sopra '1 quale io dicerò, cioè brevemente et aper-  tamente dicendo la somma della causa, cioè quel punto nel  quale è la forza della contenzione e della controversia. Cosi  fece Saiustio docile Tulio dicendo: « Con ciò sia cosa ch'io  in te non truovi modo né misura, brevemente risponderò, che  se tu ài presa alcuna volontade in mal dire, che tu la perda  in mal udire ». 2. Questo et altri molti exempli potrei io  mettere per fare l'uditore docile, si come buono intenditore puote vedere e sapere in ciò eh' è detto davanti. Et  perciò che '1 conto à trattato inn adietro di due maniere  exordii, cioè di principio e d'insinuazione, et àe divisato  M consuetudine, m sollicituiline, L inmansuetudine —L nm. lo e cosi. M man-  dila. M-m mi possono, M-L io posso — m om. Et. M' luditore intento, M nm.  l'uditore. 8: M' Docile l'aremo luditore  M-m proi)onemo — iO: Af' Et credo quando  tu vuoli. m nm. è attentissimamente. m davanti a chui  docile  cioè intenditori de tutto il facto  M-m sarò nel mio ex. M' incomincianza. M arrincliiera, M' aringheria — m cominciamo 7 toccho Af' om. dicendo nel  quale e la contentione. M' om. cosa (ma non L). m o misura. M' ti li-  spondo M' om. Io. m om. e sapere. M' doxordio  [È chiaro che posso io fu dall'archetipo di M-m trasformato in possono  perchè tutti i sostantivi che precedono parvero soggetti e non complementi og-  getti ; e vi dovè contribuire una falsa lettura (cfr. un caso simile in 128, 23, seno  per se io). La lezione di M'-L è solo un facile accomodamento.  ciò che ssi conviene fare e dire nel principio per fare  l'uditore benivolo, docile et intento, sì dirà lo 'nsegnamento  della INSINUAZIONE in questo modo. Oramai pare che sia a dire come si conviene   trattare le insinuazioni. INSINUAZIONE è da usare quando la qualitade  della causa è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando  l'animo dell'uditore è contrario a noi. E questo adiviene massimamente per tre cagioni: o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro  10. e' anno detto davanti pare ch'abbiano alcuna cosa fatta credere al-  l'uditore, se in quel tempo si dà luogo alle parole, perciò che  quelli cui conviene udire sono già udendo fatigati; acciò che di  questa una cosa, non meno che per le due primiere, sovente s'of-  fende l'animo dell'uditore. In adietro è detto sofficientemente come noi potemo  acquistare la benivolenza dell" uditore e farlo docile et in-  tento in quella maniera de exordio la quale è appellata  principio. Oramai è convenevole d' insegnare queste mede-   20. sime cose nell'autra maniera de exordio la quale è appellata  « insinuatio ». 2. Et ben è detto qua indietro che « insinuatio »  è uno modo di dicere parole coverte e infinte in luogo di  prologo. Et perciò dice Tullio che questo tal prologo in-  daurato dovemo noi usare quando la nostra causa è laida   25. e disonesta inn alcuna guisa, la qual causa è appellata mi-  rabile, sì come pare in adietro là dove fue detto che sono  cinque qualità U) di cause, cioè onesta, mirabile, vile, du-  biosa et oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne potemo  noi passare per principio; ma in questa una, cioè mirabile,     1 : M cioè — M' om. fare e — S : M-m om. s\ — 6: 3f ' della ìnsinualiono — 7: m ohi.  s'i — 8 • M-m 7 di questo diviene — iS: L Kt di questa — Iti: M-m a detto — 20: W  nella maniera — 2i : m Bono dotto — S3: M-m cai prologo (m prolago danrato), 3/' cotale  prolagoS6: M-m nm. in adiotro M modi ([ualità (hi qui è corroso, vin lo spazio  fa supporre lo slesso), M'-L qualitadi dolio cause  M' cioè nollamirabile   Conservo la parola qualità attestata da ambedue le tradizioni, tanto più  Clio anche prima Brunetto usa lo stesso vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente si tratta di una sostituziono o variante, che venne  poi introdotta nel testo (a mono clie non si voglia supporre un modi o qualità). ne conviene usare INSINUAZIONE [IMPLICATURA – “He hasn’t been to prison yet” – “He has beautiful handwriting”] per sotrarre l’animo dell’uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel che  pare essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi potemo contraparare a ciascuno. E  sono tre casi. Primo caso si è quando sie nella causa  alcuna ladiezza per cagione di mala persona o di mala cosa. Che al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore contra  il reo uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando il parlieri ch'à detto davanti à sie et in tal guisa proposta la sua causa, eh' è INTRATA NELL’ANIMO dell'uditore  e pare già che Ha creda sì come cosa vera; per la quale  cosa r uditore, poi che comincia a credere alle parole che  ir una parte propone et extima che Ila sua causa sia vera, apena si puote riducere a credere la causa dell'altra parte,  anzi sine strana et allunga. Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene che quelle persone davanti cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri convenenti anno lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno detto assai e molto, prima di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì che non vuole né agrada lui  d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che  offende l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due  Et perciò conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della causa. Se la laidezza della causa mette l'offensione, conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non difendere quello che pensano che tu voglie  difendere, e così, poi che l’uditore sie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose, le quali indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu avrai  allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non pertiene  atte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell' aversarii, ne questo ne quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da  lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in  somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et  apresso dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore minore. In questa parte dice Tullio CICERONE che, SE l’uditore è turbato contra noi per cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE INSINUAZIONE NELLE NOSTRE PAROLE in tal maniera che in luogo della persona contra cui pare CORUCCIATO L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra  persona amata e piacevole all'uditore, sì che per cagione  e per coverta della persona amata e buona noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE nella  causa della tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme  eh' erano state d'Achille. Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno che in lui regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi  contraparare, nel suo dicere ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia al tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e graziosa  in luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e per avere buona causa. E quando la causa è laida per cagione di mala cosa, si dovemo noi recare NEL NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e piacevole. Si come fa CATILLINA scusandosi della congiurazione che fa in ROMA, che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo. Elli è stata mia usanza di prendere ad atare li miseri  nelle loro cause. Brunetto Latini. Latini. Keywords: rettorica, le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio Vegezio, insinuazione, parlari, parlatore, controversia, auditore, animo dell’auditore, modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica oratoria togata – sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Latini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Laurino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei longobardi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Laurino). Filosofo italiano. Duca di Aquara e di Laurino, appartenente alla nobile famiglia napoletana degli Spinelli. Allievo di VICO, si forma al Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto. Ritornato a Napoli, divenne amico di vari illuministi napoletani, quali FILANGIERI (si veda) e Galiani. Autore di vari saggi di stampo illuministico. Le “Riflessioni filosfiche” rappresenta un tentativo di metodo geometrico. Si oppone alle teorie di Broggia. Fa attivamente parte della massoneria napoletana, all'epoca diretta dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Cavalerie del Real Ordine di San Gennaro. A Napoli, fa ristrutturare il palazzo di famiglia, il palazzo Spinelli di Laurino, trasformandolo in una suggestiva realizzazione. Muore a Napoli e venne sepolto nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa Caterina a Formiello. Altri saggi: “Degl’affetti degl’uomini”, Napoli, Muzio; “Della moneta” (Napoli); “Cronologia dei re di Napoli,” Napoli, Bisogni; “Del nobile”, Porsile; “Lettera nella quale si dimostra non esser nota di falsità, che nel diploma di fondazione della chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085 segnato coll'indizione sesta correndo l'ottava del computo volgare; Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   -- ria che forma la materia del presente saggio: E metodo col quale questa siè composto. I tutte le città e popoli dell'Italia ciascuno ha la sua particular forma di governo prima che sussestato vinto da’ ROMANI. Ed anche dopo ciò, molte delle città medesime, quantunque al popolo di ROMA veramente ubbedissero. Pure così fatti nomi, e tale forma aveano di domestica polizia, che libere in certo modo facevanle apparire. Ma essendo stata dalla legge giulia a ciascuna di quelle LA ROMANA CITTADINANZA conceduta che non da tutte senza con Trans 1 AN 1x IN line ill SAGGIO TAVOLA CRONOLOGICA compongono DI NAPOLI. Dalla venuta de LONGOBARDI in Italia fino che quelle terre sono da NORMANNI della Puglia conquistate. PROΟEMIO trasto è accettata, e la quale da Marco Aurelio ANTONINO Antonino Caracalla è all'intiero orbe romano distesa, col vanto di esser parte del capo, a Roma, ed a coloro, che la ressero, sono tutte senza alcuna dubitazione, anche nell'aspetto, sottoposte. [tem Civitati ante ferret CICERONE pro Bal CICERONE PRO BALBAM, Edit.Ve. bon. Edit.Venet. L. inorbeff. de Stat. hom. L., Roma. Sigon. de Antiquo Jur. Ital. Ad bomnib. Rutil. Numan. itinerar. In quo magna contention Heracliensium, Aloja Ins: DE’ PRINCIPI E PIÙ RAGUARDEVO LI UFFICIALI, che anno signoreggiato, e retto le PROVINCIE, ch’ora: Ι Mich. Fiaschino Inven. e C.I. REGNO DI, Strabon. Geograph. Edit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui liberta e Neapolitanorum fuit, cum magna I LL ]. Transferita però la sede del  ROMANO IMPERATORE in Costantinopoli, varie BARBARE NAZIONI con più fortuna di quello, che aveano fattosotto LA ROMANA REPUBLICA, invadero l'Italia molte volte, e distrusfero. Radagasio Re de’ GOTI con MM armati, cagiona danni gravissimi all'Italia. Ma in Toscana da Stilicone resta con tutto il suo esercito vinto e sconfitto. Alarico ed Ataulfo re di que' medesimi BARBARI che ove Alarico dimora circa II anni, ed ove muore, avidamente sacchegiarono. Attila re degl’UNNI in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato, devasta, che IL FLAGELLO DI DIO è nominato. Genserico re de’ vandali chiamato dall'Africa d’Eudossia moglie di Valentiniano III imperatore, per vendicarsi di Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame assassinamento, sposata, ed occupato d’Occidente l'Impero; viene in Italia, ne scorre molte provincie, DEVASTA LA NOSTRA CAMPANIA e molte città di essa avendo distrutte, in Cartagine carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacre co’suoi Eruli, e Turcilingi, INVADE TUTTA L’ITALIA e Re de Goti, che nella PANNONIA, ove egli no dimora, aveano cominciato a tumultuare, gli concede l'Italia, acciocchè ne avesse Odoacre discacciato. Ovvero, come altri vogliono, lo stesso  TEODORICO senza la concessione dell'imperadore in vase quella provincia, ne discaccia Odoacre, che poscia uccise, e re se ne fa nominare -- Histor, Miscell. est cod. Ambrosiin. in Philostorg, hist. Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron.; Augut. De Civit. Dei, Marcellin. Chron. In Sirmond. Philostorg. hist. Eccl. In Vauclid. Chron. Idatius in Chron. Isidor. Chron. Goth. in rebo Got., Langobard. Jornand. de reb. Get. Agnel. Pontific. Raven. in S. Joan . Evagr. Schol. hist., Valef Ital. Murat, Cassiod. in Conf. Boet. Conf.] per essersi fermati poi nell'Occidente si dillero VESTRO-GOTI. A modo di locuste Roma II volte, ed una gran parte delle nostre Provincie -- Histor. Miscell. ex cod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth. Jian, in Murat. Rer. Ital., Sigebert. Chrona Jornand. de reb.Goth. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. Axon.Valesian. Sigebert, Procop. De bella Gotb. -- Re, e circa anni pacificamente la possiede. quista, se ne titola colle proprie forze da quella l'imperatore Zenone vedendo di non poterlo Teodorico. Perchè discacciare, evolendosi render benevolo bella parie del suo impero la con Regi non. -- Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de Gest. Langob. ex cod. Ambrosian., i Reginou. Chron. Socrat. hist. Ecclesiasi., Jornand.de reb.Goth. de re- Anon. Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success. Anon Valesian. rer. Ital. Munic. Marcellin. Chron. in Sirmond. L. de Tironib. C. Theodos. Z fimus Jornand. de reb. Goth. e Idat. Chron .in Du-chesn. de regnur, success., Prosper. Aquitan. Chron. Procop.de belio Goth. Marcellin. Coron. in Sirmonds. Casiodor. Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven., Isidor, Chron. Goth. Aimon. de Gest. Francor. Sozomen. histor. Ecclesiast. Sigebert. Chron.in an.Vales. la to Marii Aventic. Chron. in Duchesne, Evagr. Scholast. hist. Eccl. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. in Valef. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. In rer. Sigebert. Chron. Prosper. Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii Aventicenf. Chron.in Du-Chesne, pa I Anon. Cuspin. --. Ma dopo di avere e codesto principe, ed alcuni suoi successori in tal regno per molti anni signoreggiato; circa l'anno della salutifera divina incarnazione l'imperadore GIUSTINIANO delibera di toglierlo a codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re di essi non avea vendicata la morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè vi manda Belisario, che in breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia espedizione furono in ajuto de' Greci i Longobardi nazione che nella Pannonia dimorava: i quali dopo , che fu l'Italia pacificata , ivi, e d in casa degli Amici più difordini commettevano, che contro gl'inimici farenon avrebbono potuto, perchè Narsete caricandoli di doni, contenti nel loro paese oltre a ciòavea discacciato dall'Italia i francesi, che sotto il lur Duca Bucelino tutta, o quasi tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè egli era rimastoin nome dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella Provincia , che avea all' Impero restituita: quando perque'nembi, che da'più vili, e fecciəsiluoghi alzandosi nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi , e più chiari , ad istanza de’ Romani fu datal Governo da Giustino che è succeduto a Giustiniano Imperatore, rimosso: e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè egli era Eu. le se vissuto, non avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue l'effetto, dappoichè ritiratosi in Napoli, stimola co’ [Melli Comorimurtom Marcellini Chronic. Aimon, de Gest. Francor.  Joan. Diac. Chron. Jornand. de regnor. Success. Landul. Sagac. additam. Ad Miscell. Procop. DE BELL. GOTH. De bell. Goth. Aimon. de Gestis Franccr. Agath. de bell. Goth. Gregor. Mag. Dial. Excerpt. ex Agat. hist. Aiuion. De Gesti Francor. Anast. Biblioth. Invita Joan. III.  Paul. Disco de Gest. Langobard.] eunuco l'imperatrice Sofia gli scrive che fosse andato in Costantinopoli a dispensar la lana alle fanciulle; alla qual cosa si dice, che Narfete sdegnato risposto avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch’ella mentre avesse vis i  longobardi a conquistare l'Italia copiosa di tutte le naturali ricchezze, la sterile Pannonia abbandonando. Il quale in vito allegri que’ BARBARI sotto il loro re Albuino vennero abbracciando in Italia. Nello spazio di VII anni la maggior parte colla [ut citm puellis in Gynaceo. Gregor. Turon. histor. lanarum faceret pensa dividere. Anast. Biblioth. in Benedict. I. Landul. Sagac. additam. ad Miscellap. Aimon. de Gest. Francor.] delle armi ne conquistarono. Forza è fama Ed indi sì inanzi estesero leloro, che Autariuno de loro Re fino conquiste, che in Regio fusse pervenuto, e che avendo e dindi parte dell'Italia, éd iessa il rimanente dall'Eunuco Narsete, che a Belisario succede, dopo xvini, anni di asprissima guerra è interamente [Aimon. de Gest. Francorum] la Sicilia rimandolli. Avea Narsete vinto i Goti , ed eziandio gl’unni [Histor. Miscell. Aimon . de Gest. Francor. Isidor. Hispal. Marius Aventic. Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell. Gotb. Paul. Diac. Paul. Diac. Gregor. Turon. hist. Histor. Miscell. Paul. Diac. Joan. Diac. Chron. excerpt. Cron. per Fredeg. Scholaft. Landul. Sagac. additam. ad Miscell. pa hist. Miscell. Aimon.de Gest. Franc. Paul. Diac. Sigebertus, alii. Joan. Diaz. Chron.] ivi ivi tra le onde del mare una colonna ritrovato l'avesse collasta per cossa, ed avesse detto, fin qui saranno de’ Longobardi i confini. Delle terre occupate da Longobardi in Italia se ne forma un Regno il quale poscia ha alcuni re francesi, e dopo essi altri di diverse nazioni. È l'Italia in tempo de’ Re Longobardi in II Principati solamente divisa, in quello dei longobardi, ed in quello de Greci. Ma passato il Regno a Carlo Magno, surse in quella bella parte del mondo il principato di Benevento, da cui non molti anni dopo nacque quello di Salerno, e finalmente quello di Capua. Nel tempo de’ quali Principati per le guerre, che arsero fra di loro furono in trodotti nelle nostre parti i saraceni, i quali non però, comeche molte terre avessero conquistate, a varii capitani ubbedirono, almeno pressodi noi non mai e uno stato formarono. Ed i medesimi Principati di Benevento e di Salerno e di Capua durarono finchè sono da Normanni che nella Puglia sonsi stabiliti, interamente conquistati. Imperochè alcuni pellegrini di codesta nazione ritornando dopo da terra Santa ov'erano andati per la fede a guerreggiare, ajutarono il Principe di Salerno da’ saraceni assediato; e rimandati da costui a casa con grandissimi doni, allettarono a venire nelle nostre Parti i Paesani loro, i quali discesivi, ed ora al soldo del uno de’ nostri Principi, ora a quello dell'altro rimanendo, alla fine s’istabilirono nel luogo che diceasi in Octaba, e la Città d'Aversa ivi edificarono. Uno di loro, chiamato Rainolfo per capo, conte, o sia console stabilendovi. Impresero i Greci in quel tempo di liberare la Sicilia da saraceni che la tenea no per quasi II secoli sottoposta, ed è capo dell'esercito greco Maniaco, il quale chiama a’ suoi soldi una parte de Normanni, che sono in Aversa fermati, e costorovi andarono. Mi dopo qualche tempo disgustati della sua avarizia, abbandonandolo se ne ritornarono a casa. La qual cosa avendo conosciuto un certo Auduino a’ Gieci ribelle, propose a Rainulfo di mandare una parte della sua gente in Puglia a torla al Greco Imperatore, che vi signoreggiava ed a cosi fattari chiesta Rainulfo acconsentendo, un buon numero de’ suoi capitani e i mandovvi, i quali avendo di repente occupata Melfi città di quella provincia, ed indi altre terre; fissarono in Melfi la sede loro e diedero principi o ad un altro Principato, che continuoffi sotto i figliuoli di Tancredi, Conte d’Altavilla, Gentil-uomo anche egli Normanno -- i quali in varii tempi nelle no il suo Principato. Ma I Normanni, ch'eransi stabiliti in Melfiforto i Figliuoli di Tancredi, di ben altre conquiste saziarono la loro ambizione. Conquistarono tutte le terre, che i Greci aveano in quele nostre Parti. Tolsero a’Saraceni la Sicilia ed a’ longobardi il Principato di Benevento e di Salerno, e fino a'lo ro medesimi nazionali il Principato di Capua, siccome finalmente da una gran parte del ducato di Spoleti i Re d'Italia discacciarono e di tutti così fatti principati un regno essendosi formato in sul principio Regno di Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia, e l'altro di Napoli è nominato. Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte, la parte più intrigata ed oscura è quella che vien compresa dalla SECONDA VENUTA de’ Longobardi in ltalia, finchèle nostre Provincie da’ Normanni, stabiliti nella Puglia, inun solcor po forono ridotte .xii )1 e stre parti poi vennero . In tanto I Successori di Rainulfo aveano tolto a’Longobardi la Città di Capua, ed Puglia, e di Calabria, e del Principato di Capua fi diske, ed in di in II Regni diviso, uno fu detto di Trinacria alcuna volta ed pl , è detto, ed il quale per anni è de LONGOBARDI, o fia d'Italia discese Carlo Signoreggiato. Ma verso da re di quella nazione il re Desiderio ultimo re Longo in quella Provincia, ed avendo preso Magno, senza mutarne la natura il Regno bardo, trasfere nella sua persona sopradetto che Regno I va. [Paul. Diac.  Paul Diacon. Supplem. Longobar. varj Principati, i quali in così fatto spazio di tempo, siccome si è veduto, te la natural forma diesse fide e a gran fatica, e molto dubbio sa mente indovinare. De’ Principati che sursero nelle Provincie le quali ora compongono il Regno di Napoli, in tempi così dubbiosi ed oscuri, io ho deliberato di scrivere in una Tavola Cronologica i Principi , ed i più ragguardevoli Officiali, gl’anni de loro Regni ed ufficii, e delle loro morti, i loro matrimonii; e sommariamente i fatti, che quelli o sovrani od in alcuna maniera dipendenti o tributarii posso dimostrare ei diritti delle loro signorie anno stabilito. Ed oltre a 7 ciò dellistesi Principati una, per quanto io ho potuto esatta e particolare Geografia. E nella Tavola Cronologica io hor accolto tutto ciò che da' varii filosofi, o Sincroni, o quasi Sincroni, o molto antichi nella proposta materia si legge scritto, e narrato, come che discordie gli no siano tra loro ramente appariscano. Senza volerli corregere, ove avesli potuto, o concordare; di esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me medesimo in altro tempo, o a d’altrui, che mi voglia in ciò precedere, riserbando. Contentandomi per orà di fornire solamente secondi semi di un’esatta e diffusa storia delle nostra li cose me Geografia non va ancora sotto il Torchio, in un foglio quella parte di essa ch'è necessaria alla presente opera, esponere, e dimostrare ho voluto e dalla Tavola dame scritta il titolo di SAGGIO ho apposto, conoscendo che in essa moltissime altre cose essere potrebbono a diritta ragione, o d’altri, o da me stesso pervenisse a' principi l'Impero in ciaseuno de' detti Principati; e quale fuffe la natura degl’ufficii, a cui in essi il reggimento di Terre cra affidato, presso il Popolo, o presso una parte di esso, o presso un solo uomo. Dice Cicerone. “Respublica res est populi.” Cum bene, ac juste geritur, sive ab uno rege. La seconda perchè suole essere degl’optimati: ARISTOCRAZIA. E l'ultima si chiama “MONARCHIA,” osia REGNO, il qual nome non perde quantunque eomi, due, o tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta sovente tra Romani Imperadori e quasi sempre tra Principi Longobardi, de quali noi descriviamo la Serie; imperocchè una tal forma di stato essendo molto più distante dall'aristocrazia che dalla monarchia dalla più vicina piuttosto che dalla più lontana, dee prender esenza alcun fallo il suo nome. Ed oltre aciò quello ch'è stra-ordinario non dee caggionar nell’arti divisione regolare. Nè codesti pochi principi costituiscono un collegio legittimo, in cui ciascuno la sentenza della maggior parte dee seguitare. Ma ognuno riguardo alla sua amministrazione libero senza alcun fallo rimane. Scrive Ubero. Monarchiam esse Io note, e più oscure. Ed acciocchè il tutto con chiarezza si abbia ad intendere, dappoichè la promessa. Quali siano le varie forme di governo, ed i varj modi di acquistare i regni -- fursero in quella felice parte del mondo, ora si aggrandirono, ora si diminuiropo, ora dalle potenze maggiori furono interamente absorti, e quasi distrutti. Tal volta in essi si viddero eliggersi i principi, tal volta si viddero in essi succedere a’ padri i figliuoli nella signoria. Quei, che vi regnavano, furono soventi sia te uccisi, ed i privati il loro luogo occupando, trasmisero a’ loro Posteri l'iniquamente acquistato Impero. I BARBARI chiamati per difesa di alcuni sistabilirono per ruina di tutti -- e desolazione. In fine la faccia dell'Italia divenne in que tempi assai diversa da quello ch'è prima, e che è poi, e la sua Geografia non mai stabile osservossi, e costante. Nè di tutti così varii, e moltiplici accidenti vi fu chi la storia distintamente scrivesse. Ma da pochi e quali a frammenti quelli, e BARBARAMENTE sono esposti, o piuttosto accennati. E le opere de’ filosofi di quei tempi  da sin egli genti Copistifurono traseritte, che spesse fia , > ) 9 > no . in un'altra Edizione, che sene facesse, aggiunte. Ma prima di ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni di codeste forme di regimenti con voci greche. La prima si dice “DEMO-CRAZIA”, feve a paucis optimatibes, sive ab universo populo CICERONE, DE REPUBBLICA. Edit. Venoye. Se unius imperium solo satis vocabuli argumento constat. Qicod tamen ita præci Je captari nolim, rat quasi escumque plures in uno regno romini esostitere, toties Reipublicæ formam mutaris tatuamus. Neque enim recte existimaturus videtur qui in Romano imperia si quando plures OTTAVIANO fuere, PRINCIPATVM defiisse contenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab ARISTO-CRATIA, quam a monarchia distet, confentaneum est, ut ab ea specie, cui proxima est, appellatio petatur. Ita Lacedemoniis II Reges fuerunt – DIA-ARCHIA --, id que Regnum vocabatur nec non verum fuisset Regnum,fi potestas vere summa fuisset. Præter quod extra ordinarius, atque ut ita loquar, accidentalis ile plurium concursus plerumque habetur. Unde formas peculiares DYARCHIAS  out TRI-ARCHIAS in Artem introducere nec congrueret, neque expediret; tamet si fatendum monarchiæ vocabulum tunc elleminus commodum. Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbis similes a Germanis Jurisconfultis appellantur, non constituant collegium, adeoque nec mus plurium sententiam sequi compellatur. Nam ut hocjuris fit, opus est. parto, Condomini autem Imperium Civitatis habent eodem jure, quo plures eandem remi fine tractatus Societatis pro indiviso tenent. Quo casu notum est; quemque liberum Juc partis arbitrium, nec reliqucrum consensui obnoxium, retinere la 28. ff. c o m m .divid. Altri poi vi aggiungono IV altre forti d’imperi, cioè i III sopra-detti, quando sono corrotii, ovvero ingiusti, ed il IV da’ due oda III già esposti insieme uniti. Ma CICERONE stesso con diritta ragione afferma che ne’corrotti imperi la repubblica non più esiste. Onde di ella non possono essere così fatti imperi. Cum vero in iustus est Rex, quem tyrannum voca:aut injufti optimates, quorum consensus factio est. Aut in justus ipse Populus cui nomen usitatum mullum reperio nisi ut etiam ipsum “tyrannum” appellem. Non jam vitiosa, rola, dappoiche essa nulla alla mia intenzione può giovare. Or, nella monarchia, o sia nel regno, abbia avuto egli il suo principio dalla FORZA, o dal volere de cittadini, o dall'utile, o dalla paura stimolari, abbiano questi la facoltà di stabilire solamente i regnanti, o di conferirle anche l'impero. Aliter, dice Ubero, ediam etro instituunt, qui imperium immediate a deo esse volunt. Hi negant, imperium ullo modo a voluntate populi perdere, nec a civibus quicquam juris ad imperantes manare nec adeo causam monarchie, aut ullius in civitate potestatis esse populum, quos inter Ziegle rus ad Grotium Ethidictum P. Apostoliano bisali quoties adduetum, quod imperium sit humanæ creationis, interpretantur, quod sit hominibus proprium, vel ratione cause instrumentalis, quia per homines exercetur utuntur argumentis e sacris, de potestate solvendi ligandi sacramenta administrandi, quce ministro ecclefice competit. Quem ad modum igirur populus eligen dopaftorem non confert potestate millam nec conferre potest, quia non habet eam ipse, nihil que agit, quamut personam eleectam potestatia deo immediati proficiscenti applicet. Sic etiam populu, quando eligit regem, non confert pote [Huber. de Jur. Civit. Gudling. De Jur. Nat. ac Gent.] omnino nulla respublica est, quoniam non est res populi sed cum tyrannus eam factiove capesat. Nec ipse populus iam opulus est, si sit in justus, quoniam nonest multitude juris consensu et utilitatis communione sociata. E Bodino egregiamente dimostra che il composto di alcuno o di tutte le suddette III forme d'impero non può una città, o sia republica che tale sia secondo il fine che si è proposto, cio è la pace ed il giusto, costituire. Onde Gudlingio ebbea dire. Talem rei publice speciem qui appellant “mixtam”, ferendi quadantenus sunt. Si mixtum idem fonet atque irregulare, della qual cosa io non faccio più pa. [Edit. Ven. C. edit. Francf. an. Hobbes de CICERONE fragm. DE REPUBLICA. Bodino de Republ.] fta Cive. Bodino de Republ. Hobbes de Civ. Huber. Edit. Francf.] statem imperandi, sed personam electam producit eamque abhibet exercitio potestatis illia deo immediate conferendse ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat. Necquo minus populus imperium retineat, si id expedire judicet, deus intercesit. Multo minus quo parte mali quam imperii reservaret, umquam prohibuit; quodde ministerio ecclesiæ institutoque matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel regno dico, a sia nella monarchia i principi anno II sorti di diritti. L’una, che ne costituisce l'impero in mezzo a' Popoli loro. L’altra, che determina il modo di averlo -- o sia per la quale il principe regna, o l’impero pofliede che modo di acquistarlo si può anche direttamente chiamare. Altera cautio est, dice Grozio, aliud efede requærere aliud ese modo habendi, quod non in corporalibus tantum sed et in in corporalibus procedit (2) Ed. Ubero:Poft Species Monarchie fequuntur modi,quibus. Regna acquiruntur. Hi funt velordi narii, vel extra-ordinarii. Priores duo sunt electio, do successio Extra-ordinarii per inde duo, matrimonium O jus belli. De jure belli o matrimonio dié tum quod satis sit, in superioribus. De forte nihil quidem, sed nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur; ut olim apud Per fasin Dario H. Staspide. E Gudlingio. Id queri dignum, an per duret vita O anima civitatis una, etiam fi vel electio obtineat, vel successio. Et putem id contingentibus ad numerandum que unitatem nec efficient pror sus, nec tollunt. Scilicet electio et successio per Jonas tangit, non autem modum regnandi definit, nec illum impedit imperanti dominica in subjectos, tamquam in servos proprios potestas competit. Appellatur etiam Dominatus. La qual forma di Regno se giudico, che mai si possa ritrovare fra gl’uonini, salvo la teo-crazia, bene del suo popolo, e non già di lui, dee ordinare le cose. Scrive Bodino. Rex est, qui summa potestate constitutus naturæ legibus non minus obsequentem se præbet, quam sibi subditos, quorum libertatem, ac rerum domini ac eque ac fucetuctur, fore confilit. Subditorum libertatem, ac rerum dominationem. adjecimus -- ut Jus Soc., Gent. Huber. De Jur. Civit. Gudling. de Jur. Nat. ac. Gent. Guiling, pergo Nat. Ac Gent. c. vel collate. Nec sequitur, cedunt e populi elientis voluntate. Primeva succedere videntur. Riguardando la prima di codeile II sorti di diritti ne procedono III forme di reggimento, osiano: di monarchie una in cui il regnante de’ Corpi, Beni de’ Cittadini dispoticamente dispone, e che perciò Erile o, o lia “barbarica” vien nominata, scrivendo Ubero. Dominatus finitur, quod sit imperium, quo princeps sibi subjectis ut pater familias servis imperat, omnium quetam quod ad o civilium naturam maxime ab effectibus vesti mandammo, rerum moralium, cuius limites excedere non licet imperii formam, et tenorem Si Deuscertam, electionem persone fatemur ejus juris vim in fringerenon populis, præscripserit potest auferre jus ligandi e Solvendi suispa pole, quam cætus fidelium invito adimere potest. Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus esse determinatum. Hatenus quidem de imperio civitatis a deo, cui omnis anima debeat bere aliquem ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita ex cestise subiecto non tamen res quam corpora dominus existens, actiones publicas ad suam præcipue utilitatem dirigit. Ed Arrigo Koehlero: Imperium dominicum seu despoticum dicitur osia governo di dio. E l’altra delle suddette forme di monarchia è quella, nella quale il Principe pel [Grot. De Jur. bell. Ac pac. Huber. de Jur. Civit.] tum promover. Imo successi opere nec mul ab antecedente electione pendet. Unde qui luc o de' in quo nec sequitur, ita pergit Zieglerus, homines ab initio Sponte adanéti in s ocietatem civilem coierunt ex hoc ortum habet potestas civilis. Ergo talis potestas origine est humana. Sic enim per indeliceret argumentari. Adam et Evas ponte adducticcierunt in matrimonium. Ergo matrimonium institutione NON est divinum. Huber. De Jur. Civit. Heinr. Toebl. Jus Soc., ut Regis, ac Domini distinctionem certam adhiberemus. Ed essa dicesi civile – leggendosi  in Ubero. Nobis igitur plures monarchie species non sunt considerande, quam hee duce, Regnum, & Dominatus, five Imperium, ut ARISTOTELE DAL LIZIO loquitier, außacidendo, aut Baplaponèv. Regnum verum et plenum est, ubi princeps habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod ere  a petita., qui ed appresso. Ex his tertia resultat differentia, a fine diverso ristabiliti, est utilitas regnantis. Quae nec ipsa tamen absque commodo subjectorum potest custodiri. Ex his relique differentie, inter dominum, &. Reczorem, servos ac cives, de quibus Claudius ad Meherdatem apud Tacitum [TACITO (si veda) Annal. quæque similia per se intelliguntur. Ed anche comune; Scrive Kochlero: Imperium civile est jus præscribendi ea, quæ ad commune civitatis bonum promovendum faciunt. Eiusmodi imperium civile dicitur commune ad amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza delle II sopra-dette forme composta che mista vien detta. Scrivendo Grozio. Quisibi singulos subjicere potest servitute personali, nihil mirum est f li i d o universos sive ili Civitas fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi potest subjectione sive mere civili, sive mere herili, suve MIXTA. Riguardando poi la seconda forte degl’esposti diritti sorgono III altre forme di nellaquale il principe regna per elezione del suo popolo forma dicesi ELETTIVA. La II, in cui il principe riceve l’impero per legge generale dello stesso suo popolo o per CONSUETUDINE da questo ricevuta, per trasmetterlo poi a colui, che dalla medesima legge, viene stabilito; sia egli il primogenito del preterito regnante, o calui, che glinacque nel regno. Sia egli il FIGLIUOLO LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o dell'altrui; favorisca finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia , o la linea del primo nato, la qual forma di regno da tutti sichia ma SUCCESSIVA, ed a molti una specie della prima, cio è una diversa sorte d’ELEZIONE essere si crede. Dappoichè scrive Ubero: Plane, origine cujufqueci vitatis inspecta, nullum non regnum ex voluntate populiortum, fuit electivum. Sed diversitas est in Regno Civili ordinaliter utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium obtineri non potest. In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma pel tempo della sua vita solamente. Venga co tale ELEZIONE, fatta o espressamente, o per via di sorte, o di deputati. E codesta electionis et successionis deincep sorta est, cum quædam ex imperiis ita funt delata principibus, ut identidem fedes vacua per electionem repleretur. Quædam it aut successio secundum ordinem certum propinqui sanguinis ab uno in alium devolveretur, ex prescripto Legis. Hanc quidem vocant electionis speciem. Quo modo Althusius in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure familie hereditarium, sed totum a populo dependens, quod G' in Anglia multi opinantur. Si dicerent, successione mele nihil, quamele &tionis primevæ continuationem, nihil errarent. Atfijus Imperiinum quam a populis alienari velint, resreditad STATUM [STATO] disputationis supra aliquotie speractze. Qua per electionem, ipsum jus Imperii independenter alienari posse probavimus, ad vitam, vel etiam pro heredi bus. Quie tunc est successio, non amplius a primis eligentibus dependens, sed familie propria, per actum alienationis.  Gudlingio: Id quæri dignum, an perduret vita in anima civitatis una, etiam sive lelečžic obtineat, vel successio. Bodin. De Republ.  Grot. De jur. bell. ac. pac. Regni. La prima, 3 Huber. De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia di princ: de jur. Nat. ac Gent. Huber. de jur. Civit.  Gudlingio, communi videbitur, Salva tamen civium libertate, proprietate rerum cim.V. de Imp. Civ. cum Et  xvii et putem id contingentibus ad numerandunt, quæ unitatem nec efficiunt prorsus, nectollunt. Scilicet eleftin, o luccelio personas tangit non autem modum regnandi definit, nec illum impedit, nec multum promovet ; imo fuccessio pene ab suo. Antecessore , ed ha l’arbitrio di lasciarlo a chi più gli piaccia, come della sua eredità privata fare ei potrebbe. E così fatti Regni diconfi EREDITARII. In tutte codeste cinque forme di regni sono comprese, siccome sarebbe agevole il dimostrare, tutte le differenze, che de' supremi Imperi delle monarchie si sogliono fare. Ele quali Ubero per modo di quistioni propone: Junt qui ex alisquo querebus differentiam fu m m e potestatis colligunt. Primo enim sotto posti. Ma quando vennero in Italia vi fondarono il regno, che è detto de Longobardi, osia dell'ITALIA e dil quale, e sotto i re loro, e sotto i re francesi, edi altre nazioni finchè dura  è sempre ELETTIVO. Che EREDITARIO è il Principato di Benevento. Che fimile a lui è il Principato di Salerno. Che non diverso da essi in tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte difficil cosa è il determinare daloro principii espo fie forme de sopradetti principati. Quindi è, che ne conviene  sovente immitare i più saggi investigatori del vero nelle produzioni della natura : iquali non potendo vedere le occulte caggioni di essa, da’ continui, e costanti effetti loro, quando esterna violenza non li disturbi, sicuramente le deducono. Scrive Newton tra quelli filosofi senza alcunfallo il più famoso. Ideo que EFFECTUUM NATURALIUM EIUSDEM GENERIS E ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti respirationis in homine doo in bestia. Descensus Lapidum in Europa in qualitates corporum, que intendi o remitti o nequeunt, queque corporibus omnibres competunt , in quibus experimenta instituere Ticet nun, a sibi semper consona. Extensio corporum non nisi per sensus innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia sensibilibus omnibus competit, de universis affirmatur. Corpora plura dura este experimur; Oritur autem durities totius a duritie par tium, et in de non horum tantum corporum quæ fentiuntur, sed aliorum etiam omnium particulas indivisas es se duras merito concludimus. Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; sed sensu colligimus. Que tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole; reflexionis lucis in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus IMPENETRABILITATEM efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia efle et viribus quibusdam, quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete, ex hifce corporum visorum proprietatibus colligimus. Extenso, Durities, IMPENETRABILITAS, Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.; Huber. De jur. Civit. antecedente electione pendet; unde qui succedunt, e populi eligentis voluntatepri meva succedere videntur. E finalmente la terza nella quale il principe possiede il regno per volere del git [Or dichiarari nella maniera sopradetta l'esposte cose io dico che i lombardi sono inprima nella Pannonia ad un Regno EREDITARIO vel plu , pro qualitatibus corporum universorum habende sunt TES CORPORUM NONNISI. Nam QUALIT A PER EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES STATUENDÆ, IDE MENTIS GENERALITER SUNT QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT. De quemimi non possunt auferri. Certe contra experimentorum tenorem fomnia non funt , nec a Nature analogia recedendum temere confingendo est, cum ea simplex esse soleato, qua forma Reipublice Civitas gubernetur, Monarchia tant plurium dispoticum, an Civile regnum Patrimorium imperio. Et in Monarchia , sit ne Populo volente an invitofit conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an perpetua sit potestas. Non an successionegaudeant imperantes.Temporalis Imperii variarivi parvitate vel magnitudine civitatum jus jummi nullis quoque Species hominum judicia sæpe perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu iner inertie totius, oritur ab extensione , duritie , impenetrabilitate viribus inertice partium: inde concludimus omnes omnium corporumpartes minimas extendi, et durasele, o impenetrabiles et mobiles viribus inertice præditas. E nella festa maniera scrive Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi morerum moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè quando non ne è conceduto di avere documento dell'istituzione delle repubbliche, osia de'Principati, di cui ragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre accadere in essi, quando estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano sconvolto, l'istituzioni suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è vero non però, che non di leggieri gl' Imperi Ereditari da Successori con regola cosi fatta si possono distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi all' ultimo Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo stesso avvienene Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento, o senza nomina real. cuno Estraneo Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere, che si può, comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu prima Successivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia, provincia detta VAGINA GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI erano chiamati furono poscia detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE, ovvero , secondo scrive Guntero, che altri affermino da’ popoli della Sassonia detti Bardi. Furono costoro inprimada Duchi eposcia da Refignoreggiati; ed il regno loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton, Philus. Natur.princ.Ma Gregor. Turon. Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist. Miscell. Paul. Diac. de Gefie Langob.. Gunt.  mobilitate, 9 appreso elettivo non potendosi che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a figliuoli ed a Cogionti, gli Estran gli abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO: Succeflio ab intefiato, de qua agimus, nihil aliud est, quam tacitum testamentum ex voluntatis conjectura. Quintilianus pater in declamatione: Proximum locum a testamentis habent propinqui: et ita, si intestatus qui sacfine liberis decefferit. Non quoniam utique jufium fit, ad hos per venire bona de functorum. Sed quoniam reliéta et velutin medio posita nulli propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER proximis deferri , idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt, nec eorum liberi extent ita ut gratie Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob., istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur. bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc Otto Frifingens. De Geft. Friderici Impe credere De Popoli Q. Agle  relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi possono argomentare diverse cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis of the noble is complicated – noble is the male who merits recognition from his community.” Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di Aquara e di Laurino. Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino. Keywords: implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio, lombardia, lombarda, lunga barba.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library. Laurino.

 

Grice e Lazzarelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermetico-esoterica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Severino Marche). Filosofo italiano. Grice: “I would call Lazzarelli a Pythagorean; most Italian philosophers are, as most English philosophers are Lockean!” -- Grice: “I would call Lazzarelli what Italians call ‘un filosofo ermetico.’ He certainly flouts all my desiderata for conversational clarity!” Il documento più importante per ricostruire la vita di L. è “Vita L.” scritta da Filippo L. e indirizzato all'umanista Colocci. L. e educato e vive a Campli, in Abruzzo, dove frequenta la biblioteca del Convento di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua opera i Fasti Christianae Religionis. Riceve da Sforza un premio per un poema sulla battaglia di San Flaviano. Ha contatti con i più importanti filosofi dell'epoca ed e seguace dell'ermetismo. Raccolse il Pimander di FICINO, l'Asclepio e tre trattati sull'ermetismo realizzando una versione che amplia il corpus testi ermetici. Autore di saggi a carattere ermetico come il “Crater Hermetis,” in sintonia con il sincretismo religioso dei suoi tempi e in anticipo sulla filosofia di PICO (si veda), con la fusione del cabalistico e il cristiano, ma anche di poemetti a carattere allegorico come l'”Inno a Prometeo” o didascalico-allegorici come il “Bombyx”. Altri saggi: “De apparatu Patavini hastiludii, Padova; “De gentilium deorum imaginibus”, dedicato a Borso d'Este e a Federico da Montefeltro; “Fasti christianae religionis” dedicato a Sisto IV,  Ferdinando I d'Aragona e Carlo VIII, Bertolini, Napoli; Epistola Enoch, Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma; “Diffinitiones Asclepii”;  De bombyce, Lancellotti, Aesii; “Crater Hermetis edito in Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina”; “ Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi); Vademecum ( Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per la morte della duchessa d'Atri, Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen bucolicum” (Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di occasione -- tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale di Napoli); epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera può essere letto in M. Meloni ,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano e il “De Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in appendice a C. Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier, in Umanesimo e esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum de Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini, Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico degli Italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, L..  rivista Campli Nostra Notizie. L. Nacque di nobile famiglia di Campli. La tradizionale data di nascita è stata recentemente corretta da Tenerelli sulla base di un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e della notizia d'archivio riferita da Aleandri, secondo cui il padre risulta già morto. L. stesso ama definirsi "Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei pressi dell'odierna San Severino Marche.  Alla morte del padre, L. si trasfere a Campli, presso Teramo, dove riceve la prima educazione e - stando alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la morte - egli dimostra precocemente inclinazioni filosofiche, tanto da comporre un carme sulla battaglia di San Flaviano che gli merita le lodi di Sforza, signore di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum simia".  L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dalla cronologia, della vita fitta di spostamenti condotta dal L. E dapprima ad Atri, con l'ufficio di istitutore del figlio del signore della città, Capuano, dove compose un carme esametrico per la morte della duchessa Balzo, indirizzato con un'epistola accompagnatoria al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che, nella sua biografia, la define "sententiis quidem refertam quam optimis ultra eius aetatem". E a Teramo presso Campano, "ut eiusdem Campani fratrem amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior fieret" (Lancellotti), dove si applica allo studio della filosofia. Il fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con un tal Vitale ebreo, che nega la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche grazie all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passa a Venezia, dove perfeziona lo studio del latino alla scuola di Merula. Il componimento esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi e nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi sono comparati a personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum, costituito da X egloghe dedicate ai principali misteri della vita di Cristo: l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine, l'incarnazione del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli inferi, la resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo, l'assunzione di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più importante riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L., l'incoronazione per mano dell'imperatore Federico III, nella chiesa di S. Marco a Pordenone.  Secondo il racconto del fratello, L. si reca presso l'imperatore, di passaggio nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso dall'imperatore che spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. L. stesso celebra poco più tardi l'evento nell'egloga Laurea.  Una serie di stampe, del tipo dei tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo stimolo per la composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus, poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb. lat., 716, 717), entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di sontuose miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei tarocchi). I due codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica del ms. 716 è vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che Augusto Campana è riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per riconoscervi il nome di Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e quindi l'ultimazione dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo ducale di Ferrara da parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo il nome di Borso è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i passi relativi sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una seconda redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo ducale di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere in quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716 vi sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente occorso al duca nel novembre 1477.  L'originaria dedica a Borso d'Este è perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di "appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte, secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma iL. intende riscattare dall'uso ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo, che "triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas et simulachra deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e sapienziale di rivelare il vero "obliquis figuris", poiché "invenere suis corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis asseruere suis.. Nel primo libro sono presentate e descritte, in successione, le sfere celesti, dalla Prima causa alla Luna, con l'aggiunta di un carme conclusivo dedicato alla Musica come prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti, identificati con gli dei antichi, sono descritte le immagini, indicate le rispettive domus (i segni zodiacali), sinteticamente narrati i principali miti che hanno come protagonista il dio eponimo, fornite essenziali notizie astronomiche e illustrati gli influssi astrologici. Il secondo libro presenta le immagini della Poesia, di Apollo e delle nove Muse, di Pallade, Giunone, Nettuno, Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è dedicato un carme in versi eroici, mentre tutti gli altri sono in distici elegiaci). Nei due codici urbinati, come si è detto, la descrizione verbale trova riscontro e integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua volta, può aver ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di Urbino.  La vicenda compositiva del poemetto probabilmente si compì durante il soggiorno di L. a Camerino, dove era stato chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere all'educazione del nipote Fabrizio. L. intraprese quindi la stesura di un nuovo ambizioso poema, i Fasti Christianae religionis, che portò a compimento in una prima redazione a Roma, dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di Antiochia, presso il quale approfondì gli studi astronomici e astrologici.  La composizione del poema è dai biografi (e, in primis, dal fratello) addotta a documento dell'ortodossia religiosa del L., contro i sospetti di esercitare arti magiche: "Quidam, livore atque invidia perfusi, et palam et in occulto Lodovicum criminari coeperunt, dicentes ipsum negromanticis magicisque artibus, sive praecantationibus, operari" (Vita Lodovici, p. 7). L. avrebbe, in effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e guarigioni, ma sempre attraverso il segno della Croce e la mediazione dell'assistenza divina.  Bertolini ha ricostruito la complessa vicenda compositiva dei Fasti sulla base delle testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms. Vat. lat., autografo, nel quale si depositano varie fasi redazionali) e delle indicazioni cronologiche interne, che permettono di riconoscere tre redazioni: una prima, dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda dedicata al re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di Calabria, compiuta immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda, dedicata al re di Francia Carlo VIII, probabilmente abbandonata dopo il fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di un vasto poema in sedici libri, costruito secondo il modello del Fastiovidiani. Sono descritte e celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro successione nel calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di carattere astronomico e saltuarie indicazioni relative alle attività agricole. I primi tre libri celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici successivi sono dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta del Giudizio finale.   Il poema ricevette onorata accoglienza da parte dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di Paolo Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti, nei quali il poeta è celebrato come una sorta di OVIDIO (si veda) reincarnato. Al Platina sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei quali in morte.  Secondo Foà, al 1481 daterebbe la conoscenza con Correggio, alla quale lo stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la propria conversione alle dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e al quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento risale però all'11 apr. 1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette all'apparizione romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di spine, attraversò la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e retorica, predicò al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una sapienza teologica dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse anche incontri con il pontefice e vari prelati.  Gli studi di Kristeller hanno infatti dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda ac portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus, dove è diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito da una dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod novae ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis, mecumque ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior obesset mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon primus eum sum protinus insequutus" (ed. Brini).  Con lo stesso pseudonimo di Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi contenuti nel ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, una raccolta completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino, integrato dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii (ignote a Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta dallo stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L. indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio, nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae sapientiae filius" (Kristeller).  L. entra quindi in rapporto con  Colocci quando questi, avendo con sé il nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli Satriano. Secondo Fanelli, i Colocci passarono nel Regno di Napoli: poco prima andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis puerum".  La datazione dell'opera è controversa e il più recente editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di Colocci, che pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore esemplare ("lege sollicito mea carmina visu"), vero e proprio filius da rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite, terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite corporeos sensus, mens candida regnet Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito semine prolem. Quo pacto id fieri possit, mox forte docebo,  hic gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore opera dedicata al tema della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono inseriti alcuni componimenti poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai vecchio, ha ceduto il governo dello stato al primogenito Alfonso II. Queste indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il 1492 e la morte del re. Il recente editore, Moreschini, ha anche riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. della Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata  da J. Lefèvre d'Étaples a Parigi. La differenza più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella prima, di un terzo interlocutore, PONTANO, con il ruolo, secondario ma non indifferente, di affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta desideroso di approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del titolo è in un passo del Corpus Hermeticum in cui si parla di un crater inviato d’Ermete sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere così l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si rende così simile a un dio. Moreschini osserva come nella seconda redazione il L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo (lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica) nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano patrimonio, in quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola.  Ultima opera del L. sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati da LANCELLOTTI, che invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini ne propone, ma senza indizi veramente probanti, l'identificazione con un trattato di alchimia, conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di Firenze: una raccolta di preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri, presentate da L. con un breve testo introduttivo che si apre con un epigramma di sei distici. Il L. stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica il contenuto: "agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est naturalis magia et vocatur astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di essere stato istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia […] qui in hoc fuit magister meus currente ab incarnatione verbi" (ed. Brini).  Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità divinatorie attraverso il sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di distanza da quella del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY; Fasti Christianae religionis, a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch, Venezia, cfr. Indice generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, Roma; la traduzione delle Diffinitiones Asclepii in appendice a Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in uno scritto di Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a cura di E. Castelli, Padova; le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Marsilio Ficino e L.. Contributo alla diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola superiore di Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters, Roma; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in Bombix. Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina, a cura di Lancellotti, Aesii, e ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in Literatur und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura di Rheinfelder, Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel corpus di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano, Parisiis, in officina Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna, parzialmente, a cura di Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, e, integralmente, in C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Id., Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Vademecum, a cura di Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo. Ampie sillogi di scritti del L., frutto di compilazioni sette-sono contenute nei mss. della Biblioteca comunale di San Severino Marche; il carme per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel ms. della Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno sconosciuto testimone delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA medioevale e umanistica. Il codice unico del Carmenbucolicum si trova nella Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection; una silloge di carmi di occasione (tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E. della Biblioteca nazionale di Napoli. Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita si leggono nel ms. W.344 della Walters Art Gallery di Baltimora.  Fonti e Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss.; due copie di Lazzarelli, Vita L. Septempedani poetae laureati per Philippum fratrem ad Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa da G.F. Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii; Vecchietti - Moro, Biblioteca picena, V, Osimo, Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati d'ogni tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La famiglia L. di Sanseverino (Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico italiano, Ohly, Ioannes "Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur Inkunabelkunde, Thorndike, A history of magic and experimental science, V, New York, Donati, Le fonti iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, vi è riferita la lettura di Campana della dedica del ms. Urb. lat. Kristeller, Lodovico L. e Giovanni da Correggio, due ermetici del Quattrocento, e il manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, in Biblioteca degli Ardenti della città di Viterbo. Studi e ricerche, a cura di Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter Brief von Pomponius Laetus, in Italia medioevale e umanistica, Ubaldini, Vita di mons. Angelo Colocci, a cura di V. Fanelli, Città del Vaticano, Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Res publica litterarum, Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in Quaderni dell'Istituto sul Rinascimento meridionale, Tenerelli, L. ed il rinascimento filosofico italiano, Bari, Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà, Giovanni da Correggio, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma, Walker, Magia spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L. umanista settempedano e il "De gentilium deorum imaginibus", in Studia picena; Kristeller, Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VII, pp. 159-161.Luigi Lazzarelli. Lodovico Lazzarelli. Ludovico Lazzarelli. Lazarelli. Keyword: implicatura ermetica, mascolinita romana, religione officiale romana, campo marzio, marte, dio della guerra, marte come pianeta, il simbolismo di marte nell’arte e la filosofia, marte e apollo, marte e Nietzsche --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lazzarelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Leanace: la ragione conversazionale e la setta di Sibari -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo italiano. Pythagorean. Giamblico.

 

Grice e Lecaldano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della traspatia – l’impassibile di Cicerone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Grice: “Lecaldano is interested in altruism as the basis for morality; I’m interested in morality as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on Scots! His analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I do when I reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing of ‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L. spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle discussioni contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica della morale, con particolare riferimento ai filosofi scozzesi (Hume, Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi della meta-etica. In bio-etica, L. si prefigge l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati”” (Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica: la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza); “Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano, Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di vista morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di L. sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra conversazione comune e letteratura  “La molteplicità di usi di simpatia”  È possibile riconoscere diversi significati nel termine simpatia che di solito è accompagnato da un  significato positivo, anche se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo con connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine, dall’attrazione  sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o posizione politica. Come nota Hume, è molto difficile parlare delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti, perché  il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine “simpatia” viene compreso dalla  gran parte delle persone, ma paga la sua ampia diffusione con l'indeterminazione che ad esso si  accompagna. E enorme l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che  esplicita. Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di quella che nei testi  illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt, poi, privilegia la simpatia assimilata alla  compassione. Già nel diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione, la  considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre Hume e Smith la  considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini che negli animali, di partecipare  attivamente alle condizioni altrui, sia dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui  il rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea (reso possibile  dai romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a quel momento erano  stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi accesero le emozioni e la partecipazione  simpatetica del pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema  può essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue tecniche, degli stati  d'animo e della trasformazione delle emozioni dei personaggi. (discorso su Kundera)  “Un percorso di approfondimento”  Lo sforzo di conoscere il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa a quanto  la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della pratica morale diffusa tra gli esseri umani.  Cercheremo di capire se la simpatia sia necessaria o meno per la moralità ed esporremo le  argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando che la simpatia può essere considerata  necessaria per la nostra vita etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine  conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui, oppure a una reazione  affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la  simpatia intesa come preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in base  ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e istintiva,  un contagio emozionale automatico;  2. Dall'altra quello che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e che  comporta un minimo di riflessione.  L'impostazione adeguata è quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le cose,  presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione tra simpatia e la pratica  non solo della moralità, ma della giustizia, della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di  civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul piano normativo che vede  in essa ciò che è necessario e sufficiente per la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga tradizione nella storia della filosofia. La prima importante  nozione di simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le cose del  mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia utilizzata per richiamare una connessione  armonica che unisce fra loro esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella  filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel mondo fisico e solo  secondariamente in quello umano, infatti gli stoici si riferiscono ad una simpatia universale per  indicare l'affinità oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per l'influenza che  ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e Smith. In Plotino troviamo un'immagine  che verrà ripresa da Hume. Questo concetto naturalistico della simpatia è il  fondamento della magia e verrà ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia  ha un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno  universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è  un'importante innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico  delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il sole, la luna, l'acqua e il  fuoco. Questo atteggiamento è “empatia” (oriente e Schopenhauer)  “Una relazione attiva fra due poli”  La simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica a  Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson che però, pur riconoscendo agli esseri umani un  grado di apertura affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury, infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia come una trama che si estende al di là del mondo  umano, creando armonia fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il  termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea perché incapace di  cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la riflessione. Ciò non toglie che le analisi di  Hutchenson siano tornate attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e si può  individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel considerare la simpatia solo come un dato della natura della psicologia umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani; per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo  disapprovare. Queste diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel “Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea  interpretativa ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume un  principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo quelle fra esseri umani,  nonostante coinvolga anche relazioni con gli animali e tra loro stessi;  Nella natura umana esiste una gran tendenza a prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che  osserviamo in noi stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di questi  ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali suscitando le stesse emozioni  provocate nella nostra specie. Hume distingue due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall' infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo indiretto, ricorrendo  all'immaginazione riflessiva e non immediata che genera i sentimenti morali. A quest'ultima  forma di simpatia può essere ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e  simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in grado di rendere conto  della distinzione che facciamo tra virtù e vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione della simpatia alternativa  a quella di Hume. Infatti, a Smith non interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la  identifica come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e passioni  altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere su nel condividere emotivamente la  risposta che l'altro dà alla situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa  simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato complesso e articolato: vi è un primo stadio che è  la capacità di ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta sofferenza o  piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato dall'approvazione o disapprovazione che si dà  della condotta altrui; infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre  approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia come  approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella generica analizzata da Hume, ma  molto più aperta per ciò che riguarda il ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come  approvazione morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica l'intervento di uno  spettatore immaginario capace di far valere le esigenze di una più completa ricerca delle  informazioni rilevanti. Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla simpatia col ter. Grice: “While his research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus, ennico, a pagan, or heathen!”   !LE DISCIPLINE FILOSOFICHE   o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul insonne do SAU  VOVASVARIZZZA quali Sé prese NARO 1 SSCONI SUL problemi  ‘ORGONO per gli CSSOLL UAN quando AYIscOno © cerci  ole è princi da Seguire nelle diverse dimensioni d  > Oa pratica. Sa parte integrante di questa ILCELC  “tazione delle regole TAN c0 pri «e giù disponibili Q/  we da altre pers one. Afrontereno WZZZ volte nel co  SAGGIO la questione di Guanto l'etica assorba i sé  4   AGUA dall'economia per fare valere 77) generale Pa  ‘va (esa a lenee distinte concettualmente CALO,    da. In questo senso ‘etica’ occuba lo spazio N    www.scribd.com/Filosofia_in_ Ita3    Eugenio Lecaldano (Treviso, 1940), è ordinario di Storia delle dottrine morali al-  l'Università «La Sapienza» di Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli  XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971), all’edî-  zione italiana delle Lettere a Serena di Johni Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli  XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971), all’edî-  zione italiana delle Lettere a Serena di JohnToland (1977), all’ampia antologia L’ily-  minismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita dell'etica contemporanea (1991).  All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli altri, i volumi Le analisi del linguaggio  morale (1970) e Introduzione a George Edward Moore (1971).    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    Eugenio Lecaldano    ETICA    STEAS    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A.  Corso Italia 13 - 20122 Milano    © 1995 UTET, corso Raffaello 28, 10125 Torino   Proprietà letteraria riservata. Senza il permesso scritto  dell'Editore, sono vietati la riproduzione, la memorizzazione  elettronica e l'adattamento anche parziali, in qualsiasi forma   e con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotoscatiche)  Edizione su licenza della UTET   dal volume ITI della Fi/osoffa, diretta da Paolo Rossi    Prima edizione TEA settembre 19%6    Ristampe:1 2 3 4 5 6 7 8 9  1996 1997 1998 1999 2000    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    ETICA    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    Sommario. - 1. Introduzione. - 2. La natura dell'etica. 2.1. Meta-erica e meta-morale, 2.2. La conce-  zione dell'edonismo egoistico. 2.3. L'etica come insieme di comandi divini. 2.4. L'etica come co-  mando di una q ualche autorità. 2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. 2.6. L'etica come pre-  scrizione universalizzabile, 2,7. La negazione dell'etica: libertà e determinismo. - 3. Fondazione,  giustificazione e spiegazione: l'epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica all'epistemolegia. 3.2.  La conoscibilità della legge divina. 3.3. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale.  3.4, La natura umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. 3.5. La natura umana come  fondamento dell'etica: la via empirica. 3.6, L'appello a una ragione universale come via per la fon-  dazione dell'etica. 3.7. LI ricorsa a una facoltà morale per la fondazione dell'etica. 3.8. La giustifi-  cazione procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo, 3.9. Il non-cognitivisma e la giustifica.  zione logico-argomentativa del punto di vista etico. 3.10. Dalla giustificazione alla spiegazione del-  l'etica. 3.11. I problemi centrali per Ia fondazione della morale; «legge di Hume» e possibilità di  una «logica delle norme». - 4. Le etiche normative: concezioni in contrasto. 4.1. Etiche conseguen-  zialiste e deontologiche: principi, mezzi è fini nell’etica. 4.2. Il valore intrinseco nell'etica. 4.3.  L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. 4.4. L'etica contratrualistica e le sue forme. 4.5. Un'etica  dei diritti. 4.6. L'etica kantiana e la persona umana. 4.7. Le etiche utilitaristiche. 4.8, La scelta ra-  zionale come criterio normativo, 4.9, Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. - 5.  Dall'etica teorica all'etica pratica. 5.1. Dall'etica teorica all'antropologia: motivazione e obbliga.  zione, 5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica. 5.3. Erica del carattere 0 dell'azione. 5.4. La  svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. 5.5. I principali campi dell'etica applicata. - 6. Le  dimensioni dell'etica. 6.1. La morale e le relazioni personali. 6.2. Il diritto e i sistemi codificati. 6.3.  La politica e i fini del governo.    1. Introduzione.    Con il termine etica ci si riferisce all'insieme di scritti e discorsi nei quali si  presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri umani  quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle diverse dimen-  sioni della loro vita pratica. Fa parte integrante di questa ricerca la valuta-  zione delle regole e dei principi già disponibili o fatti valere da altre persone.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    8 ETICA    Affronteremo più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica as-  sorba in sé e si distingua dall'economia per fare valere in generale una pro-  spettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica ed economia. In questo  senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella tradizione dotta italiana si  collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo senso ampio comprende dunque  tutta una serie di più determinate specificazioni che riguardano di volta in  volta i problemi morali, quelli di pertinenza del diritto e della legge e quelli  che più propriamente rientrano nel campo della politica o dell’azione del go-  verno. Usando un altro linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo  dei valori e delle norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia  la morale, sia il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici  e specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria dell’ordina-  mento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere efficaci le san-  zioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di governo e i rapporti tra i vari  poteri non sono di pertinenza dell'etica come qui intesa. Verranno dunque  brevemente trattate le questioni relative al diritto e alla politica solo per indi-  viduare con più precisione gli ambiti specifici di problemi pratici in gioco in  queste aree dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste sezioni è di col.   locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica piuttosto che affron-  tare partitamente i loro problemi specifici. La scelta concettuale fatta com-  porta che si lasci completamente da parte la pretesa di occuparci dell'etica 0  della morale in un senso più sociologico, ovvero come insieme di costumi di  un popolo, o in un senso più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclina-  zioni e abitudini a determinati tipi di associazione mentali effettivamente rico-  noscibili nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica nel  senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il pensiero  impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione del costume o  delle pratiche effettive.   La scrittura di questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una  parte si è cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX.  Anche se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo stacco  tra secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una prospettiva  che è largamente influenzata dalla considerazione di quei problemi morali che  nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si stanno ancora affrontando, per  la prima volta, quali ad esempio le questioni della bioetica, o dell'etica am-  bientale, del trattamento degli animali ecc. (cfr. infra $$ 5.4 e 5.5). In secondo  luogo chi scrive assume la prospettiva fatta valere da Derek Parfit secondo la  quale una vera e propria etica nel senso moderno può essere vista nascere solo  con il XVII secolo. Ma un'etica che unisca insieme la consapevolezza della    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    INTRODUZIONE 9    sua autonomia e un certo impegno in senso professionale riguarda solo la se-  conda parte di questo secolo (Parfit, 1989: 574-575). Ed è dunque a questa  etica moderna e contemporanea più che a quella antica e medievale che in  questo scritto si farà principalmente riferimento per dare spessore storico alle  distinzioni e conclusioni che si avanzeranno.   Anche se l'etica si presenta come una disciplina già consolidata e con una  tradizione di sapere costituito, si può indicare una strada che permette di ac-  cedere ai problemi di cui si occupa muovendo dall'esperienza comune e quo-  tidiana. Infatti la pretesa dell'etica — come del resto di quasi tutti i rami della  riflessione filosofica — è quella di occuparsi di problemi che tutti gli uomini  affrontano e incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica teorica è frequente  — anzi — trovare affermata la pretesa di essere più vicina e direttamente ri-  levante per la vita delle persone di quanto siano altri ambiti della filosofia,  quali poniamo la gnoseologia (con la sua elaborazione teorica sulla conoscen-  za), 0 l'epistemologia (con le sue riflessioni sulla teoria della verità) ecc.   Questa pretesa di una più stretta vicinanza con la vita di tutti si accompa-  gna spesso nelle elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore  pretesa per cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte più impor-  tante delle riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità e  centralità regolativa rispetto alle altre.   Nella vita quotidiana si presentano numerose situazioni problematiche che  possono essere considerate come punti di partenza per la riflessione etica.  Suggeriamo di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a due  distinte tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi. Casi di conflitto  — per così dire il versante privato o soggettivo dell'etica — sono quelli in cui  noi stessi non riusciamo a trovare una soluzione valida a un problema etico 0  perché i nostri principi tradizionali risultano inadeguati o perché non riu-  sciamo a risolverci appunto tra differenti principi egualmente rilevanti. Casi  di disaccordo — per così dire il versante oggettivo o pubblico dell'etica —  sono quelli, molto frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui  petsone diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per risolvere  la stessa situazione moralmente rilevante, î   Il cammino verso l'elaborazione di un'etica più riflessa sembra aprirsi non  già quando le regole e i principi tradizionali rispondono alle nostre esigenze,  ma piuttosto in una situazione in cui gli esseri umani incontrano difficoltà nel  campo delle loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti, la vita pratica procede  in modo del tutto ordinato all’interno di una routine consolidata non vi è  quella base necessaria per un'elaborazione critica, Il presentarsi di una diffi.  coltà nell'applicazione dei codici normativi tradizionali è, in genere, il punto    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    10 ETICA    di partenza per l'elaborazione dell’etica nel pensiero moderno e tale quadro  problematico è diventato costitutivo della teoria etica nel pensiero etico con-  temporaneo.   La stretta connessione della riflessione etica con situazioni di conflitto e di  disaccordo sembra voler suggerire che proprio all'etica in quanto tale spetta  di proporre una soluzione e che quindi rientra negli obiettivi specifici del-  l'etica teorica prescrivere esplicitamente ciò che è bene o giusto fare in situa-  zioni particolari. Una pretesa che nel corso della nostra ricostruzione delle  varie posizioni riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea avremo l’oc-  casione di valutare criticamente.   L'elaborazione etica di cui renderemo conto in modo più sistematico in  questo scritto si colloca in un quadro generale individualistico. A monte in-  fatti della nostra rivisitazione dell'etica vi è l’assunzione filosofica che in gene-  rale i problemi con cui si ha a che fare riguardano individui ovvero persone  umane. L'etica così intesa si muove in un contesto — che può essere conside-  rato come proprio del pensiero moderno da Cartesio in avanti — in cui i pro-  blemi di fronte ai quali ci si trova sono problemi che nascono per esseri umani  particolari e finiti. Anche se nei primi secoli della ricerca moderna la rifles-  sione era volta a fissare il campo dell'etica tenendo conto della natura umana  complessivamente intesa, fin dal secolo XVII essa muoveva da problemi pra-  tici di individui ben determinati. Il lettore troverà dunque privilegiata nel-  l'esposizione seguente una tradizione empiristica e naturalistica nella quale,  tra il XVII e il XXX, si sono collocati tra gli altri: Thomas Hobbes (1588-  1679), John Locke (1632-1704), David Hume (1711-1776), Adam Smith  (1723-1790), Jeremy Bentham (1748-1832), John Stuart Mill (1806-1873),  Henry Sidgwick (1838-1900). La riflessione sulla morale di Immanuel Kant  (1724-1804) malgrado non rientri in questa tradizione sarà tenuta presente  per la sua capacità di far valere l'ottica di una responsabilità individuale auto-  noma nella vita morale, Esponenti del neoempirismo e della filosofia analitica  hanno contribuito nel corso del XX secolo a questo approccio più generale  nei confronti dell’etica — e il loro contributo sarà largamente presente nelle  pagine seguenti —, che è stato più recentemente caratterizzato esplicitamen-  te come «individualismo metodologico». Una linea di ricerca ampiamente  percorsa — anche se non senza differenze — in Italia, ad esempio, da Er-  minio Juvalta, Nicola Abbagnano, Giulio Preti, Uberto Scarpelli e Norberto  Bobbio.   È vero che i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si trovano  effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che rendono possibili laserie di riflessione di pertinenza dell'etica sono probabilmente più rari di    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 1l    quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita dell'etica e il fiorire della rifles-  sione pratica a cui abbiamo assistito nella seconda metà del secolo XX (dai  disaccordi pubblici sulle questioni di giustizia distributiva e di discrimina.  zione che hanno caratter izzato gli anni Settanta, ai conflitti che negli anni Ot-  tanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far valere di fronte alle  nuove condizioni del nascere, morire e curarsi degli esseri umani) mostrano  l'ampio radicamento nella vita comune di questa dimensione filosofica. Pro-  babilmente riflessioni e decisioni si svolgono in modo meno esplicito e più  impersonale (attraverso la meditazione della discussione pubblica intersogget-  tiva) di quanto risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle  pagine seguenti, senza la pretesa di tutto abbracci are o risolvere, renderemo  conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni elaborate per  avere a che fare con quelle scelte individuali che sono influenzate da ragioni  etiche.    2. Lanatura dell'etica.    2.1. Meta-etica e meta-morale. — La riflessione sulla natura dell’etica ha  una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e critica alla cui  genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si tratta infatti, in primo  luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a cui si riflette econseguente-  mente di individuare quali siano i criteri cui si può ricorrere per risolverli 0  mettere alla prova la validità delle soluzioni alternative che ci si presentano.   Un esempio particolarmen  te rappresentativo di questo percorso logico  troviamo delineato da George Edward Moore nei suoi Prircipis Ethica  (1903). Moore chiarisce che il problema centrale dell'etica — a suo parere,  l’unico problema dell'etica — è quello di fornire una definizione delle princi-  pali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni di  buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte le no-  zioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella fondamen-  tale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive Moore:    Ciò che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo contrario «cattivo», il solo oggetto  semplice di pensiero che appartenga peculiatmente all'etica. La sua definizione, di con-  seguenza, è il punto essenziale nella definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo  punto porta con sé un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che qualsiasi  altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è pienamente compresa è  non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il resto dell’etica ha un valore praticamente  nullo dal punto di vista della conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è impossibile che,    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    12 ETICA    finché non si conosca la risposta, si possa sapere quale è la prova richiesta per un giudizio  etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come scienza sistematica è dì fornire  ragioni corrette per pensare che una cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla  nostra domanda tali ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49).    Secondo l’impostazione di Moore dunque — che faremo nostra — i me-  todi di prova e confutazione che hanno efficacia in etica potranno essere iden-  tificati solo dopo che avremo capito la natura dell'etica, ovvero il tipo di pro-  blemi di fronte ai quali ci troviamo laddove è in gioco la parte morale della  nostra esistenza.   Cominciamo quindi con il passare in rassegna criticamente le più impor-  tanti concezioni sulla natura dell'etica. In filosofia è corrente una nozione per  riferirsi a questa parte della ricerca e, specialmente in questo secolo, ci si è  molto dilungati sulle diverse meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui que-  ste etichette in un senso generico e che le rende equivalenti senza investire la  distinzione tra etica e morale su cui invece ci soffermeremo nel $ 6). Una de-  terminata concezione meta-etica o meta-morale si colloca sul piano conosci-  tivo e logico. Essa si propone infatti, prima di tutto, di farci capire qual è la  natura dell'etica e quali sono i metodi di prova e dimostrazione in essa in vi-  gore. Tutto ciò è preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a sotto-  scrivere una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi non  solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in genere come  del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si tratterebbe dunque, per  usare formule che piacciono molto ai filosofi, di identificare preliminarmente  ciò che è comune a tutti i punti di vista etici in quanto etici, per eventual-  mente passare poi a sottoscrivere una determinata etica a preferenza di altre.   Naturalmente vi sono anche pensatori che negano che una meta-etica neu-  trale e del tutto priva di implicazioni normative sia possibile. In questalinea  troviamo un autore di tendenze analitiche come Scarpelli che sottolinea la na-  tura prescrittiva di tutte le scelte a monte della costruzione di una particolare  meta-etica (Scarpelli, 1982: 102-112). Ma anche autori del filone postanalitico  come Hilary Putnam e Donald Davidson che negano la validità dell'assun-   zione che distingue tra forma e contenuto, distinzione a monte della tesi della  neutralità delle teorie meta-etiche (H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992).  Questa controversia riguarda però più propriamente il modo di intendere il  lavoro filosofico e il modo di concepire le relazioni e connessioni tra analisi  concettuali e logiche e opzioni valutative e normative e dunque in questa sede  laasciamo da parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la questione  di quale si debba considerare l'oggetto proprio delle analisi meta-etiche. Se    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 13    cioè esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il linguaggio morale  — come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e specialmente gli  esponenti della  filosofia del linguaggio ordinario come ad esempio Charles  Leslie Stevenson, Richard Mervyn Hare e Patrick Horace Nowell-Smith (si  veda C. L. Stevenson, 1962; R. M. Hare, 1968; P. H. Nowell-Smith, 1974), o  possano essere caratterizzate in modo meno ristretto. Più recentemente, ad  esempio, Bernard Williams ha suggerito di considerare come oggetto proprio  delle analisi sulla natura dell'etica — in coerenza con una concezione più li-  berale dell'analisi filosofica — non solo i discorsi, ma anche esperienze,  azioni, emozioni ecc. (B. Williams, 1987). Tenendo conto del livello generale  di questo scritto potremo fare tesoro di questa proposta liberalizzatrice e con-  siderare come campo della meta-etica o della meta-morale l'insieme delle di-  verse dimensioni della vita etica degli uomini.    2.2. La concezione dell'edonismo egoistico. — La via più ovvia per identi-  ficare la natura generale dei problemi che sorgono quando stiamo scegliendo  o decidendo tra differenti alternative che ci stanno di fronte è quella di soste-  nere che in realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta chiaro cosa ci con-  viene fare di più. Ovvero — lasciando da parte la questione di una differenza  tra le più specifiche caratterizzazioni di che cosa intendiamo con la formula  «ciò che ci conviene di più» —-ciò su cui stiamo deliberando è solo l'indivi-  duazione del corso di azione che farà maggiormente il nostro proprio inte-  resse, 0 ci darà più piacere o ci farà guadagnare di più ecc. Questa concezione  meta-etica riconduce quindi le azioni in gioco in questa dimensione della no-  stra vita pratica all'interno di un contesto che riguarda le azioni umane in  generale: tutte le azioni umane sono rivolte a ottenere il proprio personale  piacere e a evitare il dolore. Si tratta di una concezione che riconduce l'etica  all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che — con una certa ap-  prossimazione interpretativa — viene attribuito a pensatori come Epicuro e  Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law Natural  and Politic (1640, Elementi di legge naturale e politica) sostiene: «Ogni uomo,  dal canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e male  ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un altro nella co-  stituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla co-  mune distinzione di bene e male. Né esiste una cosa come l’agaton aplos, vale  a dire il bene assoluto» (Hobbes, 1985: 50-51).   Questa concezione della natura dell'azione umana in generale in realtà  porta a negare che vi sia una dimensione etica nella vita degli esseri umani.  Infatti ci troviamo di fronte a una posizione che propone di tradurre tutti gli    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    14 ETICA    enunciati 0 giudizi etici in questioni che hanno a che fare esclusivamente con  valutazioni, pro 0 contro una certa linea di azione, sulla base di un criterio  esclusivo che è quello del proprio personale tornaconto. La natura dell'etica  non viene certo caratterizzata in questa direzione da tutti coloro che presen-  tano delle teorie meta-etiche o meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da  un punto di vista epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte  le diverse concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici e  sostantivi, il campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e valu-  tazioni che hanno come punto di riferimento degli obiettivi che vanno al di là  del solo interesse personale.   Naturalmente una caratterizzazione dell'etica che insiste sulla natura non  interessata, imparziale e generale del punto di vista che essa coinvolge pone  come questione preliminare quella più propriamente empirica e psicologica  della possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da motivazioni  non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine seguenti (cfr. jn-  fra $$ 3.3, 4.8 e 5.1) che una delle grandi questioni intorno a cui sono conver-  gentemente confluiti gli sforzi di melti pensatori è proprio quella di riuscire a  salvaguardare nel comportamento umano uno spazio per le azioni mosse da  ragioni etiche e dunque non strettamente egoistiche. In questa sezione ci limi-  tiamo dunque a fissare in via del tutto preliminare il punto su cui convergono  le diverse concezioni sulla natura dell'etica e della morale di cui renderemo  conto in questo paragrafo.   In modi diversi le numerose concezioni meta-etiche cercano di rendere  conto di un fatto considerato più o meno acclarato ovvero che nella vita degli  esseri umani esiste una sfera di azioni, scelte, valutazioni che è di pertinenza  dell'etica e della morale. Questa sfera ha a che fare comunque con valori,  principi, criteri, norme, regole che riguardano la condotta degli uomini ove la  si veda come non esclusivamente indirizzata verso la realizzazione di obiettivi  strettamente egoistici ponendosi dal punto di vista di ciascuno degli agenti. Vi  è cioè secondo le diverse teorie meta-etiche che ora passeremo in rassegna  una dimensione sovraindividuale e intersoggettiva (se non addirittura univer-  sale) coinvolta nelle azioni umane e che sarebbe appunto quella di pertinenza  dell'etica. Sulla base di questa premessa comune le meta-etiche si differen-  ziano poi per il modo di rendere conto di questa dimensione e conseguente-  mente delle vie per fondare e giustificare scelte e giudizi etici corretti.    2.3. L'etica come insieme di comandi divini. — Una delle teorie meta-eti-  che più antica e fortunata è quella che ritiene che al centro dell’etica vi siano  una serie di doveri e di obblighi che ricavano la loro origine, validità e forza    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 15    dal fatto di essere comandi di un’autorità superiore. In genere poi all'interno  di questa concezione meta-etica si tende a identificare l'autorità i cui comandi  vengono messi in pratica nell'etica con una qualche divinità, si tratti del Dio  di una delle diverse religioni positive, o piuttosto l'Autore della Natura della  religione naturale, o ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni po-  liteistiche.   Nel mondo moderno una tale concezione meta-etica è stata presentata  nella forma più chiara dai teorici del giusnaturalismo provvidenzialistico del  XVII secolo e in particolare la si trova difesa approfonditamente da Locke  negli Essays on the Law of Nature (1660-1664, Saggi sulla legge naturale). Si  tratta di una concezione meta-etica che proprio per il riferimento essenziale ai  comandi di una autorità sovrannaturale considera primarie e centrali per ren-  dere conto di questo campo della vita umana le nozioni di legge, obbliga-  zione, dovere e mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali quelle di  buono, giusto, diritti, virtù ecc. In questa prospettiva l'etica è poi strettamente  connessa con la religione. Infatti se tutto ciò che è in gioco nelle nozioni eti-  che è un qualche comando o legge di un’autorità divina che rende obbligatori  i suoi dettami attraverso sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire al-  lora un'etica così intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove del-  l'esistenza dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a insormontabili  difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza nell'esistenza di un  essere che trascende la natura. I fautori della concezione che vede nell’etica  una serie di comandi o leggi o ordini di una qualche autorità divina, giunti a  questo punto o riterranno scomparsa l'etica dall'orizzonte della vita degli uo-  mini 0 dovranno indicare una qualche autorità terrena da cui fare dipendere  la validità dei principi etici 0, infine, dovranno abbandonare del tutto la meta-  etica che rende conto dei principi morali come di comandi di una qualsiasi  autorità. Una trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hob-  bes portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico. Ma  più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad oggi, con  una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica moderna e con-  temporanea come un processo di progressivo allontanamento della meta-etica  in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal soggetto che sceglie,  decide o giudica eticamente.   Laddove si istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si aprono  le due diverse possibilità dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene  che l’etica non sia altro che un insieme di comandi divini può infatti ritenere  che Dio comandi ciò che è bene perché lo riconosce come tale oppure — alla  lucedi una concezione volontarista — può concludere che ciò che è buono è    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    16 ETICA    tale proprio in quanto è Dio a volerlo. Non ci soffermeremo sulle difficoltà  presenti in queste due distinte vie teoriche. In particolare l’intellettualismo  sembra andare incon tro alta difficoltà di rendere in qualche modo il bene pre-  cedente e superiore a Dio. Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea  ovvero con la questione dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la  necessità di ammettere un qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso.  Si può ipotizzare che proprio le difficoltà incontrate — una narrazione di  queste difficoltà si può trovare nei volumi di S. Landucci (1986)e M. E. Scri-  bano (1988 e 1994) — nel corso del XVII secolo nel delineare in modo coe-  rente e accettabile queste diverse strategie per fare dipendere il bene morale  dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del crollo della concezione  meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di questa concezione si sono  andate consolidando le meta-etiche che ritengono costitutiva per una ricostru-  zione adeguata di questo campo il pieno riconoscimento dell'autonomia del-  Petica.   Cerchiamo di delineare sia pure sommariamente le principali argomenta-  zioni che giustificavano questo sforzo di ricondurre l'etica alla legge divina.  Nella sezione successiva ricostruiamo invece il tentativo di connettere comun-  que l’etica ai comandi di un'autorità, non già però sovrannaturale, ma solo  terrena e positiva.   Come si è detto la biografia intellettuale di Locke è particolarmente signi-  ficativa per chi sia interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e con-  tro un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era quello di conciliare  questa concezione meta-etica con ragioni che potessero essere accettate an-  che, al di fuori della metafisica innatistica del pensiero medievale e cartesiano,  da chi si muoveva accettando un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni  vantaggi a favore di una concezione della morale e dell'etica come una legge  divina presente nella natura umana. Quest'impostazione permetteva di risol-  vere in modo semplice le complesse questioni della motivazione propria della  condotta etica e dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra  con chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in defini  tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in cui i prin-  cipi venivano appunto considerati come eterni e universali e obbligatori per  tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente ripete Locke — e non solo  negli Essays on the Law of Nature, ma anche in An: Essay concerning Human  Understanding (1690, Saggio sull'intelletto umano) e negli scritti pubblicati  dopo il 1690 — un'adeguata filosofia morale deve riuscire a delineare le con-  dizioni che rendono vincolante principi e regole, ovvero la legge naturale, per  tutti gli esseri umani in qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 17    di una filosofia morale non è solo mostrare che un certo principio è vincolante  e obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché noi rico-  posciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo concependo la  legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio. Solo questo in-  fatti garantisce che il comando sarà giusto, direttamente presente în tutti gli  esseri umani e vincolante in modo efficace in quanto tutti sanno che qualsiasi  defezione alla legge sarà punita da Dio senza scampo in una vita eterna.   Locke nella sua presentazione della natura dell'etica come una legge natu-  rale non solo si sforzava di insistere sulla natura obbligante di questa legge  facendola derivare da un comando divino, ma di rendere possibile la conosci-  bilità di questa da parte della coscienza umana senza doverla presupporre  come innata o ammettere un consenso universale non riscontrabile empirica-  mente. Proprio il fatto di fare derivare la conoscenza della legge naturale da  un processo che univa senso e ragione portava Locke a considerare tale legge  come costitutiva della natura umana. Locke finiva dunque con il congiungere  la concezione che vede l'etica come il campo dei comandi divini con un’altra  concezione che vede piuttosto l’etica come l’esplicitazione di quelli che sono i  caratteri necessari della natura umana. Nelle sue analisi Locke non distin-  gueva tra due strategie radicalmente diverse, quella che concepisce la legge  morale naturale come un comando divino che ci viene direttamente comuni-  cato da Dio o da un suo interprete autorizzato e quella che invece vede la  legge naturale come qualcosa solo indirettamente scopribile ricostruendo le  leggi morali incorporate nella condotta umana.    2.4. L'etica come comando di una qualche autorità. — L'insistenza sulla  tesi che la natura propria dell'etica può essere colta solo mettendo al suo cen-  tro principi morali che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è  presente anche in un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e meta-morale.  Si tratta di quella concezione che, negata la possibilità di riconoscere una au-  torità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato concettuale  dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini mondanizzati della  natura vincolante della morale. Questa strategia di traduzione dell'etica del  comando divino nella meta-etica che definisce comunque le nozioni morali in  termini di imperativi o comandi sia pure di una autorità terrena e umana fu  percorsa già nel corso del XVII secolo, ad esempio secondo alcuni studiosi di  etica da Hobbes. Ma l'interpretazione di Hobbes in questo senso è contro-  versa e dunque risulta dubbia la possibilità di rendere conto della sua con-  cezione della legge etica o morale considerandola come una concezione che  la riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né ritengo che, di-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    18 ETICA    versamente da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica (ad esempio  M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa ritrovare nell'opera  del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in quanto è chiaro da un  punto di vista concettuale che per un utilitarista il criterio decisivo dell'etica  non è il rinvio a qualcosa che è comandato — secondo procedure ricono-  sciute idonee — ma direttamente a ciò che è accettabile in termini di utilità  generale. Tale concezione può dunque essere più correttamente attribuita ad  autori come John Austin o, per venire al secolo XX, ai sostenitori del positi-  vismo giuridico come Hans Kelsen. Si tratta di una concezione legalistica del-  l'etica; ciò che ha una validità etica può essere obbligante solo se vi è un’au-  torità che è in grado di fare rispettare, con opportune sanzioni, la legge o le  regole codificate. Tale impostazione non solo esige una qualche codificazione  dell'etica, ma richiede anche che vi sia una autorità in grado di fare rispettare  i suoi decreti.   Numerose sono le obiezioni che sono state mosse a questa concezione le-  galistica dell’etica e in generale a una concezione come quella che sarà svilup-  pata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di ricondurre la to-  talità del valore etico ai comandi di un'autorità positiva in grado di fare rispet-  tare con l'uso della forza i suoi decreti. Già nel XVII secolo viene messa a  punto un’ampia batteria di critiche. Esse rendono difficile accettare questa  concezione come in grado di spiegare la natura dell’etica in generale e fini-  scono con il delimitarne la portata esplicativa, eventualmente, al solo diritto  positivo strettamente inteso (cfr. infra, $ 6.2).   Ricordiamo alcune di queste critiche. Il punto decisivo sta nel fatto che  ricondurre l'etica a un insieme di comandi non permette di discriminare  — come ha mostrato nel dettaglio ad esempio F. Snare (Snare, 1992: 13-30) —  tra tre situazioni che sono concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella  di chi accetta un comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi pro-  mulga il comando, ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio e  vincolante in quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza effi-  cace coercitiva per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è poi la posi-  zione di chi accetta un comando in quanto riconosce un'autorità a chi pro-  mulga il comando. In questa posizione ricadono non solo i fautori — di cui  abbiamo già detto nella sezione precedente — di un legalismo religioso alla  Locke che vedono il comando divino come obbligante non potendosi non  avere «fiducia» nell’autore della natura che non può regolarsi in modo di-  verso da quello proprio di un padre buono. Vi ricadono anche i fautori del  positivismo giuridico (per una presentazione ed una critica di questa posi-  zione sono utili Bobbio, 1965; Scarpelli, 1965} che ritengono di non potere    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 19    non obbedire alle leggi promulgate da un'autorità che riconoscono come le-  gittima in quanto rispetta le procedure costituzionalmente previste per pro-  mulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è la posizione di coloro che accettano  un comando in quanto discriminano tra comandi giusti e comandi ingiusti e  dunque rispettano le leggi del loro paese fino a quando le considerano etica-  mente accettabili. Si tratta di tre situazioni ben distinte e una meta-etica che  non riesca a mantenere autonoma l'obbligatorietà della morale dalla mera ac-  cettazione di un comando legittimo o dal timore di una qualche sanzione data  da un potere che ha la forza di costringerci risulta una meta-etica inadeguata.   Le critiche alle concezioni religiose o legalistiche della natura dell’etica  sono una chiara via pet giungere a cogliere l'autonomia dell'etica. L'autono-  mia che così viene in primo piano è quella di decisione di ciascun soggetto  individuale responsabile. L'etica ha a che fare con decisioni autonome di in-  dividui che non possono ritenere risolti i loro problemi meramente facendo  appello a una qualche autorità che comanda loro che cosa fare. In realtà resta  sempre aperta da un punto di vista etico la domanda che conta ovvero se ob-  bedire o meno al comando riconoscendolo giusto. Il senso peculiarmente  etico di tale domanda ci si rivela laddove comprendiamo che con essa ci si  chiede non tantose l'autorità che ci sta di fronte sarà in grado di scoprirci o  punirci ove non rispetteremo i suoi comandi, quanto piuttosto se il comando  è giusto o meno, ovvero se è o no moralmente accettabile.   Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo giuridico non riescono  dunque a discriminare tra potere giusto e ingiusto. Collocandosi al loro in-  terno non trovano una spiegazione tutte le situazioni — su cui ha molto insi-  stito Ronald Dworkin (Dworkin, 1990) nella sua critica al riduzionismo meta-  etico del positivismo giuridico — quali quelle in gioco quando ci si rifiuta di  obbedire a un comando ingiusto (le forme di totalitarismo del XX secolo  hanno di continuo fatto sorgere per gli esseri umani dilemmi del genere}. Ma  più in generale partendo da una concezione meta-etica del genere non si rie-  sce a spiegare proprio la genesi di istituzioni quali la giustizia e il governo.  Naturalmente intendiamo riferirci a una genesi che cerchi sul piano logico-  critico le ragioni della validità morale di un certo governo e della giustizia,  non già a una genesi che si contenti di qualche risposta di ordine storico 0  fattuale. Le concezioni che riconducono la validità dei principi morali a co-  mandi vincolanti dati da una qualche autorità tendono infatti a considerare  che l'unico problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi della va-  lidità del potere di un certo governo o di determinate regole di giustizia non è  altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo governo esiste o meno  e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro paese. Chi riduce    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    20 ETICA    l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere conto del  perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e leggi ingiuste. In  questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso porsi il problema, che  pure sembra centrale per l'etica moderna e contemporanea, dello spiegare  quali sono le basi per cui si debba obbedire a una qualche norma anche  quando si sa che non c’è nessuna autorità in grado di osservare il nostro com-  portamento e dunque premiarci o punirci per la nostra fedeltà o la nostra de-  fezione. Se l'unica validità di una legge etica è data dalla forza che chi la co-  manda ha di farla rispettare, è evidente che non c’è nessuna ragione di seguire  una norma etica quando l’autorità non è in condizione di raggiungerci con le  sue sanzioni, Questa concezione meta-etica dunque non solo non spiega il  passaggio da una situazio ne priva di etica a una in cui vi è un qualche princi-  pio etico, ma finisce con il lasciare sempre aperta — in definitiva come fisio-  logica e legittima — la possibilità di defezionare dai comandi dell'etica ove  si sia in condizione di sfuggire al controllo dell’autorità che li ha promulgati.    2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. — Un'altra concezione sulla  natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è quella che identifica il  bene e il giusto con ciò che è naturale per gli uomini ovvero con ciò che è  razionale per essi. Le derivazioni della morale in termini di ragione umana e  in termini di natura umana rappresentano certamente due diverse concezioni  meta-etiche se le si vede da un punto di vista contenutistico; infatti è ben di-  verso presentare come un tratto definiente del bene e del giusto la natura o la  ragione umana. Per una lunga parte della storia dell’etica però le due vie sono  state fatte coincidere e fino al XVII secolo la natura umana è stata appunto  presentata principalmente come natura razionale. Solo nel XVIII secolo si  sono andate divaricando le due diverse strategie che hanno ricondotto l’etica  o ad aspetti della natura umana non strettamente razionali (i sentimentalisti e  Hume) o proprio alla parte razionale in quanto non influenzata da desideri e  passioni (Kant). Per quanto riguarda queste concezioni che riconducono  l'etica alla natura o alla ragione umana va rilevato che diversamente da quanto  accade nel caso dell'etica del comando divino la definizione del campo pro-  prio del bene e del giusto non viene data rinviando a realtà al di sopra o al di  là degli esseri umani, quali sono appunto i comandi di un Essere Supremo. Ci  troviamo infatti di fronte a concezioni che ritengono di potere rendere conto  del campo della morale ricavandolo integralmente da ciò che è interno all’uni-  verso della vita umana. Si viene così a superare una concezione eteronoma  dell'etica nel senso di una concezione che rinvia a qualcosa che è al di sopra o  al di fuori della natura e ragione umana. Non tutte però le concezioni che    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 21    collegano l'etica alla natura o ragione umana — e che potremmo caratteriz-  zare in un senso molto generale come naturalistiche o immanentistiche — ne  riconoscono pienamente l'autonomia, e non mancano fino al XVIII secolo  concezioni riduzionistiche che tendono ad assimilare l'etica a tratti generali  della vita o della natura umana niente affatto peculiari. Alle concezioni meta-  etiche di Hume e Kant possiamo fare risalire il pieno riconoscimento dell’au-  tonomia dell’etica pure nell’alveo di spiegazioni che fanno ricorso alla natura  o alla ragione umana. Nel senso più radicale di collegamento dell'autonomia  dell'etica con le scelte e le decisioni individuali dobbiamo invece guardare a  un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX secolo.   Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione meta-etica  o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che l'hanno mag-  giormente sviluppata. In primo luogo la tradizione naturalistica che ha guar-  dato — e guarda tuttora — all'etica nei termini metafisici e ontologici propri  della filosofia di Aristotele con le trasformazioni e manipolazioni più o meno  profonde operate dalle filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo luogo  la tradizione razionalistica che possiamo fare coincidere con il giusnaturali-  smo razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno tenute distinte da  queste due strategie meta-etiche che potremmo caratterizzare come riduzioni-  stiche quelle che pur rinviando alle nozioni di natura o ragione umana rico-  noscono uno spazio del tutto autonomo per la morale o l'etica. Così va consi-  derata a parte la forma di naturalismo presente nelle opere di Hume che rico-  nosce nell’etica una dimensione del tutto peculiare della vita umana della  quale non si può rendere conto nei termini di una generale ricostruzione on-  tologica e metafisica della natura umana complessivamente intesa. Va ugual-  mente tenuta distinta dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la ricostru-  zione che della morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo stretto  collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia del campo della  morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione pura conoscitiva e  quello della ragione pratica.   Presenteremo dunque quattro distinte caratterizzazioni dell'etica: nel  senso di un giusnaturalismo ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrin-  secazione di un'unica Ragione ontologicamente radicata; nel senso di un col-  legamento con una natura umana universalmente intesa al cui interno si cer-  cano però tratti che consentano di salvaguardare l'autonomia del campo della  morale; e infine nel senso dell'estrinsecazione di una razionalità pur sempre  sovrastorica e universale ma che viene connotata in una dimensione specifica-  mente pratica distinta da altre dimensioni.   In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi che la virtà e il bene    www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3    22 ETICA    consistono per gli uomini nel realizzare il comportamento che è proprio della  loro natura. L'essere umano è dunque naturalmente etico (come del resto è  naturalmente politico), e l'etica nella sua realtà può essere derivata solo dalla  conoscenza dell'essenza stessa della natura umana. Una prospettiva che tra  l’altro rende praticamente impossibile distinguere il piano dell’analisi meta-  etica da quellodelle analisi normative: identificare lo spazio dell'etica coincide  con l’identificare il bene che gli esseri umani sono naturalmente inclini a rico-  noscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele presenta la più  chiara formulazione di una concezione che ricava la definizione dell'etica  dalla definizione della natura umana. L'elenco delle virtù umane e la loro ge-  rarchia viene infatti derivata da una preliminare conoscenza di quella che è la  natura sostanziale dell'uomo. Anche se in Aristotele si riconosce come propria  della vita pratica una dimensione di indeterminatezza e probabilità che la  rende del tutto diversa dal sapere teorico in cui si possono attingere sia la  certezza, sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza  quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini  la virtù  somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia rappresenti la virtù  suprema della vita associata viene derivato logicamente dalla definizione del-  l'essenza dell’uomo come appunto animale razionale propriamente adatto al  sapere teorico e al vivere in società. Vi è nell’etica aristotelica non solo una  derivazione della definizione dell’etica da quella che si ritiene la natura essen-  ziale e sostanziale dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica  per rendere conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto  dinamico e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene per  l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a qualcosa di  già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno dell'uomo a realizzare  quello che è lo scopo ad esso più proprio.   Questo impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filo-  sofia di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo come  struttura portante della concezione mediante cui il cristianesimo elabora il suo  peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana (si veda Maritain,  1971). Nella tradizione cristiana non è necessario percorrere la strategia che  riduce l’etica direttamente ai comandi divini: si può infatti percorrere anche la  strada che vede la natura umana come di per se stessa fornita di caratteri etici  imprescindibili. L'Autore della Natura con la sua bontà e provvidenza ha  creato la natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel par-  ticolare te/os che le permette di realizzarela felicità e i risultati migliori per gli  uomini. Realizzare i fini propri della natura umana diventa così un comanda-  mento anche per la religione cristiana in quanto appunto nella n atura umana    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL’ETICA 23    sono rintracciabili chiaramente i tratti distintivi propri della vica etica. Ciò che  è innaturale risulta negativo e malvagio e nello stesso ordine naturale delle  cose possiamo rintracciare la regola di ciò che è buono e giusto.   Ma questa via di ricondurre l'etica a qualche tratto tipico della natura  umana viene percorso nel pensiero moderno e contemporaneo anche su basi  diverse da quelle metafisiche e ontologiche proprie dell'etica aristotelica. Se il  carattere comune în base al quale caratterizziamo una meta-etica come natu-  ralistica è quello di ricondurre i tratti distintivi dell'etica a qualcosa che è pe-  culiare della natura umana allora numerose meta-etiche naturalistiche sono  state presentate anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme moderne e  contemporanee di naturalismo rifiutano poi di irrigidire la natura umana alla  luce di una concezione sostanzialistica e di conseguenza non percorrono la  strada che presenta l'etica come qualcosa di ontologicamente o concettual-  mente necessario per una definizione della natura umana ed evitano anche di  ricorrere alla strategia finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica,  per fondare il campo della morale. Presentiamo alcune di queste meta-etiche  naturalistiche delineate nella cultura moderna econtemporanea e alcune cri-  tiche ad esse mosse.   Abbiamo un filone di meta-etiche naturalistiche, inaugurato dalla filosofia  di Anthony Ashley Cooper Shaftesbury, che pone al centro dell'etica un qual-  che istinto 0 sentimento originario e irriducibile ad altro: un «senso morale»  proprio di tutti gli esseri umani, Qui ci troviamo non solo di fronte a una  meta-etica chiaramente immanentistica, ma anche a una con cezione che non  deriva la definizione dell’etica da una caratterizzazione di tipo essenzialistico  della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli esseri umani. Re-  sta poi vero che attraverso questa procedura empirica si ritiene di potere in-  dividuare qualcosa che è comune a tutti gli uomini e quindi come tale proprio  della natura umana e almeno nel caso di Shaftesbury, e dopo di lui di Francis  Hutcheson, anche qualcosa di originario. Va sottolineato che l'etica viene qui  collegata alla disposizione da parte degli uomini a reagire alle cose del mondo  sulla base di qualche sentimento o senso piuttosto che in termini meramente  intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo XVILI vi è stata una meta-  etica riconducibile a una forma di naturalismo sentimentalistico. L'etica in-  fatti ha a che fare con sentimenti e emozioni proprie di tutti gli uomini anche,  ad esempio, per Hume e Smith. Nel caso di Hume tale caratterizzazione in  termini naturalistici dell'etica risulta temperata, sia dalla portata complessiva-  mente ipotetica delle sue spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i senti-  menti e le emozioni proprie dell’etica come in larga parte non originarie, ma  piuttosto come il risultato di un processo artificiale di sviluppo della natura    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    24 ETICA    umana. Di conseguenza da una parte l'etica si presenta come qualcosa che ha  a che fare con un risultato artificiale e non originario della vita umana, ma  dall'altra questo stesso artificio è presentato come del tutto naturale per gli  uomini nel senso che Hume ne ricostruisce la genesi ricorrendo a cause natu-  rali. Tale concezione naturalistica è stata così vista — ad esempio da M. Ruse  (1986) — come un precedente di quella evoluzionistica elaborata da Charles  Darwin e che si trova sviluppata poi a un livello filosofico (non privo di incli-  nazioni assolutistiche) in Herbert Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico  l’etica viene considerata come un insieme di istinti e abitudini cooperative ac-  quisite dagli uomini nel corso dell’evoluzione, ma una derivazione evolutiva  dell’etica non esclude che essa venga considerata — specialmente laddove si  insiste sulle sue radici biologiche — come propria di tutta la specie umana.   ‘Tutte queste diverse forme di meta-etica naturalistica sono state sottoposte  a critiche radicali lungo due linee convergenti, tra la fine del XIX secolo e la  prima metà del XX. Da una parte si èobiettato, come ad esempio fa J. $. Mill  nel primo dei suoi Three Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione)  dedicato alla natura (Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità  della nozione di natura che come tale è del tutto incapace di fornire un qual-  che criterio preciso per avere a che fare con i problemi etici, dato che sta le  azioni più crudeli sia quelle più generose rientrano nella Natura latamente in-  tesa. Dall'altra si è obiettato, come fa ad esempio G. E. Moore nei Prircipia  Ethica (Moore, 1964: 91-120) che da un punto di vista logico econcettuale il  naturalismo cade nella cosiddetta «fallacia naturalistica» riducendo appunto  a naturale ciò che non lo è (cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11).   Malgrado queste critiche nel XX secolo concezioni naturalistiche dell’etica  sono state pur tuttavia riproposte, sia in termini evoluzionistici (ad esempio  nel caso della sociobiologia, specialmente da E. Wilson, 1975), sia attraverso  forme aggiornate di neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978 e A. Mac.  Intyre, 1988).   In contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno viste quelle con-  cezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola alla natura  umana, in generale, quanto piuttosto collegandola strettamen te, in modo più  specifico, con la ragione umana. Tale strategia è stata percorsa lungo due di.  verse linee, Da una parte i razionalisti etici del XVII secolo, quali ad esempio  i giusnaturalisti Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano questa ra-  gione umana come una facoltà ontologicamente garantita in grado di cogliere  l'essenza stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri (Bobbio, 1963).  Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla base dei numerosi  tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica dimostrata, un com-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL’ETICA 25    pito verso cui tendono pensatori per altri versi molto differenti quali ad esem-  pio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel Clarke. L'idea era quella di  presentare una morale che derivasse le leggi del comportamento umano da  principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi per definizione, o radicati nella  struttura metafisica del mondo.   Il razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al d  i  fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o dimostrativo. Questa è ad  esempio la strategia percorsa nel modo più rigoroso ed approfondito da Kant  nella Kritik der praktischen Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma  poi ampiamente ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di  Kant l'etica ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo,  quanto piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa anzi,  salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il dovere al fatto, la  morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta nell'etica non è la ragione  pura conoscitiva ma è la ragione pratica. L'etica secondo Kant non ha un con-  tenuto diverso dai principi generali che presiedono alla possibilità stessa di  una razionalità pratica per gli uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che  fare con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà umana in ge-  nerale. L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di qual-  sivoglia volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo partico-  lare, ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale. L'etica rende così  esplicita la struttura categoriale della razionalità pratica umana. Vedremo nel  paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi precisi a cui Kant giunge muo-  vendo da questa concezione meta-morale; qui ci limitiamo a sottolineare al-  cuni tratti della meta-etica kantiana.   Nel caso della caratterizzazione della natura della morale fornita da Kant  risulta del tutto salvaguardata l'autonomia dell'etica rispetto alle dimensioni  della conoscenza empirica e della fede religiosa (Landucci, 1993): la raziona-  lità pratica umana è infatti in grado da sola di fondare la validità della vita  morale. Anzi nella concezione kantiana gli stessi contenuti principali della re-  ligione sembrano presentarsi come risultati dell’azione della razionalità pra-  tica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la validità della vita mo-  rale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a qualche altra  cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso l'affermazione della netta di-  stinzione tra ragionpura conoscitiva e ragion pura pratica, sia con la nega-  zione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed emozioni naturali degli  uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi sentimento o emozione partico-  lare degli uomini come in grado di rendere conto della natura della morale,  Kant ritiene anche di  poter giungere a garantire l'universalità della legge mo-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    26 ETICA    rale. Questa teoria meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale ri-  fiuto rigoristico di considerare come bene una qualunque cosa che possa sod-  disfare un sentimento, un'emozione 0 un desiderio individuale.   Malgrado l'impegno con cui Kant si è sforzato di salvaguardare l’autono-  mia dell’etica non sono mancate nei confronti della sua meta-etica le critiche  di coloro che vi trovano una forma di riduzionismo non diversa da quella pre-  sente nell’etica naturalistica. Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è  ridotto a quella che è la legge e la struttura della volontà. E ancora che nei  suoi scritti vi è la riduzione di tutte le ragioni pratiche dei singoli esseri umani  finiti a una razionalità universale e assoluta. Si rileva poi che l’uso di una no-  zione come quella di trascendentale è una traccia del permanere di tentazioni  di tipo ontologizzante ed essenzialistico. Va segnalato che — come avremo  modo di documentare ulteriormente — l’impostazione kantiana ha avuto co-  munque una grande fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni filo-  sofiche molto diverse — quali ad esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel —  la ripropongono in nuove vesti. La tendenza è quella di depurare l'imposta»  zione kantiana dalle tentazioni di ordine metafisico e considerare l'etica come  qualcosa che ha a che fare non tanto con la struttura di fondo della razionalità  pratica quanto con le condizioni stesse della comunicazione umana in gene-  rale o con le presupposizioni della vita civile. Coloro che elaborano il modello  della razionalità pratica kantiana giungono così per quanto riguarda la natuta  dell'etica a conclusioni non molto diverse da quelle raggiunte da alcuni teorici  del prescrittivismo non cognitivistico di cui renderemo conto nella prossima  sezione.    2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile. — Nel corso del XX se-  colo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza è quella preoc-  cupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo tale da se-  gnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto al piano della cono-  scenza empirica e scientifica; potendosi oramai ritenere già del tutto acquisito,  sul piano teorico, il processo che ha portato a segnare il distacco dell’etica  dalla religione. La distinzione dell'etica rispetto al campo della scienza e della  conoscenza empirica è stata poi tracciata su basi molto diverse, rimanendo  dunque costante la tendenza a definire la natura dell'etica come campo del  tutto irriducibile e peculiare della cultura umana.   Così proprio all’inizio del XX secolo Moore consolida in modo definitivo  la tendenza a segnare una completa autonomia dell'etica rispetto alla cono-  scenza empirica 0 metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni eti-  che con una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare. Conclusione    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 21    quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più rigorosamente negheranno  che l'etica abbia a che fare con una forma qualsiasi di conoscenza, ovvero da  quei teorici del non-cognitivismo preoccupati piuttosto di salvaguardare la di-  mensione prevalentemente normativa o prescrittiva al centro della morale. Ma  la soluzione di Moore era quella di indicare nelle proprietà oggetto dell’intui-  zione etica — ovvero nel bene e nel dovere — delle proprietà del tutto uniche  e irriducibili ad altri tipi di proprietà naturali, presentandole quindi come pe-  culiari e indefinibili qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che non ave-  vano riconosciuto l’indefinibilità e l'irriducibilità delle proprietà etiche se-  condo Moore avevano compiuto, in generale, l'errore logico da lui chiamato  «fallacia naturalistica», errore consistente prima di tutto nel ridurre ciò che  non è naturale al naturale.   Su basi diverse all'analoga conclusione dell’affermazione di una netta di-  stinzione tra conoscenza empirica o scienza e ambito della morale arriveranno  anche quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred Jules Ayer in Lan-  guage, Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e logica) — allargavano la  loro analisi verificazionista del discorso fino a presentare conclusioni a propo-  sito della natura dell'etica. La tesi generale di Ayer era quella dell'impossibi-  lità di rend ere conto dei giudizi morali con le stesse concezioni esplicative che  rendono conto delle normali asserzioni empiriche e scientifiche. Ma Ayer non  si limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito delle asserzioni empiriche e  l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della generale teoria del significato  accettata dai neo-positivisti — secondo la quale solo le proposizioni empirica-  mente verificabili, sia pure in linea di principio, hanno un significato — che  l'autonomia dell’etica è data dal fatto che i suoi enunciati, proprio per l’uso di  nozioni quali buono, giusto e dovere non sono verificabili in termini empirici  e dunque sono privi di senso. Ayer non si limitava però alla conclusione nega-  tiva, ma aggiungeva anche una caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer in-  fatti riconosceva alle proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di  esprimere le emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta. Pro-  prio sulla base di questa caratterizzazione emotivistica della natura dell'etica  Ayer finiva con il sostenere sul piano epistemologico che non esistono modi  razionali per cercare di superare il disaccordo in morale (cfr. srfra, $ 3.9).   Anche Stevenson salvaguardava in Ethics and Language (1944, Etica e lin-  guaggio) l'autonomia dell'etica collegandola agli atteggiamenti, mentre le altre  specie di discorso hanno a che fare principalmente con le credenze. Gli stru-  menti teorici generali di Stevenson erano però quelli del pragmatismo e non  già quelli del neopositivismo, e proprio perciò permettevano di delineare una  ricostruzione meno rinunciataria e negativa del discorso etico. Infatti secondo    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    28 ETICA    Stevenson l’etica è costituita da un insieme di giudizi in cui chi parla espone  appunto i propri atteggiamenti e cerca di provocarne di analoghi anche negli  altri. Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in quella dell’«ernotivismo mode-  rato» di Stevenson viene riconosciuto il ruolo peculiare del discorso etico  come pienamente significante sia pure collocandolo su dì un piano non cono-  scitivo. Rispetto al neopositivismo (ma anche all'intuizionismo di Moore) il  punto di svolta sta nel riconoscimento che non solo le conoscenze sono signi-  ficanti. Rispetto a quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica precedente  quello che per Stevenson e i non- cognitivisti diventa centrale non è solo riu-  scire a rendere conto di quanto l'etica sia distinta dalla conoscenza, ma anche  specialmente dello stretto collegamento che essa ha con l'azione e la pratica  effettiva. Su questo piano diventa prioritario nella riflessione meta-etica la sal-  vaguardia della distinzione tra l'è di cui appunto si occupa la conoscenza e il  deve che è di pertinenza della morale.   I fautori della meta-etica non-cognitivistica si impegnano particolarmente  lungo una linea analitica rivolta a rendere esplicito il collegamento del discor-  so etico con l’azione fissando in termini di regole precise e non già di espres-  sione di emozioni questo ruolo del linguaggio umano. In questa direzione  sono stati elaborati numerosi tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessio-  ne europea sull'analisi del linguaggio morale nel periodo successivo alla fine  della seconda guerra mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo.   Rendiamo qui conto della più fortunata tra le concezioni non-cognitivisti-  che, quella di Richard Mervyn Hare, già delineata fin dal 1952 con The Lan-  guage of Morals (Il linguaggio della morale) e poi ripresa e sviluppata, prima  sul piano epistemologico nel 1963 con Freedom and Reason (Libertà e ragione)  € poi su quello normativo nel 1981 con Mora! Thinking. Its Levels, Method  and Point (Il pensiero morale).   Secondo Hare l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui fun-  zione è tale che non può trovare realizzazione in nessuna altra parte del di-  scorso umano: la funzione propria del discorso etico è quella di dare voce a  «prescrizioni universalizzabili soverchianti». Tutti questi tratti dell'etica ven-  gono spiegati dettagliatamente da Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filo-  sofiche generali di L. Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli stru-  menti per dare corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura prescrit-  tiva dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle nozioni  morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e di chi  ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è necessaria-  mente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per cui si imparenta  con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso alle nozioni di dovere e    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 29    obbligo. Si tratta appunto di quel nucleo prescrittivo che veniva perso di vi-  sta da quelle concezioni meta-etiche — quali l'intuizionismo sostenuto da  Moore — che tendevano invece a rendere conto dell'autonomia e specificità  della morale in termini di una conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in  alcun modo una conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni ri-  volte a ciò che deve essere.   Un altro punto importante della concezione meta-etica di Hare è quello  che insiste sul farto che i nostri discorsi morali non solo sono prescrittivi, ma  in realtà trasmettono prescrizioni universali, ovvero prescrizioni che si riten-  gono valide per tutti i casi simili. Il riconoscimento di una universalizzabilità  dei giudizi morali così come affermata dalla meta-etica non-cognitivistica  vuole rendere conto di un'esigenza peculiare di coerenza e strutturazione pro-  pria della vita morale, per cui i giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi di  gusto 0 di preferenza relativamente ai quali tale esigenza non viene abitual-  mente fatta valere. Una distinzione tra giudizi morali e giudizi di preferenza  della quale invece non riuscivano a rendere conto le meta-etiche emotivisti-  che. Attraverso questa via dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti re-  cuperano e includono nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che è stato  fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per coloro che ne  riprendono la concezione della morale. Non diversamente come un tentativo  di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della moralità così come  già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere che Hare riconosce come  proprio dell’etica nel suo modello non-cognitivistico: il fatto di essere sover-  chiante. Ciò significa riconoscere che l'etica è costituita non solo da prescri-  zioni universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti» sono gerarchi-  camente preordinate rispetto ad altre prescrizioni.   Il non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda  metà del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria del-  l'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni universalizzabili  soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici tedeschi dell'etica del di-  scorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel, 1977; Habermas, 1985). Non  sono mancate le critiche a questa concezione che è stata considerata — ad  esempio da B. Williams (1987) — non tanto come una spiegazione o un’ana-  lisi neutra di quella che è l'etica per noi, quanto piuttosto come una posizione  che cerca di imporre una ben precisa concezione, rigida e superata, della  moralità. Altre critiche hanno rilevato come tale meta-etica sembri volere ne-  gare, sul piano logico, la possibilità — invece del tutto aperta a ogni essere  umano — di restare al di fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di  rispondere a questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non so-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    30 ETICA    stiene che non si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della propria vita  prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto piuttosto che non si può  rendere conto in modo logicamente corretto della natura dell'etica e della  morale fuoriuscendo da questo quadro esplicativo.   Altri problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori della meta-etica non-  cognitivistica e avremo occasione di fermarci su di essi nei prossimi capitoli.  Proprio in quanto la meta-etica non-cognitivistica si presenta, secondo chi  scrive, come quella più adeguata e fertile si tratterà di completarne l'esame  affrontandone anche le altre implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr.  $ 3.10), alle forme argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi  eventuali suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7).    2.7. La negazione dell'etica: libertà e determinismo. — Nel rendere conto  delle posizioni che si sono occupate in generale della natura dell'etica dob-  biamo soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi sia  uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda queste posi-  zioni — molto differenziate e sempre più diffuse nel secolo XX — distin-  guiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini possano mai agire  realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una qualche respon.  sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che gli uomini possano  agire liberamente, negano che possano essere effettivamente motivati dalla ri-  cerca di obiettivi non strettamente personali. Le negazioni dell'etica dell'ul-  timo tipo nascono da quelle teorie psicologiche che non ammettono che gli  esseri umani possano essere mossi ad agire da prospettive imparziali o valori  più o meno universali.   Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una libera scelta da parte  dell'uomo sono chiamate abitualmente deterministiche. Va subito precisato  però che qui ciò che è in gioco non è tanto la questione su cui sembrano con-  trapporsi deterministi e non- deterministi se vi possano mai essere per gli es-  seri umani azioni del tutto immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto  la questione se gli uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che  vogliono fare sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili,  comprese le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che noi  proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità etica degli  uomini non si colloca nel quadro di discussione sul determinismo e indeter-  minismo proprio della filosofia medievale, incline a identificare la libertà degli  uomini con un irrealizzabile libero arbitrio, ovvero con una libertà di volere in  assenza di qualsiasi motivazione. In alternativa va invece accettata l’imposta-  zione delle analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte va-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 31    lere nella linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke, David Hume.  Secondo questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si vuole addirittura es-  senziale) con il riconoscimento di una libertà e responsabilità morale nelle  azioni umane, una posizione che considera le azioni umane sempre determi-  nate o motivate da una qualche causa o ragione (W. K. Frankena, 1981: 155-  162). Il punto decisivo nella diatriba non è dunque se le azioni umane siano o  no sempre motivate da ragioni o cause, ma se gli uomini possano 0 meno sce-  gliere liberamente di fare le azioni per le quali hanno motivi o ragioni. In que-  sto senso la libertà delle azioni umane non si contrappone tanto all’esistenza  di motivi o ragioni che determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri  umani sono costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano  comunque delle cause — che essi non possono in alcun modo controllare —  che li costringano a fare delle azioni che, ove fossero liberi, non farebbero. Si  è costretti a concludere che gli uomini non sono liberi € l'etica non ha alcuna  possibilità di sussistere laddove si ritenga non tanto che tutte le azioni umane  abbiano {o debbano avere) dei motivi, delle cause o delle ragioni, ma si ri-  tenga che tali cause e motivi agiscano necessariamente anche laddove gli uo-  mini credano di avere altri motivi e ragioni per agire. Dunque non sussiste  uno spazio per l'etica quando si abbraccia una concezione che ci porta a rite-  nere tutte le azioni umane come effetto necessario di cause esterne ai diffe-  renti individui umani esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri  umani singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche  influenza.   Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso del XIX e XX  secolo hanno insistito sulla completa assenza di spazio per una libera scelta  nelle azioni umane nel senso che abbiamo appena definito. Non possiamo qui  rendere conto di tutte le concezioni del genere; ricordiamo solo quelle più  importanti e certamente inquietanti per chi crede a una qualche realtà ed ef-  ficacia delle distinzioni morali.   Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le sue prime ri-  flessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno alle trasformazioni  delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per la morale di una concezione  evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992: 293-320). Tutto il processo evolu-  tivo è dominato dal caso e dalla sopravvivenza dei più adatti in termini mera-  mente biologici e sessuali. Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in ter-  mini evolutivi riguarda non già i singoli individui, ma le specie nel loro com-  plesso. In questo quadro tutte le azioni umane si presentano come frutto di  cause che riguardano complessivamente la specie umana. Questa prospettiva  biologica sulla vita degli uomini è stata sviluppata e approfondita da autori    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    32 ETICA    che hanno elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson, 1979). A) di  là delle opzioni apparentemente libere che si presentano alle scelte umane, in  realtà tutte le azioni umane sono casuali e soggette a condizionamenti in ter-  mini di ciò che è vantaggioso per la sopravvivenza della specie complessiva-  mente intesa. Così se identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione  cooperativa nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un effetto  dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che ne conseguono sono del  tutto istintive e sottratte al nostro controllo. Del tutto illusoria è dunque la  prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti, disaccordi e scelte drammati-  che di fronte agli uomini e che essi possano responsabilmente e liberamente  dare ad esse una soluzione. La vita umana è sottoposta alle leggi generali della  vita e del tutto casualmente si realizzano processi e trasformazioni, i quali tutti  vanno dunque al di là di qualsiasi libera scelta individuale.   Un'altra concezione che sembra negare qualsiasi spazio alle scelte libere e  responsabili di cui tratta l'etica è quella che viene considerata come una con-  seguenza dell’accettazione dell’impostazione psicanalitica di Sigmund Freud.  È dubbio che una tale schematica concezione sia presente in Freud, che, se  leggiamo opere come Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della ci-  viltà) sembra piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della coscienza  morale all’interno della sua generale teoria sulla dinamica psichica, senza vo-  lersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud, 1978). Ma vi è  comunque una vulgata che considera una conseguenza dell’impostazione psi-  canalitica la tesi che le azioni umane individuali non possono essere viste  come frutto di scelte consapevoli, ma sono il risultato piuttosto di motivazioni  inconsce che sfuggono a qualsiasi controllo individuale. Quando noi rite-  niamo di avere di fronte determinate alternative tra le quali scegliere razional-  mente la migliore, in realtà siamo spinti a percorrere una certa strada da pul-  sioni profonde (amore- odio ecc.) che sfuggono completamente al nostro con-  trollo consapevole e che dettano — anche tenendo conto della nostra storia  psicologica personale — i nostri comportamenti in modo necessario. Una  analoga riduzione delle motivazioni consapevoli ad altre più profonde cause si  troverebbe nella concezione di Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine che  elaborano una qualche tipologia o caratteriologia.   Rispetto a questi approcci alle azioni umane che negano all’etica un qua-  lunque ruolo va mossa una critica preliminare. Queste tesi hanno un valore se  sono presentate come ipotesi scientifiche, ma se vengono presentate come tali  la loro validità non può essere estesa appunto al di là di quella propria di  spiegazioni empiriche per un campo ben determinato di comportamenti  umani. Rendere conto delle azioni umane secondo una spiegazione evoluzio-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LA NATURA DELL'ETICA 33    nistica non può essere presentato — pena l'abbandono del piano scientifico di  discorso — come l’unica e necessaria spiegazione di qualsiasi azione umana,  come una sorta di caratterizzazione essenzialistica e sostanzialistica della na-  tura delle cose. Gli stessi teorici, metodologicamente più avvertiti, dell’evolu-  zionismo — come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins, 1992) — non  hanno mancato di temperare in vari modi questa semplicistica negazione del-  l'etica. Da una parte hanno così insistito sull'incidenza solo statistica e non  necessaria delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche riconosciuto una ca-  pacità degli esseri umani, non solo di essere consapevoli dei processi evolutivi,  ma di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai meccanismi dettati dall’evolu-  zione, Infine si sono impegnati ad elaborare spiegazioni che rendono conto  della superiorità, sul piano evolutivo, di quelle culture che realizzano al loro  interno un equilibrio selettivo stabile intorno ad abitudini cooperative, ri-  spetto alle culture dominate dal completo egoismo individuale.   Una estensione dunque su di un piano ontologico o metafisico dell’evolu-  zionismo risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione o  interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una fuoriu-  scita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione dell’evoluzionismo  in una religione. Non diversamente si può ritenere indebita la generalizza  zione del modello esplicativo proprio della psicanalisi a tutte le situazioni in  cui gli uomini scelgono, decidono e deliberano. La fertilità della psicanalisi è  indubbia laddove è presentata come una spiegazione di ben precise azioni e di  situazioni patologiche del comportamento umano. Ma non si può se non im-  propriamente estenderla in modo tale che essa pretenda di spiegare tutte le  azioni umane in qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce su cui  richiama l’attenzione,   Un'altra strada è stata percorsa sempre più insistentemente negli ultimi  due secoli per negare qualsiasi spazio all'etica. Si tratta qui di quella posizione  che sostiene che gli uomini sono in definitiva mossi solo da motivazioni del  tutto personali ed egoistiche e che dunque cercano sempre e solo la soddisfa-  zione dei loro interessi. È poi molto diffusa la tendenza a caratterizzare questi  interessi in termini strettamente economici. La negazione dell'etica in questo  senso deriva da una concezione essenzialistica dell'azione umana che identi-  fica come unico movente di tutte le scelte la realizzazione del massimo vantag-  gio da un punto di vista economico. Secondo alcuni — ad esempio Louis Du-  mont (Dumont, 1984) — è questo il tipo di prognosi sulla civilizzazione  umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard de Mandeville (Mande-  ville, 1987) e in Smith e che dovremmo realisticamente fare nostra. La tesi  generale è che la realizzazione e il consolidarsi delle società dominate dalla    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    34 ETICA    logica del mercato rende praticamente impossibile la ricerca da parte di cia-  scun essere umano di obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe  quindi, paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture delle società  di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una spiegazione  pluralistica — ancora legittima nel secolo XVII — dell’azione umana che la  riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora saremmo dunque  costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la quale le uniche ragioni  delle scelte e decisioni sono economiche, e tra l'altro quasi mai sotto il con-  trollo dell'individuo. Secondo questa filosofia della civilizzazione sono dun-  que del tutto scomparse le condizioni che permettono azioni mosse da ragioni  etiche, altruistiche 0 universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che  può avere una sua fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato finisce  poi con il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano essenzialistico.  Tutte queste concezioni contestano la possibilità dell'etica sulla base di  una pretesa ingiustificata di caratterizzare in termini sostanziali ed essenziali  l'azione umana. La ricostruzione che dell'azione umana viene offerta da chi  ammette l'incidenza delle ragioni etiche è una delle possibili spiegazioni che  restano aperte nella nostra cultura. Certo non l’unica, forse nemmeno quella  più importante e significativa, ma di sicuro una spiegazione fertile sul piano  esplicativo e non priva di forza prognostica. Se si cerca di rendere conto delle  azioni umane sulla base dell'assunzione che gli uomini sono mossi ad agire  anche da ragioni etiche si riesce — come ha recentemente in vari modi mo-  strato Amartya K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994) — a rendere conto di  alcuni comportamenti effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo  non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con le altre spiegazioni.    3. Fondazione, giustificazione e spiegazione: l’epistemologia dell'etica.    3.1. Dalla meta-etica all'epistemologia. — La ricerca rivolta a identificare  la natura della morale, il senso delle nozioni che operano nell'etica, rappre-  senta un passaggio preliminare prima di affrontare un altro genere di que-  stioni decisivo per l'etica, quello relativo alle vie disponibili per fondare, giu-  stificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi normativi. Sapere che  tipo di domande ci poniamo quando siamo alla ricerca di ciò che è bene ©  giusto fare in una data situazione è appunto preliminare — da un punto di  vista logico e concettuale — per arrivare a individuare le procedure mediante  le quali si può trovare la risposta adeguata.   Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse linee lungo le  quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono conoscere, fondare 0    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 35    giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha a che fare. Nel corso del se-  colo XX vi è stato, prima, uno spostamento deciso dal problema di come  sono conoscibili i valori etici, a quello di come sono fondabili i nostri giudizi  normativi e le nostre decisioni pratiche. Successivamente l'elaborazione filo-  sofica ha visto affermarsi una prospettiva che in luogo della tesi della fonda-  bilità delle conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la possibilità di  giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in gioco. In questo para-  grafo renderemo anche conto di un altro approccio che si è andato sempre  più consolidando nella riflessione etica del secolo XX rivolto non più a fon-  dare o giustificare le conclusioni normative, quanto piuttosto a spiegare la ge-  nesi dell'etica e delle distinzioni che in essa vengono istituite. Quest'ultimo  approccio che abbandona le pretese di elaborare criteri gnoseologici ed epi-  stemologicì per passare ad un'analisi propriamente esplicativa non coinvolge  solo le posizioni (di cui abbiamo reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la  validità delle distinzioni etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in  chi occupandosi dell'etica filosofica si rifiuta di passare sul piano più diretta-  mente prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento riflessivo  nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di procedure gnoseologi-  che ed epistemologiche che essa coinvolge e dei meccanismi genetici che  l'hanno costituita.   Nel rendere conto dei diversi modelli gnoseologici ed epistemologici rico-  noscibili nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo ancora la prospet-  tiva storica con quella critica e teorica. Per procedere con questo bilancia-  mento delle due prospettive le partizioni di questo paragrafo non seguiranno  l'ordine di quelle esposte nel precedente paragrafo, né riprenderanno in  modo esclusivo le distinzioni già fissate a livello di meta-etica. Dal punto di  vista gnoseologico ed epistemologico alcune delle partizioni fatte valere sul  piano meta-etico risultano infatti o troppo strette o troppo larghe, nel senso che  un approfondimento analitico permette di riconoscere diverse procedure epi-  stemologiche alla base della stessa concezione meta-etica o procedure episte-  mologiche analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul pia-  no meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente delineato di  concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo paragrafo.    3.2. La conoscibilità della legge divina. — Come si è già avuto modo di  sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di riferimento essenziale per  chi voglia rendere conto dello sviluppo dell’etica teorica nel senso in cui ne  stiamo trattando in questo scritto. Numerosi pensatori riconoscono che le so-  luzioni a proposito dell'etica devono essere tali da poter essere accettate da    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    36 ETICA    esserti umani, finiti razionali, che siano in grado di ripercorrere la strada che  viene ad essi indicata per superare coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva di  ricerca sull’etica e sulle sue basi epistemologiche e gnoseologiche è ad esem-  pio del tutto operante in Cartesio, che però non la percorre arrestandosi alla  sua soglia. Infatti Cartesio non sottopone anche le verità etiche all’analisi in  termini di dubbio e di ricerca della certezza a cui egli sottopone le altre verità,  e proprio in quanto non intraprende tale indagine si arresta a quella che lui  stesso chiama una «morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente  dalla tradizione e che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa  sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità morali. Questa ri-  nuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non esclude, del resto,  la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle basi antropologi-  che della vita morale e una rivisitazione, per molti versi scettica, delle conce-  zioni tradizionali di virtù e felicità (Canziani, 1980).   Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene invece esplicitamente av-  viata, nel secolo XVII, da pensatori come Hobbes e Locke. Negli scritti di  Locke troviamo in realtà percorse diverse strategie gnoseologiche ed episte-  mologiche per l'etica e il suo problema fondamentale fu proprio quello della  conoscibilità della legge morale e degli articoli della fede religiosa (Colman,  1983; Fagiani, 1983). Locke dunque affronta sistematicamente la questione di  come sia conoscibile la legge morale naturale in un contesto che assume che la  legge naturale è un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente  diverse strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a cono-  scere tale comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro inadegua-  tezza. Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una indicazione delle di-  verse procedure epistemologiche a cui può fare appello chi accetta la tesi che  l’etica sia in definitiva un insieme di comandi divini, sia l'indicazione dei limiti  propri di queste procedure e dunque la difficoltà complessiva di dare una  base razionale al tentativo di derivare l’etica da tesi di ordine religioso.   Una prima strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della  legge morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è rivelata.  Locke si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo appello ai testi  rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The Reasonableness of Christianity, as de-  liver'd in the Scriptures (1695, La ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso  ai testi sacri per la tradizione cristiana può al massimo valere sul piano peda-  gogico e retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte le  religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può rappresentare un aiuto e  una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0 persuadere altri, ma non  può però rappresentare una via adeguata per giustificare una conclusione etica    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 37    per tutti gli esseri umani, Il collegamento della verità etica conoscibile con la  lettura di qualche testo in cui la divinità ha espresso i suoi comandi — oltre il  problema della molteplicità delle interpretazioni possibili della lettera del testo  — comporterebbe l’assurda conseguenza di considerare tutta quella parte del-  l'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di fuori, della rivelazione come del tutto  priva di etica. Una ulteriore conseguenza assurda: considerare del tutto privi di  morale coloro che sono in disaccordo con noi su alcuni dei punti caratterizzanti  la religione rivelata che noi accettiamo.   Lo stesso Locke fa valere una obiezione più generale nei confronti del ten-  tativo di ricondurre la base di validità di una tesi etica al fatto che si tratti del  comando di una certa divinità. Si tratta di una critica contro il volontatismo di  quei teologi che considerano invece questa strategia come in grado di fondare  la moralità. La critica generale presente negli scritti di Locke — già negli Es-  says (Saggi) del 1664 (Locke, 1973) — è che il fatto di trovare un certo co-  mando espresso in un testo che — più o meno fondatamente — crediamo  espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su que-  sto piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di fronte ad un  comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene comandato è giusto. I  sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno sempre considerato come ne-  cessaria e sufficiente la coincidenza tra volontà divina e legge morale, ma la  riflessione moderna e contemporanea ha invece fatto valere sempre di più  l'autonomia dell'etica. Questa autonomia viene affermata già a livello concet-  tuale distinguendo nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che fanno rife-  rimento a ciò che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura. Il  riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano epistemologico  e gnoseologico e porta a fissare con precisione la diversità delle procedure  gnoseologiche con cui si conosce la volontà divina rivelata nei testi sacri ri-  spetto a quelle con cui si conosce la legge morale valida.   Prima di illustrare le vie percorse in positivo da Locke per cercare di fon-  dare razionalmente le conclusioni etiche soffermiamoci invece su una strada  da lui rifiutata. Si tratta di quella concezione che indica in una particolare  coscienza 0 facoltà morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere diret-  tamente i comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e cono-  scere l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione del-  l'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega che  alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in morale e la  nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario delle assunzioni  innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul piano empirico (Locke,  1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci comanda direttamente — senza    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    38 ETICA    per questo servirsi della rivelazione — la legge morale, e che noi abbiamo una  cognizione diretta di tale legge attraverso la nostra coscienza, è stata svilup-  pata, nel secolo XVII, da alcuni neo- platonici di Cambridge, e in particolare  da Herbert di Cherbury con la sua dottrina delle notiones comsmunes. La  stessa linea fu poi riproposta nel secolo XVIII su basi nuove da intuizionisti e  sentimentalisti che conservavano un quadro provvidenzialistico. Così Joseph  Butler legava la conoscenza delle verità etiche all’attività intuitiva di una pe-  culiare «coscienza» capace di obbligare e fornita di autorevolezza, e Hutche-  son indicava nel «senso morale» la base di quel particolare sentimento che ci  fa cogliere la virtà in un mondo ordinato dall’Autore della Natura. Contro la  tesi che Dio ci rende noti direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi  sono alcune argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza  non può essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo disporre  di almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un qualche criterio  che ci permettesse di discriminare quei dettami della nostra coscienza che  sono affidabili da quelli che sono errati. In secondo luogo un qualche fonda-  mento che ci autorizzasse a ritenere — laddove sorgessero disaccordi — che  ciò che ci fa conoscere la nostra coscienza è veramente la legge morale per  tutti gli uomini, anche per quelli che con i loro discorsi e con le loro azioni  testimoniano di non trovare nelle loro coscienze principi analoghi ai nostri.  Rifiutata la via della coscienza Locke invece si impegna positivamente nel  cercare di conciliare una concezione che vede la morale come caratterizzata  da comandi divini con una strategia empiristica. L'accettazione di una episte-  mologia e gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada indi-  retta di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come co-  rando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo ad  accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo avere  percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come all'Autore della  Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale che essi effettiva-  mente siano in condizione di ottenere la loro felicità. Ovviamente questa stra-  tegia comporta l’assunzione che ciò che Dio comanda non può che essere il  bene per gli uomini, un passaggio verso l'accettazione dell’intellettualismo  etico che non vede più nella volontà divina l'unico fondamento del bene e  rende del tutto secondario il valore dei testi rivelati. La strategia di giustifica-  zione della validità della legge naturale morale avanzata da Locke comprende  diversi passaggi: in primo luogo trovando un ordine o un disegno nel mondo  si risale a un autore della natura; poi si postula una natura divina buona e  razionale per cui l’autore della natura non può che volere la felicità degli es-  seri umani; ancora si crede che l’autore della natura non solo abbia trasmesso    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 39    agli esseri umani un insieme di leggi naturali, universali ed eterne, per realiz-  zare la loro felicità, ma anche che abbia messo gli esseri umani in condizioni  di conoscere tali leggi con certezza con il ricorso alle loro facoltà naturali del  senso e della ragione; infine si assume che conoscere tali leggi naturali equi-  vale a essere obbligati a obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le cir.  colarità presenti in questi vari passaggi risultavano già evidenti allo stesso  Locke che nel corso di tutta la sua vita si affannò a cercare di ovviare ad esse.   In effetti la procedura di giustificazione lockiana della validità delle leggi  naturali come comandi divini comporta il continuo passaggio dal piano empi-  rico a quello sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello del dovere. Con  l’aiuto di questa strategia si potrà al massimo disporre di ragioni del tutto ipo-  tetiche a favore di ciò che noi siamo già giunti ad accettare come un comando  divino del tutto indipendentemente e prima del ricorso a queste procedure  gnoseologiche ed epistemologiche. Consapevole di ciò Locke presentava nel-  l’ultima parte della sua vita il suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa  come una via per confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cri-  stiana. Una volta che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del  disegno e le pretese sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura que-  sta strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui far dipen-  dere la validità della legge morale, nulla garantisce che l’autore della natura  sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più in grado comunque di farci su-  perare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di una norma come comando divino  e il nostro accettarla come obbligante. Locke stesso cercò di superare questo  abisso, ma legando la validità e l'efficacia della legge morale naturale non  tanto al riconoscimento che si tratta di un comando divino in sé giusto,  quanto piuttosto al timore per la sanzione che sarebbe derivata in un'altra vita  in caso di infrazione verso di essa. Ma questo tentativo di agganciare la vali-  dità e l'obbligatorietà di un principio etico a una qualche sanzione che segue  una infrazione verso di esso, è una strategia che non possiamo più percorrere  — indipendentemente dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immorta-  lità dell'anima e sull'esistenza di uno stato futuro — ove riconosciamo l’auto-  nomia dell'etica. Fare appello a qualche sanzione ultraterrena infatti al mas-  simo riesce a giustificare o fondare che noi si faccia qualcosa perché temiamo  la sanzione o cerchiamo i premi che una certa autorità lega a questi compor-  tamenti, Ma percorrere questa strada impedisce di vedere che il piano concet-  tuale investito dall’etica è quello che comporta fare ciò che è giusto o bene  fare e non già quello che comporta fare una certa cosa solo perché teniamo la  sanzione di una qualche autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo  obbedire ai suoi comandi.    www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3    40 ETICA    33. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. — Un'altra  strada percorsa per fondare l'assunzione di un punto di vista etico è quella  che cerca di riconnettere la ricerca individuale del bene personale con la con-  siderazione pet il bene comune. Naturalmente non si tratta di quelle conce-  zioni che sulla base di considerazioni empiriche e a posteriori concludono che  la ricerca del bene personale risulta essere l’unica via che consente di realiz-  zare un incremento del bene comune. Una concezione del genere è spesso alla  base della difesa dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è stata  esposta in modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986). Affron-  tiamo invece in questa sezione la questione se si possa o meno fornire un fon-  damento razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano razionali  solo le argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di propri interessi o  piaceri e con «morale» si intende il rispetto di qualche regola generale o  norma di cooperazione quali — ad esempio — mantenere le promesse, rispet-  tare i contratti e obbedire alle leggi del proprio paese.   Questa impostazione è presente in modo del tutto esplicito nelle pagine di  Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà allo «sciocco razionale» nel capitolo  XV del Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power of a Common-wealth Eccle-  siasticali and Civili (1651, Il leviatano; Hobbes, 1976: 139-143) è rivolta a cer-  care di mostrare che, calcolando sulla base degli interessi in gioco, la salva-  guardia di un minimo di principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi  individui. Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di elaborare  una giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento dell'op-  portunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in gioco nel calcolo  prudenziale è stata sistematicamente delineata — nei suoi assiomi e nelle sue  deduzioni — nel corso del XX secolo dalla «teoria della scelta razionale 0  teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985; Resnik, 1990). Proprio tra i teorici  della scelta razionale di questo secolo vediamo ripresentarsi il problema di  Hobbes formulato in un diverso modo (Kavka, 1986). Si tratta cioè di indivi-  duare se e in che modo sia possibile provare la razionalità dell’accettazione di  un minimo di regole cooperative anche quando quest’accettazione sembra es-  sere in contrasto con i nostri interessi più immediati e diretti e ci si trovi in  una situazione in cui un’eventuale nostra defezione unilaterale potrebbe sfug-  gire al controllo altrui.   Già in Hobbes troviamo dunque un tentativo di argomentare a favore  dell'accettazione di regole © principi etici contro le pretese dello «sciocco  razionale» di fare sempre e comunque ciò che è per lui più vantaggioso e  dunque di defezionare o sospendere la propria fedeltà nei confronti della re-  gola o del principio etico quando ciò è per lui più conveniente o quando    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 41    comunque può sfuggire alla sanzione altrui. Torneremo su queste argomen-  tazioni quando — nel $ 4.8 — affronteremo i tentativi di presentare come una  vera e propria teoria etica normativa la teoria della scelta razionale. La situa-  zione dello «sciocco razionale» è molto simile a quella di cui si occupano i  teorici della scelta razionale quando affrontano i problemi posti dal «dilemma  del prigioniero», e si impegnano nell’analisi del comportamento del free rider.  Già Hobbes elaborava alcune argomentazioni che insistevano sulla rischio-  sità di un comportamento di defezione unilaterale e sulla probabilità di rica-  vare un danno nel momento in cui gli altri — prima o poi — giungeranno a  scoprirlo.   Negli ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in vari modi inter-  pretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica. Particolarmente stringente è  stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier, 1986) ha cercato di fondare la  preferibilità di avere una morale in luogo di esserne privi all'interno di quella  posizione che ha caratterizzato come «contrattualismo reale» per distinguerla  dal «contrattualismo ideale» di Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il  quadro concettuale di Rawls con l'assunzione in partenza della validità del  principio di equità implica già l'accettazione di un piano etico e dunque dà  per dimostrato quella che vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare  invece una teoria in cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale origina-  rio che garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da  condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno dei  contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità personale.   Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare all’interno della  teoria della scelta razionale come sia più conveniente e vantaggioso essere un  «massimizzatore vincolato» dall’accettazione di qualche principio etico inter-  personale, piuttosto che un «massimizzatore diretto» che tende sempre e solo  alla soddisfazione dei propri interessi immediati. Gauthier elabora tutta una  serie di argomenti che fanno emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attra-  verso la via della massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con  le disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la massi-  mizzazione diretta propria di chi procede come un free rider,   Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera influenza le op-  portunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di deliberare proprio di un  massimizzatore vincolato potremo aspettarci che egli consenta volontaria-  mente con i termini di un accordo precedente, anche se questo comporta che  egli così vincoli il diretto perseguimento dei suoi interessi. Ma sulla base di  tali aspettative il massimizzatore sarà il benvenuto come partner în progetti  cooperativi reciprocamente benefici. Se invece consideriamo il modo di deli-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    42 ETICA    berare proprio di un massimizzatore diretto, da costui non potremo aspettarci  che consenta con i termini dei suoi precedenti accordi a meno che ciò non  contribuisca direttamente a soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla base  di questa aspettativa sul suo comportamento il massimizzatote diretto sarà  estromesso come partner nelle iniziative cooperative in quanto non si può ge-  muinamente avere fiducia in lui. La conclusione di Gauthier è dunque che il  massimizzatore vincolato può aspettarsi di godere di opportunità che invece il  massimizzatore diretto può solo prevedere che gli saranno negate. Si tratta di  una differenza che evidentemente opera a tutto vantaggio del massimizzatore  vincolato. Sulla base di questa argomentazione Gauthier conclude che si può  ritenere razionale incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli con cui si è  razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni tra cui scegliere, Ed è  chiaro che qui razionale significa un calcolo con un saldo positivo a proposito  della soddisfazione dei propri interessi.   La teoria di Gauthier si presenta come molto potente in quanto presume  di potere dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici come mezzo  per realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma l'elabora-  zione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che mostrano come sia  ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini prudenziali la preferibilità di  una vita etica. Infatti da una parte, legando il saldo attivo che ricava il massi-  mizzatore vincolato alla fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra  dovere fornire un criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fidu-  cia è bene riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio del  genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso non sia  disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da concedere a un qualche  partner, si debba oscillare tra una valutazione diretta, caso per caso, 0 una  assunzione di trasparenza delle motivazioni del partner o una qualche circo-  larità. L'altra difficoltà di ordine generale dell’argomentazione di Gauthier (e  più in generale di quelle strategie che tentano di giustificare l’etica in termini  prudenziali o di salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere  dimostrare che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vin-  colo etico riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di par-  tenza. Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non riduzionistica di  «interessi» (concerns) non definendoli in termini strettamente economici, ma  lastiandone indeterminato il contenuto mediante un rinvio alle preferenze di  ciascuno. La cooperazione e dunque l'etica secondo Gauthier rende possibile  soddisfare con esiti migliori i propri interessi di partenza — di qualsiasi tipo  essi siano — che vanno quindi vincolati secondo le aspettative degli altri. Re-  sta difficile da capire come si possa mettere su uno stesso piano interessi che    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 43    esigono soddisfazioni molto differenziate e, ciò che più importa, vincoli ben  diversi. È difficile cioè riuscire a capire come si possa assemblare e conside-  rare vincolabili alla stessa stregua preferenze di partenza per beni diversi (po-  niamo, beni condivisibili e beni esclusivi). Difficile capire come si possa co-  struire in modo unitario il «massimizzatore vincolato» tenuto conto che in  genere gli interessi degli esseri umani — si intende dello stesso essere umano  in tempi diversi — sono molteplici e probabilmente bisognosi di un qualche  ordinamento interno. Ma la difficoltà più generale riguarda la pretesa della  teoria di Gauthier di fornire la mossa vincente per convincere chiunque  — solo sulla base di un calcolo strettamente interessato — della convenienza  a interiorizzare una disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile che  questa mossa possa risultare efficace anche laddove per esempio non si avesse  già una disposizione a rispettare gli accordi o non vi fosse una qualche base  motivazionale, emotiva o psicologica, sulla quale fare leva per radicarla o raf-  forzarla.   Vedremo poi in una sezione successiva (cfr. $ 4.8) un'altra difficoltà intrin-  seca all'approccio prudenziale o della teoria della scelta razionale. Vedremo  infatti che per restare coerenti con questo approccio finiamo, in alcune situa-  zioni, con il tendere a risultati niente affatto ottimali.    3.4. La natura umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. — Vi  sono però strategie per la fondazione dell'etica molto più antiche di quelle  che abbiamo appena ricordato e ad esse si continua a ricorrere anche nel-  l'etica moderna e contemporanea. Ad esempio quelle strategie che ritengono  che nella natura umana siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che  fondano una particolare considerazione e rispetto per gli esseri umani, conse-  guenza del riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo nel-  l'universo. Abbiamo visto sopra ($ 2.5) che vi sono cacatterizzazioni dell'etica  che vedono al suo centro una legge naturale razionale e dunque concepiscono  il comportamento morale come realizzazione di alcuni tratti propri delia na-  tura umana. È costitutivo di questa strategia argomentativa il tentativo di de-  rivare ciò che si deve fare da quella che è la natura umana in quanto tale.   Due passaggi sono caratteristici di questa strategia sul piano fondazionale.  In primo luogo questa strategia implica che si abbracci una forma di cogniti-  vismo essenzialistico e può essere percorsa solo da chi ritenga di disporre di  una concezione che coglie in modo assoluto e compiuto la natura umana. In  effetti le etiche che procedono lungo questa strada presentano come loro pre-  messa una qualche definizione sostanziale della natura umana e in genere ren-  dono conto del suo posto nell'universo in termini metafisici o ontologici. Tro-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    44 ETICA    viamo percorsa questa linea nella tradizione aristotelico-tomistica di cui Jac-  ques Maritain ha reso conto, nel XX secolo, in modo simpatetico (Maritain,  1971). In questa strategia il contenuto dell'etica viene derivato da una defini-  zione dell’uomo concepito come persona con una propria peculiare natura so-  stanziale che ne garantisce la dignità. La difficoltà per questa strategia sta  nella discutibilità della caratterizzazione della natura della persona, una na-  tura della quale linee di pensiero diverse hanno reso conto in termini dei tutto  alternativi e incompatibili (come argomentano Scarpelli, 1985: 181-203; Preti,  1989: 63-95). Nell'elaborare la concezione della persona morale si procede di  solito o impoverendo l'essere umano di tutti gli elementi concreti, o presen-  tando l'individuo umano in vesti tanto astratte e ideali che una tale rappresen-  tazione finisce con il non avere alcuna presa sul piano delle azioni concrete.  Un'altra via che pone al centro della morale una definizione della natura per-  sonale dell’uomo è quella che connota la persona con una serie di tratti che  non sono altro che l’ipostatizzazione di assunzioni di ordine ideologico o reli-  gioso. Una tale costruzione — e conseguente uso — della nozione della per-  sona come fondamento dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei  documenti ufficiali su questioni morali della Chiesa Cattolica.   Un altro limite di questa impostazione sta nel commettere in modo evi-  dente l'errore logico di ridurre ciò che deve essere a ciò che è. Si tratta di  quella «fallacia naturalistica» ovvero di quella offesa alla cosiddetta «legge di  Hume» sulla quale ritorneremo più distesamente più avanti ($ 3.11). Infatti le  diverse caratterizzazioni della natura umana in termini ontologici e sostanziali  non fanno che richiamare ciò che è già proprio di tutti gli esseri umani. Ma  allora non si riesce a capire in che modo da ciò che è già proprio dell’uomo in  quanto tale si possa ricavare ciò che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto  dovrebbe ancora realizzare non può logicamente già essere. Proprio questa  indebita riduzione del dovere all'essere è stata al centro di una serie di conte-  stazioni contro tutte le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali  critiche sono particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento  che presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini  ricorrendo a una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In gene-  rale va quindi detto che chi procede per la strada di una fondazione ontolo-  gica dell’etica compie tutta una serie di errori logici; il tentativo di ridurre i  valori a fatti ovvero a realtà empiriche o metafisiche; il non cogliere la pecu-  liare funzione prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi etici;  l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare in  etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte discipline metafi-  siche per descrivere o spiegare il mondo come è.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 45    3.5. La natura umana come fondamento dell'etica: la via empirica. — Vi è  stata un'altra strategia che ha cercato di indicare come procedura propria  della fondazione della morale un esame della natura umana. In questa linea  non ci si propone di risalire a una qualche definizione metafisica o ontologica  della natura umana, ma di cercare di cogliere, attraverso l’esperienza e l'osser-  vazione, quale è per gli esseri umani il comportamento più consono ed ade-  guato. Anche questa via di fondazione epistemologica dell'etica si presenta  come destinata al fallimento. Da una parte la ricerca empirica sulla natura de-  gli uomini ben difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine universale,  ma finirà sempre con l’identificare la natura umana con alcuni tratti propri  degli esseri umani in un determinato momento del tempo e in una ben precisa  cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire alla fallacia tipica di tutte le  forme di naturalismo che riducono ciò che deve essere a ciò che è.   Tra le concezioni che hanno cercato di sviluppare sistematicamente il ten-  tativo di provare attraverso un’indagine empirica che cosa è bene o giusto si  colloca certamente l'evoluzionismo erede di Darwin, specialmente nella forma  che esso ha preso con Herbert Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo  secolo negli Elements of Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in  quanto riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta  linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione  evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede attraverso  continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello delle definizioni  implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto e ciò che è buono con la  linea evolutiva che si ritiene avere scoperto empiricamente in realtà si è intro-  dotta una definizione etica per cui ciò che è più evoluto è moralmente supe-  riore, Proprio per queste difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo  etico dopo l’ubriacatura dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologica-  mente avvertiti come R. Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di pre-  sentare le loro concezioni come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non è  certo possibile percorrere questa strategia con un minimo di utilità pratica,  ovvero rintracciare in termini empirici la soluzione a un problema etico con-  nettendola con un corso di azioni migliore evolutivamente, ovvero che favori-  sce la sopravvivenza del genere umano o del gruppo di cui facciamo parte  biologicamente. Non vi sono procedure empiriche che consentono di arrivare  a confrontarsi con un’aliernativa secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza  del genere umano e ciò che l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi  empirici per decidere se una certa linea di comportamento è più o meno in  contrasto con i bisogni della specie umana. Né può rappresentare una fuoriu-  scita dalle difficoltà etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però a po-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    46 ETICA    steriori può essere poi dimostrato — ammesso che ciò sia possibile — che ciò  che gli uomini fanno è quanto rende possibile la loro sopravvivenza. Si tratta  di procedure dubbie perché finiscono con il razionalizzare catastrofi e guerre  e comunque si tratta di ricostruzioni che vengono date dopo che le azioni  sono state compiute e che poco dunque possono aiutarci sul piano delibera-  tivo o della costruzione di una qualche concezione etica.   Difficoltà insormontabili si presentano per tutti gli altri tentativi di ricon-  durre il bene e il giusto a delle proprietà del mondo che, non diversamente  dalla forza e dall’energia, possono essere verificate, misurate e quantificate.  Ma più in generale e su un piano meno materiale sono destinati al fallimento  tutti quei tentativi di ricondurre le procedure di fondazione dell'etica a quelle  in uso in scienze, quali la psicologia e la sociologia, più direttamente rivolte  allo studio degli uomini. La via di ricondurre l'etica alla psicologia è stata più  volte percorsa nel corso del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei  suoi Fragen der Ethik (1930, Problemi di etica) quando indicava nel bene ciò  che è considerato più idoneo ai bisogni di un individuo che vuole mantenere  l'armonia con il gruppo sociale di cui fa parte. Una definizione che, ammesso  sia in grado di suggerire un qualche criterio di valutazione, dà per scontata la  preferibilità — sempre e comunque — dell'armonia rispetto alla disarmonia,  con ovvie implicazioni conformistiche. Un più recente tentativo di ricondurre  le procedure della deliberazione etica a quelle in uso nella psicologia è stato  fatto da Richard Brandt in A Theory of the Good and Right (1979, Una teoria  del bene e del giusto). Brandt si è sforzato di mostrare come il processo deli-  berativo dell’etica sia assimilabile alla tecnica usata nella terapia psicologica  cognitiva per mettere alla prova i desideri e gli obiettivi sulla base di una va-  lutazione della loro razionalità. Brandt sostiene che nell’etica come nella tera-  pia cognitiva si tratta di valutare razionalmente se i desideri che abbiamo sono  o meno adeguati: ovvero tali che li confermiamo avendo tutte le informazioni  empiriche necessarie, tali che ci propongono obiettivi per realizzare i quali  disponiamo dei mezzi necessari e infine tali che non comportano delle conse-  guenze inaccettabili. Questi sono certamente passaggi a cui si può ricorrere  quando è in corso una deliberazione etica, ma va aggiunto che parte dell’etica  sembra consistere nel valutare se noi riteniamo che determinati desideri deb-  bano essere accettati da tutti coloro che si trovino in situazioni analoghe. I  riscontri empirici ci dicono quali desideri gli uomini hanno, ci presentano le  distribuzioni statistiche di questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i  desideri da privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da  controllare ad ostacolare.   Non mancano coloro che non si fanno influenzare da questi dubbi sulla    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 4?    validità conclusiva in etica di un metodo di deliberazione e giudizio che cerchi  di controllare empiricamente come stanno le cose per quanto riguarda gli uo-  mini e le situazioni in discussione. Fautori di un naturalismo ingenuo, sosten-  gono che noi di fatto già sappiamo che certe azioni sono negative e malvagie  (per esempio l'assassinio o il furto) e che certe istituzioni (per esempio i con-  tratti, il mantenimento delle promesse e la fedeltà verso un certo governo)  sono giuste. Si può ammettere che questa strategia naturalistica aiuti a indivi-  duare inclinazioni e tendenze ira le più radicate negli esseri umani, ma il  punto è che tali inclinazioni e tendenze non possono essere giustificate con la  mera argomentazione che di esse già disponiamo di fatto, o che sono univer-  salmente presenti tra gli uomini (il che tra l'altro non si riesce a dimostrare).  Ancora una volta si fa appello a predisposizioni o inclinazioni così generiche e  indeterminate che il rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere i  concreti problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così, ad esempio, nes-  suna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a risolvere la que-  stione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni casi controversi (per  esempio l'aborto nelle prime settimane dal concepimento, o alcuni casi di eu-  tanasia volontaria). Inoltre forse egualmente naturali e per così dire universali  si presentano inclinazioni all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risenti-  mento, e alla gelosia che non risultano certamente giustificate per la loro dif-  fusione e riscontrabilità empirica.    3.6. L'appello a una ragione universale come via per la fondazione del-  l'etica. — Un'altra concezione epistemologica per l’etica è quella che fonda  le sue conclusioni non tanto genericamente sulla natura umana, quanto più  specificamente sulla ragione umana, ovvero su quello che è considerato il  tratto più peculiare degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo del  XVII secolo si presenta come un vero e proprio giusrazionalismo. Grozio e  Pufendorf si impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il diritto, e più in  generale l'etica come scienza razionale dimostrativa. Questo stesso tentativo è  presente anche — accanto ad altre vie — in Locke. La possibilità di edificare  la morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da Locke dalla na-  tura del tutto artificiale delle principali nozioni morali (come egli sostiene si  tratta di «modi misti»), ciò che permette dunque di stringere con un collega-  mento logicamente necessario tutti i giudizi in cui ricorrono nozioni morali  (Locke, 1971: 632-636). Ma questo rigore dell’etica, questa sua struttura di-  mostrativa, e la sua completa dipendenza dalla razionalità, è possibile solo in  quanto si sono svuotate di qualsiasi portata realistica le nozioni etiche ricavan-  dole integralmente da convenzioni linguistiche che permettono di dare vita a    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    418 ETICA    definizioni essenziali di tipo arbitrario. In generale questa forma di razionali  smo etico si unisce con una qualche fondazione contrattualistica dei principi  dell'etica nel senso di un qualche accordo sulla definizione delle sue nozioni  centrali. Ma la procedura contrattualistica può fondare una validità solamente  convenzionale — ovvero limitata a coloro che accettano di sottoscrivere il  patto — e dunque le basi della conseguente scienza etica dimostrativa risul-  tano del tutto esili (cfr. $ 3.8).   Il razionalismo seicentesco ha presentato anche tentativi di dare una por-  tata realistica alle conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così ad  esempio in autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si pre-  senta come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica. Questo è pos-  sibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il giusto e l'ingiusto siano  identificabili individuando quali sono le relazioni adeguate alle cose in se  stesse. Nel caso di Clarke il giusto non è altro che una relazione di adegua-  tezza tra l’azione e lo stato delle cose; per Wollaston il giusto non è altro che  un collegamento veritativo tra l’azione e lo stato complessivo delle cose (così  come l’ingiusto è dichiarare, con la propria azione, il falso). Ma questa pro-  spettiva che riconduce il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza o  inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose comporta due assunzioni che  saranno fortemente contestate nel pensiero successivo. Da una parte la con-  vinzione che gli esseri siano ordinati secondo una gerarchia ben definita — la  grande catena degli esseri — che distingue nettamente tra livelli separati on-  tologicamente e forniti di valore diverso. Solo sulla base di questa assunzione  si può ad esempio, all’interno di questa prospettiva, considerare inadeguata  quella azione in cui l'animale sia preferito a un essere umano, o un essere  umano trattato in modo inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della  gerarchia tra gli esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca evoluzioni-  stica del XIX e XX secolo, Non necessariamente la scala evolutiva corri-  sponde a una scala di valore; non mancano inoltre i casi di confine difficil-  mente decidibili; nulla vieta di riconoscere valore anche agli esseri che si pre-  sume siano al fondo della scala degli esseri. La seconda assunzione dei  razionalisti realisti è che dare un giudizio sulla giustezza o meno di un atto {o  di un evento) si possa identificare con l’individuare una qualche relazione tra  le cose. Questa pretesa è criticata e dissolta da Hume che mostra con chia-  rezza (Hume, 1987: I, 481-497) come un giudizio di relazione tra cose non  possa in alcun modo esaurire lo spazio di un giudizio morale. È infatti indub-  bio che relazioni dello stesso tipo di quelle in gioco nell’incesto sono rintrac-  ciabili tra animali, o che tra le piante ritroviamo collegamenti analoghi a quelli  che si hanno nel parricidio, eppure non possiamo certo concludere con un    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 49    giudizio morale sulle «azioni» degli animali e delle piante. La pretesa di ri-  durre i giudizi morali a formule matematiche o a conclusioni razionali dimo-  strative risulta del tutto fallace.   Un tentativo — ma in una forma del tutto diversa dalle precedenti — di  fondare l’etica sulla ragione è stato anche quello di Kant e di coloro che ne  riprendono il razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è la stessa ra-  gione pratica o volontà pura, in quanto tale, che implica certi principi morali  che vanno rispettati se si vuole dare coerenza alle nostre conclusioni etiche.  Ciò che è bene e ciò che è giusto può essere quindi individuato conformando  la nostra scelta e decisione alle presupposizioni che vincolano qualsiasi vo-  lontà umana razionale. La razionalità pratica in quanto tale implica certi prin-  cipi formali che sono rispettati solo da coloro che compiono le azioni effetti  vamente giuste o ingiuste (Kant, 1970a; Landucci, 1993). È questa la strategia  fondazionale seguita da Kant per ricavare le diverse formulazioni dell'impera-  tivo categorico (si veda $ 4.6) dalle regole trascendentali che presiedono alla  volontà umana. Critiche alla procedura epistemologica alla base dell'etica  kantiana vengono mosse su due piani. In primo luogo si obietta che la pro-  spettiva kantiana in realtà concepisce la volontà umana in termini sostantivi e  dunque inttoduce fin dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e  neutrali del volere umano dei tratti che non possono che portare a un ben  preciso esito morale. In secondo luogo viene obiettato che un mero appello  alla coerenza formale è del tutto inefficace in etica perché alla costrizione in  gioco nell’appello alla coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi di consi-  derare come effettivamente insostenibile uno stato di incoerenza.   In questa rivisitazione del razionalismo etico faccio dunque mia la pro-  spettiva critica che rileva che la ragione in quanto tale può solo permetterci di  trarre delle conclusioni che si esprimono in quelle che chiameremo deduzioni  o giudizi analitici. Ma se così stanno le cose ciò che è eticamente rilevante o è  già dato nelle premesse del nostro discorso — e allora occorrerà spostare la  discussione su come sono state costruite queste premesse — o non potrà certo  essere raggiunto ricorrendo al solo aiuto della deduzione razionale. La razio-  nalità e la ragione umana in quanto tali non solo risultano eticamente vuote,  ma se si guarda poi alla ragione come facoltà intellettuale questa presenta l’in-  sufficienza più generale, dal punto di vista fondazionale, di portare a conclu-  sioni © esiti che non risultano direttamente motivanti. Scoprire che vi è una  certa relazione tra le cose, o che date certe premesse se ne ricavano per via  analitica determinate conclusioni è cosa ben diversa dall'essere mossi a fare  ciò che è bene, giusto, doveroso fare. La ragione può dunque solo aiutarci a  identificare ulteriori situazioni a cui estendere i nostri principi etici, una volta    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    50 ETICA    che noi già abbiamo — sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e pas-  sioni — discriminato tra quello che approviamo 0 disapproviamo, apprez-  ziamo o svalutiamo.    3.7. Il ricorso a una facoltà morale per la fondazione dell'etica. — Il col.  legamento con la ragione umana — concepita come la parte migliore e più  alta, quasi una patte divina, della natura umana — è spesso sembrata la via  maestra per garantire alle conclusioni dell'etica sia una strategia peculiare sia  una superiorità rispetto a tutto il resto. Ma nel pensiero moderno e contem-  poraneo la consapevolezza dell’autonomia della morale ha portato ad abban-  donare questa strada. Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica  veniva già raccolta da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali.  stico, attraverso l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma altri  pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una derivazione del-  l'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc del tutto pecu-  liare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia ai vari sensi che contribui-  scono a dare agli uomini il bagaglio delle loro esperienze.   La strada dell'individuazione di una vera e propria facoltà ad hoc per la  vita morale è stata percorsa in modo sistematico e nel dettaglio da Hutcheson  (Hutcheson, 1725). Nei suoi scritti infatti egli presenta articolatamente uno  specifico «senso morale» che permette di cogliere direttamente le distinzioni  morali e che non è riducibile né alle operazioni dell'intelletto, né agli altri  sensi. La ricostruzione che Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà  del tutto peculiare che permette di fondare oggettivamente le conclusioni eti-  che sembra giustificare l'attribuzione a questo pensatore di una concezione  intuizionistica (Norton, 1982). In definitiva il senso morale di Hutcheson è in  grado di cogliere direttamente delle vere e proprie qualità delle azioni e situa-  zioni naturali da giudicare, Hutcheson si impegna anche a ricostruire il modo  in cui proprietà e qualità etiche sono collegate necessariamente con le altre  proprietà oggettive e reali delle cose di cui abbiamo esperienza. Dunque in  Hutcheson possiamo trovare un quadro intuizionistico che vedremo ripreso,  al di fuori di alcune pretese sensistiche, nel secolo XX.   Infatti intuizionisti come Sidgwick e Moore {o in parte H. Prichard,  A. Ewing e D. W. Ross; si veda Hudson, 1980: 74-104) insisteranno nel tro-  vare nel campo dell'etica la presenza di peculiari proprietà non-naturali, ben  distinte dalle qualità naturali ordinarie, che solo una intuizione del tutto spe-  ciale può cogliere. La strategia di fondazione propria dell’intuizionismo etico  viene criticata in quanto perde di vista che al centro dell'etica non c'è tanto la  questione di riuscire a cogliere la presenza di questa o quella proprietà non-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    L’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA dI    naturale — sia poi questa proprietà considerata come sopravveniente o come  una accanto a quelle naturali —, quanto piuttosto di essere motivati o sentirsi  obbligati a fare certe cose considerate buone, giuste o doverose. Natural-  mente questa difficoltà può essere supetata sostenendo che le proptietà non-  naturali con cui l'intuizione etica ci mette direttamente in contatto si presen-  tano come costitutivamente motivanti e obbliganti. Ma un aggiustamento del  genere non sembra nulla di più che uno stratagemma convenzionalistico.   Per ovviare a questa difficoltà è stata elaborata una strategia — già in parte  riconoscibile secondo alcuni interpreti negli scritti di Hutcheson — che con-  cepisce la facoltà in gioco nella conoscenza morale non tanto come uno stru-  mento intellettuale e conoscitivo di registrazione e individuazione, quanto  piuttosto come essa stessa emotiva o sentimentale e dunque motivante e ca-  rica di energia attiva. In questa linea si collocano tutte le analisi sviluppate a  proposito dell'etica dai sentimentalisti del Settecento come ad esempio Shaf-  tesbury, Hume e Smith. Ma in questa stessa direzione vanno le analisi di co-  loro che nel XX secolo sostengono (come è il caso di David Wiggins, 1987 e  John McDowell, 1981) sia rintracciabile nell’etica una peculiare sensibilità che  risponde appunto con una qualificazione di valore a certe azioni o situazioni.  La strategia epistemologica del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal  quadro fondazionale e muoversi piuttosto in quell'orizzonte più moderata-  mente giustificativo 0 esplicativo di cui renderemo conto nelle successive se-  zioni di questo paragrafo.   Infatti questa sensibilità peculiarmente morale si presenta come qualcosa  che va ricostruita e delineata nella sua specificità attraverso un esame a poste-  riori degli esseri umani. L'appello poi a questa base di giustificazione non per-  mette certo di edificare giudizi etici forniti di quei caratteri di necessità e uni-  versalità definitiva a cui tendono invece coloro che si muovono in un oriz-  zonte fondazionale.    3.8. La giustificazione procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo.  — Rifiutando la strada di una fondazione assoluta e aprioristica dell'etica vi  sono alcune concezioni che considerano le opzioni etiche come esiti a cui si  può arrivare dopo avere seguito una determinata procedura razionale. Percor-  rono questa strada quei pensatori che sul piano meta-etico considerano l'etica  € la morale come un universo di principi e norme frutto di decisioni 0 scelte  individuali e intersoggettive. Questa linea di giustificazione è propria ad esem-  pio del contrattualismo etico. Il contrattualismo è stato inizialmente presen-  tato — specialmente nel XVII e XVIII secolo da pensatori come Hobbes,  Locke, J. J. Rousseau e Kant — come una teoria mediante la quale rendere    www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3    52 ETICA    conto della genesi della società civile e delle istituzioni politiche (Gough,  1986). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è stato spesso presentato  anche come una procedura in grado di dirimere in generale i disaccordi pub-  blici su tutti.i tipi di distinzioni etiche. In particolare nel XX secolo il contrat-  tualismo è stato ripreso e sviluppato, ad esempio da Rawls e Gauthier, come  la teoria etica e la procedura di giustificazione di regole e principi capaci di  impostare meglio le questioni di giustizia sociale. In questa sede ci limitiamo a  presentare sinteticamente le concezioni di Hobbes e di Rawls viste come due  forme tipiche di tentativi di derivare la giustificazione delle conclusioni etiche  da procedure contrattuali. In realtà il contrattualismo si lega strettamente alle  forme di giustificazione prudenziale di cui abbiamo dato conto nel paragrafo  3.3. Le differenze che qui richiameremo non riguardano il tipo di ragiona-  mento — in genere appunto prudenziale — che porta ad accettare il contratto  come una procedura idonea per risolvere i contrasti etici. Le differenze con-  cemono piuttosto il contesto in cui la procedura contrattuale interviene, le  sue implicazioni e le conseguenze che se ne ricavano per quanto riguarda il  carattere vincolante degli esiti.  Nel caso di Hobbes il ricorso a una procedura contrattuale in etica si svi-  luppa dopo la presa d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del  bene e del giusto in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle  « passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non per-  mette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti che è pro-  pria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene, male, giusto e ingiu-  sto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno stato di pace e conver-  gere su qualche bene considerato comune (che certo comunque non potrà  essere trattato come un bene assoluto) bisognerà limitare la completa discre-  zionalità naturale concordando sull’accettazione di una procedura che per-  metta di realizzare patti condivisi. Secondo Hobbes, dunque, solo un con-  tratto è in grado di vincolare i singoli individui all'accettazione di principi  etici che non siano direttamente riconducibili agli interessi egoistici di qual-  cuno. Nel fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes delineava tutta  una serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e alla sua efficacia. Da  una parte il contratto incorporava tutta una serie di principi — secondo Hob-  bes le «leggi naturali» — che venivano considerati giustificati razionalmente,  in linea esclusivamente strumentale, come mezzi idonei alla conservazione in  vita dei contraenti e al mantenimento della pace tra loro. Dall'altra parte la  necessità di rendere vincolanti gli equilibri che vengono identificati mediante  la procedura di contrattazione porta a un completo trasferimento della forza  coercitiva a un potere che in nome della sua funzione di garantire il rispetto    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    L’EPISTEMOLOGIA DELL’ETICA 53    del contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche questa è una conse-  guenza derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede appunto gli  esseri umani come del tutto egoisti e mossi da un irrefrenabile impulso pos-  sessivo in una condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato che laddove in  Hobbes il potere non può avere limiti esterni, esso ha un ampio limite in-  terno. Ciò dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi contrattualmente  definite possono valere solo per i corpi di coloro che stipulano il patto, men-  tre sentimenti, emozioni e pensieri sono al di fuori della portata dell’applica-  zione di principi e regole create con la procedura condivisa.   AI modello di contrattualismo hobbesiano sono state mosse numerose cri-  tiche. In particolare è la sua peculiare derivazione artificialistica dei principi  etici ad essere oggetto di diverse obiezioni. La prima linea di obiezioni viene  da coloro che ritengono necessaria una fondazione assoluta dell'etica e che  rilevano la parzialità e la limitazione di una derivazione da un qualche con-  tratto di regole e principi etici. Le leggi concordate mediante il patto possono  valere solo quando si è sotto il controllo di un potere totale e completo come  quello appunto ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo così ad  escludere defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes sembra tentare una  risposta a queste critiche quando ammette la validità delle leggi naturali anche  «in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda Warrender, 1974), ma  risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà in questo caso delle leggi  naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da quei pensatori che — come  ad esempio Hume — pur condividendo una spiegazione artificiale della ge-  nesi di principi e regole etiche, prendono poi le distanze da Hobbes e dal suo  contrattualismo per il particolare tipo di artificialismo razionalistico in gioco.  L’obiezione in questo caso è che il «costruttivismo razionalistico» hobbesiano  — il considerate cioè i principi etici come il frutto di una scelta consapevole  di una serie di individui razionali — risulta del tutto inadeguato quando si  tratta di rendere conto della genesi di regole e principi etici. Vedremo nelle  ultime due sezioni di questo paragrafo în che senso il convenzionalismo etico  di Hume presentava un modello artificialistico di spiegazione dell'etica del  tutto alternativo rispetto a quello di Hobbes.   Un altro modello di giustificazione procedurale dell'etica è quello presen-  tato nel modo più sistematico ed argomentato da Rawls (Rawls, 1982, 1994).  Si tratta di un modello che viene ora abitualmente chiamato «contrattualismo  ideale» per distinguerlo da quello di Hobbes e da quello detto «contrattuali-  smo reale» sviluppato da Gauthier (cfr. $ 3.3),   Il modello epistemologico del «contrattualismo ideale» sostiene pur sem-  pre che i principi giusti dell'etica possano essere individuati attraverso ac-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    54 ETICA    cordi, ma poi fa valere tutta una serie di vincoli relativamente alla procedura  considerata idonea per realizzare accordi equi. Rawls delinea tale procedura  come una «posizione originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli indi-  vidui che entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi di  giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già come sin-  goli individui concreti. In secondo luogo, gli individui rappresentativi scel-  gono tra le diverse opzioni a loro aperte in una condizione caratterizzata da  «un velo d’ignoranza», ovvero si immagina che gli individui nella posizione  originaria non debbano sapere quale sarà la loro condizione effettiva e il loro  status concreto nella società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella posizione  originaria debbano essere ispirate da un principio generale, che egli chiama  del maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire quell’alternativa che  permette di massimizzare le esigenze degli individui rappresentativi dello  stato peggiore.   La linea argomentativa di Rawls in realtà non si presenta come un tenta-  tivo di giustificare o fondare il nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto come  un tentativo di decisione o risoluzione dei conflitti una volta assunta una de-  terminata definizione della morale. Troviamo che fin dalla delineazione della  «posizione originaria» sono presenti alcune opzioni morali sostantive che  vengono incorporate nella procedura prevista per l'individuazione dei prin-  cipi di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin dall’inizio che le soluzioni  da preferire saranno quelle più imparziali ed eque. Rawls non spende nem-  meno un’argomentazione a giustificare queste opzioni di fondo che sono co-  stitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls si preoccupa prin-  cipalmente di questioni di giustizia sociale o di distribuzione delle risorse, tro-  viamo che egli fa valere il citato criterio di waxiziz. Contro questo criterio  numerosi studiosi di etica (ad esempio Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiet-  tato che esso ha delle conseguenze controintuitive. Infatti il criterio del maxi-  min ci costringe a preferire sempre e comunque quel corso di azione che può  migliorare sia pure di pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza mini-  mamente tenere conto di quanto questo corso d'azione peggiori le condizioni  di tutti gli altri o senza minimamente instaurare un confronto tra i diversi  corsi d'azione possibili ad esempio sulla base della probabilità effettiva che si  realizzi ciascuno di essi,   Dunque la procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi dal  giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la natura dell'etica e  il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso dallo stesso Rawls che  ha riconosciuto che la sua ricostruzione della natura dell’etica è adeguata a  rendere conto delle intuizioni morali di un cittadino di una società caratteri?    www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 55    zata, come quella statunitense, dalle istituzioni liberal-democratiche. Spiega  Rawls che la sua etica è tale da non avere una portata metafisica, ma che si  presenta come prevalentemente rivolta a rendere conto di un ben preciso con-  testo storico e dunque politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura giustifi-  cativa delineata da Rawls può dunque operare solo presupponendo una serie  di intuizioni o credenze morali già date. La linea argomentativa del contrat-  tualismo ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls stesso presenta  come una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre intuizioni di partenza e  i risultati più equi e giusti raggiunti attraverso una correzione delle distorsioni  e parzialità di tali intuizioni.   Caratteristico di questo modello è la caduta della pretesa di una fonda-  zione assoluta e compiuta dei principi etici. Il contrattualismo ideale di Rawls  in definitiva riesce a generare accordi solo in quanto parte già da un accordo  dato in partenza tra tutti i membri della stessa società. Nulla può essere fatto  per convincere ad accettare l'etica da parte di coloro che non sono già citta-  dini della stessa società ideale che condivide il contratto. Laddove la posi-  zione hobbesiana sembrava incapace di generare accordi se non presuppo-  nendo il ricorso a uno strumento extra-teorico quale la forza; la posizione di  Rawls è sterile perché si limita a ricostruire il modo in cui già di fatto si rea-  lizzano accordi, nelle società liberal-democratiche, tra coloro che accettano  politiche progressiste e nulla dice per dirimere i contrasti tra individui rappre-  sentativi di società profondamente diverse (quali, poniamo, quelle del mondo  occidentale e quelle dei paesi dell’Africa o dell'Asia). La procedura contrat-  tualista di giustificazione etica ha sicuramente un ampio spazio laddove con-  trasti e conflitti sorgano tra individui già vincolati a un certo patto e all’accet-  tazione di una certa procedura per dirimere i contrasti. Ma poco o nulla può  offrire laddove si affrontino le questioni più sostanziali: da una parte di come  giustificare la scelta di avere un contratto da rispettare in luogo di non avere  nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare l'opzione di conti-  nuare a rispettare il contratto, in luogo di defezionare, anche quando ciò dan-  neggia i nostri interessi personali.    3.9. Il non-cognitivismo e la giustificazione logico-argomentativa del punto  di vista etico. — Una teoria della giustificazione © argomentazione etica è  stata messa a punto anche dai teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6).   Laddove gli emotivisti consideravano del tutto fallace la convinzione che si  potesse avere una reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-co-  Bnitivismo trovano possibile indicare una serie di procedure come peculiari  del ragionamento etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    56 ETICA    sul piano della giustificazione e dell’argomentazione, dunque sul piano episte-  mologico, tra le posizioni degli emotivisti e quelle dei non-cognitivisti. Infatti  lo sviluppo di questa differenza rappresenta una delle vicende centrali del-  l'etica del XX secolo che viene completamente trascurata da quanti — come  ad esempio A. MacIntyre (MacIntyre, 1988) — assimilano rigidamente emo-  tivismo e non-cognitivismo,   Nel caso degli emotivisti occorre distinguere tra le posizioni di Ayer e di  Stevenson. È appunto nelle pagine di Ayer (Ayer, 1961) che troviamo la posi-  zione più radicale che ritiene che l’unico punto di dibattito effettivo in una  discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono  andate le cose e, per il resto, sia da considerare comeeffettivo in una  discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono  andate le cose e, per il resto, sia da considerare come del tutto illusoria la  pretesa di aprire una qualche discussione criticamente valutabile sulla rile-  vanza etica di ciò che è accaduto, In definitiva connotando eticamente qual-  cosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è  noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Steven-  son, 1962; cfr. qudo eticamente qual-  cosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è  noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Steven-  son, 1962; cfr. qui sopra $ 2.6) è meno riduttiva, ma finisce con il sostenere  che tutto ciò che possiamo fare da un punto di vista argomentativo o episte-  mologico in morale è divenire pienamente consapevoli del come usare nel  modo appropriato, come un potere causale, la forza emotiva presente nelle  nozioni etiche, vuoi per persuadere altri ad accettare i nostri standards, vuoi  impedendo che altri ci persuada con il mero ricorso a delle definizioni persua-  sive, Ma non resta nessuna possibilità pet discutere in una qualche forma ar-  gomentativa l'appropriatezza etica di un determinato giudizio morale. Lad-  dove consideriamo l’etica come un linguaggio emotivo — sia pure, come fa  Stevenson, come un linguaggio guidato da regole nel suo uso — tutto ciò che  possiamo fare sul piano epistemologico è richiamare l’attenzione sulla pre-  senza di tecniche di persuasione che possono essere utilizzate sia da una per-  sona che voglia fare passare dei valori giusti, sia da chi invece voglia imporre  dei valori ingiusti, L'argomentazione etica, così come ce la presenta Stevenson  con il suo emotivismo moderato, non ci permette di discriminare tra questi  valori, ma solo di sostenerli nel modo migliore ed egli quindi riconosce in  questo campo solo uno spazio per procedure di tipo retorico o propagandi-  stico.   Nel caso invece del non-cognitivismo, come sostenuto ad esempio da Hare  (Hare, 1971 e 1989), troviamo l'impegno a elaborare un'epistemologia per  l’etica che fornisca criteri di discussione e critica anche per il nucleo peculiare  di valori che è in gioco nel discorso morale. Come si è già spiegato (cfr. sopra,  $ 2.6) secondo questa concezione meta-etica la morale è costituita di prescri-  zioni universalizzabili soverchianti. Partendo da questa caratterizzazione della    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL’ETICA 57    natura della morale un non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi di-  stinti. Si tratta, in primo luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per  convincere razionalmente a farsi guidare nelle proprie azioni da una morale  così intesa chi non la vuole fare propria preferendo un completo amoralismo.  In secondo luogo si tratta di delineare quali procedure argomentative sono  disponibili per sottoporre a controllo le diverse opzioni mortali possibili al fine  di individuare, per la situazione in cui ci troviamo, quale è la migliore prescri-  zione universalizzabile soverchiante. Esponiamo qui di seguito le due diverse  strategie argomentative così come vengono delineate da Hare.   Per quanto riguarda il livello di discussione che si apre nei confronti di chi  non intende in alcun modo ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo  non c'è molto da fare. Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a  usare il linguaggio della morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare  che lo ha usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano  l'uso. Hare dunque sembra voler fissare come limite invalicabile per l’argo-  mentazione morale il confine al di lì del quale si collocano tutti coloro che  non fanno in alcun modo uso del linguaggio morale. Nei confronti di costoro  si potrà fare qualcosa solo collocandosi da un punto di vista non strettamente  argomentativo. L'educazione e l’uso della forza sono due diverse strategie cui  si ricorre per far si che le persone facciano propria la forma di vita che in-  clude la morale.   All’interno della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argo-  mentare contro chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà  non rispetta le condizioni logiche necessarie perché un proferimento faccia  parte del linguaggio etico. Come sappiamo un'espressione linguistica farà  parte del discorso morale solo in quanto si presenta come una prescrizione  universalizzabile soverchiante. Possiamo identificare con chiarezza coloro che  pretendono di dare una portata morale alle loro affermazioni, ma compiono  degli errori logici (oltre che morali}. Le analisi di Hare sono rivolte a delineare  il tipo di argomentazione che può essere sviluppata contro il più comune  errore nell'uso del linguaggio morale, quello proptio dei fanatici morali. Le  posizioni dei fanatici morali nascono in quanto si prescrivono dei principi che  non vengono fatti valere — come la loro natura di principi morali esigereb-  be — in modo analogo per tutte le situazioni simili indipendentemente dal  posto occupato da coloro che sono coinvolti. Un tentativo, coerente con la  concezione della morale propria del non-cognitivismo, può essere fatto per  contrastare il fanatismo morale ad esempio nella forma più ricorrente che è  quella del razzista (Hare, 1971; ma Hare più recentemente ha trattato anche  del caso di un medico che in nome dei suoi doveri professionali fa proprio    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    58 ETICA    l’accanimento terapeutico: Hare, 1989). Si tratta di chiedere al fanatico di im-  maginarsi in una situazione in cui egli occupa il posto di colui nei confronti  del quale egli vuole fare valere in modo diseriminante i suoi pretesi principi  morali. Che cosa fa il razzista anti-semita quando una nuova informazione for-  nisce le prove che lui stesso è di origine ebraica? Il non-cognitivista può con.  siderare l'articolazione di un esperimento mentale del genere come un’esten-  sione epistemologica della sua concezione meta-etica.   Si badi infine che l’argomentazione propria dell'etica che viene individuata  muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali avanzata da Hare  non si limita — come nel caso del formalismo kantiano — ad avanzare la ri-  chiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un requisito contenutistico.  In linea del tutto pregiudiziale un giudizio potrà essere incluso nell'universo  dei giudizi propri del discorso morale solo se prescrive un qualche principio  che si è pronti a far valere in modo analogo per tutti i casi simili indipenden-  temente dalla propria collocazione nelle situazioni investite. Lavorando su  questa condizione epistemologica della concezione che vede la morale come  insieme di prescrizioni universalizzabili soverchianti, più recentemente Hare  (1989) ha elaborato ulteriori passaggi critici a cui sottoporre le prese di posi-  zione etiche. Nello sviluppare queste implicazioni epistemologiche si è incam-  minato lungo una linea che giunge a presentare come adeguate — su basi so-  stantive — quelle conclusioni che vengono ricavate dall’utilitarismo dell’atto.  In quanto ci troviamo di fronte ad un’argomentazione che ricava da una me-  ta-etica una ben precisa etica normativa, ce ne occuperemo in un prossimo    paragrafo (cfr. $ 4.7).    3.10. Dalla giustificazione allo spiegazione dell'etica. — Proprio nel no-  stro secolo la riflessione filosofica sull'etica ha elaborato una serie di analisi  conseguenti a un radicale mutamento di approccio. L'effetto di questo cam-  biamento è che anche per quanto riguarda le procedure argomentative in uso  in morale l’obiettivo cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando an-  che il contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si propone  dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio strutture  argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni complessive rivolte  a comprendere qual è il posto che l’etica occupa nella nostra vita. In definitiva  è la prospettiva che Hume aveva sviluppato nella sua scienza della natura  umana che viene recuperata, tradotta nel linguaggio del nostro secolo e resa  più rigorosa e determinata. L'etica viene così considerata come un presuppo-  sto della nostra forma di vita che non tanto va giustificato o fondato quanto  piuttosto spiegato nella sua concretezza. Si tratta dunque di un programma    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L'’EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 59    esplicativo che considera l'etica e le sue distinzioni come costitutive della  nostra esperienza del mondo, con un approccio in parte analogo a quello  kantiano impegnato a identificare le forme generali della nostra esperienza.  Ma questo approccio esplicativo non percorre poi la linea aprioristica kan-  tiana dell'analisi trascendentale, proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi  empiriche sulla natura dell'etica e le forme di argomentazione in essa correnti  (Preti, 1986). ;   Questo tipo di ricerca ha avuto nel nostro secolo una notevole espansione  parallelamente al tentativo della filosofia di trasferirsi dal piano fondazionale  a quello esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick, 1987). Una prima differenza  tracciabile in questa linea filosofica, come si è detto, è relativa al tipo di spie-  gazioni, ovvero alla natura logica delle presupposizioni a cui ci si richiama,  caratterizzate o in una direzione trascendentale oppure come ipotesi empi-  riche.   Su basi kantiane un tentativo di spiegare l'etica è presente nelle analisi di  Putnam (Putnam, 1991). La tendenza a esprimere giudizi morali è secondo  Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al genere umano di catego-  rizzare; in modo analogo va spiegata la stessa predilezione sostantiva per certi  contenuti (benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul piano empirico si trovano,  tra le altre, le seguenti spiegazioni della morale. Da una parte abbiamo una  concezione come quella di J. L. Mackie (Mackie, 1977) che ritiene che l'etica  sia una produzione artificiale della cultura umana con cui gli vomini cercano  di fare affermazioni su specifiche proprietà del mondo, ovvero i valori o le  qualità etiche; ma queste affermazioni sono tutte false in quanto tali proprietà  non sussistono realmente. Dall'altra abbiamo le posizioni proiezioniste, quale  ad esempio quella di S. Blackburn (Blackburn, 1984), secondo le quali invece  si guarda all’etica come un prodotto della nostra cultura che ci consente di  fare riferimento a qualità o proprietà quasi reali (le proprietà morali) che noi  abbiamo proiettato sulle cose e sul mondo. Sono ancora da ricordare le analisi  sensiste di Wiggins {Wiggins, 1987) e McDowell (1981) i quali ritengono vi-  ceversa che si debba considerare l’etica come il campo che gli esseri umani  costituiscono in quanto forniti di un peculiare senso o sentimento che li mette  in grado di cogliere delle proprietà nel mondo (appunto ciò che rende moral-  mente rilevante una qualche situazione) che hanno poi su di essi una forza  motivante e vincolante. Infine in un contesto più evoluzionistico A. Gibbard  {Gibbard, 1990) indica nella morale un insieme di norme che gli uomini   anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare che li muove a discu-  tere pubblicamente sul come condurre le loro vite e come sentire a proposito  delle scelte fatte nel corso delle loro vite. Tutti questi diversi modelli esplica-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    60 ETICA    tivi dell'etica e della sua genesi come si può vedere ne rendono conto in ter.  mini universalistici; l'etica si presenta cioè come un'istituzione del genere  umano che include al suo interno il ricorso a procedure pubbliche pet con-  trollare la validità delle opzioni privilegiate. Larga parte di queste concezioni  esplicative sono rivolte a trovare una collocazione per la credenza che il con-  trollo fattuale giochi un ruolo importante nella discussione etica. Una cre-  denza del genere sussiste anche se i fatti morali non esistono, 0 sono solo delle  nostre proiezioni o tali che noi li cogliamo perché forniti di una peculiare at-  trezzatura percettiva.    3.11. I problemi centrali per la fondazione della morale: «legge di Hume» e  possibilità di una «logica delle norme». — In questo secolo un ampio dibat-  tito si è sviluppato intorno a due nuclei problematici centrali per chiunque si  ponga l’obiettivo di una fondazione o giustificazione di conclusioni etiche. In  primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le discussioni relative alla co-  siddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di fondare una  conclusione etica su basi scientifiche, osservative o empiriche. Il punto di par-  tenza per questa linea di riflessione viene indicato in un passo del Treazise di  Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto «is-ought paragraph», in cui si  richiama l’attenzione sulla differenza tra proposizioni in cui è presente la co-  pula è {:5) e quelle in cui compare la nozione deve (ough)). A questo passo si  sono richiamati tutti coloro che hanno criticato come logicamente inaccetta-  bile la derivazione di una conclusione normativa, e in generale etica, da pre-  messe descrittive, assertive o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Car-  caterra, 1969; Oppenheim, 1971; Scarpelli, 1982: 165-178; Celano, 1994). Sul  piano storico occorre precisare che è molto probabile che Hume non fosse  direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio logico rela-  tivo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto piuttosto a segnare con  precisione la «grande divisione» concettuale tra conclusioni con l'è e quelle  con il deve. Importa però qui richiamare che nel XX secolo invece si fa rile-  vare che proprio da un punto di vista strettamente logico-formale e sintattico  si deve ritenere del tutto scorretto qualsiasi ragionamento o argomentazione  che pretenda di ricavare una decisione, una scelta o un giudizio etico da con-  siderazioni che riguardano lo stato dei fatti o delle cose.   Questa posizione è stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo  con articolazioni lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva  con decisione sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclu-  sioni avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o assun-  zioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber, 1958; Rossi,    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61    1971: 249-315; Hennis, 1991). Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità  dei valori o doveri dai fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accu-  sate di essere cadute nella «fallacia naturalistica» (Moore, 1964; cfr. $$ 3.4  e 3.5). Così da una patte vengono denunciate come frutto di un errore lo-  gico tutte quelle posizioni riduzionistiche o conformistiche che concludono  che ciò che si deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o ciò che è già  indicato dai valori accettati più o meno diffusamente nella società. Non diver-  samente viene considerata fallace quella specie di argomentazione etica pro-  pria dell'approccio consequenzialista che considera come completamente ri-  solvibile un qualche problema morale ricostruendo con precisione —— am-  messo che tra l'altro questo sia fattibile — quali sono le conseguenze delle  diverse opzioni tra cui dobbiamo scegliere. In realtà sapere con precisione  quali sono le conseguenze delle alternative che ci sono davanti non basta per  ricavare una conclusione su ciò che dobbiamo fare perché una tale previsione  — se attendibile — ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice sul  punto se certe conseguenze che ci saranno vanno poi preferite o meno ad altre  e dunque approvate o disapprovate. Tra l’altro era proprio questa l’argomen-  tazione che faceva valere Hume nella sua Exquiry concerning the Principles of  Morals (1751, Ricerca concernente i principi della morale; Hume, 1987: II, 302)  contro i tentativi di derivare le distinzioni etiche dal principio di utilità.   Contro l’uso di questa critica come ghigliottina decisiva per numerose  concezioni etiche si sono schierati quei pensatori — particolarmente nume-  rosi nell'ultirna parte del XX secolo — che hanno negato che si potesse net-  tamente distinguere un piano di descrizioni neutrali del mondo da un piano  di opzioni valutative su di esso. Questo tentativo di superamento del quadro  concettuale che sorregge la cosiddetta «legge di Hume» è stato principal  mente rivolto a contestare la concezione della scienza dei neopositivisti che  sembra sorreggere una forte divaricazione tra fatti e valori, essere e dovere.  Questa divaricazione è stata criticata e giudicata superata da numerosi pensa-  tori pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam (Putnam, 1982 e 1985).   In secondo luogo indubbiamente rilevante per il problema della fonda-  zione e della giustificazione dell’etica è tutto il dibattito — specialmente vivo  nella seconda metà del XX secolo — relativo alla possibilità di costruire una  logica delle norme. Collocandosi dunque sul piano della ricerca di una sin-  tassi di un discorso etico che voglia fare valere al suo interno principi di coe-  renza e non-contraddizione è stata contestata la stessa possibilità di enunciare  una logica delle norme. Una posizione del genere è presente nelle conclusioni  a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte della sua vita (Kelsen, 1985). Ri-  levando che le norme sono, dal punto di vista del significato, dei comandi, e    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    62 ETICA    che dunque come tali non possono essere valutati in termini di verità e falsità,  Kelsen negava che si potesse costruire un sillogismo logico in cui premesse e  conclusioni fossero degli asserti normativi. Le implicazioni della sintassi logica  possono valere solo in presenza di proposizioni empiriche o asserzioni scien-  rifiche, ovvero laddove premesse e conclusioni si collocano sul piano della ve-  rità e dunque da premesse vere (o false) si traggono conclusioni vere (o false).  Ma un enunciato normativo non è in alcun modo vero 0 falso e dunque non  può funzionare da premessa di nessuna conclusione logicamente derivata,  Così se presentiamo nella premessa maggiore un enunciato normativo di ca-  ratrere universale, laddove nella premessa minore troviamo l'individuazione  di una fattispecie rilevante sulla base della norma generale enunciata nella  premessa maggiore, secondo Kelsen non siamo autorizzati a presentare come  una conclusione logicamente necessaria una qualche azione o omissione {con  relativa sanzione). Coloro che contestano la possibilità di una logica delle  norme obiettano infatti che comunque il linguaggio normativo esige sempre  che ci sia un qualche comando effettivo ripetuto subito prima del compi-  mento di qualsiasi azione.   Sia le «legge di Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una  «logica delle norme» risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi si  muove all’interno di un contesto fondazionale e pretende dunque di dare una  qualche fondazione assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci collochiamo sul  piano dell’argomentazione o della giustificazione (per non dire del piano della  spiegazione delle procedure effettivamente adottate) le cose risultano più  complesse. Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta «legge di Hume»,  sembra difficile non ammettere l'efficacia di quelle critiche rivolte al tentativo  di ricavare le proprie conclusioni etiche semplicemente da una ricostruzione  dei fatti in gioco, o da una mera raccolta di informazioni, o dall’accumulo di  una congerie più o meno estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o poi la  nostra preferenza per un qualche principio da fare valere in modo analogo in  tutte le situazioni simili, una preferenza che sia radicata nelle nostre emozioni  e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a noi agire facendola  prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche. Questa ammissione di  una qualche frattura, divisione o salto tra il piano delle ricostruzioni empiri-  che della situazione e quello di una valutazione — e conseguente decisione —  delle diverse opzioni che ci stanno di fronte non deve essere spinto però fino  ad esiti eccessivi. Così risulterà insostenibile sul piano metodologico una rico-  struzione della natura dell’indagine empirica e scientifica che non tenga conto  di quanto le nostre osservazioni e le nostre esperienze siano dipendenti dalle  teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui muoviamo. Né sarà accetta-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 63    bile un divisionismo spinto fino all’estremo di non riconoscere la rilevanza  — in un certo senso come condizione necessaria anche se non sufficiente di  un’argomentazione etica — dell'impegno sia a verificare come stanno real-  mente le cose nella situazione in esame, sia a immaginare quali conseguenze  seguiranno una volta incamminatici lungo l’uno o l’altro corso di azione.   Non diversamente a proposito della questione della possibilità di costruire  una logica delle norme è difficile negare la nostra capacità sia di squalificare  certe prese di posizione etiche perché in contraddizione con principi già as-  sunti, sia di estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi  logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato. È  probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è esat-  tamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto — come ha sugge-  rito Nowell-Smith (1974: 86-91) — delle implicazioni di una logica pragma-  tica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in termini di «stranezza  logica». Ma la rilevanza e la portata di strategie di tipo sintattico o logico resta  innegabile se si abbandona la pretesa di muoversi sul piano di un'etica dimo-  strata in modo assiomatico e geometrico.   Va, infine, sottolineato che — malgrado le obiezioni di fondo dei puristi  della logica — larga estensione hanno avuto nella seconda metà del XX secolo  i tentativi di elaborare simbolismi e formalismi idonei al trattamento di  norme. Ben al di là dei tentativi o delle enunciazioni di principio si sono spinti  tutti coloro — da G. H. von Wright (1968) a C. E. Alchourron e E. Bulygin  {1971) — che si sono impegnati a elaborare la logica deontica e la logica delle  norme. I risultati raggiunti con tutta la loro complessa articolazione mostrano  la fertilità di un tentativo di dare vita a un trattamento simbolico della sintassi  delle norme e di inserire in un contesto logico le relazioni tra obbligazioni eti-  che. Difficile peraltro che tali modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme  o le valutazioni etiche possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando, nella  vita comune, siamo alle prese con i nostri problemi etici concreti. Tali linguaggi  invece illuminano certamente il lavoro di giuristi, politici, scienziati sociali im-  pegnati nel mettere a punto sistemi di norme più o meno stabili, efficienti, chiari  e comprensibili da tutti coloro per cui tali norme debbono valere.    4. Le etiche normative: concezioni in contrasto.    4.1. Eriche conseguenzialiste e deontologiche: principi, mezzi e fini nel-  l'etica. — Quando si tratta di classificare le diverse concezioni etiche pos-  siamo ricorrere a differenti criteri formali che si intersecano. È quanto faremo  n questo paragrafo, esponendo le differenti concezioni normative esistenti    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    64 ETICA    usando diverse strategie di classificazione. In primo luogo distingueremo le  etiche normative in generale sulla base di una loro struttura di fondo che col.  lega la valutazione etica 0 a un riferimento a principi 0 a una considerazione  delle conseguenze. Renderemo così conto della differenza tra etiche deonto-  logiche o tuotanti intorno a principi ed etiche teleologiche o rivolte principal-  mente alle conseguenze, e accenneremo anche ad alcuni tentativi di elaborare  etiche miste. Passeremo poi a rendere conto delle diverse etiche normative  classificandole sulla base di un diverso criterio formale che ritiene essenziale  la distinzione tra etiche che fanno uso di una nozione di valore intrinseco, in  quanto contrapposta a quella di valore estrinseco, ed etiche che invece rifiu-  tano tale distinzione. Esamineremo, infine, alcune concezioni normative che  identifichiamo come le più diffuse e vitali nelle discussioni di etica teorica nel  secolo XX. Ovviamente di pari passo con l’esposizione cercheremo sia di for-  nire le ragioni delle inclusioni ed esclusioni nella lista, sia della nostra prefe-  renza critica per una di queste etiche.   Un modo ricorrente per distinguere tra le diverse concezioni normative è  dunque quello che contrappone l’etica che ruota intorno a un appello ai prin-  cipi a quella che tiene piuttosto conto delle conseguenze dell’azione. Si tratta  di una distinzione che è centrale, ad esempio, nella riflessione di Max Weber,  che però se ne è valso non tanto per distinguere due tipi diversi di etica  quanto piuttosto per richiamare l'attenzione su due piani diversi della vita  etica: quello proprio del moralista che fa appunto appello alla rilevanza dei  principi e quello di chi — come il politico o chi sia comunque impegnato in  una dimensione tecnico-pratica — invece, muovendosi nel quadro di un'etica  della responsabilità, deve badare principalmente alle conseguenze dei diversi  corsi di azione in cui si impegna (Weber, 1966). Dietro queste due diverse  strategie possiamo anche ritrovare — come subito vedremo — un diverso  modo di considerare il rapporto mezzi-fini nella vita pratica.   Sono state presentate concezioni deontologiche dell'etica diversamente  strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche dei principi a seconda che pon-  gano al loro centro uno o più principi, e a seconda che concepiscano tali prin-  cipi o come assoluti e aprioristici o come ricavati dall'esperienza e in generale  rivedibili. È così chiaro che l'etica kantiana si presenta come un'etica deonto-  logica che ruota intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato  dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte, dell'imperativo  categorico, non presentano in realtà principi diversi (Kant, 1970a). Nel caso  di alcune etiche del comando divino (come ad esempio l’etica cristiana o car-  tolica) vi è invece una tendenza a presentare come costitutivi della vita morale  diversi principi tutti assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che co-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 65    stituiscono la legge naturale). Un'etica deontologica pluralista si trova di  fronte al problema (quasi mai invece affrontato esplicitamente in queste eti-  che) della necessità di disporre di un criterio chiaro per ordinare i diversi  principi e risolvere quei casi in cui più principi assoluti entrano tra di loro in  conflitto. Ma una concezione etica deontologica non è logicamente costretta a  considerare i principi al centro della vita morale come assoluti, immutabili e  di derivazione non empirica. Non mancano infatti analisi della vita etica (ad  esempio quella dell'evoluzionismo filosofico di H. Spencer — H. Spencer,  1893 — o di certe forme contemporanee di intuizionismo — si vedano ad  esempio W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing, 1948) che pur ritenendo costitutivo  della vita morale l’appello a principi, non rendono conto del costituirsi di  questi principi lungo l’asse dell’impostazione kantiana o di quella religiosa. I  principi dell'etica vengono piuttosto considerati o come regole fissatesi nel  corso dell'esperienza quali abitudini o come assunzioni — più o meno con-  venzionali — preliminari, o anche come ipotesi più o meno rischiose da avan-  zare in situazioni risolvibili difficilmente con gli strumenti ordinari.   La questione centrale per una valutazione critica delle etiche deontologi-  che è quella di chiederci fino a che punto le si possa seguire nella loro assun-  zione che i principi e la coerenza sono il criterio determinante della vita mo-  rale senza che st debba tenere conto delle conseguenze di un'applicazione di  questi principi. Le etiche deontologiche incontrano in realtà difficoltà insor-  montabili in quanto si presentano come la struttura di riferimento di tutte le  forme di fanatismo morale, ovvero di quelle concezioni che ritengono che  l'unico modo per elaborare decisioni e giudizi eticamente validi sia quello di  dedurre coerentemente le implicazioni suggerite da principi considerati come  indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo nasce laddove si spinge la fedeltà  ai principi fino a non tenere in alcun conto le eventuali conseguenze disa-  strose di questa fedeltà. Le etiche deontologiche partoriscono quindi spesso  moralisti che riaffermano continuamente vecchi principi che, in realtà, non  sono più in consonanza con la vita effettiva degli esseri umani, Paternalismo e  rigidità sembrano essere sul piano pragmatico alcune delle possibili implica-  zioni delle etiche deontologiche. Tali conseguenze sono evitate attraverso l’im-  pegno a formulare elaborate casistiche che prevedono un'ampia gamma di  condizioni in cui si può fare un'eccezione alle regole, Mentre sul piano psico-  logico non è infrequente che tali etiche generino forme più 0 meno estese di  ipocrisia per cui regole e principi assoluti sono enunciati solo verbalmente e  in pubblico, ma non seguiti nelle scelte effettive e in privato.   Proprio come correttivo di questi eccessi formalistici e rigoristici sono  state presentate come più adeguate le teorie etiche che mettono al centro della    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    66 ETICA    vita morale una considerazione delle conseguenze delle azioni. Si tratta di eti-  che in cui è centrale la considerazione per la dimensione della responsabilità.  In luogo di una stretta fedeltà ai principi l'atteggiamento etico è quello di chi  è impegnato in una continua valutazione dei risultati. Si tratta di quelle con-  cezioni dell'etica che già nel mondo antico, ad esempio con gli stoici, richia-  mavano l’importanza della prudenza per rendere conto del nucleo centrale  della vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste hanno avuto un grande  sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono divenute la struttura por-  tante delle etiche utilitaristiche. Sul piano logico non è però corretta un’assi-  milazione tra conseguenzialismo e utilitarismo. Infatti l'utilitarismo è una  delle varie forme che può prendere il conseguenzialismo, quella che considera  come criterio di valutazione dei risultati la realizzazione del massimo bene per  il maggior numero. Altre forme di conseguenzialismo possono assumere,  come criteri di valutazione dei risultati, concezioni del bene o del valore da  realizzare del tutto alternative rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo.   Però proprio la possibilità di distinguere tra utilitarismo e conseguenziali-  smo richiama quella che sembra essere la difficoltà principale delle concezioni  conseguenzialiste, ovvero la loro incompletezza. Infatti una concezione che  mette in primo piano per la valutazione morale la considerazione delle conse-  guenze delle nostre azioni non sembra in grado di rendere conto pienamente  del giudizio etico, in quanto tale giudizio non può limitarsi a esaminare quali  saranno le conseguenze di certe scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base di  ben precisi criteri di valore. Ci troviamo dunque di fronte alla difficoltà che  già richiamava Hume (Hume, 1987: II, 301-311), ovvero che una considera-  zione delle conseguenze può informarci solo relativamente ai mezzi e resta poi  da valutare del tutto indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma per quanto  possa essere incompleta, un'etica conseguenzialista richiama su quello che è  un passaggio necessario per le nostre valutazioni e decisioni; la considerazione  appunto di ciò che la loro accettazione comporta. Anche se poi questo ap-  proccio non può esimerci da una valutazione dell’accettabilità o meno dei ri-  sultati che si raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce  a rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed esige  di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei risultati.   Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra mezzi e fini in etica va  anche detto che specialmente nell'ultimo secolo varie forme di naturalismo  etico si sono impegnate nell’approfondire e render meno semplicistica una  considerazione esclusiva dei mezzi come passaggio obbligato verso i fini, riflu-  tando così di considerare i mezzi come una dimensione incompiuta della vita  pratica. In questa linea si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory    www.scribd.com/Filosofia_ in Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 67    of Valuation (1939, La teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare  l'attenzione sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono trasfor-  marsi in fini e nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i fini come  un risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta umana  trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini che a loro  volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono stati teorici che  hanno concepito il conseguenzialismo come autosufficiente laddove non si  considerino i fini come valori intrinseci o valori in sé, ma piuttosto come va-  lori estrinseci (cfr. $ 4.2).    42. Il valore intrinseco nell'etica. — Dal punto di vista normativo le di-  verse etiche possono essere differenziate anche sulla base del ricorso o meno  alla nozione di valore intrinseco. La nozione di valore intrinseco trova un uso  centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul versante fenomenolo-  gico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler (Scheler, 1944: 121-130).  Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale nozione nella teoria etica è  stato più volte fatto oggetto di critiche in particolare da pensatori pragmatisti  {su questa discussione è da vedere G. Pontara, 1974, che presenta anche una  difesa dell’uso in etica di tale nozione). Vi sono stati altresì tentativi di de-  lineare una nuova caratterizzazione della nozione ad esempio da parte di  R. Nozick (Nozick, 1987).   La nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare all’etica una  dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964) collegava la no-  zione di valore intrinseco con quella di «unità organica». Le cose fornite di  valore sono uniche in quanto presentano una unità organica che non è defini-  bile riducendo l’intero alle sue parti. In questo senso il valore intrinseco è la  contropartita a livello ontologico della tesi gnoseologica che riconosce nel  bene una qualità del tutto unica, semplice e indefinibile. D'altra parte il rife-  rimento al valore intrinseco fa sì che si consideri il bene come qualcosa che  viene conosciuto come presente nel mondo oggettivo e non già come un  modo di sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva che le proprietà  etiche avessero una loro realtà e sussistessero indipendentemente dall'essere  percepite,   La tesi che vi sono degli interi forniti di valore intrinseco (come ad esem-  pio per Moore le relazioni personali e le cose belle) permette di identificare il  normativo e l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e che dunque  non può essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che ammette l’esi-  stenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia fornita solo di  valore estrinseco e strumentale e che possa essere sostituita da qualsiasi altra    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    68 ETICA    azione. La concezione del valore intrinseco si accompagna dunque all’elabo-  razione di una teoria normativa che riconosce l'autonomia dell’etica e ritiene  anche che vi sia un modo compiuto e definitivo per fondare le conclusioni  dell'etica.   Anche Nozick (1987) usa la nozione di valore intrinseco come mezzo teo-  rico per arrivare a riconoscere alle realtà al centro dell'etica un'oggettività e  una forza vincolante indipendenti dalle motivazioni individuali. Nozick, come  Moore, collega la nozione di valore intrinseco con quella di unità organica e  anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base del diverso grado di valore  intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore valore intrinseco quell’inte-  ro che connette in modo più organico, ovvero più stretto e unitario, un  maggiore numero di parti differenti. In questo senso la nozione di valore  intrinseco secondo Nozick può essere attribuita a un gran numero di esseri e  permette misurazioni e graduazioni. La moltiplicazione di esseri forniti di  valore intrinseco nella teoria etica di Nozick è confermata dalla tesi che  questo valore può essere creato o costituito (in quanto «valore contributivo»  alla totalità di valore intrinseco già esistente nel mondo). Nozick poi delinea  una precisa lista di realtà fornite di valori, suggerendo che in particolare sono  le persone e i sé ad avere una maggiore quantità di valore intrinseco e a  poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia degli esseri della tradizio-  ne aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona umana il vertice tra le  realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé personali possono sceglie-  re di costituire unità organiche molto originali e strette, unificando l’insieme  molto differenziato di parti rappresentato dal fluire delle loro vite. Nozick  sembra dunque essersi impegnato a riproporre su una base laica e empiristica  la concezione religiosa e spiritualistica che indicava negli esseri personali  realtà fornite di un valore intrinseco e non sottoponibili a una valutazione  strumentale.   Un'etica che faccia uso della nozione di valore intrinseco va incontro alla  difficoltà di coinvolgere chi la sostiene in una serie di pretese metafisiche dif  ficilmente accettabili una volta sottoposte a controllo empirico. Così nel caso  di Moore la nozione di valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura  essenziale e sostanziale delle cose buone che può essere direttamente cono-  sciuta solo ricorrendo a una intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce  in parte a depurare la sua utilizzazione della nozione di valore intrinseco da  queste implicazioni ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca tutta la sua  teoria non già su di un piano fondazionale, ma piuttosto su quello esplicativo,  Ma procedendo per questa strada non si capisce più perché sia strettamente  necessario usare in etica la nozione di valore intrinseco. Infatti se rale nozione    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 69    viene introdotta solo per spiegare alcune assunzioni e intuizioni che si dà per  scontato siano presenti nel nostro modo di vivere la dimensione etica, po-  tremmo rifiutarla negando di trovare in noi tali assunzioni e intuizioni, oppure  sottoponendo le assunzioni e intuizioni presupposte a una critica che ne fac-  cia risultare l’artificiosità e l’inaccettabilità.   La nozione di valore intrinseco può avere un suo uso nel campo dell’este-  tica quando si tratta di spiegare il valore di cui una certa opera d’arte come un  tutto è fornita, valore che non è riconoscibile nelle diverse parti che la  costituiscono. Ma sembra difficile accettare come pacifica un'estensione di  tale nozione alla vita morale, In realtà affermando l'imprescindibilità dell'etica  dalla nozione di valore intrinseco si ripropone sotto una nuova forma l’obie-  zione che contro le concezioni conseguenzialiste muove — come abbiamo  visto — chi fa appello all’ineliminabilità dei principi. Il sostenitore dell'etica  dei principi rimarca che la considerazione delle conseguenze esige comunque  una loro valutazione ticorrendo a principi. In modo analogo chi ritiene  ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore intrinseco rimarca che  una considerazione etica in termini di valore strumentale rinvia sempre a  qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco 0 finale. Con questo lessico  la critica al conseguenzialismo si carica di allusioni ontologiche, metafisiche e  oggettivistiche che è difficile possano avere un riscontro sul piano dell’analisi  empirica,    4.3. L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. — Passando al piano più  sostantivo un'etica normativa chiaramente identificabile è quella giusnaturali-  stica o della legge naturale. Abbiamo già avuto modo (cfr. $ 3.4) di sostenere  come il giusnaturalismo e la concezione della legge naturale vadano incontro a  profonde difficoltà epistemologiche, ma resta fermo che anche nel corso del  XX secolo — benché con minore fortuna che nel passato — sono riconosci-  bili dei sostenitori di un concezione giusnaturalista o della legge naturale (ad  esempio Finnis, 1983), Si tratta di quella posizione etica che ritiene che gli  uomini hanno per natura determinati doveri e obblighi e che tali doveri e ob-  blighi siano determinabili prima e indipendentemente dal costituirsi di qual-  siasi istituzione giuridica o politica.   La tradizione giusnaturalistica ha avuto, dopo la presentazione da parte di  Tommaso d’Aquino di un’etica cristiana della legge naturale, una ripresa e  una formulazione sistematica nel corso del XVII secolo da parte di autori  come Grozio e Pufendorf. La concezione della legge naturale è stata poi varie  volte ripresentata nei secoli successivi e tuttora costituisce l'etica prevalente  nelle visioni cristiane e religiose. Le concezioni della legge naturale ruotano    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    70 ETICA    intorno al riconoscimento di una serie di obblighi e di doveri propri della na-  tura umana. Proprio conseguentemente a questo riconoscimento i teorici  della legge naturale fanno ampio uso del linguaggio dei diritti, anzi possiamo  ritenere che la diffusione nell'età moderna e contemporanea di tale linguaggio  sia una ricaduta del giusnaturalismo del XVII secolo. Va però sottolineato  come sia del tutto differente il ruolo che i diritti hanno nelle concezioni giu-  snaturalistiche rispetto a quello che essi hanno nelle teorie etiche dei diritti  propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica giusnaturalistica non  sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una delimitazione nell’obbligo o  dovere che occorre comunque rispettare facendo valere il proprio diritto. Le  diverse classificazioni dei diritti rinviano quindi a un contesto di leggi, doveri  e obblighi che resta primario.   I teorici della legge naturale concordano nel ritenere che gli uomini in  quanto tali hanno tutta una serie di diritti e doveri paralleli: ad esempio, l’esi-  stenza di un diritto alla vita da parte di qualcuno sì accompagna al dovere del  rispetto della vita di costui da parte degli altri. Tra gli obblighi più frequente-  mente richiamati dai teorici della legge naturale ricordiamo i doveri verso se  stessi, i doveri verso gli altri (distinguendo in questo ambito tra i doveri verso  i propri familiari e i doveri verso i propri concittadini) e i doveri verso Dio. I  doveri verso se stessi sono spesso identificati con tutta una serie di massime di  tipo prudenziale, sulla base di un più generale principio che considera la vita  umana — più specificamente la propria vita — come non disponibile. All’in-  terno del quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il suicidio è general  mente considerato inaccettabile.   Per quanto riguarda poi la dimensione dei doveri verso gli altri una prima  proposta è quella che distingue tra i doveri in senso più stretto nei confronti  dei propri familiari e i doveri in senso più generale verso i propri simili.  Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del giusnaturalismo è quella tra  doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di fronte a doveri perfetti laddove a  questi doveri non si può disattendere in quanto sono legati a un corrispon-  dente diritto da parte degli altri e dunque con una qualche codificazione. Così  in questa classe rientra il dovere di non ledere gli altri o di ottemperare a una  promessa o patto sottoscritto. Nella nozione di lesione si fa spesso rientrare  non solo il danno fisico, ma anche il danno relativo ai beni ovvero alla  proprietà. Vi sono invece tutta una serie di doveri imperfetti: essi riguardano  azioni che non siamo sempre tenuti a realizzare perché gli altri non le possono  pretendere da noi come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse da  generosità 0 beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati al partico.  lare posto che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al ruolo nella    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 71    famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o alla carica che si ricopre nella società.  Non mancano tentativi fatti dai teorici della legge naturale specialmente  nel XVII secolo con Grozio, Pufendorf, Althusius e Thomasius (Bobbio,  1980) di esporre in forma compiuta e sistematica tutto il codice di obblighi e  doveri.   I teorici della legge naturale riconoscono uno statuto del tutto peculiare al  dovere nei confronti del governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbe-  dienza 0 lealtà nei confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la rifles-  sione intorno a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi limiti, segna nel  corso del XVII secolo il processo di crisi per l'etica della legge naturale. In-  fatti Hobbes mette in luce la difficoltà di conciliare all'interno di un'etica  della legge naturale due distinte esigenze entrambe considerate essenziali: da  una parte il dovere di obbedienza al governo e dall'altra un qualche diritto a  resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel rimettere al  governo attraverso il patto tutti i diritti e dunque complessivamente anche il  diritto di resistenza, lasciando però all'individuo la possibilità di salvare con la  fuga la propria vita quando in pericolo.   La concezione giusnaturalistica dunque è entrata in crisi non solo sul  piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma anche per la sua incapacità di fornire  soluzioni pratiche effettive ai problemi etici che di volta in volta si sono pre-  sentati agli uomini. Quanto più le condizioni di vita degli esseri umani sono  andate collocandosi in un ambiente artificiale, tanto meno il richiamo alla na-  tura è risultato decisivo e chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di  resistenza del cittadino nei confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiu-  ste è risultato inderivabile da una presunta legge naturale, ma molti dei doveri  a cui rinviava la legge naturale sono apparsi desueti o inutili o lacunosi  quando le condizioni di vita si sono andate trasformando radicalmente nel  corso di un processo di civilizzazione che ha segnato il prevalere di condizioni  artificiali di vita. Si pensi, ad esempio, alle profonde trasformazioni che hanno  subito le relazioni familiari. Da queste trasformazioni deriva la vuotezza di  quelle concezioni che pensano di potere risolvere i conflitti facendo appello a  ciò che è naturale. Le questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra i  sensi non trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una  presunta famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e lode-  vole secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e dei rispet-  tivi doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va incontro il giusnaturali-  smo si pensi come al suo interno sia arduo trovare risposte per i problemi che  nascono con le nuove professioni o le nuove responsabilità etiche (pensiamo a  chi si occupa di gestione o trasmissione delle informazioni o delle imma-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    72 ETICA    gini, o a chi si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica della legge  naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e per l'eternità  doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che solo cinquant'anni fa  erano inimmaginabili. Né una riduzione a una presunta essenza della condi-  zione umana può risolvere queste difficoltà in quanto per questa via le norme  ricavate dalle leggi naturali si presentano con una formulazione tanto astratta  e generica da risultare del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione giusna-  turalistica si è andata sempre più svuotando della sua forza pratica e l'appello  alla legge naturale è divenuto solo uno strumento retorico e ideologico, unito  alla reiterazione di regole (spesso del tutto incapaci di guidarci) molto gene-  rali quali «non uccidere», «non rubare» ecc.    44. L'etica contrattualistica e le sue forme. — Il contrattualismo come  teoria etica fu elaborato inizialmente nel corso del XVII secolo proprio come  superamento del giusnaturalismo cristiano e medievale. La possibilità di indi-  care nella natura umana un fondamento adeguato per l’etica veniva messa in  crisi da Hobbes indicando la completa assenza, nella natura originatia degli  uomini, di tendenze che rendessero possibili la pace, l'ordine e la coopera-  zione sociale. Proprio in quanto la natura umana immaginata in uno «stato  di natura» è incapace secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione  tra il bene il male, tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a  una procedura artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu am-  piamente usato nel corso del XVII secolo come criterio etico decisivo da  autori — molto diversi tra loro — come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Locke  {Gough, 1986).   Un tratto tipico comune del contrattualismo del XVII secolo sta nel fatto  che il contratto è presentato come un criterio che può riuscire a fondare solo  una parte del contenuto dell'etica — quello che ha a che fare con le leggi  giuridiche e con le istituzioni politiche —, ma non la totalità dell'etica e în  particolare non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la morale  nel senso stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio perciò i teorici  nel XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal contratto, rinviano a una  diversa base come fondazione per la morale propriamente detta. Ad esempio  nella teoria di Hobbes troviamo che o — secondo la maggior parte dei suoi  interpreti — vi è una completa assenza di morale nello stato di natura e prima  del patto che dà vita all’ordine civile, oppure — ad esempio secondo H. War-  render (1974) — la morale viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine  — ad esempio secondo Bobbio (1989) — la si fa dipendere da un calcolo  prudenziale. Pufendorf e Locke invece ritengono che il contrattualismo per    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 73    quanto riguarda l'obbligo giuridico e politico possa (e debba) essere accom-  pagnato dall'accettazione del giusnaturalismo per quanto riguarda l’obbliga-  zione morale propriamente detta. Una prospettiva che restringe la portata  della procedura artificialistica del contratio è presente anche in un autore  come Jean-Jacques Rousseau che pure indica, nel contratto sociale (Rousseau,  1966), l’unica via per correggere le distorsioni generate dalla corruzione pro-  dotta dallo sviluppo della società e ricostituire così condizioni etiche più con-  sone alla natura degli uomini (Rousseau, 1988).   Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato come criterio etico  generale non ristretto alle situazioni di pertinenza del diritto e della politica. È  infatti con Rawls e la sua «teoria della giustizia» (Rawls, 1982) che la conce-  zione contrattualista viene proposta come strategia adeguata per individuare i  principi etici in generale. Va però rimarcato che il «contrattualismo ideale» di  Rawls riesce a funzionare da criterio generale per l’etica solo in quanto si de-  linea come una procedura che ha incorporato in sé un altro requisito ritenuto  caratteristico dell’etica: quello dell’imparzialità o dell'assunzione di un punto  di vista generale. Abbiamo già indicato (cfr. $ 3.8) i limiti del contrattualismo  di Rawls per quanto riguarda le procedure epistemologiche a cui si richiama;  sul piano normativo va rilevato che tale criterio è in grado di indicare solu-  zioni — ad esempio nella distribuzione dei beni disponibili — solo in quanto  tutti coloro che sono coinvolti accettano già alcuni vincoli. Perché la proce-  dura contrattualistica possa risultare decisiva bisogna, dunque, ritenere che ci  sia già un qualche accordo nel considerarsi cittadini di una stessa comunità;  oppure, in alternativa, bisogna ritenere che ci sia un’armonia prestabilita (un  residuo del provvidenzialismo settecentesco) che garantisce la confluenza de-  gli interessi individuali nel bene generale. Proprio come correttivo di queste  limitazioni Gauthier ha presentato una procedura delineata come una forma  di «contrattualismo reale» (Gauthier, 1986). Questa strategia si sforza di mo-  strare che un certo esito identificato come un equilibrio di contrattazione ri-  sulta per tutti coloro che sono coinvolti più conveniente in termini di soddi-  sfazioni personali. Resta però da dire che in questo caso il criterio etico deci-  sivo sembra presentarsi — al di lì del contratto — in una sorta di «egoismo  razionale» che accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo migliore  per l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su eventuali soste-  gni o ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3).   In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo che  non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica, ma che ha  bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o egoismo razionale) ove  lo si voglia fare valere al di là del piano giuridico e politico.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    74 ETICA    45. Un'etica dei diritti. — Anche l'etica dei diritti si è andata svilup-  pando nella cultura moderna e contemporanea come un correttivo della con-  cezione giusnaturalistica. Una prima fase dell'etica dei diritti nel corso del  XVII secolo fu la via attraverso la quale si cercò dì garantire la sfera di auto-  nomia delle persone nei confronti dell'intervento della legge e del potere po-  litico. I diritti che vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque  prevalentemente come diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un po-  tere esterno. Così, da una parte, autori come Hobbes e Locke si fermarono a  lungo sui diritti negativi alla autoconsetvazione e alla proprietà dei beni ed  altri autori — come ad esempio Anthony Collins (1990) — e in generale i  free-tbinkers — cercarono di far valere il diritto alla libertà di pensiero. Il pro-  cesso teso a garantire i diritti negativi ebbe esito sul piano storico con le varie  Dichiarazioni dei diritti degli Stati Americani (1776-1789) e con la Dichiara-  zione dei diritti della Rivoluzione francese (1789; cfr. Cassese, 1988).   Nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX vi è stata una conte-  stazione della teoria etica dei diritti, da una parte dagli utilitaristi sul piano  epistemologico e, dall'altra, dai marxisti sul piano di una critica storico-so-  ciale. Ma — come rileva Brenda Almond (Almond, 1991} — una ripresa del-  l'etica dei diritti si è avuta dopo la seconda guerra mondiale in particolare  come reazione alla soluzione finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così  assistito a un progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che  Bobbio ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione di  «età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto ricorso  al linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in precedenza lo avevano  criticato, come ad esempio l’utilitarismo — che l'aveva riftutato come del  tutto privo di sensatezza — o l'etica cattolica — che l’aveva attaccato come  espressione del trionfo di una mentalità moderna anarchica e priva di eticità.  Nella seconda metà del secolo XX si è altresì assistito a una espansione della  sfera dei diritti affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente  etica dei diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti negativi ma  ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti cosiddetti positivi (ad  esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro ecc.). Ma in questa sede non  possiamo limitarci a prendere atto della larga diffusione a livello di opinione  pubblica del linguaggio dei diritti; dobbiamo piuttosto impegnarci a identifi-  care e valutare criticamente le concezioni teoriche che hanno visto nell’affer-  mazione dei diritti il criterio etico fondamentale.   Nel corso del secolo XVII laddove i sostenitori della legge naturale prefe-  rivano richiamare sul piano etico il primato dei caratteri essenziali della na-  tura umana intesi in modo complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 75    un'etica dei diritti — pur conservando la convinzione di una legge naturale o  divina che fonda in modo assoluto l’etica — facevano proprio — sia pure in  modo grezzo e schematico — il quadro teorico dell'individualismo metodolo-  gico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte della storia del-  l'etica dei diritti possiamo accettare il quadro esplicativo proposto da autori  come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson (1973) che identificano questa sto-  ria con quella della lotta di una nuova classe in ascesa — la borghesia 0 ceto  medio, ovvero il ceto di produttori — per giungere a un ticonoscimento delle  sue esigenze da parte della legge o del potere politico. Dunque una prima fase  dell'affermazione dei diritti fu rivolta a far valere pretesi diritti naturali degli  uomini contro lo strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase  che possiamo ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in cui  si affermano i diritti negativi alla vita, alla libertà, all'autonomia, alla resi-  stenza, alla proprietà ecc. In questo quadro, oltre ai teorici del liberalismo  settecentesco, possiamo collocare anche autori che, come Rousseau, sono im-  pegnati a recuperare una serie di esigenze naturali degli uomini contro le li-  mitazioni progressivamente delineatesi nella storia della corruzione umana.   Nel corso del XX secolo invece i fautori dell'etica dei diritti hanno cer-  cato, sempre su un piano morale o pregiuridico e prepolitico, di argomentare  a favore del riconoscimento di una serie di esigenze minime che gli esseri  umani avrebbero in quanto tali e che le collettività dovrebbero garantire con  le loro istituzioni e forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi rien-  trano ad esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più genericamente  alla liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o alla felicità. Laddove  nella prima fase erano i diritti dell’individuo o del cittadino che si cercava di  considerare come criterio decisivo dell'etica, nella fase più recente si pren-  dono a guida piuttosto i diritti della persona umana più ampiamente intesa.  Va però rilevato che ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0 incompa-  tibilità tra l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti positivi. Come  ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei programmi di difesa  dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di concordare una lista precisa  dei diritti da includere in questo programma e di convergere su una loro ge-  rarchia) non può che essere realizzata dando al potere politico e giuridico una  qualche autorità per limitare eventualmente i diritti negativi individuali che,  se illimitati, non permettono il raggiungimento per tutti i membri di una so-  cietà dei diritti sociali.   Dal punto di vista teorico nel nostro secolo l'appello ai diritti è stato col-  legato, sul piano fondazionale, non solo con la legge naturale, ma anche con  altre strategie etiche. Non è mancato chi ha cercato di fondare i diritti in un    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    76 ETICA    quadro generalmente contrattualistico (ad esempio Rawls, 1982), o di recupe-  carne un qualche riconoscimento anche in un quadro utilitaristico (ad esem-  pio Hare, 1989), anche se in queste concezioni i diritti non hanno più una  collocazione primaria e originaria ma solo un ruolo sussidiario e derivato.  Non sono poi mancate profonde divaricazioni per quanto riguarda il tipo di  tradizione etico-politica al cui interno sono state calate le affermazioni dei di-  ritti. Da una parte si è fatto ricorso alla tradizione liberale che ha piuttosto  insistito sui diritti negativi degli individui nei confronti della società civile e  spesso contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni anarchiche di  R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia — che ha trovato espres-  sione nei movimenti democratici e socialisti e in forma più totalitaria nei re-  gimi comunisti — che in nome della realizzazione dei diritti sociali dei citta-  dini ha proposto limitazioni più 0 meno estese delle libertà negative.   Una storia del progressivo espandersi e modificarsi delle rivendicazioni dei  diritti può essere una strada molto fertile per ripercorrere la storia della mo-  rale e del costume sociale nelle società occidentali, ma non permette di arri.  vare a identificare un preciso criterio etico. In questa direzione già Bentham  mostrava le fallacie e le insufficienze di una teoria etica dei diritti che a suo  parere non poteva che confluire in un'etica della legge naturale e dunque in  una forma di etica autoritaria o dell’ipse dixit {Bentham, 1981). Un'alternativa  alle concezioni giusnaturalistiche che può essere percorsa dall’etica dei diritti  è quella che, secondo alcuni interpreti, sarebbe propria di Hobbes, il quale  identifica i diritti con le prerogative che ciascuno individuo si trova di fatto ad  avere a ragione delle sue condizioni storiche, del suo status sociale, delle sue  capacità, forza ecc. Una impostazione che però rende praticamente impossi-  bile un qualche bilanciamento dei titoli che qualsiasi individuo può far valere  come decisivi. Ovviamente si presentano qui come insolubili pretese conflig-  genti di diritti in una condizione come quella umana nella quale per la scarsità  delle risorse e i vincoli emotivi degli esseri umani non sono contemporanea-  mente soddisfacibili tutte le esigenze di tutti.   L'etica dei diritti manifesta la sua maggiore inadeguatezza sul piano critico  e teorico proprio nella seconda metà del XX secolo, quando realizza il mag-  giore successo dal punto di vista della sua diffusione come forma di discorso  prevalente nell'opinione pubblica. Infatti proprio in questo periodo vi è stato  un fiorire di nuovi diritti ed un indubbio processo di democratizzazione (ov-  vero di allargamento della base di coloro che avanzano le pretese di diritti),  fenomeni che ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno fatto sorgere di  nuovi. Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del prevalere della  forma di rivendicazione etica che fa appello ai diritti, a un riacutizzarsi dei    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LÉ ETICHE NORMATIVE 77    contrasti in campi quali quelli della nascita, della morte, della cura, dell’am-  biente, del trattamento degli animali, della considerazione delle generazioni  future ecc. Da un punto di vista puramente descrittivo — e lasciando sospeso  il giudizio di merito su questi fenomeni — si può rilevare una crescita espo-  nenziale di nuovi soggetti di diritti e di diritti che ciascun soggetto avanza con  la pretesa che siano riconosciuti da tutti e salvaguardati dalle istituzioni poli-  tiche e giuridiche. Dietro questo diffondersi delle pretese ai diritti, invece, da  un punto di vista teorico e fondazionale restano valide le strategie del passato  con cui si era già cercato di giustificare il primato dei diritti presentandoli, di  volta in volta, come una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emo-  tivo particolarmente persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di bri-  scola» (Dworkin, 1982), un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981), Ma  il tentativo di costruire una qualche etica dei diritti come risolutiva va incon-  tro a difficoltà insuperabili quando si tratta di fornire criteri sicuri per deci-  dere quali nuovi diritti riconoscere effettivamente come meritevoli di codifi-  cazione giuridica o di tutela morale. Non diversamente, il contesto teorico  dell'etica dei diritti non è in grado, di fronte a casi concreti, di offrire una  strada argomentativa per superare contrasti e conflitti proprio relativamente a  diritti da riconoscere convergentemente. Per questi suoi limiti epistemologici  l’etica dei diritti si presenta, più che come una teoria valida e coerente, come  una retorica pubblica largamente usata oggi nella nostra cultura.    4.6. L'etica kantiana e la persona umana. — Un modello del tutto pecu-  liare di etica normativa è quello che si trova negli scritti di Kant. Come ha  sottolineato Frankena, nel caso di Kant ci troviamo di fronte a una ben pre-  cisa forma di «deontologismo della regola» {Frankena, 1981). L’universalità  richiamata dall’etica kantiana si collega, su un piano epistemologico, con una  forma di intuizionismo che attraverso la via del trascendentalismo sfocia in un  realismo etico che esclude la possibilità di conciliarlo con una meta-etica non-  cognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di trovare in  Kant un'etica sostanzialmente costruttivistica e puramente procedurale.   La legge etica di fondo dell’etica kantiana — ovvero l'imperativo catego-  rico «agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere nello stesso  tempo come principio di una legislazione universale» (Kant, 1970a: 167) — si  presenta come decisiva e capace di indicare le soluzioni dei diversi conflitti e  disaccordi etici. Ma è proprio questo universalismo dell’etica di Kant che è  stato più frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta secondo i cri-  tici come una mera etica della coerenza formale e propria di una volontà che  per rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota di contenuti e si    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    78 ETICA    rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle effettive opzioni  presenti nelle situazioni reali.   La comprensione della proposta etica kantiana passa attraverso una più  precisa individuazione della natura dell'imperativo categorico. In Kant si  tratta di una massima che è universalizzabile solo se può essere voluta senza  contraddizione come legge universale, cioè se e solo se qualcuno può volere,  senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti questa massima e agisca  secondo essa. L’universalizzabilità in questo senso «è la prova dell’accettabi-  lità morale di una massima dell’azione e conseguentemente della condotta»  (cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant l’universalità è un principio morale e  come tale non ha molto a che fare con l’universalizzabilità che Hare riconosce  come carattere proprio dei giudizi morali, in quanto tale carattere, almeno  nelle prime affermazioni che ne fa Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi  sulla logica del discorso morale.   Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica normativa kantiana non ci  si può limitare alla componente universalistica. Vi sono altri tratti che la ren-  dono storicamente riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il  nucleo essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e  passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona.   Nel caso dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici na-  scono proprio negando — in nome della libertà — interessi egoistici e desi-  deri individuali e non già rendendo possibile, con il fare valere punti di vista  imparziali e generali, una loro conciliazione. Uno degli aspetti caratteristici  dell'etica normativa kantiana sta nel riprendere il discorso delle etiche asceti-  che cristiane che indicavano un'incompatibilità tra la ricerca del proprio be-  nessere e il piano morale. In questa linea l’etica kantiana non si spinge solo a  fissare una distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale e il piano etico, ma  procede fino a prescrivere la salvaguardia di un piano morale che nega recisa-  mente — contrapponendovisi — tutta l'impostazione delle etiche eteronome  che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in questo senso  l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della scelta responsabile  e razionale della legge universale, in contrasto con qualsiasi tendenza a consi-  derare la felicità individuale come obiettivo finale dell'etica. La posizione kan-  tiana si presenta, dunque, come del tutto alternativa rispetto a quella fatta va-  lere sempre più decisamente nella tradizione empiristica — da Hume all’uti-  litarismo, al prescrittivismo universale — secondo la quale solo desideri,  sentimenti e preferenze sono in grado di motivare le scelte (etiche o non eti-  che) e la ragione invece risulta inefficace su questo piano, Non bisogna per  dere di vista questa componente dell'etica kantiana che rende del tutto eccen-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 79    trici aleuni tentativi contemporanei — ad esempio quelli di J. Rawls e R. M,  Hare — di conciliare l’universalismo kantiano con un bilanciamento dei desi-  deri e delle preferenze effettive di coloro che sono coinvolti.   Kant rifiutava tutte quelle etiche che facevano discendere la determina-  zione della moralità da motivi diversi da quelli propriamente etici. La sua teo-  ria è del tutto in linea con l'affermazione nella cultura moderna e contempo-  ranea dell'autonomia della morale. In particolare Kant rifiutava come etero-  nome tutte quelle etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che  dipendeva o dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o  dal sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla per-  fezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e altri  moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé, i senti-  menti e le preferenze personali non sono in grado di costituire il punto di  vista morale: laddove l’azione è motivata da questi scopi essa è chiaramente  eteronorna e dunque non morale. Solo una legge della ragione può motivare  autonomamente. Nel primo caso si hanno solo imperativi ipotetici e precetti  prudenziali, mentre nel secondo caso si giunge agli imperativi categorici mo-  rali nella loro peculiarità.   La concezione etica kantiana infine riconosce un posto centrale alla per-  sona. Kant presenta una caratterizzazione della persona umana in termini es-  senzialistici e semplici ovvero come qualcosa che ha una sua realtà sostanziale  continua e inconfondibile {tra l'altro che sopravvive alla stessa morte}, anche  se questa realtà sfugge alia nostra conoscenza e si presenta come collocata sul  piano noumenico. Ecco ad esempio una definizione dell’essere umano, non  priva di implicazioni assiologiche, offerta da Kant nella Axtoropologie in prag-  matischer Hinsicht abgefasst (1798, Antropologia dal punto di vista pragmati-  co): «Che l’uomo possa avere una rappresentazione del proprio io, lo innalza  infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Perciò egli è  una persona e, grazie all'unità della coscienza in tutti i mutamenti che subisce,  una sola e stessa persona» (Kant, 1970a: 547). Malgrado alcune limitazioni  epistemologiche nell’affermazione di un personalismo essenzialistico Kant  considera decisamente come tratto definiente della persona umana — che è  l'unico soggetto-oggetto dell'universo morale — la sua razionalità. La centra-  lità della nozione di persona nell’etica kantiana risulta esplicita in una delle  formulazioni dell'imperativo categorico che suona: «agisci in modo di trattare  l'umanità nella tua persona come nella persona di ogni altro sempre come fine  e mai soltanto come mezzo» (Kant, 19704). Proprio sulla base della persona è  fondata la tavola dei doveri presentati in Die Merapbysik der Sitten (1797, La  metafisica dei costumzi). Kant riprendeva le distinzioni avanzate dai giusnatura-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    80 ETICA    listi (in particolare Pufendorf e Thomasius) tra doveri positivi e negativi (che  si intreccia con quella tra doveri verso Dio, verso gli altri e verso se stessi),  riformulandola come una distinzione tra doveri perfetti {quelli verso se stessi  stabiliti da massime universali per le quali persare un'eccezione equivale a una  contraddizione) e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la contraddi-  zione si presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant, 1970b: 269-374).   Le critiche alla concezione kantiana dell'etica sono state mosse lungo di-  verse linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano più decisive: la mera forma  dell’universalità o è vuota 0 può essere soddisfatta dalla coerenza e fedeltà  verso qualsiasi valore anche negativo; l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave  rigidamente rigoristica rende del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana  che non potrà includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani concreti.  Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona razionale com-  porta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a rendere  conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non razionali (animali,  ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di colorazione egoistica in una  prospettiva che si muove esclusivamente in un contesto di persone in qualche  modo distinte e separate l'una dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta va-  lere in particolare da Parfit (1989). La tesi è che solo un quadro concettuale  che — come quello elaborato da Parfit — dia una spiegazione riduzionistica e  complessa per quanto riguarda la natura dell'io e della persona potrà permet-  tere di non considerare le singole persone umane come unità di misura finale  pes l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai confini ontologici  della persona umana potrà porre le basi per la costruzione di un'etica effetti-  vamente universalistica e altruistica.    4.7. Le etiche utilitaristiche. — Una concezione etica molto diffusa e for-  tunata è quella utilitaristica. Si può trovare un appello generico all’utilità  come criterio di scelta etica in molti pensatori dall’antichità ai giorni nostri.  Ma prendendo in esame l’utilitarismo propriamente detto facciamo riferi-  mento a quelle concezioni che riprendono da Bentham lo sforzo di svilup-  pare, in termini precisi e rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale  con al centro l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali piacere-  dolore, felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La storia dell’utilita-  rismo, anche in questo senso più stretto e determinato, è molto ampia e non si  può qui ripercorrerla se non in modo sommario limitandosi a delineare alcuni  dei filoni principali in esso riconoscibili.   Nel rendere conto delle varie forme di utilitarismo proviamo a differen-  ziarle sulla base della diversa caratterizzazione che viene offerta della nozione    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 81    del bene che alla fine si deve ottenere. La nozione di utilità è, infatti, sempre  ricondotta ad una più determinata nozione di bene che identifica con più  precisione in che cosa risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di  distinzione che sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezio-  ni che applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti partico-  lari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le regole o norme in  generale.   Occorre precisare preliminarmente — una precisazione particolarmente  necessaria in una cultura come quella italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi  dall'essere studiato e discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato  come una forma di egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora  l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni sulla  morale cattolica nel 1819 a fare testo) — che l'etica utilitaristica va tenuta net-  tamente distinta dalle cosiddette concezioni egoistiche. È tipico dei fautori  dell'etica utilitarista fare riferimento a un’utilità che non riguarda mai il sin-  golo agente, ma che riguarda — a seconda della formula privilegiata — la  massima utilità generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità  di tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse conce-  zioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva sottoscritta per  quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere presente nel calcolo utilita-  ristico. Vi è la tendenza a considerare la massima utilità che va cercata come  coinvolgente tutti coloro nei quali può essere rintracciato il tipo di stato men-  tale che va massimizzato, che si tratti di piacere, dolore, preferenze, desideri o  altro. Proprio in questo senso è tipico dell'utilitarismo il presentarsi come una  concezione della morale che estende la sua portata anche al di là dell’ambito  delle persone umane, fino a coinvolgere tutti gli esseri viventi in cui si trovi lo  stato mentale (ad esempio la sofferenza o il piacere) che il criterio deve mi-  nimizzare o massimizzare con il corso di azione prescelto. Già in Bentham  {Bentham, 1970: 282-283) era presente quell'apertura a una considerazione  etica del mondo animale che troviamo poi largamente sviluppata nell’utilita-  rismo contemporaneo.   Per quanto riguarda la caratterizzazione del bene che va massimizzato una  differenza classica è quella tra concezione edonistica che distingue tra i piaceri  solo su basi quantitative e quella che riconosce differenze qualitative. Così in  Bentham troviamo sviluppata l’idea che la misurazione quantitativa del pia-  cere € del dolore è l'unico criterio in grado di dare una base esterna, valida e  pubblicamente discutibile, alle prese di posizione etiche. Bentham quindi cri-  tica tutte le etiche alternative all’utilitarismo in quanto inclini a far valere un  criterio del rutto arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di misu-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    82 ETICA    razione della quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che coinvolgono  più esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio sull’inadeguatezza, ad  esempio, del criterio offerto da Bentham si sono concentrate le critiche degli  avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata tra l’altro l'impossibilità di ridurre a  una base unica piaceri diversi e l'impraticabilità di quei confronti interperso-  nali di piacere e dolore che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la  critica che la ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sem-  bra lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta  del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di  azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se questo  risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di tale piacere o  benessere e addirittura accentua la distanza tra individui che ottengono  grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una ridottissima.  Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo rispetto a questioni di  giustizia distributiva, e più in generale a questioni di diritti.   Una diversa forma di utilitarismo fu delineata da John Stuart Mill in Ut  litarianism (1863) in parte già come risposta a queste critiche e difficoltà del  particolare edonismo di Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative  riguardano l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insi-  stenza sul principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione  delle proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni — laddove non procu-  rino danno agli altri — vanno incorporate nel criterio utilitaristico. Mill nei  suoi scritti non si limita ad assumere come rilevante la distinzione qualitativa  tra piaceri più elevati e più bassi, ma sviluppa anche una tecnica con l’aiuto  della quale risolvere eventuali contrasti, e ciò che più conta usa questa distin-  zione per proporre sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del  trattamento delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà  e della scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti relativi  ai piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che essi possano essere  risolti facendo appello all'opinione — che si esprime nella discussione pub-  blica con l'approvazione o la disapprovazione morale — di coloro che cono-  scono tutte le forme di piacere in gioco. La posizione di Mill per quanto ri-  guarda la distinzione qualitativa dei piaceri è stata spesso criticata e denun-  ciata come contraddittoria, in quanto mescolerebbe due differenti criteri di  valutazione (cfr. Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta  un’etica mista, ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione,  ma non.va data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione nor-  mativa che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli  valere a diversi livelli etici.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 83    Ma la grande svolta nella storia dell'utilitarismo è segnata da quel mo-  mento in cui il criterio passa a prendere in considerazione non tanto le com-  ponenti del piacere e del dolore, quanto, più genericamente, le preferenze di  coloro che sono coinvolti nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle prefe-  renze che si sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno spostamento  decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità di  misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando  come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e dun-  que identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la soddi-  sfazione delle preferenze quali che siano. Le preferenze possono tendere  verso oggetti completamente diversi e dunque l’utilitarismo delle preferenze  dispone di uno strumento di valutazione etico più flessibile, recuperando e  ampliando — in un senso ancora più liberale e individualistico — quell’esi-  genza di pluralismo fatta valere da Mill contro il riduzionismo oggettivistico e  paternalistico dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989).   L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di trovare  una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in particolare sono stati  messi a punto criteri per distinguere preferenze di ordine diverso, quali quelle  antisociali di un sadico e quelle benevole o altruiste. Così John Harsanyi (Har-  sanyi, 1985: 75-126} ha considerato rilevanti per l'etica solo le preferenze be-  nevole considerate imparzialmente, mentre Hare ha identificato come etica-  mente significative le preferenze universalizzabili (Hare, 1989). Infine non  sono mancati utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di valuta-  zione critica delle preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di accettare,  dopo averle sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le sole preferenze  razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente informati  (Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque come, a livello  teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel caso specifico al cri-  terio della massimizzazione si affianca quello della selezione delle preferenze  in base alla loro universalizzabilità formale o imparzialità sostanziale.   Malgrado questi tentativi di evitare il riduzionismo, l'utilitarismo è stato  insistentemente attaccato (Smart e Williams, 1985; A. Sen e B. Williams,  1984) contestando la legittimità di un approccio che considera come decisive  le preferenze che di fatto un certo individuo si trova ad avere. Procedendo in  questo modo l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti pos-  sono essere indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni  reali degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986) ha  obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce con il con-  solidare le distribuzioni di beni inique di fatto già istituzionalizzate. Gli utili    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    84 ETICA    taristi hanno cercato di rispondere a queste critiche indicando che l'esigenza  della massimizzazione delle soddisfazioni delle preferenze può essere ottimiz.  zata solo laddove si accetti l’esistenza di una soglia per ciascun individuo al di  là della quale un incremento della soddisfazione delle sue preferenze realizza  risultati meno validi di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle  preferenze di individui che stanno peggio (Pontara, 1988).   Nella storia dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è proceduto  anche su di un altro piano nel cercare un correttivo che permettesse di fare  valere nella massimizzazione una qualche regola o principio distributivo. In  questa linea si sono sviluppate ad esempio varie forme di utilitarismo della  norma © della regola. Sul piano storico vi è stata una tendenza a considerare  Bentham come un tipico esponente dell’utilitarismo dell’atto e a trovare in-  vece in Mill una posizione che anticipa le esigenze dell’utilitarismo della re-  gola o della norma (J. Urmson, 1953). Il problema principale affrontato da  questa parte della riflessione teorica interna all’utilitarismo è stato quello della  possibilità o meno di ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo del-  l’atto. Nel caso poi in cui si è concluso per la specificità dell'utilitarismo della  regola, la questione è stata se una teoria che fa valere un qualche riferimento a  regole, principi e norme non comporti una fuoriuscita dal quadro conseguen-  zialista proprio dell’utilitarismo (Lyons, 1965). Nella riflessione sullassibi-  lità di conciliare l'accettazione primaria dell’utilitarismo dell’atto con un rico-  noscimento di un qualche ruolo nella vita etica a principi e norme, partico  larmente interessante risulta un tentativo come quello di Hare. Hare ha  presentato una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più intuitivo e  di senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le norme, e l'altro  — che si colloca invece sul piano della riflessione critica — nel quale, vice-  versa, si applica ditettamente alle singole azioni il criterio utilitaristico della  massimizzazione della soddisfazione delle preferenze di tutti coloro che sono  coinvolti (Hare, 1989). Più fertili sono da ritenere però quei tentativi di pre-  sentare un utilitarismo della norma e della regola come itriducibile — sul  piano normativo — all’utilitarismo dell'atto. Così ad esempio procede Brandt,  che ha più volte fatto valere la sua posizione come una forma di utilitarismo  della norma ideale. In questa teoria il criterio etico decisivo è quello che iden-  tifica le soluzioni rappresentandosi le norme da accettare in una società idea-  le rivolta a soddisfare massimamente i desideri razionali dei suoi cittadini  (Brandt, 1992).   Nel rendere conto delle varie specie di utilitarismo va infine ricordato  quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto di realizzare un saldo  attivo di piaceri, quanto di minimizzare le sofferenze e i dolori (R, N. Smart,    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 85    1958). Questo tipo di utilitarismo negativo è stato spesso criticato — ad esem-  pio da J. J. Smart (Smart, 1985) — come paradossale in quanto implica che  la soluzione migliore è quella che riduce al massimo il numero di esseri sen-  zienti esistenti, in quanto per questa via si procede certamente a una ridu-  zione della quantità delle sofferenze. Ma se si va al di là del piano speculativo  sul quale si muove l’etica teorica sembra chiaro che proprio il criterio di una  riduzione delle sofferenze inutili ha avuto un ruolo decisivo nei dibattiti più  recenti sull’etica pratica. È stata questa la via principale mediante la quale si è  allargato l'ambito del discorso etico anche alle questioni del trattamento degli  animali ed ancora è questa la via mediante la quale — riprendendo le critiche  di Bentham nei confronti delle etiche ascetiche — si continua a fare emergere  l'inaccettabilità di quelle soluzioni fittizie ricavate dall’imposizione di antro-  pologie astratte.    4.8. La scelta razionale come criterio normativo. — Consideriamo poi  quella concezione normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto fare, in  una qualsiasi situazione che ci presenta diverse alternative, può essere deciso  cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel senso di ciò che soddisfa  massimamente i propri interessi e bisogni. Una concezione etica della scelta  razionale è riconoscibile in particolare negli scritti di alcuni teorici che difen-  dono l'economia di mercato, sostenendo che proprio la ricerca da parte di  ciascun individuo della massima realizzazione delle proprie esigenze consente  di ottenere i risultati migliori per la società nel complesso (Arrow, 1977 e  Buchanan, 1989). Naturalmente un punto decisivo per questa concezione  normativa sta nell'impegno a definire con maggiore precisione la natura di ciò  che è razionale massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In  questa luce si presentano come nettamente distinte: da una parte, una posi-  zione che tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno consideri  come massimizzante la propria utilità interpretata in termini di benessere o  vantaggio economico personale — una teoria etica che muove dal riconosci-  mento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra una posizione che  interpreta la scelta razionale come quella che massimizza, ad esempio, i biso-  gni più profondi ed elevati della persona che sceglie.   La teoria che ritiene eticamente preferibile come criterio per le scelte pub-  bliche il comportamento che tende a massimizzare l’utilità attesa da ciascuno  degli agenti negli ultimi decenni è stata attaccata lungo due linee: una rivolta a  mostrarne le difficoltà interne laddove venga presentata come teoria norma-  tiva da adottare per identificare l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta a  farne risaltare la scarsa portata analitica e esplicativa.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    86 ETICA    Il primo ordine di difficoltà si esprime specialmente osservando che, col.  locandoci all’interno della teoria della scelta razionale e regolandoci non di-  versamente da giocatori che cercano di vincere la partita contro avversati  egualmente razionali, finiamo con il trovarci di fronte al ben noto dilerzizza del  prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik, 1990). Se più individui razionali in una  situazione che li coinvolge in competizione si fanno guidare per decidere la  via da seguire dalla ricerca del migliore risultato prevedibile — sulla base del.  l'attribuzione di un calcolo eguale agli altri individui — saranno costretti a  privilegiare corsi di azione che porteranno a un risultato niente affatto otti-  male. Ll risultato migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la mas-  sima utilità attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo com-  portamento, non garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe realizzare  solo introducendo l'accettazione di qualche vincolo cooperativo da parte di  tutti gli individui presenti nella scena.   L'altro tipo di critica — avanzato ad esempio da Sen (1986) — è rivolto a  mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della scelta razionale in  quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte le nostre scelte in  situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se pensiamo a scelte che ri-  guardano la disponibilità di beni quali strade, servizi ecc. ci rendiamo conto  che ciò che di fatto facciamo laddove privilegiamo una decisione che porti alla  creazione o all'uso regolato di uno qualunque dei beni pubblici — creazione e  uso regolato che risultano costitutive della nostra forma di vita — non può  essere in alcun modo spiegato come esito di una scelta ispirata dalla teoria  della scelta razionale. Infatti ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti  regolarci come free riders, ovvero come battitori liberi che si preoccupano  esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe impossibile la conver-  genza sulla creazione e l’uso regolato di un bene pubblico, Tale teoria non  riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di una larga fetta della nostra  realtà sociale.   Va però segnalato che i teorici della scelta razionale sono tuttora impe-  gnati a elaborare modelli, coerenti con le loro assunzioni, con cui rispondere a  tutte queste obiezioni. In particolare si sono sforzati di mostrare come nel  quadro teorico della cosiddetta teoria della scelta razionale o dei giochi — ov-  vero in una situazione in cui sono presenti più agenti razionali con obiettivi in  competizione — è possibile spiegare l'insorgenza di norme e regole coopera-  tive che permettono di convergere sui risultati ottimali. In questa linea si è  mosso ad esempio R. Sugden {Sugden, 1986) che ha molto lavorato nel cer-  care di mostrare come una teoria della scelta razionale che preveda scelte ri-  petute, con la ricerca da parte degli agenti di un aggiustamento reciproco in    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 87    vista di un equilibrio più stabile, permette di arrivare a rendere conto dell’ac-  cetrazione sociale di norme con un minimo di contenuto cooperativo. Questo  modello cerca di rendere conto dell'ordine sociale in generale sviluppando  alcuni tratti della ricostruzione della genesi delle istituzioni cooperative già  presente in Hume (Magri, 1994). Questi modelli esplicativi valgono solo in  quanto a posteriori rendono conto di quello che si è già realizzato, ma è dif-  ficile usarli come criteri normativi per scegliere comportamenti rivolti al fu-  turo. I modelli della scelta razionale sono stati adottati in modo indubbia-  mente fertile per rendere conto, all’interno di un generale quadro evoluzioni-  stico, di come tra gli animali superiori si rafforzano abiti cooperativi in  alternativa a quelli o del tutto egoistici o assolutamente benevoli (Dawkins,  1992). Ma questa teoria nulla può dirci quando si tratta di decidere quale, tra  le differenti alternative di comportamento che ci sono davanti, dobbiamo  scegliere.    4.9. Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. — L'esistenza  di differenti concezioni etiche — il loro conflitto sempre risorgente — non  solo fa nascere la questione della disponibilità o meno di criteri per affrontare  razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema di come conciliare  la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche con il riconoscimento al-  l'etica di una qualche validità.   In primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico sembra essere ineli-  minabile nella società attuale. Non solo si tratta di una constatazione di fatto,  ma il pluralismo etico è considerato anche un valore. Viene cioè considerata  più apprezzabile una società pluralistica che una società che in forme più o  meno coercitive impone il prevalere di una sola etica. Quest'ultima assun-  zione valutativa non è però condivisa dalle cosiddette concezioni comunitarie  (Ferrara, 1992) che invece privilegiano società in cui si realizzi una forte con-  vergenza sui valori e anzi al limite siano caratterizzate da un'unica morale  {MacIntyre, 1988). Ma al di là dei timori per un pluralismo etico eccessivo e  delle tentazioni per una società segnata da una forte uniformità, vi sono argo-  mentazioni e distinzioni che sorreggono una preferenza per situazioni caratte-  rizzate da una pluralità di etiche in competizione.   Tutta la tradizione liberale trova nella fioritura pluralistica una condi-  zione che favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità creative  presenti nella natura umana. Tale posizione — presente ad esempio in  pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill,  19814) — ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di vivere  Îl tipo di vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche accentuando    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    88 ETICA    le differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e un progresso  delle capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una completa atro-  fizzazione di queste capacità.   Una posizione a favore del pluralismo etico presuppone che si riescano a  tenere ben distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella che ri-  guarda quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative  che sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche sta-  bilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che fare coni  modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda lo stile di  vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e gli ideali etici un  confronto tra progetti anche alternativi può segnare un arricchimento e uno  sviluppo della cultura umana. Sul piano più ristretto dell'etica minima in  gioco laddove si tratta delle basi della convivenza è invece difficile ritenere  adeguato un pluralismo di fondo. Ritorna qui dunque una distinzione già pre-  sente nella tradizione giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e  quello dei doveri imperfetti.   Questa posizione di apprezzamento per un contesto sociale e culturale  segnato dal pluralismo etico o pluralismo dei valori va tenuta però distinta da  una concezione che sottoscriva un completo relativismo. Va, infatti, tenuta  chiaramente distinta una posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che  si confrontano diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute,  da una posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni  del relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo  ragioni per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione a  un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna validità alle  distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e ingiusto. È invece carat-  teristico del nostro tempo il fatto che si riesca a sostenere con decisione e  forza di convinzione la propria soluzione etica ai problemi pur rispettando è  tollerando quelle diverse dalla nostra. Ma in questo caso l'ammissione di altre  posizioni etiche non equivale a ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben  detto (in particolare da parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello  teorico la posizione era stata già illustrata da Juvalta, 1945 ed è stata più  recentemente derivata da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli, 1982)  la situazione è — per paradossale che possa sembrare — quella di chi si  impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto di vista  etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un interlocutore che fa  valere un altro punto di vista e differenti ragioni. La consapevolezza che il  proprio punto di vista etico non è quello assolutamente giusto e buono  consente di tollerarne altri. Ciò non toglie che, comunque, è il nostro punto di    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 89    vista a valere di più — ad essere più buono e più giusto — fin quando non ci  verranno presentate ragioni o non faremo esperienze che ci costringeranno ad  abbandonarlo.   Le distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che si sia  completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in ge-  nerale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione  propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «po-  liteismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile conciliare  pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il proprio punto  di vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve avere a che fare con  qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva nel XX secolo è larga-  mente inattuale e perdente, in quanto certamente non può essere conciliata  con una meta-etica che pretenda di avere dalla sua una qualche verità e  capacità di rendere conto della nostra effettiva esperienza morale. Proprio  la persistenza di questa prospettiva assolutistica dell'etica continua a gene-  rare confusione e conflitti e contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo  la coesistenza, in quanto mossi da forme di fanatismo morale che non  tollerano le differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il pas-  saggio da un contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad  uno che accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può  essere vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che  vivono il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita e  da un regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori assoluti  a valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un completo  nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per costoro non vi è  alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa irrazionalità e  mancanza di senso. Dall'altra — e chi scrive si riconosce in questa seconda  linea — vi sono coloro che vedono la nuova condizione come un guadagno  in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La credenza in va-  lori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di pericolosi e insanabili con-  trasti. L'alternativa non è il nulla o la perdita di senso della nostra esisten-  za ma piuttosto un'etica che muove da un piano più realistico e empirica.  mente fondato. I valori derivano quindi da scelte e decisioni che gli uomini  assumono responsabilmente tenendo conto delle loro emozioni, delle loro  limitate capacità intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere que-  sto non equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puada-  gnato una prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un  piano di parità, verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi  pratici.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    90 ETICA    S. Dall’etica teorica all'etica pratica.    5.1. Dall’etica teorica all’antropologia: motivazione e obbligazione. — La  storia dell'etica è ricca di pensatori che uniscono alle tesi normative, specifi-  che concezioni antropologiche relative alle motivazioni, i bisogni, i desideri e  gli interessi degli esseri umani. Potremmo anzi sostenere che è comune che a  un'etica teorica si accompagni un’etica antropologica, ovvero una psicologia  della morale che su basi più o meno empiriche pretende di descrivere come  gli uomini sono fatti e procedono nelle loro scelte. Questa commistione tra  piano normativo e piano descrittivo ed empirico risulta largamente praticata  specialmente dal secolo XVII in avanti, dopo che è entrata in crisi Ja conce.  zione innatistica della legge naturale, che riteneva la legge morale natural-  mente obbligante in quanto presente originariamente nella coscienza di tutti  gli esseri umani. Il quadro filosofico del XVII secolo segna il tramonto di que-  sta soluzione innatistica nel collegamento tra legge morale obbligatoria e base  motivante negli esseri umani e dunque per l’etica moderna e contemporanea  diventa essenziale non solo la questione di ciò che è bene o giusto, ma anche  di ciò che rende effettivamente obbligante per gli uomini il bene e il giusto  (cfr. Fagiani, 1983). Si avvia quindi una ricerca sistematica sulla motivazione e  la base psicologica che rende obbligatoria una condotta etica,   Nel pensiero moderno è ricorrente, per quanto riguarda la motivazione  morale, una concezione che nega che ciò che viene scoperta 0 trovato con  l’aiuto della sola ragione possa avere di per sé forza obbligante o motivante,  Un residuo di attribuzione di forza obbligante alla ragione in quanto tale {cfr.  $ 2.5) si può trovare nella concezione di giusnaturalisti come Grozio (Grozio,  1625) o in quei pensatori che — come ad esempio Joseph Butler (Butler,  1970) — nel corso del Settecento indicano nella coscienza non solo un prin-  cipio in grado di trasmettere la consapevolezza della legge morale, ma anche  di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai teorici dell'etica è piuttosto quella  alternativa di negare alla ragione la capacità di motivare all’azione e dunque di  negare forza obbligante alle norme e leggi scoperte attraverso l’uso del solo  intelletto. Muovendo da questa premessa è dunque necessario procedere a  uno studio empirico della natura umana e in particolare della condotta per  vedere che cosa muove ad agire. Viene così ampiamente ripresa nel corso del  XVII secolo la tesi edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore muo-  vono all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno riferimento  al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo del tutto esclu-  sivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto Hobbes quanto  Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della legge naturale esclusiva-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL'ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 91    mente sul potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il potere sanzionatorio  viene legato a un calcolo prudenziale relativo ai benefici e ai danni che nel  corso della vita terrena si ricevono uniformandosi alle leggi naturali. Locke  lega invece il potere sanzionatorio della legge naturale, e dunque la sua forza  obbligante, alla considerazione del premio e delle pene che si potranno otte-  nere in un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che lega la forza obbligante  e la capacità di motivare della morale e dell'etica in generale a qualche san-  zione viene spesso riproposta nel pensiero moderno e contemporaneo, ad  esempio rinviando alla forza sanzionatoria data da qualche piacere o dolore  fisico comunque in gioco. Erede di questa tradizione può essere considerato  Bentham con il suo tentativo di agganciare al potere sanzionatorio del sovrano  la forza della legge giuridica. Non diversamente in questa linea va collocato il  positivismo giuridico del secolo XX.   Proprio l’approfondimento della conoscenza della natura empirica degli  uomini porta tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII a elaborare una  concezione della forza obbligante dell’etica che, pur non riconducendola a  una capacità automotivante della ragione o delle facoltà intellettuali, non la  tiduce però al sanzionamento in termini di piacere e dolore fisici, generica-  mente intesi. Questa ricerca di una base specifica di motivazione per la morale  è già presente alla fine del secolo XVII in Shaftesbury, che proprio dall'osser-  vazione empirica degli uomini fa derivare la scoperta di un peculiare «senso  morale» che non solo porta gli uomini ad approvare le azioni virtuose, ma  anche a sentirsi spinti a compiere tali azioni e ove tali azioni non sono com-  piute a provare emozioni di disagio e sradicamento da ciò che è più proprio  del genere umano, È dunque la struttura passionale degli uomini a presentare  un'inclinazione — in parte già colta dall’antropologia aristotelica — a com-  piere azioni in generale cooperative.   Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora nel corso del XVIII  secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di questa ricostruzione  della forza obbligante del comportamento etico sta nel mostrare nella psico-  logia degli esseri umani una base motivazionale del tutto autonoma e specifica  che spinge a fare azioni eticamente rilevanti. Questi autori poi si differenzie-  ranno tra loro in quanto presenteranno o meno come motivazione universali-  stica tale base psicologica. Così mentre da una parte troveremo pensatori  come Shaftesbury, Hutcheson e Smith che rinviano a un altruismo o benevo-  lenza più o meno universali, dall’altra troveremo chi, come Hume, ricono-  scetà come motivante solo una benevolenza limitata che si estende piuttosto  ai legami familiari. L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il senso  morale approva determinate azioni perché esse risultano motivate non solo da    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    92 ETICA    un esclusivo amore di sé, ma da una benevolenza più o meno estesa. La stessa  approvazione del senso morale costituisce poi una motivazione aggiuntiva al  comportamento virtuoso.   Risulta dunque chiaro in questa strategia analitica che la condotta etica  trova una sua base motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una  forma più o meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un  aspetto teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà il  loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica. Accanto a  coloro — come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson — che considereranno  la motivazione a fare azioni cooperative come originaria per la natura umana,  vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto come risultato o prodotto di  un processo evolutivo o di civilizzazione piuttosto lungo. Nel corso del XVIII  secolo la spiegazione delle basi motivazionali del comportamento morale sarà  inserita sempre di più in un quadro artificialistico ed evolutivo,   Una spiegazione genetica evoluzionistica e artificialistica della motivazione  alla condotta etica è, ad esempio, già presente in Mandeville e viene svilup-  pata estesamente da Hume e poi — in una direzione ancora più ampia — da  pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono  impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII se-  colo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi della teoria  stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in quattro stadi diversi  (della caccia e pesca, dell’allevamento, dell’agricoltura, e del commercio) la  storia dell'umanità (Meek, 1981). La prospettiva impegnata a delineare il pro-  cesso artificiale attraverso il quale gli uomini giungono a disporre di una base  psicologica e motivazionale specifica per il comportamento etico (0 coopera  tivo) viene realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo una diversa linea  associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle motivazioni propriamente  etiche viene spiegato come un risultato di ripetute associazioni. Significativo  — anche per un lettore del XX secolo — il contributo analitico di David  Hartley, il cui associazionismo è propriamente fisiologico, e poi di alcuni  esponenti dell'Illuminismo francese (ad esempio Claude-Adrien Helvétius,  Etienne Condillac, Paul Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora di utili  taristi come James Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle motivazioni  cooperative sarà collocata in un quadro più esplicitamente evoluzionistico  da Darwin e Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione evoluzionistica  — che coinvolge il livello biologico — della genesi di una base motivazionale  ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso del  XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una vera  e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990), si è piut:    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL'ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 93    tosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti cooperativi pre-  senti negli uomini e quelli rintracciabili negli animali.   La ricerca rivolta a individuare una base motivazionale nella natura emo-  tiva degli uomini a cui agganciare l'obbligazione etica si estende ben al di là  delle concezioni che abbiamo appena delineato. Non sono mancati coloro che  hanno indicato come carattere distintivo della specie umana la capacità di es-  sere motivati a compiere azioni degne di apprezzamento per il solo gusto o  senso del dovere da compiere, e dunque per il solo essere richiamati da ciò  che vale: una strategia che risulta percorsa da Kant e da coloro che a lui si  richiamano come ad esempio K. O. Apel {Apel, 1977). Al polo opposto si  colloca la strategia di analisi, scettica e riduzionistica, che ha del tutto negato  che negli uomini sia rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o  scegliere liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare ai  piaceri e ai dolori degli altri esseri umani.   Nel XX secolo entra in crisi la pretesa di disporre di una antropologia uni-  versalistica che sia in grado di indicare con nettezza passioni e sentimenti pre-  senti in tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri umani generalmente  intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica, piuttosto che rinviare  a una base motivazionale comune, si impegna ad elaborare più strategie me-  diante le quali si può spiegare la forza obbligante delle regole morali. Risulta  pur sempre difficile riuscire rendere conto del ruolo obbligante dell'etica lad-  dove si ritiene che gli esseri umani siano mossi dal più rigido egoismo; stanno  a dimostrarlo la crisi e le difficoltà a cui è andata incontro la teoria della scelta  razionale (cfr. $ 4.8). In positivo, dunque, risulta del tutto acquisito che — per  dirla con B. Williams (Williams, 1990: 302-322) — nessun discorso può riu-  scire a rendere motivante per un essere umano un principio etico cooperativo  se nella struttura emotiva di questo essere umano non è già presente (proba-  bilmente come frutto della sua formazione e iniziazione alla cultura umana)  un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori di un altro essere urnano.  Da questa prospettiva come da altre il contesto dell'etica coinvolge diretta-  mente non solo la capacità di chi agisce di presentarsi come essere fornito di  una sua identità, ma anche di riconoscere l'identità degli altri. Passiamo dun-  que a rendere conto della portata delle analisi sulla natura dell’identità perso-  nale nell’etica teorica.    5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica. — Nell’etica medievale il  rinvio all'anima sostanziale rappresentava un fondamento e un preciso criterio  per risolvere le questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della  sostanza spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e dall'altra    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    94 ETICA    l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza spirituale metteva a  disposizione un chiaro criterio di applicazione ed estensione dell’ambito mo.  rale. Questa concezione semplice dell'etica che ruota intorno a una sostanza  che è la persona umana e che non è riducibile ad altro, nello stesso tempo  oggetto e soggetto esclusivo della vita morale, è entrata in crisi tra il XVII e il  XVIII secolo quando l’identità personale non è più risultata riconducibile a  una sostanza.   Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire il  superamento critico della concezione sostanzialistica della persona umana e  dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che concepisce tali realtà  come complesse e cerca di spiegarne la natura riconducendola a qualcosa  d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione delle concezioni complesse e ridu  zionistiche dell’identità personale si presenta la difficoltà di riuscire a rendete  conto del soggetto morale con quel minimo di stabilità necessaria per dare  una base a nozioni essenziali per l'etica — quali responsabilità, merito, deme-  rito ecc. Un altro problema a cui vanno incontro le concezioni riduzionistiche  e complesse dell'identità personale sta nella difficoltà con cui riescono a ren-  dere conto del valore morale senza farlo dipendere esclusivamente da una  considerazione degli atti di per sé stessi, ma riuscendo a collegarlo anche con  una considerazione del carattere e dei motivi dell'agente. La connessione tra  la considerazione del carattere e dei motivi e i giudizi morali è al centro, ad  esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi delineata da Hume e Smith e sembra  tanto profondamente radicata nel senso comune morale da non poter essere  soppiantata da una qualche teoria che indica come eticamente rilevanti le sole  azioni. La riflessione di marca empiristica e analitica sulla natura dell’identità  personale si è dunque sempre più impegnata dal Settecento a oggi nell’elabo-  razione di una spiegazione della continuità e stabilità dell’io che, senza dover  ricorrere alla nozione sostanzialistica e semplice di io, fosse conciliabile con  l’uso di categorie centrali del linguaggio etico-giuridico quali responsabilità,  merito, demerito, punizione, condotta virtuosa ecc.   Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica dell'Io anche a livello  di ricostruzione della vita morale — oltre che sul piano conoscitivo — viene  avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods of Ethics (I metodi  dell'etica), ed è stata poi sistematicamente realizzata nella seconda metà del  secolo XX da pensatori come Nagel, Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che  questa recente fortuna di un'analisi dell'etica che muove da una concezione  complessa dell'identità personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fe-  nomeno più generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita  del Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali, la    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL’ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 95    grande quantità di novità che quotidianamente ciascun essere umano deve  raccordare con l’esperienza passata e con i punti di equilibrio in essa raggiunti  hanno reso sempre più frammentaria la continuità della vita interiore e diffi-  coltosa l'operazione di recuperarne una qualche stabilità. Va peraltro sottoli-  neato che le concezioni complesse e analitiche dell'identità personale più che  essere impegnate in lamentele e declamazioni sulla «Perdita del Soggetto»  cercano di elaborare una concezione dell’essere umano eticamente responsa-  bile che sia adeguata alle trasformazioni culturali degli ultimi secoli, trasfor-  mazioni che hanno reso il rinvio a un qualche Soggetto sostanziale solo un  mito privo di qualunque fondamento empirico.   Le analisi di Parfit sfociate nel volume del 1984 Reasons and Persons (Ra-  gioni e persone) presentano lo sforzo più approfondito di sviluppare gli spunti  presenti nell'opera di Sidgwick e di ridefinire, muovendo da una nuova con-  cezione — appunto riduzionistica e complessa — dell’identità personale no-  zioni come quelle di responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò  che troviamo dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una  qualche continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i nostri  giudizi morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori e investire in-  terrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di fronte è la stessa di quella  che ha compiuto l’azione? », «quanto l’azione che la persona ha compiuto si  inserisce nel flusso più continuo e stabile delle sue abitudini e del suo carat-  tere e quanto invece ne rappresenta una rottura?» ecc. L'approccio empiri-  stico all’identità personale comporta dunque non già l’eliminazione delle no-  zioni etiche tradizionali dal nostro lessico morale, ma una loro ridefinizione in  modo tale da presupporre connessioni più deboli e meno definitive: tra le  azioni e la persona che le ha compiute; tra la persona come attualmente è e la  sua storia passata; tra il tipo di intervento che possiamo fare sulla persona  attuale e la sicurezza che, utilizzando determinati mezzi, potremo ottenere  certi risultati che coinvolgono il suo io futuro. In generale ci si muove verso  una concezione meno assolutistica e necessitante dell'etica di quella che ac-  cetta chi crede nella persona come sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva  del genere risulta del tutto in linea con l’epistemologia empiristica, ma — e si  tratta di ciò che più conta — anche forse, oggigiorno, fertile sul piano espli-  cativo e predittivo,   L’approccio all'identità personale che la considera come una successione  di io che hanno tra di loro una connessione psicologica più o meno stretta è  ben lontano dall'essere diventato «senso comune» e ranto meno sembra cor-  rispondere intuitivamente a quella concezione della persona che troviamo ra-  dicata nella parte morale del nostro «senso comune», una parte che tende a    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    % ETICA    trasformarsi con più lentezza e prudenza di quella intellettuale. Vanno però  messe in luce le implicazioni normative che accompagnano le analisi di tipo  complesso e riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora occorre  confinatne la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema morale che  pretenda di essere costruito su credenze vere.   Un approccio all'identità personale che metta in secondo piano una con-  cezione sostanzialista e semplice della persona umana favorisce anche un  complessivo riassetto normativo. In primo luogo questa linea epistemologica  porta al rifiuto di una concezione statica e sostanziale del bene morale, la  presa di distanza da un modo di intendere la responsabilità morale come le-  gata a colpe, peccati o meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di cono-  scere la struttura sostanziale della persona e i più riposti pensieri degli esseri  umani, può giustamente distribuire. La responsabilità morale in questa pro-  spettiva ha invece a che fare non già con riposte intenzioni, ma principal.  mente con ciò che effettivamente si compie in un campo di azioni pubblica-  mente osservabili.   In secondo luogo poi tale approccio contribuisce anche a scalzare le basi  analitiche che sorreggono l’impianto normativo dell’egoismo razionale. An-  cora a Parfit si devono dettagliati argomenti che mostrano, una volta assunta  la prospettiva complessa e riduzionistica dell'io, quanto risulti ingiustificata  una preferenza per le parti future della propria vita nei confronti delle vite  attuali di altri esseri umani. La ragionevolezza ed evidenza di una preoccupa-  zione esclusiva — su base egoistica e prudenziale — per i nostri io futuri non  risulta affatto giustificata una volta che si diventi consapevoli della comples-  sità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale porta ai nostri io futuri  laddove non si postuli più la persistenza di una stessa sostanza semplice. Tra il  nostro io attuale e quello che saremo fra numerosi anni vi sono connessioni  più dubbie — e dunque relazioni più deboli — rispetto a quelle che possiamo  istituire oggi con i Sé degli altri esseri umani. L'impegno nella costruzione di  un'etica più imparziale e meno rigidamente egocentrica sembra dunque avere  tutto da guadagnare dalla revisione dell'identità personale intrapresa dalla fi-  losofia empiristica.   Infine risulta del tutto indebolito il ruolo della nozione di persona come  categoria essenziale per la determinazione dell'universo di esseri per i quali  valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è più solo la pre-  senza di qualche peculiare sostanza semplice di natura spirituale, ma gli atti  che si compiono più o meno responsabilmente, nulla vieta che divengano eti-  camente rilevanti anche atti che non coinvolgono persone umane. Passando  attraverso atti responsabilmente connessi con dimensioni quali la sofferenza e    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL’ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 97    il danno o il piacere e la soddisfazione di bisogni e desideri, possono diven-  tare rilevanti per l’etica gli animali, o gli oggetti che costituiscono l’ambiente,  o realtà — di certo non personali nel senso di essere effettivamente presenti  ora come sostanze semplici con una loro propria individualità — quali, ad  esempio, i membri di generazioni future molto lontane. È questa dunque la  via epistemologica che porta ad abbandonare quella concezione ristretta del-  l'etica che si ha quando si è costretti a passare sempre attraverso la cruna  d'ago fornita dalla persona. In particolare sono le etiche utilitaristiche e con-  seguenzialiste che si sono impegnate in questo sforzo di fornire indicazioni  normative congruenti con le concezioni di derivazione empiristica dell'iden-  tità personale e dell’universo degli esseri moralmente rilevanti.    5.3. Etica del carattere 0 dell’azione. — Come abbiamo visto le diverse  concezioni etiche si distinguono sulla questione di quale sia da considerare  l'oggetto proprio di una valutazione. Su questo piano la differenza più rile-  vante è quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione etica  sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene essenziale il riferi  mento al carattere 0 comunque a qualche qualità interna (intenzione ecc.) di  chi agisce. Le due diverse concezioni hanno entrambe dei punti a loro favore.  Si può anzi suggerire che la concezione più adeguata sia quella che non ri-  corra in modo esclusivo o all'uno a all’altro approccio — o azione o tratti del  carattere — ma piuttosto sappia integrare entrambe le esigenze.   A favore della concezione che ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni vi  è l'esigenza — fatta valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo, ma an-  che dal garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) — che ciascuno possa essere  ritenuto responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non  possa essere giudicato negativamente sulla sola base di presunte predisposi-  zioni 0 inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una pretesa capacità di  cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il riftuto della concezione so-  stanzialistica della persona umana è tra l’altro accompagnato dallo sforzo di  ricollocare l'etica su un piano più esterno e comportamentale. La considera-  zione prevalente delle azioni effettivamente compiute segna anche il tramonto  di valutazioni che investono i piani del peccato o della colpa.   Considerando come positivo il superamento di un approccio etico che  pretenda di presentare valutazioni assolute basate su di una presunta cono-  scenza finale del carattere o della natura di una persona, va però segnalato un  limite di questo approccio. Un'etica che pretenda di derivare in modo esclu-  sivo le sue valutazioni dalla considerazione dei comportamenti esterni degli  esseri umani sarà costtetta a omologare azioni criminose e incidenti colposi e    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    98 ETICA    non sarà comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in contesti  motivazionali e intenzionali differenti. La valutazione etica non sembra potere  prescindere dall'esame di quanto le azioni in gioco siano responsabili e dun-  que frutto di intenzioni e non del tutto casuali o determinate da costrizioni al  di là della portata di chi agisce.   Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche la responsabilità  delle azioni considerate rappresenta un argomento a favore delle concezioni  che pongono al centro della loro considerazione il carattere di chi agisce. In  questo si sono impegnate le cosiddette etiche della virtà. Una tradizione  che — diversamente da quanto è stato recentemente sostenuto (MacIntyre,  1988) — non è certo confinata alla cultura antica e medievale, ma ha trovato  anche nella cultura moderna e contemporanea dei sostenitori.   La concezione dell'etica che ritiene centrale la considerazione del carattere  sembra salvaguardare alcune esigenze essenziali per una adeguata teoria della  valutazione morale. Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi,  ÎNon solo risulta dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giu-  dicare una persona condannabile per il solo fatto che ha determinate inten-  zioni, ma una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può  portare a considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi o  convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente diver:  gente. Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere giustificati atti  gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni benefiche di chi li com-  pie. Un'etica dell'intenzione o del carattere corre il pericolo di sottoscrivere  posizioni morali esclusivamente predicatorie o addirittura ipocrite, alle quali  comunque non corrisponde alcun effettivo comportamento.   Nella conciliazione, tutt'altro che semplice, delle due concezioni sull’og-  getto della valutazione morale sono impegnati in particolare i fautori dell’uti-  litarismo della regola o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione  delle considerazioni etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle inten-  zioni vanno anche molte delle discussioni di casi concreti nelle quali si sono  impegnati — specialmente nella seconda metà del secolo XX (cfr. $ 5.4) gli  esponenti dell'etica contemporanea.   Ad esempio, larga parte della discussione etica contemporanea su situa-  zioni concrete quali quelle legate alla nascita — e in particolare all'aborto — €  alla morte — e in particolare all’eutanasia — è legata alla riflessione sul ruolo  più o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi di un ruolo es-  senziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte relative all'inizio e alla  fine della vita umana ha portato ad elaborare la dottrina del «doppio effetto»  (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con questa dottrina si è ritenuto di potere    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL’ETICA TEORICA ALL'’ETICA PRATICA 99    distinguere tra diverse ricorrenze della stessa azione, considerandola rispetti-  vamente o come una conseguenza diretta e voluta dell'intenzione di ottenere  questo risultato o viceversa come effetto secondario e non direttamente vo-  luto dell'intenzione rivolta a un risultato benefico. Laddove l'effetto diretto  della nostra intenzione è, ad esempio, garantire la nascita di un bambino, solo  un doppio effetto non voluto è la morte della madre; o — all’altro confine  della vita — laddove effetto diretto della nostra intenzione è l’azione rivolta a  un'attenuazione delle sofferenze di un morente, è solo un effetto secondario  non direttamente voluto la morte della persona, quale conseguenza dell’uso di  farmaci per attenuare il dolore. Ma questa concezione va incontro a un’insor-  montabile difficoltà di ordine epistemologico, in quanto ovviamente non sono  disponibili procedure affidabili per discriminare tra una dichiarazione di in-  tenzione del tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In que-  sto senso la prospettiva che ruota intorno alla centralità dell’intenzione si pre-  senta come il residuo di una fase in cui l’etica teorica era impegnata a far va-  lere per il giudizio sulle azioni umane un punto di vista ideale o divino.  Un'’etica fatta su misura per le esigenze della specie umana, pur riconoscendo  la rilevanza delle motivazioni delle azioni, indebolisce però la portata delle  intenzioni considerandole come componente aggiuntiva e sussidiaria del giu-  dizio etico e non già come aspetto decisivo ed esclusivo.   Fa parte della riflessione sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche an-  che la discussione sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di  vista assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene considerata  sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer, 1989) proprio da  quelle concezioni che — come l’utilitarismo — hanno messo al centro della  valutazione le azioni e la considerazione delle conseguenze. L’utilitarismo  contemporaneo fa propria in realtà una nozione non riduttiva di azione, data  la quale risulta chiaro che il non fare qualcosa quando si ha la possibilità di  farlo è eticamente rilevante non meno del compimento effettivo di un atto.  Ciò che conta è la nostra responsabilità — che si agisca o non si agisca — per  conseguenze nella situazione futura, in quanto esse dipendono comunque da  nostre scelte e decisioni.   Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi secoli della storia della  cultura occidentale la struttura del nostro discorso morale si sia trasformata  nel senso di un'estensione della portata del lessico legato primariamente alle  azioni e di una correlativa riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico  legato a emozioni, sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da que-  sta ipotesi si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della  predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore uni-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    100 ETICA    versale (un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi in se-  condo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica rivolta a indivi.  duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi. L'appello a sentimenti  quali l’amore o una benevolenza universale sembra essere del tutto irrilevante  quando siamo impegnati a identificare il migliore comportamento effettivo  nelle situazioni eticamente rilevanti che ci sono di fronte. Certamente tale ap-  pello può continuare a mantenere un ruolo decisivo laddove siano in gioco  concezioni super-erogatorie e ideali sul dovere (che coinvolgano ad esempio  la santità e l’eroismo), che hanno però un ruolo sempre più marginale nella  morale di senso comune di società altamente complesse e popolate come  quelle nelle quali viviamo. La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole  più modeste e limitate che incidano però effettivamente sulle azioni o omis-  sioni della nostra vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze dei nostri  stili di vita siano benefiche — o quanto meno non disastrose € dannose — per  le generazioni future.    54. La svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. — Nel corso del  XX secolo l'orizzonte di riflessione che muove dai problemi pratici concreti  degli esseri umani è stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di  pensatori che hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente meta-  etica e astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi nella  riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni Settanta, con  l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco e Fox, 1986). Que-  sto appello all'etica applicata è stato fatto valere, successivamente, con due  diversi obiettivi critici. In un primo periodo l'appello era rivolto a fare sì che  punto di partenza e punto di arrivo della riflessione etica fosse considerato  non già la conoscenza della natura della morale e delle forme di ragionamen-  to in essa valide, ma la ricerca di soluzioni normative. In un secondo periodo  — a partire dagli anni Ottanta — si sono contestate le stesse risposte norma-  tive offerte dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la richiesta avanzata  è stata che in luogo di criteri normativi generali validi per tutte le questioni  etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare soluzioni più determinate e  settoriali in grado di risultare rilevanti per una delle diverse dimensioni pro-  blematiche riconoscibili all'interno dell'etica pratica.   La prima esigenza fatta valere negli anni Settanta è stata dunque quella di  trasformare la teoria etica in modo tale che in essa l’obiettivo principale fosse  non già quello logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque  una conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico di  un risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J. Rawls e    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL'ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 101    D. Gautbier, il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare e R. Brandt,  le diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin ecc. — tutte conce-  zioni a cui abbiamo già fatto riferimento specialmente nel paragrafo 4 — sono  alcuni dei tentativi più influenti di elaborare teorie etiche impegnate prevalen-  temente sul piano normativo.   Le differenti teorie etiche normative presentate nel corso degli anni Set-  tanta sono, di volta in volta, la riproposta sotto una nuova veste di opzioni già  formulate a partire dal secolo XVIL Il neocontrattualismo di Rawls e Gau-  thier tiene largamente conto dell'elaborazione contrattualista precedente da  Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente discusso e riproposto le pre-  cedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I teorici dei diritti non hanno  mancato di tenere conto delle analisi di Locke ecc. Restano dunque in larga  parte operanti le stesse concezioni che nel corso dell'età moderna e contem-  poranea sono state indentificate come utilizzabili da chi fosse alla ricerca di un  criterio generale per risolvere i problemi pratici degli esseri umani. Al livello  dei principi o procedure più generali non sembra si possa segnalare la nascita  di nuove etiche, ma si assiste solo allo sviluppo e all'approfondimento delle  linee etiche normative già disponibili.   La novità principale nell’«etica teorica» {e qui si intende una teorizza-  zione etica con obiettivi esplicitamente normativi) del XX secolo sta dunque  nelle forme che prendono le diverse concezioni normative, una trasforma-  zione che in realtà era stata già anticipata da H, Sidgwick con i suoi Methods  of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo luogo le diverse proposte normative non  fanno più parte di una ricerca filosofica generale. Chi si occupa di etica e con-  tribuisce ad essa non colloca la sua ricerca in una più ampia prospettiva che  ad esempio affronti questioni generali sulla conoscenza umana, la natura  umana ecc. Si parte dando per scontata una sorta di specializzazione per cui  chi si occupa di etica e di problemi normativi guarda esclusivamente a questi.  I teorici dell'etica contemporanea sono dunque eredi dei professori di filoso-  fia morale come Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke  € Hume (per non dire che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle  dei fondatori di morali come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes,  Locke e Hume — ma ovviamente anche Kant — collocavano la loro atten-  zione per i problemi etici in un contesto filosofico generale, i teorici dell'etica  contemporanea limitano invece le loro analisi ai soli problemi pratici. Questo  si accompagna non solo con la specializzazione che abbiamo sottolineato, ma  anche con un più limitato orizzonte critico che viene fatto valere nelle pro-  poste etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici dell'etica muovono nelle  loro analisi assumendo la validità di tesi più generali sulla conoscenza, la ra-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    102 ETICA    gione ecc. In questo senso le diverse etiche teoriche acquistano senso solo vi.  ste sullo sfondo delle diverse prospettive filosofiche generali elaborate dai  pensatori — che abbiamo più volte richiamato — del XVII e XVIII secolo,   Questa più marcata limitazione del contesto dell’etica teorica contempora-  nea è in molti di questi pensatori esplicitamente riconosciuta e programmati.  camente affermata anche per quanto riguarda il piano dei valori di riferi.  mento. Così molti dei teorici dell’etica contemporanea ammettono di muo-  versi in contesti storici e culturali ben definiti identificando lo sfondo che dì  validità alle loro teorie normative con quello delle credenze etico-politiche  condivise nelle società liberal-democratiche occidentali (Rorty, 1989; Rawls,  1994). Emerge dunque in molti teorici contemporanei la tesi che l’etica è una  riflessione critica che non solo muove da intuizioni 0 credenze morali di par  tenza che sono già date, ma che in realtà non può operare al di fuori di un  qualche contesto di credenze condivise. Questo orientamento segna di fatto  non solo una specializzazione dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa  del quadro universalistico in cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII  secolo.   Parallelamente con questo restringimento della base del discorso dell’etica  teorica troviamo viceversa — e specialmente nelle opere sisternatiche elabo-  rate negli anni Settanta — uno sforzo di approfondimento analitico molto più  marcato, con la pretesa di realizzare un'elaborazione coerentemente sistema-  tica e un’argomentazione persuasiva di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti  alle opere principali dell'etica teorica contemporanea vediamo che la loro.  mole e complessità rispetto agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre.  sciuta. La base di partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento  analitico è maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava del  tutto comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In questa  direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio: o con una  dettagliata tassonomia — dovuta in particolare agli utilitaristi — delle diverse  forme di preferenze; o con una classificazione — che troviamo principalmente  negli scritti dei neo-contrattualisti e dei teorici dei diritti — delle principali  differenze tra bisogni e interessi; o con lo scavo — e qui sono i teorici della  scelta razionale ad offrire il maggiore contributo — delle diverse forme di ra-  gionamento con cui possiamo valutare le linee di azione che coinvolgono con-  seguenze future più o meno lontane e più 0 meno sicure. Ll terreno dell'etica  teorica appare dunque certamente come più limitato e ristretto — un campo  che si cerca di tenere distinto da quelli confinanti — ma esso viene scavato  con una profondità maggiore che nel passato in tutte le sue parti. La convin-  zione che muove questo approccio è che le radici delle questioni etiche pos-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL’ETICA TEORICA ALL’ETICA PRATICA 103    sano essere raggiunte non già derivandole da un altro campo di ricerca, ma  andando sempre più a fondo nello scavo dell’area dell’etica considerata come  autonoma e autosufficiente. Quello che lascia particolarmente insoddisfatti è  che i tratti generali del paradigma della ricerca si trovano messi in pratica e  ripresi acriticamente senza nessuna elaborata valutazione della loro adegua-  tezza. Né vi è una sensibilità per la questione — a mio parere decisiva — di  come la vicenda dell'etica teorica contemporanea possa essere raccordata  — acquistando con questi raccordi senso e rilevanza — con i lasciti e i residui  della passata elaborazione.   Molto più accentuata che nel passato è poi la pretesa di sistematicità e di  coerenza interna, così come della massima completezza possibile. In questo  senso l’etica teorica si muove prendendo a modello le teorie scientifiche in  generale. Proprio per questo tentativo di strutturarsi in analogia con gli uni-  versi scientifici prevale tra le diverse concezioni normative una tendenza al  monismo etico e nello stesso tempo assistiamo ad un progressivo allargamento  dell'ambito di casi e fenomeni investiti. Una tendenza verso il monismo nor-  mativo era presente anche nelle etiche tradizionali che insistentemente anda-  vano alla ricerca di un solo principio fondamentale. Una volta caduto l’oriz-  zonte fondazionale il monismo etico si presenta come la ricerca di un unico  criterio di decisione per tutte le situazioni problematiche nella convinzione che  la presenza di più criteri non può che originare conflitti e disaccordi insanabili.   Nei sistemi normativi degli anni Settanta troviamo infine approfondito lo  sforzo di argomentare in modo persuasivo e convincente a favore della posi-  zione fatta valere. La dimensione per così dire retorica e persuasiva diviene  esplicita e diventa primario l'impegno a fornire già all'interno di ciascuna teo-  ria una risposta alle critiche avanzate dalle concezioni alternative. Prevalgono  quindi nell’etica teorica contemporanea le esigenze di una discussione pub-  blica. Le diverse etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi si-  stematici e razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati per  convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito della pre-  feribilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti spiegano nello stesso  tempo, da una parte la maggiore concretezza delle etiche teoriche contempo-  ranee rispetto a quelle tradizionali e, dall'altra, il loro minore respiro e la loro  collocazione in un contesto storicamente più limitato.    5.5. I principali campi dell'etica applicata. — Ma come si è detto un’ulte-  riore svolta ha segnato l'etica teorica a partire dagli anni Ottanta. Vengono  contestate ora le stesse teorie impegnate nella presentazione di grandi sistemi  normativi, denunciando la loro astrattezza e la loro irrilevanza per i problemi    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    104 ETICA    pratici effettivi. L'impegno in una riflessione etica che abbandonasse il piano  delle concezioni astratte veniva a caratterizzare sempre di più gli anni Ot-  tanta. Anzi in questa direzione era la medicina a salvare l'etica — come si  esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved Etbics, in De Marco e  Fox, 1986: 265-281) — nel senso che i nuovi problemi etici generati dagli svi-  luppi della medicina e della biologia ponevano in modo urgente una richiesta  di soluzioni che non poteva essere soddisfatta dai grandi sistemi normativi  classici o contemporanei. Laddove infatti i sistemi normativi degli anni Set-  tanta avevano al loro centro i problemi della giustizia sociale e della cittadi-  nanza, le questioni della guerra giusta e delle relazioni internazionali, vice-  versa i nuovi problemi posti dalle mutate condizioni nella nascita, morte e  cura degli esseri umani coinvolgevano dimensioni etiche completamente di-  verse,   Inizia così un processo di articolazione e sviluppo di una miriade di settori  nuovi nell’etica applicata che, in parallelo con la tendenza della cultura ame-  ricana alla specializzazione e alla professionalizzazione, porta al consolidarsi e  istituzionalizzarsi di vari campi dell'etica pratica considerati come autosuffi-  cienti. Compare così la nuova figura professionale dell’eticista, ovvero del-  l'esperto dei problemi di un particolare settore. Certamente la riflessione etica  guadagna così in concretezza, ma una ricerca esclusivamente impegnata nel-  l’evidenziare i criteri ed i principi etici validi per specifici e peculiari problemi  applicativi va incontro ai limiti del settorialismo e della iper-specializzazione.  Dopo lo sforzo di scomposizione e di indagine ravvicinata dei singoli campi  problematici che ha accompagnato il fiorire delle varie dimensioni dell'etica  pratica è ora auspicabile un lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifi-  chi i principi e i criteri etici validi in generale e che sappia fornire visioni d'in-  sieme della vita etica.   La maggior parte dei diversi settori dell'etica applicata consolidatisi negli  ultimi decenni del secolo XX ha a che fare con i problemi pratici del tutto  nuovi che sono sorti con lo sviluppo della tecnologia e detta ricerca medico-  biologica. Tutta una serie di azioni e pratiche umane che risultavano neutre da  un punto di vista etico o che comunque erano affidate quasi integralmente a  processi naturali e biologici, e dunque considerate al di là delle decisioni re-  sponsabili, sono entrate a far parte dell’universo di eventi influenzati dai di-  versi criteri per discriminare tra scelte giuste e ingiuste.   In primo luogo si sono andate consolidando come aree largamente indi-  pendenti dell’etica applicata alcune dimensioni problematiche già colte dalla  riflessione del secolo scorso, Laddove nel Settecento trovavamo solo degli ac-  cenni in Bentham sulle sofferenze degli animali, nella seconda metà del XX    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    DALL’ETICA TEORICA ALL'ETICA PRATICA 105    secolo si è assistito al fiorire di una vera e propria etica impegnata nel realiz-  zare la liberazione degli animali (Singer, 1992). St sono sviluppate diverse con-  cezioni generali rivolte a giustificare un trattamento non discriminante per le  sofferenze degli animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle utilitaristi-  che a quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una teoria dei diritti an-  che per gli animali (T. Regan, 1990). In questo caso la presentazione di una  risposta normativa alla questione del trattamento degli animali va di pari  passo con una ridescrizione della loro condizione. I libri dei teorici della libe-  razione animale sono infatti insostituibili per la ricchezza di dati e esemplifi-  cazioni che forniscono sulle pratiche invalse — il più delle volte inutilmente  crudeli — per quanto riguarda l'uso degli animali nella ricerca medica e far-  maceutica, nell'industria cosmetica a dell’abbigliamento, nella produzione in-  dustriale di cibo ecc. (Singer, 1992).   Una grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo, hanno avuto i  tentativi — già presenti ad esempio in uno scritto del 1869 di J. S. Mill su The  Subjection of Women (La soggezione delle donne) — di affrontare in modo  esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente trattamento — nelle  istituzioni e nelle pratiche sociali — di persone di sesso diverso. Il dibattito  critico sulle discriminazioni legate alle differenze sessuali ha assistito non solo  a una ricerca rivolta a ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni nor-  mative disponibili, ma anche alla presentazione di tesi femministe che hanno  insistito sulla radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di un'etica delle  donne e le concezioni tradizionali. Così da una paste si è discusso sull’alterna-  tiva tra l’universalismo che sarebbe proprio dell'etica maschile e l'assunzione  delle differenze di genere come orizzonte decisivo che è proprio dell'etica  femminile {Irigaray 1985). Dall'altra si è insistito sulla tesi che il recupero del  punto di vista femminile farebbe emergere valori del tutto peculiari e in luogo  di una centralità del valore della giustizia tipicamente maschile segnerebbe  l'affermazione del valore della cura (Gilligan, 1982).   Molti altri tradizionali problemi etici sono stati rivisitati alla luce della si-  tuazione contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a  un'ampia produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la costitu-  zione di un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le ri-  flessioni dedicate a: le guerre giuste e l'uso — lecito o no — della violenza  {Walzer, 1990); le particolari regole che governano le relazioni internazionali  tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più strettamente legate alle discrimina-  zioni di tipo razziale e culturale (Walzer, 1987); i problemi del trattamento  della povertà anche riconoscendone le articolazioni geografiche (Sen, 1981); il  tuolo della pena nel diritto (Ferrajoli, 1989). Una ben precisa area di etica    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    106 ETICA    degli affari si è costituita per i problemi morali posti dall'attività economica e  produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti dall’uso di una tecnica  del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta razionale» (Sacconi, 1991).   Infine un incremento notevole hanno avuto le riflessioni morali — già pre-  senti in Ar Essay on the Principles of Population del 1798 di Thomas Robent  Malthus (Saggio sul principio di popolazione) e nei Principles of Political Eco-  nomy del 1848 di J. S. Mill (Prizcipi di economzia politica) — relative alla que-  stione etica di una procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte  mente approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito  dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla dispo-  nibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare una vera e  propria etica delle generazioni future. Le questioni della giustizia tra genera-  zioni, della regolazione delle nascite in previsione della presenza nel 2050 di  oltre dieci miliardi di esseri umani, dei rischi dello sviluppo tecnologico per  gli esseri umani futuri sono al centro di riflessioni che hanno anche contri-  buito a modificare il quadro complessivo delle etiche tradizionali (Parfit,  1989; Jonas, 1990).   Del tutto nuovi sono invece due settori di etica applicata. Da una parte  abbiamo il consolidarsi e determinarsi della bioetica come disciplina auto-  noma che affronta sistematicamente i problemi etici posti dallo sviluppo della  medicina e della biologia. Non possiamo qui fare altro che accennare ai prin-  cipali tra questi problemi del tutto nuovi che coinvolgono la nascita, la morte  e la cura degli esseri umani: la fecondazione artificiale ix vitro: l'uso nei re-  parti di terapia intensiva di strumenti vicarianti le funzioni essenziali della  respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la diagnostica  prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica; l’accresciuta conoscenza  dello sviluppo embrionale e la possibilità di realizzare in laboratorio le prime  fasi di questo sviluppo con eventuali conseguenti sperimentazioni ecc. Vita  umana, persona umana, sanità, malattia, benessere, diritti dei malati, dignità  della morte, doveri dei medici ece. sono solo alcune delle nozioni che ven-  gono sottoposte a riesame nella riflessione bioetica che si è concretizzata in  una sterminata letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel  corso di questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei tema:  tici specifici come nucleo della discussione (ad esempio la contrapposizione  tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere la non disponibilità e  sacralità della vita umana e un'altra che ritiene invece centrale la preoccupa  zione per una buona qualità della vita umana; Kuhse, 1987), o a enucleare  principi più specificamente rilevanti per le problematiche della nascita, morte  e cura degli esseri umani (in questo senso è, ad esempio, frequente il richiamo    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE DIMENSIONI DELL'ETICA 107    a un principio di beneficenza o ad un principio di autonomia: Engelhardt,  1991, ma anche Gracia, 1993).   Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno avuto gli svi-  luppi scientifici e tecnologici e l'incremento demografico a livello planetario  hanno reso eticamente rilevante una serie di azioni umane con effetti più o  meno diretti, immediati o futuri sulla natura. La riflessione di etica ambientale  è stata caratterizzata da una molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989):  quella più religiosa e sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura;  quella utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di  danno e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella che  cerca di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali ecc.   Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni dell'etica ap-  plicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui muoviamo dobbiamo limi-  tarci a rilevare la fertilità di questo recente dibattito, sia nel senso di un arric-  chimento delle nostre conoscenze sui problemi pratici effettivi degli esseri  umani, sia nel senso di un incremento del processo di democratizzazione del-  l'etica (al centro di tutti i diversi settori dell'etica applicata troviamo individui  umani che affrontano autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta  dietro questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica ap-  plicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il fatto  che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto piuttosto quella  confusione che nella vita pratica di ciascuno può derivare dall’appello, in si-  tuazioni diverse, a principi o criteri etici differenti come risolutivi. Una fram-  mentazione in questo senso può spingersi fino a esigere dallo stesso individuo  comportamenti incompatibili. In contrasto con questa tendenza l’obiettivo di  una unificazione richiede un recupero di tutte le diverse dimensioni dell'etica  teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi precedenti. Un contesto uni-  tario per le riflessioni etiche può infatti essere offerto da teorie generali che —  sul piano meta-etico, epistemologico e normativo — identificano quel nucleo  comune valido per qualsiasi approccio o discorso che pretenda di farsi valere  come etico.    6. Le dimensioni dell'etica.    6.1. La morale e le relazioni personali. — Nel corso dei paragrafi prece-  denti abbiamo reso conto dei problemi generali al centro dell'etica in modo  unitario non tracciando distinzioni al suo interno. Così finora in modo unita-  rio si sono affrontate le questioni di una caratterizzazione, definizione, giusti-  ficazione o fondazione, applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    108 ETICA    le norme e i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa ven-  gono in vari modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei  nostri discorsi e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto bre-  vemente della distinzione più comune e consolidata che vede l'etica compren-  dere i diversi piani della morale, del diritto e della politica.   Ricorrendo all'aiuto della storia dell'etica possiamo rilevare che nell’età  moderna e contemporanea vi è una certa convergenza nel discriminare tra  morale, diritto e politica, mentre notevoli differenze vi sono per quanto riguar-  da i criteri a cui ci si è richiamati per tracciare queste differenze. I differenti  criteri risultano — come vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzio-  nali alle diverse opzioni meta-etiche, epistemologiche e normative da cui sono  mossi coloro che hanno proposto una ricostruzione dei campi dell'etica.   Un primo modo per caratterizzare il campo dell'etica che proponiamo di  chiamare morale in senso stretto è quello di considerarlo come quel settore in  cui sono in gioco principi e norme che guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni  che producono negli altri conseguenze positive o negative diverse dal danno  in gioco con le azioni di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati  dalle azioni di rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di in-  fluenza con cui ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che  fare con una sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella in  gioco con la legge giuridica e con quella politica: una sanzione semplicemente  in termini di disapprovazione pubblica piuttosto che di concrete pene 0 multe  o di allontanamento dalla cittadinanza politica. Questa caratterizzazione dei  vari campi dell’etica è largamente corrente tra gli utilitaristi ed è stata deli-  neata già nel 1859 in On Liberty di J. S. Mill (Saggio sulla libertà).   La caratterizzazione così avanzata della natura delle regole e dei principi  specificamente morali — ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci occu-  piamo — è in realtà pur sempre carica di normatività in quanto si presenta  come una ridefinizione stipulativa. Alcuni avvertiranno in questa caratterizza-  zione un limite dato dal fatto che essa esclude comunque una qualunque rile-  vanza etica per quelle regole e principi che riguardano stati d'animo o azioni  del tutto privati, ovvero tali che non hanno nessun tipo di conseguenza — né  benefica, né negativa — sugli altri. Possiamo offrire un chiaro esempio di que-  sto campo di azioni del tutto private e che non sarebbero di pertinenza della  morale così intesa rinviando ad atti di auto-erotismo o al modo in cui impie-  ghiamo il nostro tempo libero.   È così chiaro che stiamo proponendo una caratterizzazione della morale  più stretta rispetto a quella a cui giungono coloro che, muovendosi all’interno  di una tradizione spiritualistica e giusnaturalistica, trovano l'etica complessi-    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE DIMENSIONI DELL'ETICA 109    vamente intesa come un insieme di doveri verso Dio, se stessi e gli altri. An-  che all'interno di questo approccio all’etica, comunque, il livello della mora-  lità per così dire del tutto privato si presenta come diverso rispetto a quello  della moralità che coinvolge altri; nel complesso poi l’insieme della morale va  tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a che fare il diritto e la politica. Il  piano delle regole morali del tutto private e personali può essere considerato  come campo di applicazione di principi e regole super-erogatorie che hanno a  che fare con una vita santa, eroica o perfetta (Urmson, 1958): una forma di  vita che solo cedendo al fanatismo può essere prescritta universalmente. La  morale super-erogatoria va dunque tenuta distinta dalla morale che ha a che  fare con azioni di benevolenza o generosità che per quanto considerate dove-  rose e obbligatorie non lo sono certo nello stesso senso delle azioni che evi-  tano il danno fisico per gli altri. Vediamo così ricomparire una distinzione tra  diversi piani della vita etica, sia pure su basi differenti.   Muovendoci all’interno dell'approccio utilitaristico già delineato sugge-  riamo però di collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non solo le  azioni strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche molte azioni  del tutto indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere nel modo  che preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli altri. In que-  sto senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di limiti anche  per quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente intesa (Williams,  1987). i   Possiamo dunque collocare l'ambito della morale nel campo delle azioni  benevole e generose che non siamo tenuti a compiere con la stessa coercività  dei nostri obblighi giuridici e politici. La morale cioè ha a che fare con un  universo di azioni — che saranno poi distinte in buone e cattive a seconda dei  diversi valori sottoscritti — che gli altri non si aspettano da noi come soddi-  sfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le no-  zioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un uso nel contesto della mo-  rale, ma con un significato che va tenuto nettamente distinto da quello che tali  nozioni hanno nel contesto giuridico e politico. Molte confusioni e conflitti  sociali nascono dall’incapacità di tenere distinti questi diversi livelli dell'etica,  In un campo della morale così inteso le diverse concezioni dei valori potranno  confrontarsi presentando appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa. La  vita virtuosa si distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e dall'al-  tra da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi del suo  paese e dalle regole politiche della sua società. :   In un approccio del genere diventerà decisivo riuscire ad individuare, e  tenere ben distinto, un ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    110 ETICA    di pertinenza della morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare l’idea  — messa a punto dagli utilitaristi e più recentemente da H. L. Han (Hart,  1963) e Joel Feinberg (Feinberg, 1985) — che ci sono alcune aree delle nostre  azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di rilevanza giuridica, ma  solo danni e offese morali. Gli altri si aspettano da noi un certo comporta-  mento anche se questo comportamento non è sanzionabile mediante l’inter-  vento della legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge principalmente  le relazioni più strettamente personali ovvero quelle relazioni che riguardano i  rapporti familiari, i rapporti tra persone di sesso diverso, le relazioni tra per-  sone di diversa età, le relazioni collegate a diverse responsabilità professionali  o di status sociale ecc, Tutta un'area di relazioni personali coinvolgono per  ciascuno di noi obblighi relativi al suo status (figlio, padre, marito, amico, me-  dico, docente ecc.) che non fanno riferimento a danni giuridici, ma a danni  morali. Possiamo provare a suggerire l'estensione e l’importanza di un ambito  della morale così determinato pensando al rilievo che nelle relazioni umane  hanno le promesse che non siano state codificate in un contratto, o alle aspet-  tative che ci legano con gli altri esseri umani con cui abbiamo istituito più  strette relazioni personali. Proprio quest'ambito della moralità è quello che  rende possibile la convivenza civile. Infatti laddove cerchiamo di ancorare la  permanenza di una qualche forma di società civile o ordine sociale al ricono-  scimento di obblighi e danni esclusivamente legali non riusciamo a rendere  conto di niente altro che di uno stato di polizia. Senza basi morali la convi-  venza può essere garantita solo da uno Stato ossessivamente preoccupato che  nessuna azione dei suoi cittadini sfugga al controllo delle sue sanzioni. E si  tratterà comunque di uno stato di polizia la cui accettazione come legittimo  da parte di coloro che si riconoscono come suoi cittadini risulterà del tutto  incomprensibile a meno che — con un ragionamento circolare e vizioso —  non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola forza.    6.2. Il divitto e î sistemzi codificati. — Un ambito dell'etica completamente  diverso da quello in gioco nella morale è quello in gioco nel diritto e nell'in-  sieme delle norme giuridiche. Qui — come peraltro con la politica — ci muo-  viamo nel campo dell’etica pubblica, laddove con la morale abbiamo a che  fare con l’etica privata (Veca, 1989). Largamente condivisa è la tesi di una  marcata differenza tra piano delle regole morali e piano del sistema giuridico,  nel senso che quest’ultimo rinvia necessariamente a un momento di codifica-  zione. Anche i teorici del giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica  come strettamente correlata con la legge morale naturale, accettano Ja distin-  zione — sia pure cronologica 0 tecnica — tra il piano naturale della morale €    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE DIMENSIONI DELL'ETICA 111    quello civile proprio delle procedure che caratterizzano il diritto e la politica,  Significativa in questa luce la posizione espressa da Locke nel 1690 nei Two  Treatises of Government {Due trattati sul governo; Locke, 1960: 244-246).  Locke vede già presente nello stato di natura il diritto di punire come dirit-  to di ognuno, ma individua nel passaggio alla società civile la realizzazione  di una completa delega di questo diritto a un magistrato che potrà usare  — unico autorizzato — la forza e fare rispettare le sue decisioni, che non sa-  ranno più caratterizzate dagli inconvenienti che accompagnano nello stato di  natura l’uso del diritto di punizione da parte di ciascuno.   Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è proprio quello delle connes-  sioni tra morale e diritto. La questione preliminare è quella di spiegare in che  senso le norme del sistema giuridico — ovvero le norme che si occupano della  giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate con l’uso della forza — sono  collegate con le norme morali (ovvero pre-giuridiche o non-giuridiche). La  soluzione più semplice è quella del positivismo giuridico che ritiene che di  vero € proprio diritto non si possa parlare se non dopo il costituirsi di un  governo riconosciuto, legittimato e autorizzato a promulgare norme giuridi-  che. Queste norme saranno poi valide giuridicamente laddove siano state pro-  mulgate osservando le procedure previste nello Stato — dalla Costituzione o  dalle sue leggi fondamentali — per l’amministrazione della giustizia (Scarpelli,  1965). La posizione del positivismo giuridico non è priva di difficoltà in  quanto confonde due nozioni etiche concettualmente diverse, ovvero la legge  promulgata correttamente, e cioè nei modi previsti dalla Costituzione, e la  legge giusta (cfr. $$ 2.3 e 2.4). Norme del tutto in regola dal punto di vista  della validità formale richiesta dal positivismo giuridico — come quelle pro-  mulgate dal regime nazista — possono risultare del tutto ingiuste e tali da  esigere un obbligo di resistenza da parte dei cittadini (Dworkin, 1982).   Alcune posizioni che si presentano come alternative al giusnaturalismo si  distinguono dal positivismo giuridico proprio in quanto riconoscono un col-  legamento tra morale e diritto. Questo è ad esempio vero per l'utilitarismo fin  da Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di questa connes-  sione rappresentando la morale e la legge come due sfere concentriche, l'una  più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia costituita dalla morale.  Questa immagine permette di capire sia in che senso la morale condiziona la  sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del diritto debba essere considerato  più ristretto di quello proprio della morale. Questa stessa linea di analisi è  stata elaborata in modo compiuto da J. $. Mill,   I collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica — la morale e la legge  giuridica — sono complessi e ineliminabili, Non solo i limiti di applicazione    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    112 ETICA    della legge giuridica — ovvero la distinzione tra l'ambito di pertinenza della  sanzione giuridica e quello in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui  dunque vale la sola critica che si manifesta nella discussione pubblica —, ma  le stesse procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che sono rile-  vanti dal punto di vista della responsabilità giuridica e infine gli stessi modi in  cui va articolata la sanzione e la pena giusta esigono un rinvio continuo a con-  siderazioni di ordine morale (Ferrajoli, 1989). Il riconoscimento di un’effer-  tiva responsabilità giuridica rientra anch'esso in un discorso che esige il ri-  corso ad assunzioni di ordine morale. Non diversamente assunzioni di ordine  morale sono in gioco laddove si discute la questione della pena adeguata o  giusta o meritata pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso della  tortura, della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali sta lì a  mostrare questo intreccio.    6.3. La politica e i fini del governo. — L'ambito dell’etica che invece pos-  siamo denominare «politica» è quello che rinvia ai principi e alle norme che  all’interno di una società riguardano non tanto i rapporti giuridici, quanto  l’azione del governo e il riconoscimento della sua legittimità. Una parte della  dottrina etica che coinvolge la politica riguarda dunque l'individuazione dei  principi che sono in grado di dare ai governanti l'autorità per governare, e  conseguentemente gli obblighi di lealtà dei cittadini nei confronti dei loro go-  vernanti (e di riflesso gli obblighi dei governanti nei confronti dei loro citta-  dini) e infine l’esistenza o meno (e in quali limiti) di un diritto dei cittadini a  resistere alle leggi dello Stato.   Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica del secolo XVII per ve-  dere quanto già in quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base morale che  desse validità alla pretesa dei governanti di avere un'autorità sui loro cittadini,  Il primo dei Tivo Treatises di Locke rappresenta un chiaro tentativo di conte-  stare la pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che i sovrani potessero rica-  vare il loro diritto ad un'autorità assoluta sui loro sudditi da una investitura  diretta da parte di Dio ad Adamo che era poi stata trasmessa — secondo una  linea diretta, di successione — ai suoi eredi. La cultura filosofica del secolo  XVII presenta non solo l’attacco più radicale alla concezione assolutistica del  potere politico come di origine divina, ma anche i primi decisi tentativi di  ricavare da principi più mondani il potere dei governanti. Così Hobbes e  Locke percorrevano la strada del contratto come base del potere politico, ma  le due forme di contratto a cui si richiamavano erano tali da condurre a due  diversi tipi di potere politico, l’uno totalitario ed illimitato e l'altro invece de-  terminato e limitato dal rispetto di una serie di diritti che comunque il citta-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    LE DIMENSIONI DELL'ETICA 113    dino deve salvaguardare. Perciò, mentre Hobbes non sembra riconoscere un  vero e proprio diritto di resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di  lui faranno tutti i teorici dello stato liberale.   Quasi tutta la filosofia politica contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin,  da A. Downs a R. Dahl, si muove elaborando le basi etiche di una teoria libe-  ral-democratica (Brown, 1986). È oramai fuori discussione che solo l’investi-  tura popolare mediante votazioni democratiche può giustificare il potere po-  litico. Così come è largamente accettata la convinzione che il potere politico  deve limitarsi nelle sue leggi in modo tale da non toccare i cosiddetti diritti  negativi dei suoi cittadini. Non viene nemmeno posto in discussione — spe-  cialmente dopo l’esperienza dei regimi totalitari del XX secolo quali il nazi-  smo e lo stalinismo — il riconoscimento del diritto dei cittadini di resistere ai  comandi ingiusti dei loro governanti, anzi addirittura viene riconosciuto il  loro dovere di boicottarli e di lottare contro di essi.   Per quanto riguarda poi la riflessione etica sugli scopi del governo essa ha  subito a partire dal XIX secolo una radicale trasformazione laddove si è con-  siderato come uno dei compiti primari dei governi garantire ai cittadini non  solo la pace sociale, la vita, la salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche il  benessere, la salute, la qualità della vita ecc. Quando sono entrati in gioco  quelli che si considerano più propriamente i diritti positivi (cfr. sopra, $ 4.5)  dei cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere autorizzato  il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei limiti ai diritti  negativi dei suoi concittadini al fine di far progredire i diritti positivi della  maggioranza. Si tratta di questioni etiche che la riflessione sul potere po-  litico si è trovata davanti in particolare all’interno della questione sociale e  sulla base delle lotte sostenute dalle classi operaie e dal movimento socia-  lista (Bobbio, 1990).   Molte delle questioni etiche in gioco nella politica coinvolgono diretta-  mente le relazioni internazionali tra Stati. È oramai del tutto superata la posi-  zione considerata ovvia nel XVII secolo per esempio da Hobbes, ma anche da  Locke, che riteneva i rapporti tra Stati come costitutivamente collocabili nella  sfera di uno «stato di natura». Nel corso dell'età moderna e contemporanea  non solo è cresciuta l’esigenza di una valutazione etica delle motivazioni che  ispirano le azioni internazionali dei governanti (Bonanate, 1992), ma si è an-  che affermata sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una serie di  principi consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del possibile, la  pace. È stato Kant {Kant, 1956: 283-336) che ha fatto valere con decisione  l'esigenza di estendere anche alle relazioni internazionali quel requisito della  pace che si riteneva necessario per i rapporti all'interno della società civile. Le    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    114 ETICA    riflessioni etiche sull'uso della forza nelle relazioni internazionali tra Stati nel  XX secolo hanno poi dovuto affrontare le questioni nuove segnate dalla crea-  zione di armi nucleari. Molto insistita è stata la conclusione che l’uso di armi  che, come quelle nucleari, mettono a rischio l’esistenza della stessa umanità,  non può essere giustificabile al di lì della sola funzione deterrente (Kavka,  1987; Pantara, 1989).   Anche sul piano delle relazioni internazionali si è poi ripresentata in que-  sto secolo una riflessione etica che non investe solo quei fini dei governi esclu-  sivamente rivolti a salvaguardare o difendere i diritti negativi dei cittadini del  mondo, ma ancor più i cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento  della popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra qualità  della vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi sot-  tosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno posto come  problema etico primario per la politica la questione di quanto si debba rite-  nere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale internazionale (Pon.  tara, 1988; Singer, 1989; Sen, 1994),   Da un punto di vista teorico generale, così come si è assistito a un allarga-  mento dello spazio per l’etica nel senso di una progressiva democratizzazione  delle responsabilità e decisioni che essa richiede in modo paritario a tutti i  cittadini del mondo, si assiste altresì a un analogo allargamento di questo spa-  zio nella direzione di un incremento delle questioni che ad essa si demandano.  L’ipotesi che avanziamo — ovviamente carica di un’opzione normativa — è  che ci si muova verso un allargamento delle aree problematiche che vengono  affidate alla discussione pubblica e dunque a una regolamentazione pacifica-  mente concordata, sottraendole al terreno in cui si fa ricorso alla forza. Così  sul piano internazionale vediamo sempre più riconosciuta — almeno al livello  del dover essere — l'esigenza di un governo mondiale — democraticamente  costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri — impegnato a garantire  pace e giustizia sociale a livello planetario. Oggigiorno sembrano quindi pri-  vilegiate quelle teorie etiche normative in grado di rendere conto in modo  adeguato delle nuove estensioni problematiche presenti nella situazione sto-  rica degli esseri umani, Una competizione con le sole armi dell’argomenta-  zione razionale e della conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in-  dividuazione di soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta di  maggiore riflessione sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto  questa riflessione — sia pure in modi più o meno indiretti — contribuisce a  rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della giustizia  sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla forza delle armi 0  alla violenza.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    NOTA BIBLIOGRAFICA    Testi    ArisToTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano, Rusconi, 1979.   J. BentHam, An Introduction to the Principles of Moral: and Legislation, a cura di J. H. Burns e  H.L. A. Hart, London, Methuen, 1970.   In., If fibro dei sofismi, a cura di L. Formigari, Roma, Editori Riuniti, 1981,   J. BurLen, Analogia della religione, a cura di A. Babolin, Firenze, Sansoni, 1970.   A. Cottins, Discorso sul libero pensiero, Macerata, Liber Libri, 1990.   S. Faeuo, J/ disagio della civiltà, in Opere. 1924-1929, a cura di C. L. 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D'Holbach P.H.D., 92.   Downs A,, 113,  Baier A., 116, Dumont L., 33, 117.  Bartolommei S., 107, 116. Dworkin R., 19, 77, 101, 111, 113, 117.  Bentham ]., 10, 18, 76, 80.5, 91, 101, 104,   111, 115. Engelhardt H.T., 107, 117.   Berlin I., 76, 68, 116. Epicuro, 13, 79.  Blackburn S., 59, 116, Ewing A.C., 50, 65, 117.  Bobbio N., 10, 18, 24, 71-2, 74-5, 113, 116.  Bonanate L., 105, 113, 116. Fagiani F., 36, 90, 117.  Brentano F., 67. Feinberg J., 110, JI7.  Brown A., 113, Î16. Ferguson A., 92.  Buchanan J.M., 85, 116. Ferrajoli L., 97, 105, 112, I17.  Buddha, 101. Ferrara A., 87, 117.  Bulygin F., 63, 116. Filmer R., 112.  Butler J., 38, 90, 115. Finnis J., 69, 117.   Foot P,, 24, 98, 117.  Canziani G., 36, 116. Fox R.M., 100, 104, 117.  Carcarerra G., 60, 116. Frankena W.K., 31, 77, 117.  Cartesio, v. Descartes R. Freud S., 32, 115.  Cassese A., 74, 116.  Clarke S., 25, 48. Gandhi M.K., 101.  Collins A., 74, 115, Gargeni A., 59, 117.  Colman J., 36, 117. Gauthier D., 41-3, 52-3, 73, 101, I17.  Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard A., 59, 117.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    122    Gilligan C., 105, 117.   Glover J., 99, 117.   Gough J.W., 52, 72, 117.   Gracia D., 107, 117.   Grozio U., 24, 47, 69, 71, 90, 115.    Habermas J., 29, 117.   Hagerstròm A., 77, II7.   Hare R.M., 13, 28.9, 5G-8, 76, 78-9, 83.4,  101, 117.   Hart H.L.A., 110, 117.   Hartley D., 92.   Hayek F.A. von, 40, 117.   Helvétius C.-A., 92.   Hennìs W., 61, 117.   Herbert di Cherbury, 38,   Hobbes T., 10, 13, 15, 17, 25, 31, 36, 40.1,  51-3, 71-2, 74, 76, 90-1, 101, 112.3, 115.   Hudson W.D., 50, 60, 117,   Humboldt W. von, 87, 115.   Hume D., 10, 20-1, 23-4, 31, 44, 48, 51, 53,  58, 60-2, 66, 78, 87, 91-2, 94, 101, 115.   Hutcheson F., 23, 38, 50-1, 79, 91.2, 101,  115.    Irigaray L., 105, 118.    Jonas H., 106, 118.  Jonsen A., Iî8.   Jules A., 27.   Jung C.G., 32.   Juvalta E., 10, 88, 118.    Kant I., 10, 20-1, 25.6, 29, 49.51, 64, 77-80,  93, 101, 113, 115.   Kavka G.S., 40, 114, 118.   Kelsen H., 18, 61-2, 118.   Kuhse H., 106, 118.    Landucci S., 16, 25, 49, 118.   Locke ]., 10, 15-8, 25, 31, 36-9, 47, SI, 72,  74, 90-1, 94, 101, 111-21, 115.   Lorenz K., 92, 118.   Lyons D., 84, 118.    INDICE DEI NOMI    Mackie }.L., 59, 118.   Macpherson C.B., 75, 118.   Magri T., 87, 118.   Malthus T.R., 106, 115.   Mandeville B. de, 33, 79, 115.   Manzoni A., 81, 115,   Marirain J., 22, 44, 118.   McDowell J., 51, 59, II8.   Melniyre A., 24, 56, 87, 98, 118.   Meek R., 92, 118.   Mill J., 92.   Mill J.S., 10, 24, 82.4, 87, 92, 101, 105-6,  108, 111, 115.   Montaigne M. de, 79.   Moore G.E., 11.2, 24, 26-9, 31, 50, 61,  67-8, 115.   Moore J., 117.   Musacchio E., 82, 118.    Nagel T., 94, 118.   Norton D.F., 50, 118.   Nowell Smith P.H., 13, 63, 118.  Nozick R., 59, 67-8, 76-7, 94, 101, 118.    Oppenheim F.E., 60, 118.    Parfit D., 8-9, 80, 94-6, 106, 118.  Pontara G., 67, 84, 114, 118.  Preti G., 10, 44, 59, 118.  Prichard H., 50.   Pufendorf F., 24, 47, 69, 71-2, 80.  Putnam H., 12, 26, 59, 61, 118.    Rawls J., 26, 41, 52-5, 73, 75-7, 79, 100.2,  113, 119.   Regan T., 105, 119.   Resnik M.D., 40, 86, 119.   Rorty R., 88, 102, 119.   Rass W.D., 50, 65, 119.   Rossi P., 60, 119.   Rousseau J.J., 51, 73, 75, 92, 115.   Ruse M., 24, 92, 219.    Sacconi L., 106, 119.  Scarpelli U., 10, 12, 18, 44, 60, 88, 111, 118.  Scheler M., 67, 116.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    INDICE DEI NOMI    Schlick M., 46, 119.   Sen A.K., 34, 83, 86, 105, 119.   Shaftesbury (A.A.Cooper, conte di), 23, 51,  91.92, 116.   Sidgwick H., 19, 50, 94-5, 101, 116.   Singer M.G., 78, 119.   Singer P., 99, 105, 114, II9.   Smart J.J.C., 83, 85, 119.   Smart RN., 84, 119.   Smith A., 10, 23, 33, 40, 51, 91-2, 94, 101,  116.   Snare F., 18, 119.   Spencer H., 24, 45, 65, 92, 116.   Spinoza B., 25, 72.   Stevenson C.L., 13, 27-8, 56, 119.   Strauss L., 75, 119.   Sugden R., 86, 119.    Thomasius C., 71, 80.    123    Tommaso D'Aquino (S.), 69,  Toulmin S., 104, 118.    Urmson J., 84, 109, 119.    Veca S., 110, 119.  Viano C.A., 120,    Walzer M., 105, 120.   Warrender H., 53, 72, 120.   Weber M., 60, 64, 89, 116.   White A.R., 77, 120.   Wiggins D., SI, 59, 120.   Williams B., 13, 29, 83, 93, 109, II9, 120.  Wittgenstein L., 28.   Wolff C., 79.   Wiollaston W., 48.   Wright G.H. von, 63, 120.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    INDICE DEL VOLUME    . Introduzione   . La natura dell'etica .. si ci   . Fondazione, giustificazione e spiegazione:  l’epistemologia dell'etica .............. CRA ERA   4. Le etiche normative; concezioni in contrasto ART:   5. Dall’etica teorica all’etica pratica ..............    Di    6. Le dimensioni dell'etica .............    Nota bibliografica...    Indice dei nomi ..  poEugenio Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico, antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia, patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses ‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani della simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im- negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in Italia --. Lecaldano. Keywords: illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lelio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro questo e i suoi fautori. E  ammirato, se non come oratore, come uomo politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio Cornelio SCIPIONE (si veda)  Africano, che segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e questore.  Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato, dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani, mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano, a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio Cepione.  Smith, Dictionary of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio. Polibio. Appiano di Alessandria, Historia Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia. Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano. Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo, L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica, guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari. Consoli repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname ‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio Lelio. Lelio.

 

Grice e Leocide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone. Roma – filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Leofronte: la ragione cnversazionale e la setta di Crotone – Roma – filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Leone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone dedicates a ‘saggio’ to him.

 

Grice e Leonzio: la ragione conversazionale la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lettine: all’isola – la diaspora di Crotona – Roma – filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Libanio: la ragione conversazionale e la setta di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Supports Giuliano in his attempt to revive paganism (a charming letter survives) – “but he is also a friend and teacher of many Christians, can you believe it?” – Loeb.

 

Grice e Liberale: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Not to be confused with Liberace, he is staying at Lyons (Lugdunum) at the time it was destroyed by fire. A dear friend of Seneca. He follows the Porch. In his eulogy, Seneca declaims: “While he is accustomed to dealing with everyday difficulties, a catastrophe, unexpected, and of such magnitude,  is more than he could handle.” Ebuzio Liberale.

 

Grice e Licenzio: la ragione conversazionale e il filosofo poeta – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – A pupil of Agostino. He achieves a reputation of a poet. Licenzio.

 

Grice e Livi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del consenso sociale – filosofia italiana – l’aporia: se cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers who have taken Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson, collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla Common-Sense Association, che ha come organo ufficiale la rivista "SENSVS COMMVNIS” – cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic Logic". Tra i suoi numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore di importanti saggi di Storia della Metafisica,  Bettetini, Arecchi, Spatola, Covino ed Arzillo.  Fondatore di Vinci, membro associato della Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense. Firma con Giovanni Paolo II alcune parti dell'enciclica Fides et ratio.  «Senso comune» è il termine utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in chiave anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e incontrovertibili possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a priori, ma di un sistema organico di certezze universali e necessarie che derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni ulteriore certezza. – cf. Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and Ordinary Language,” “Common Sense and Scepticism” --. Ha per primo precisato quali siano queste certezze e ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono in effetti il fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende dunque l'evidenza dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento; l'evidenza dell'io, come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il mondo; l'evidenza di altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale che regola i rapporti di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di Dio come fondamento razionale della realtà, prima causa e ultimo fine, conosciuto nella sua esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e spontanea, la quale lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che è la Trascendenza in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un sistema di logica aletica su base olistica.  Tra gli studi recenti sul sistema della logica aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di AGAZZI, "Valori e limiti del senso comune" (Angeli, Milano), Ottonello ("L.", in "Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo ("La riabilitazione del SENSO COMUNE", in "Memoria e progresso", Fede & Cultura, Verona), di Arzillo, “Il fondamento del giudizio -- una proposta teoretica a partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci, Roma ); Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica -- analisi della proposta di L. (Vinci, Roma). Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia antica, Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson, Fabro ed Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della speculazione metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi (Platone, Aristotele, la Scesi, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e dell'età moderna (VICO, Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto assertore del metodo realistico di interpretazione dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni utilizzando sistematicamente gli strumenti dialettici offerti dai filosofi della scuola analitica. Suoi critici più intransigenti sono stati, da una parte, l’idealista Severino, e dall'altra il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri saggi: “Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila:  Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre del Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO COMUNE -- Logica della scienza (Milano: Ares); “IL SENSO COMUNE tra razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo); “Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO COMUNE e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano: Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica” (Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma: Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni ); “SENSO COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia in eta antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale;  moderna;  contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma: Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei” (Roma: Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO COMUNE al vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica della scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa" (Roma: Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il sistema della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica” (Roma: Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa",  su Gli equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci);  “Aquino filosofo” in Piolanti, AQUINO nella storia della filosofia” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Gilson", in  Piolanti, Gilson, filosofo, Roma: Vaticana,  "L'unità dell'ESPERIENZA nella gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica, critica e metafisica in chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE e unità delle scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft]  in Martinez "Unità e autonomia del sapere: il dibattito", Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza Romana, antoniolivi.Vinci, su editriceleonardo  ISCA Commonsense Association ca-news; fidesetratio. Ilgiudiziocattolico. Antonio Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical defence in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what he sees as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” – Grice: “I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would – certainly Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone and Livi is an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection, conceptual he thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like ‘I know that s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on the table. Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a conversationally appropriate defeater!” – Livi. Keywords: consenso sociale, amoris laetitia, Letizia dell’amore --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Leonzi – (Leonzio) Georgia di Leonzi

 

Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Grice: “I love Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational self-love and the principle of conversational benevolence is what all his philosophy is about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an individualism, i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’ inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive; similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo siamo. Vive a Torino, Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene associato ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno della filosofia,  si inserisce nella tradizione del liberalismo classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure assistente volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fa parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare prigionieri e salvare soldati.  Insegna filosofia e ricoprendo l'incarico di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione tipografo ma che svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato truffe e sottrazioni di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo, Quero lo assassina colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si affermavano politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L. critica la logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del concorso delle volontà dei singoli individui.  Fondatore di Il Politico, svolge ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche.  Con i suoi saggi, inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso.  E stato quasi dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di lezioni ). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è pervaso da quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo intellettuale.  Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso, bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere sulle pagine del  torinese, dando vita ad una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori filosofi del liberalismo. Oggi.  non è più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore delle sue tesi.  In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L., per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro potenzialità.  Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri, Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico, i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana.  Altri saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli, Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);  “La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”, Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino,  “Il diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri,  Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione  Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu, che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana.  E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek, rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala  La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri, “Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri, Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L.. Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo. Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto). Filosofo italiano. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) – when he died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning), strangled to death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa.  E qui che ha modo di entrare in contatto con la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato uno dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello stesso Lorenzo de Medici.  All'indomani della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca  sostengono che il mandante dell'uccisione di L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli, Dizionario Biografico degl’Italiani, riferimenti in.  Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era adpresso del dicto Lorenzo uno excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in FILOSOFIA, nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. E questo uomo in tanto prezzo adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille ducatj de provisione per anno: poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj ad legere e similemente ad Padova. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda a Firenze. E questo mastro L. de tanta scientia, che predisse la morte sua essere infra IV misi. E anda mal voluntierj ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze trova Lorenzo stare male: sono lì clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de Milano: et predice mastro L. la morte de Lorenzo. Ipso non presta mai et non se mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che L, non s'ingerì affatto in ciò che riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo, limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI della malattia ed a consultazioni astrologiche. E con ciò vuole, forse, velatamente intendere che niente ha a che vedere L. con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni viscerali che tormentano il paziente, servirono forse ad accelerarne il tracollo -- ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato homo bestiale e senza prudentia, ordina che el dicto mastro L. fosse morto. Lorenzo e in villa ad uno suo casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro L., volendo tornare luj allu solito loco, e menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale, et lì e strangulato dicto mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e portato in Firenze, e retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai. Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la bona memoria de Lorenzo ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li secretj soj sapiva, savio, sapientissimo e pieno de verità, bontà et integrità."  Nella sua "Storia della Letteratura Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti dell'epoca, fra cui Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due famigliari di Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il quale non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki, Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti, Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova,  Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori.  Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library. Leoni.

 

Grice e Leopardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del favoloso – Leopardi fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative; admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks, pretty much like the first Vitters, that language is a prison. Man has a need for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming – without conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest poet, one would first think!”  -- Grice: “One could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement, ‘leopardismo.’  Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo.  È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la sua epoca.  Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla lettura di FILOSOFI come il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico. Muore di edema polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera di Napoli. Il dibattito sull'opera leopardiana, specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il bisogno.  In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane Giacomo.  Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia.  La formazione giovanile  La casa natale Ricevette la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello contenutistico e metodologico. Nel Museo leopardiano a Recanati è conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto insieme al fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della Congregazione dei nobili.  Il ruolo avuto dai precettori non impedì, comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati puerili. La produzione dei puerili  Puerili e abbozzi vari Il corpus delle opere cosiddette puerili dimostra come il giovane Leopardi sapesse scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità, eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco (nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia Leopardi si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece il lavoro di Leopardi presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia dell'astronomia Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo. Probabilmente infatti Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla geometria cartesiana e al calcolo differenziale.  Iniziò nello stesso periodo anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria: dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte cambiamento, frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo reumatico e disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e conseguenti problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita stentata, problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo intenso), alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua. Era convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.»  Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da Citati) è che Leopardi soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei genitori. Tutti i fratelli L. furono deboli di salute, con l'eccezione di Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera asimmetria del viso. Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.  «Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.»  (Lettera dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla, propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo".  Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della "teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia»  Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classicisti e romantici. L. difende la cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!»  (Il primo amore, v.3)  Geltrude Cassi Lazzari con i figli, illustrazione di Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.»  (L., L'infinito. Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L. elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò. Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti, gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà degli anni '30, da alcuni indicato come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente bolognese Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una "Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta, patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del ritratto di L. sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze, dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare Leopardi per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e Leopardi tornò alla poesia, che tace (con l'eccezione della poco riuscita epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi»  (Le ricordanze) Il periodo di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici: Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati, dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti pisano-recanatesi".  In questo periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei.»  (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei "Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere; Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia, seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si nota anche una tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi, dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni polemici e misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.»  (Lettera da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»  (Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò:  «Quivi Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse. «Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo favore.  Busto del poeta presente a Villa Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni "dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già Leopardi aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del Leopardi. Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati), talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve moltissimi caffè. La morte  Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute.  L. si sentì male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita fredda) verso sera.  Fu colpito da malore poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio, Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto "alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo. Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che avrebbe ucciso il debilitato Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi cronici all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite colerosa) in poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta la versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro Giordani:  «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo, non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e "sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi.   La lapide originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima, un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti con altre ossa.  La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di Recanati.Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni Leopardi e la figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del Pero-Leopardi, vedova del conte Pierfrancesco "Franco" Leopardi e madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia Leopardi (esplicitata dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta (presidente fino al  conte Vanni Leopardi) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei canti veramente divini il Leopardi trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di splendore.»  (Papini, Felicità di Giacomo Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato, attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no,  era del resto ben presente allo stesso Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani A Recanati  Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo Leopardi: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali dall'architetto Carlo Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo. L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del poeta, Monaldo Leopardi. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia Palazzo Leopardi. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai aperto a tutti.  Palazzo Antici-Mattei: casa della madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San Leopardo (XIX secolo): venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e nei pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia Leopardi. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori Osservanti insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e abbattuti due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della Posta (corso Garibaldi),  Palazzo Antici Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"), convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano ("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso (oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa (lettera a Paolina Leopardi). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso), con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo". Opere di Giacomo Leopardi.  Copertina della prima edizione dello Zibaldone di pensieri. Epistolario Di Giacomo Leopardi ci sono rimaste oltre novecento lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo). L'intero corpus epistolare di Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L. prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.  Leopardi, amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti sino al 1906. Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina. Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione poetica in merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari. Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario, essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che contraddistinguono la società italiana, e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera Leopardi giunge all'amara conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo poco civile per godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici»: è ancora Leopardi a descrivere la propria opera in una lettera indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che regna in esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi considerate la più alta espressione del pensiero leopardiano, racchiudono l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I Canti, considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono trentasei liriche composte da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica leopardiana.  Le ultime opere Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro la finzione comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari, mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i granchi-austriaci, feroci e stupidi.  nuovi credenti, invece, sono un capitolo satirico in terza rima dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida", "improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici, di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana.  Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di Giacomo Leopardi, musica di Francesco Paolo Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G. Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi, Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario collettivo Il fatto che l'opera di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le principali:  studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani  e Zibaldone di pensieri); passata è la tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna... (in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito). Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12 pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano, Napoli.  Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi:  10 disegni originali realizzati sul tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una scultura del 1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane") ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione prodotta in Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel breve documentario "Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione Marche.  Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella Canzone per Piero di  Guccini e in Stai bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno (di un pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo), entrambe di Roberto Vecchioni.  Giorgio Gaber, nella canzone "Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del 1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi. Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma televisivo"Leopardi, il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche. Video in rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo Leopardi nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]: Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari; "A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman: L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra (o Il fiore del deserto) Alla luna,  La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito, Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia: L'infinito,  Lavia dice Leopardi; Alberto Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso un video, per la regia di Giampiero Solari, trasmesso sui principali canali televisivi italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver interpretato ad Ascoli Piceno il film di Pietro Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane Stefania Sandrelli.  Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione turistica:  «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui emozionalità è strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e raggiunta.»  (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a scrivere:  «Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante «performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la musica dell’andamento di un’esposizione poetica?»  (Mina Mazzini) Al contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.  Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi leopardiani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera", nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna promozionale del  Dustin Hoffman fu sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè.  Continuò comunque l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un "movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che, rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione (Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani, Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza & f.i,Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920; poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia (Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi, Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano: Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna: Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati, Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di Studi Leopardiani.  Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico, artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a Monaldo, finché fu in vita.  Uno sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ).  Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo Leopardi, su emsf.rai).  Forse la malattia di Pott o la spondilite anchilosante.  Erik Pietro Sganzerla, Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male»  (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)  Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città, gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de' maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti.  Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia della letteratura italiana. Milano L'Ottocento  Zibaldone  «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e editi», Milano, Bompiani 1972  Citati20-25.  Cecchi, Sapegno, oGiuseppe BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano, Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'Autore, raccolto e ordinato da Prospero Viani,  I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in Epistolario di L. con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini (puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre, RaiTre-RaiStoria)  Sarà la lingua utilizzata nelle lettere allo Jacopssen  Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale. regione. marche. Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale, Recanati  a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche,  5-8.  Aimé-Henri Paulian su data.bnf.fr.  Un episodio della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria  Cecchi, Sapegno, Spesso nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una coperta di lana.  C 33 esegg.  Giuseppe Bortone, Il "morire giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo  Alessandro Livi, giacomo leopardi, le malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, Paolo Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club Fermo,  «Di contenti, d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di Leopardi anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece.  Es. sindrome della cauda equina  Alcuni propongono altre diagnosi: diabete giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre. cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.  Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di G. Leopardi453.  E. Galavotti, Letterati italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone, autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana,  3, tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia  infelicità in un modo assai più tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito ("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13 anni il dagherrotipo).  Bonghi, Biografia di Leopardi, su classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti  Citati 226 e segg.  Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e Pensiero,  Fotografia della maschera (JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio  (archiviato il 1º gennaio ).  Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro nazionale di studi leopardiani Centro mondiale della poesia e della cultura "G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre Palinodia al marchese Gino Capponi  Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani delle Ultime lettere di Jacopo Ortis  «Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux)  Una stroncatura per L. Archiviato   in.; mentre fu più meditato e indulgente il giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su Leopardi stesso.  Introduzione alla Palinodia  L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani. Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di G. Leopardi (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese.  Lettera aColletta dcome citato in Marco Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30.  Gente che m'odia e fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca.   CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione Garzanti  Donne fatali 2: Giacomo Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...", su sulromanzo.  "Tu vivi / bella non solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti e link in.  Giovanni Mèstica, Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica,  (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and lesbian history,  1, ad vocem  Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca. repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario, BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi in L. Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece, appresso a poco, della notte giorno, e viceversa."  Traduzione in Michele Scherillo, Vita di Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina), su treccani. 2 D'Orta25.  L. Il poeta della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro (cfr. Sfrondando gli allori della poesia)  Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta anche Citati, Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali.  Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia Plautina,  cfr. anche Notizia della morte del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato, congestione, coma diabetico o indigestione  Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere. in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G. Cugnoni,  I, Halle, Max Niemeyer Editore, Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G. Piergili, Firenze, Le Monnier,   in.; "Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti  Biografia sulla Treccani, su treccani. are LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano, McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui, su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro Giordani,  Scritti editi e postumi di Pietro Giordani,  VI, pubblicati da Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi, edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri,  Firenze, Successori Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre  in..  Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento (JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre cautela in. da Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA, MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO?  Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi, Leopardi, strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi, Guida, Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale ufficiale delle persone presenti.  E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita  L., sito gestito dal CNSL  Si torna a parlare dei resti di L., nato comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati. Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia, Milano, Mondadori,  Cfr. in proposito anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare: Manzoni e L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni).  Paolo Emilio Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al Novecento,  Roma, Ed. di Storia e Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica del mondo  Peter Lang, In Saggi critici, Russo, Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc.  Per L., su pergiacomo leopardi.altervista.org. Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi, tratte da sue lettere.  Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali, su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (), Istituto dell'Enciclopedia italiana.  Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea, su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".   "Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg  ascolta la canzone nel sito della Fondazione Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo Archiviato il 6 settembre  in.  vedi il testo dell'Operetta morale in Operette _morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU  Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi- il-rivoluzionario/25794/default.aspx "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi-il-rivoluzionario/ 25794 /default.aspx in.  Rai Storia, "Giacomo Leopardi e l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx Archiviato l'8 settembre  in.  Nel sito web de "La Stampa", Guzzini del Centro  Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/ multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7fEJyVoUSrazy1H/ pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E  "Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI  Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM  Vittorio Gassman interpreta L'infinito, su youtube.com. Gassman interpreta A Silvia:  youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il 29 marzo  in.  Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4  Bene interpreta L'infinito: youtube.co  Carmelo Bene interpreta Passero solitario: youtube. com/ watch?v=IZz Qbnzpaok  Carmelo Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y  C. Bene interpreta Alla luna: youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk  Carmelo Bene interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/ watch?v=qydGUiV1wwI  Carmelo Bene interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4  Carmelo Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM  Bene interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane: youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE  vedi su Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista Archiviato il 15 settembre  in.  leggi il testo di Inno ad Arimane init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(Leopardi) /Ad_Arimane Archiviato il 15 settembre  in.  Bene interpreta Amore e Morte: youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw  Foà interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario: youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg  Foà interpreta A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE  Foà interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v=aWOJfMZeCVo  Foà interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk  Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok  Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com /watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=  BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno  in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao  Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube   Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ  Germano, nel film Il giovane favoloso di Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4  Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4  Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/ Portals/1/Leopardi/ Leopardi%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM  La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su "La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati, "Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre  (archiviato il 6 settembre ).  vedi la serie di spot "Le Marche non ti abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli: youtube Marco Minnucci, La regione Marche rispedisce Dustin Hoffman in America e pone fine allo stupro di Leopardi, su qelsi,  su Giacomo Leopardi. Edizioni delle opere Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi «Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano: Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri, Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano: Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba  scelto e annotato con introduzione e indice analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario, pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli,  Francesco Flora, Milano: Mondadori, in Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi, «Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni, saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano: Mondadori «Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione fotografica dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli, Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli: Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici leopardiani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e Wanda Marra, Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna: Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo, Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino: Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze: Accademia della Crusca, Giacomo Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette Morali L. Operette morali; edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna: Cappelli, 1929 introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «Universale economica classici», Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani, Milano: Mondadori «Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton Compton, «Mammut»,  poi da sole nella collana «GTE», Giacomo Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri Giacomo Leopardi, Pensieri, Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana Giulio Bollati e G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie del primo amore Cesare Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Opere Pensiero e poetica di L. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giacomo Leopardi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. L., su The Encyclopedia of Science Fiction.  Giacomo Leopardi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca.  L., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Giacomo Leopardi, su Liber Liber.  Opere di L., su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di L., su LibriVox. L., su Goodreads.   italiana di L., su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Spartiti o libretti di Giacomo Leopardi, su International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC.  Centro nazionale di studi leopardiani Recanati, su centro studileopardiani. Classici Italiani  e opere complete interbooks.eu Lo Zibaldone, su rodoni.ch. I canti di L. dai manoscritti autografi della Biblioteca Nazionale di Napoli, su bnnonline. Il Pessimismo in Leopardi e Schopenhauer [collegamento interrotto], su gheminga. Opere integrali in più volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di Giacomo Leopardi, testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza Leopardi: Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Arte di prolungare la vita o arte della felicità?, su giornaledifilosofia.net. Concordanze delle Lettere su classicistranieri.com. Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo Leopardi, la satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e Leopardi a confronto, su agenziaimpronta.net. Leopardi ottimista: un mito del Novecento, su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Angelini, "Sereno in L.", su cesareangelini. Buonofiglio, "L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito", su academia.edu. Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica della  letteratura italiana d’Ancona,. Il secondo nella  Critica. Il terzo nella stessa Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti di  Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’ Esposizione del sistema filosofico  di Giacomo Leopardi *. E una dissertazione di laurea, e  reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori giovanili.  L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro, un  po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro,  che non vuol essere propriamente un’esposizione fatta  dall’autore del sistema filosofico del Leopardi; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore con le  stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte  sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo.  Metodo anche questo alquanto ingenuo e da scrittore  che non vede ancora la necessità, chi voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue  parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo  pensiero, entrarvi dentro, mettendosi allo stesso punto di  vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare il suo  pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche a cui è  legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logicamente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la  inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita  nuova del sistema filosofico nella mente dell’espositore. GATTI, Esposizione del sistema filosofico di L., saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che non riesce felicemente se  non agli scrittori provetti; ma che nessuno ordinaria¬  mente crede di potere schivare, se non limiti il proprio  ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne escono  alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li  ha intesi.   L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere  insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando  come fil filo un pensiero si svolgesse dall’altro; e dove  la connessione non appariva evidente nelle parole del  testo, ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi: proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie di riflessioni già via via  segnate sulla carta a schiarimento del proprio pensiero  e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il rischio, e stavo per dire la responsabilità, a  cui andava incontro, facendo parlare per la sua bocca  lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone stesse,  pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice  composizione degli stessi materiali leopardiani, la statua  del filosofo sul piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro  che, se anche nei pensieri inediti del L. fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro-  varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta  dall’autore.   Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già altri,  ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il Leopardi poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e  di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci scopris¬  sero il Leopardi filosofo. Questa era anche la tesi dello  Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui  il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima delle quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa  natura; donde prima una concezione storica del pessi-  niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini  non insisteva sul valore sistematico di questa filosofia  leopardiana; e, d’altra parte, nel secondo volume dei  suoi Studi sul Leopardi, esaminando le Operette morali,  veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle  riflessioni dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi aveva fatto seco stesso  per iscritto, fossero appunto condensate nelle Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello  Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze  cronologiche, che lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli  pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema  logico. Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si formavano giorno per  giorno nella mente del Leopardi attraverso ben (juindici  anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo  per quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse  meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il diario degli  anni in cui si svolse la vita morale del poeta, e offre  perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose  da lui stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi  sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti  di tutto il lavorìo intimo di quello spirito, non potremo  apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo dalle  loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le  proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel  giorno: e quel lavoro di sistemazione e organizzazione,  per cui di tutti i pensieri slegati si possa fare un tutto  coerente, manca.   Gentile, ifa» 2 ont e Leopardi.  Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca  accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a  rilevarsi, che qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente  molto lontani fra loro ». E la sua ragione sarebbe questa :  «Tali salti, mentre da un lato ci forniscono ancora una  prova evidentissima e incontrastabile della profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione  cosmica del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il  proposito nell’Autore di rifare spesso a ritroso coll’ im¬  maginazione la via già percorsa dal pensiero allo scopo  di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa strada,  e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,  allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli  avrà mostrata altra via da battere per giungere alla mèta  prefìssa». Cioè, se ho capito bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter addurre  pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra  ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento  sostanziale di pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta  con l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e  già superata. Ci sarebbero certi « pensieri di ritorno », o  « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti, non  bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto, ma,  per certa ripugnanza sentimentale alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi temperamenti,  torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza  filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un  ritorno siffatto nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter fissare questa nella coerenza di certi pen¬  sieri definitivi, è evidente che non può essere altro che  una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è costretto,  quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria. Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a  pretendere dal Leopardi, nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella natura  di tali confessioni.   E non era neppure nella natura dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma  non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia  tante volte protestato di possedere una sua filosofia ?  Allo stesso modo del Leopardi, più o meno, chiunque  si ritiene in grado di giudicare dei sistemi dei filosofi,  ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di  costoro, e insomma di affermare una filosofia propria  che possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio  punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva  ragione il Leopardi ; perché in fondo a ogni mente umana,  sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬  sofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero.  Ma questa filosofia dei poeti non è la filosofia dei filosofi,  e bisogna trattarla, per non snaturarla e non distruggerla, con molta delicatezza.   Una delle differenze più notabili tra la filosofia dei  poeti e quella dei filosofi è che il poeta può averne una,  se è capace di averla, in ogni singola poesia; laddove  il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina, non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno  diritto, come poeta, di affrontare il problema del dolore,  sempre da capo, con nuovo animo, con considerazioni  nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla virtù,  ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve  stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa del Leo¬  pardi è infatti una situazione d’animo nuova; quindi  una nuova vista dello stesso dolore che domina l’anima  del poeta; un nuovo concetto, una filosofia nuova, che  solo trascurando le differenze essenziali, che in una  poesia e in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può rappresentare come sempre  identica.   Egli è che il poeta, checché si proponga e dica di  aver fatto, non espone propriamente una filosofia: ma  esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, deter¬  minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti.  Abbozza in se medesimo (e quindi in un diario intimo)  una filosofia provvisoriamente sufficiente ad appagare  i bisogni della propria ragione (che non sono poi grandi  in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in quanto profondamente sentita, in quanto vita  della propria anima, diventa materia di poesia. Di poesia  anche in prosa; perché, in sostanza la prosa leopardiana  è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi stati  d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti  per lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il  Leopardi fa di costringere il sentimento spontaneo dentro  r intenzione ironica, satirica, che gli fece appunto pre-  f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette come  nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia tetra e col  suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo  grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni,  che altri ha studiosamente cercate in lui, e che sono il vero  segno caratteristico del suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver niente del¬  l’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della  soggettività; è una contemplazione, diciamo così, d’una  verità eterna, in cui il filosofo, come persona particolare,  si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte le  tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di  somiglianza con quelli del Leopardi non presenta nes-  Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza, nella Rivista d’ Italia,  asuna traccia, non offre nessuno indizio di sentimenti  personali. K veramente una visione del mondo sub specie  aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del  filosofo scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire,  scompare nell’animo dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia. Onde una volta  noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in  tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬  stema di concetti, in sé.   Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬  diano è, come è stato tante volte osservato, così imprgnato di elementi ottimistici, così logicamente frammen¬  tario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente  coerente e vivo, che lo scambio non è possibile. Noi pos¬  siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita  del suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto,  molto delicato; perché in esso non bisogna mai lasciarsi  sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio,  non è questa filosofia in se medesima, astratta materia  della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella filosofia  è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace  di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬  dere la poesia, e valutata in quanto poesia, per quella  vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta.   La pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è trovata  innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella  tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso,  e che, per quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva  pregato nessuno di mettere in pubblico: quella filosofia,  che egli destinava a far materia di espressione più per¬  fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne in  parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma merita di essere particolarmente studiato).  E dimenticando che pel L. tutti questi materiali  non avevano valore per sé, ma l’avrebbero acquistato  soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno  s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del  L.! — No, questi sono i detriti della sua poesia:  tutto ciò che la sua forza poetica non avvivò, non tra¬  sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigu¬  randolo nel suo canto e nella sua satira.   E produce davvero una strana impressione il proce¬  dimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel testo  certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio  di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,  in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il  perfetto fatto servire all’imperfetto; la poesia ridotta  a documento d’un suo documento!   Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia.  In un pensiero Leopardi s era  domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e  stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente  che artificiosa macchina e mole dei mondi? A che  serve, dunque, questo infinito e misterioso spettacolo  dell’esistenza e della vita delle cose », se « né resistenza  e vita nostra, né quella degli altri esseri giova veramente  nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo per noi l’esistenza, così nostra come universale,  scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine  dell’esistenza, anzi l’unica utilità che resistenza rechi a  quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e tutta la Idosofia  del Leopardi. Ma che significano queste sue interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo,  che, non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana  [ Zibald.,  Queste giunture frapposte alle parole del Leopardi sono del  Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi leggermente  il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e non vedendo, d’altronde,  che tal fine sia o possa mai esser raggiunto, egli, Giacomo  Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale possa  essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa costruzione e nella sua vasta armonia farebbe  pensare a un’ intima finalità. Qui non è affermata una  verità obbiettiva; è bensì manifestata la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente  espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza  che questo suo ondeggiare tra il concetto di una finalità  eudemonistica universale e il dubbio suUa validità di tal  concetto ha neU’animo suo; quando da questo suo per¬  petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento  filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli  sarà ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a confronto e conforto  di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello  che nelle note fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del canto.   E quando miro in cielo arder le stelle.   Dico fra me pensando:   A che tante facelle ?   Che fa l’aria infinita, e quel profondo  Infinito seren ? che vuol dir questa  Solitudine immensa? ed io che sono?   Cosi meco ragiono: e della stanza  Smisurata e superba,   E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti  D’ogni celeste, ogni terrena cosa.   Girando senza posa.   Per tornar sempre là donde son mosse;  Uso alcuno, alcun frutto  Indovinar non so.   Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio  che non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe neH’anima di  un poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante  faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande  commozione, com’ è noto, per Leopardi), e l’immensità  della solitudine attorno alla propria persona non dimen¬  ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia,  ma l’uomo Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che  gh desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al  dolore di lui che vi si sente dentro smarrito. C’ è anche,  innegabilmente, un dubbio filosofico : semphce dubbio  («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse  s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero  b mio pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi  nasce il dì natale); ma come elemento o momento della  lirica grande.   La pubblicazione dello Zibaldone, badiamo bene, è  stata, in fondo, una certa quale indelicatezza, che nessun  onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi, e che non  si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio  deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che scriva e stampi, pubblica soltanto  queUo che gli par compiuto secondo il fine a cui, più o  meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta non  beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.  Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua perso¬  nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene  appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo,  r interesse storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio, mediante la conoscenza più  larga che sia possibile della sua anima, bastano a giu¬  stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb    epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi  segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce  col credere che appartengano agli altri più che a se stesse.  Ma questa giustificazione non deve farci dimenticare che  gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle sue poesie, come  gli appunti provvisori del filosofo sono antecedenti spesso  superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni modo non  si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore  che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬  tano la conclusione definitiva del poeta e del filosofo.   Tutto questo, si potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna vedere  al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi di Gatti,  ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei ri¬  spondere con un altro discorso astratto, sostenendo che  è ben difficile che uno stesso genio possa essere insieme  poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività, che  la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma  penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre,  quasi costantemente mirabilissimo esempio dell’energia,  onde è capace lo spirito umano, di individualizzare e  stringere nella fantasia e nel sentimento di un’anima  singolarmente potente il sistema più intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della filosofia  ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre  perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico  di fantasmi che son pure astratti concetti: unità, che non  si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina  Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare  e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso generale  io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla quale per questo rispetto non credo si possa paragonare,  ma a distanza grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera,  come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta.   aver letto attentamente il saggio di Gatti. Libro, che  non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari  a concetti del Leopardi da uno studio così attento e  minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi  sono opportunamente istituiti tra pensieri del Leopardi  e luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e degli  altri autori del Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la  tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del Leopardi si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi  a dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato  che ci dà dei Pensieri leopardiani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa  meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate  riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono  il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non  più di questo. Il Leopardi lo ritroveremo sempre nel  disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amaris¬  simo e pur soave delle prose.   11 materialismo della sua metafisica, il sensismo della  sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono  nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti,  i motivi costanti del breve filosofare leoparebano : ma  sono spunti filosofici, anzi che principii d’un pensiero  sistematico; sono credenze d’uno spirito addolorato, anzi  che veri teoremi di un organismo speculativo. Le sue  pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬  vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci  come vedev^a le cose Giacomo Leopardi.   In lui non trovi né anche una critica della ragione,  come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi  somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni  contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e  principii di deduzioni pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai. Non studiò  nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e stu¬  dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬  siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬  sofia antica ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o  altri dossografi. Del Medio Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce  neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come Voltaire, non so¬  spettando in alcun modo la profondità del suo pensiero  Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano  allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma  la sua vera indole, quella che noi dobbiamo guardare  in lui, è r indole poetica, convinti che fuori della sua  poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica  edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette  in rilievo di contro alle conseguenze negative della sua  filosofia teoretica, non ha niente che vedere coll’odierna  filosofia prammatistica, a cui egli studiosamente la rac¬  costa, per dimostrare così la modernità del pensiero  leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello  scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto  sempre la vita alla scienza, e salvata almeno quella dal  naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la na¬  tura, ora col sentimento, ora con la volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come tale,  che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo  fondamentale. Leopardi ricorre all’ immaginazione e a  un certo qual senso dell’animo, che fan contrappeso agli  argomenti dolorosi della ragione e bastano a confortarci  a vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore del James e degli altri pram-  matisti d’oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà  abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono  nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica:  ma unificano le due attività, e immedesimano la verità  con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia  esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe credere,  secondo Leopardi, sarebbe né più né meno che un’ illu¬  sione. La differenza tra Leopardi e James è la differenza  profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo  prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente  dommatica e positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra  gh studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e  competenti interpreti del pensiero leopardiano; ma con  altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leg¬  gere al principio del suo libro le seguenti parole; «Fu  tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal Cantella,  di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri  dello Zibaldone leopardiano; con esito che non poteva  essere altro che infelice; quando si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito,  per lo spazio di circa quindici anni, da quando prima  il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo  cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno degli  argomenti principali che a suo tempo io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del  poeta, la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei  prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle  Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio  del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul va¬  lore e sull’ interesse dello Zibaldone.   Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce  netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta  com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin-  cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la visione  esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero leopardiano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima.  Cosi, quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo,  per la qualità stessa dell’autore; il quale sarebbe bensì  un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,  dominato interamente dal sentimento, e perciò di pensiero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli,  da una parte, esagera e àltera il mio giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta l’opera del L.;  e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬  bito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli  può consentire una ricostruzione storica non arbitra¬  riamente soggettiva, ma razionalmente giustificabile del  pensiero leopardiano. In primo luogo, non è esatto che io abbia negato o  voglia negare ogni interesse speculativo allo Zibaldone e  tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi sono  disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi  non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in  tutti i suoi gradi, che il problema speculativo, nei termini,  s’intende, in cui egli poteva e doveva porlo. Quel che  ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia del  pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse  negli scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto  di vista del L., fosse già pervenuto a quel punto  di maturità spirituale, di verità, in cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso volle  entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa  nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva  licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di  noi si prepara ai suoi lavori, e che, compiuti questi,  quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il succo,  si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle  note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano  venute correggendo e integrando in più logica compat¬  tezza ' ; 2) che si possa adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del tanto di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni dottrina sulla natura della poesia, basta  considerare le critiche profonde e ineluttabili, onde quella  verità fu superata da uno spirito, che ebbe inizialmente  una profonda simpatia congeniale col L., il Gioberti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione del Diario  sia stata un'indelicatezza, quando il Leopardi medesimo di questa  pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un indeli¬  catezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico di  pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del grand'uomo  che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a vene¬  rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue reliquie... ».  Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che scrissi io nella  Rass. bibl. tett. U.,  mi rincresce  di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬  mazione. La quale mirava soltanto a chiarire che dello Zibaldone non  ci si può servire se non come di documento della formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo per altro cercare  sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore, e pubblicò  egli stesso come sole degne di sé.  nel Gesuita e nella Protologia), in pagine che il Levi non  anteporrebbe di certo né pur a quelle dello Zibaldone.   L vero che « nei sistemi filosofici le parti più caduche  sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema ». Ma  ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬  mostra che è: perché gli errori di questo genere non si  scoiarono dal critico se non come errori della costruzione  del sistema, ossia come divergenze dalla costruzione che,  secondo lui, sarebbe più conforme alle verità fondamen¬  tali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse per  suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo  di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato  dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché  un giudizio che affermasse immediatamente : questo è  vero, e questo è falso, senza dimostrazione di sorta, non  credo che pel Levi sarebbe un giudizio per davvero.  E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non  è privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi  s’intende i filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti quelli che sono realmente  vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare, ecc.  Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos  intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie  rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da  una parte e dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di  Omero poeta e di Platone filosofo senza un concetto  del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia: le quali, come funzioni dello spirito, trascendono  la storia, che è la concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla filosofia come funzioni  trascendentali dello spirito si possono assegnare caratteri  distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto  tale non sarà della filosofia, e per converso.   Nella storia tutte le funzioni concorrono in un’unità  concreta, in cui il poeta, essendo anche filosofo, partecipa  del carattere dello spirito che è filosofia; e il filosofo,  essendo pure poeta, partecipa del carattere dello spirito  che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle  funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della storia, che fa essa stessa la divisione dei  grandi spiriti nelle due schiere dei poeti e dei filosofi,  secondo che negli uni prevale il momento poetico e negli  altri il momento filosofico; onde la distinzione e però  la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni  volta, funzioni di giudizio storico, concreto.   Perché il Leopardi va considerato come poeta, e  non come filosofo ? Perché, se conosco il Leopardi storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto,  io ci vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia  la vedo chiusa, compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che  egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e  poiché il suo occhio è tutto intento alla risonanza tutta  soggettiva, in cui vive per lui un certo, oscuro, vago e  frammentario concetto del mondo, la verità è per lui,  e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma nella vita di esso, in quella tale risonanza,  nella sua Urica. Beninteso che, per quanto oscuro, vago  e frammentario, quel concetto sarà pure un concetto,  che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente  alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta.  E non ci sono principii astratti ed estrastorici che pos¬  sano segnare a priori i limiti della filosoficità del concetto  che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non toglie che la  distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e che  non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a  volta, il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es-  senziaU ed assolute.  Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme  è in fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se  è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo nei poeti, di  cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di  più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare e cercare un’attività etica con un suo  senso determinato e costante ». Ond’egli si propone di  cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie egli giunse  alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬  giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬  verso Ebbene, tutto questo è molto vago perché  possa servire di criterio alla storia del pensiero di un  poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una sola  soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le  differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è in fondo venga su, e si manifesti,  e assuma così una forma storica determinata. E se è  suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  posto, com’ è necessario, che le suddette forme della  I grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più  d’una, oltre la suprema esigenza etica, ci saranno (dato  pure c non concesso che questa sia la radice di tutte)  altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia,  e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette  bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per  la sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un  ^ atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo : poiché   ; quest’atteggiamento o è un pensiero, o l’imphca; e questo   pensiero, dovendo essere una filosofia, non può non essere anche una poesia.  In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta, non è la   ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una metafisica,  I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del regno  soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del valore poetico  e del valore del contenuto filosofico della poesia, egli  non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro,  il problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira  quasi mai al giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma  si restringe a tracciare la linea di svolgimento del pensiero  che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto la sua  forma finale in una specie di individualismo romantico  corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò bensì  che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire  nel pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente  estetico, più che etico, di questa filosofia romantica a  cui egli aderisce: quantunque pur in questo concetto la  differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza,  qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa sistematicità, che è necessaria anche a una filosofia individualistica.   Il risultato degli studi del Levi, in breve, è questo.   Nel pensiero del Leopardi si devono distinguere due periodi; uno come di distruzione e dissoluzione dell’uomo,  l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo stesso;  il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !  mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo  periodo, e si aderge in tutta la sua grandezza, che è la j  sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza della sua p  infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso la fine |  del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo 1  Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a poco, nel J  gennaio 1824, quando il Leopardi pose mano alle Operette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- #  mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1  Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l  sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS  alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?.  e l’aver esposto definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri intorno alla virtù  e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone è il periodo  jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i  primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui  il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ri¬  trova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del suo  speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di  felicità, di bellezza e di grandezza ». La riflessione, in  questo periodo, che comincia intorno al ’20, si stringe  addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito  leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode  e distrugge. Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ?  e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo spi¬  rito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello  spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane  pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la  loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende  in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta  nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una espressione  ingenua della verità disconosciuta: espressione, che ferma  giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa  segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo  dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere  interpretata alla stregua del difettoso concetto che  egli ha delle attinenze della poesia con la filosofia,  e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione del  secondo periodo.   11 Leopardi, il 27 novembre 1823, scriveva nel suo  Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza  dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede  neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente  quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama    Storia, anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò  per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né ac¬  cresce il suo amor proprio. Nel totale e sotto il più  dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione  inversa della forza propriamente corporale.... La vita è  il sentimento dell’esistenza. — La materia (cioè quella  parte delle cose e dell’uomo che noi più pecuharmente  chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può  esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente  coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è  capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il Leopardi chiama sen¬  timento vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi,   « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : « Di qui  innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli ha  avuto cura di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’ e  ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo  bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato  e il falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei  romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé e rispetto  all’uomo in generale, egli ha fermato con suffi¬  ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di  natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio  del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la  sua interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario  c’ è la coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il  concetto) di questa coscienza; il Leopardi sente la pro¬  pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli esseri  inferiori, e la propria grandezza come Leopardi sugli  uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non  pone mente che egli è grande, non perché infelice, ma  perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser  cuo nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore,  e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun patto  asserire che possegga la nozione della propria natura spi¬  rituale e della propria dignità di contro alla natura. Infatti  il possederla praticamente (e soltanto praticamente)  come vuole il Levi, che significa se non che non la pos¬  siede come nozione, bensì con quella immediatezza onde   10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza  di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto della sua poesia (attualità  reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché sarebbe  risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od  oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria  sulla natura, come opposizione e limite dello spirito, e  quindi sorgente dell’ infelicità.   Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col con¬  cetto del valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬  fonda ripugnanza che prova il L., — pur quando  intravvede nella vivacità stessa della sua spiritualità  l’essenza propria del reale, che è sentimento, com’egli  s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà che  non ha posto nella visione pessimistica del mondo in  cui si chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle  circonlocuzioni « quella parte dell’uomo che noi chia¬  miamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la patente documentazione del fatto, che il Leopardi non si  solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo  concetto si fosse rivelato comunque alla sua mente, con  tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei  sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici »,  con tutto « il suo bisogno di concretezza », come avrebbe  potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che   11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non  è materia, e che la presunta concretezza della materia  come tale non è altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota altrimenti che pel senti¬  mento che ne ha il vivente ?   Orbene questa contraddizione intrinseca tra il senti¬  mento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza, e  il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della  nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fa¬  talità assoluta del dolore, questa è la grande situazione  poetica del Leopardi rappresentata così splendidamente  dal De Sanctis nel saggio sullo Schopenhauer » : « L. produce l’effetto contrario a quello che si propone.  Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede  alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore,  la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio  inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore;  e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al suo  cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede  possibile un avvenire men tristo per la patria comune,  ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma  a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la  sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita ».  Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto  e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua  poesia: ma non perviene mai a distinta coscienza degli  opposti motivi che vi concorrono senza scoppiare dentro  il contenuto (astrattamente considerato come filosofia) in  manifesta contraddizione logica, come avviene nella  Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so.  Certo, la forma leopardiana si regge sull’equilibrio di  questi opposti motivi, che sono la personalità del poeta  e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si mantiene  perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo,    ‘ Saggi critici,     à  nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo tipico,  nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica  nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove,  appena vi si contrapponga, come parte di contenuto (che  qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto al¬  l'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare  l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per  interpretare il Leopardi, non vedo abbia chiara coscienza;  e però scambia la forma col contenuto dell’arte leopar¬  diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a lui  d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima,  e cioè la poesia del Leopardi.   Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra alla storia  della concezione storica del pessimismo, quale si disegna  già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza  e della filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso   10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua espressione  nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un  vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo,  Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo  periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il  Leopardi comincia ad acquistare della propria grandezza  dopo la dimora che fa in Roma: coscienza culminante da ultimo, in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano  intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza....  E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale  sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più  capaci della conoscenza, e del sentimento della propria  piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui    ' Zibald.] pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della  Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un  Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note  sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo  dall’uomo il Leopardi ritrae la causa del dolore universale  nella natura; alla concezione storica del pessimismo sottentra quella cosmica; ma di fronte alla natura ineso¬  rabile artefice del nostro doloroso destino e imperscruta¬  bile prosecutricc di fini divergenti dai fini dell’uomo  s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:  dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo,  e pur creatore del suo valore nel virile disdegno d’ogni  illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nel¬  l’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore.  Onde il Leopardi acquista una serenità, una sicurezza  ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima  sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo.  Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione del Levi, il suo modo d’intendere questa forma  suprema dello spirito leopardiano.   Ma contro questa interpretazione vedo due princijiali  difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre con  qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere  interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i  documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che  riguarda l’individualità dell’uomo, che in questo secondo  periodo starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria  dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la designazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e magnanime », che vengono a provare  « piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine »,  comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto  il L.: ma non come individuo che crea se stesso,  col suo valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo.    che può nello spirito vincere l’avversa natura e toccare  (juindi la beatitudine da questa contesagli ; ma è l’im-  niediata condizione spirituale del Poeta, la cui serenità  estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il dolore.  11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di  ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura  dell’universo, e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della  beatitudine che spira intorno al nume, figliuolo di Venere  celeste, non v’ è giustificazione, né quindi concetto.  « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili  a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla  consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per  questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né  potendo essere vietato dalla Verità, quantunque ini-  micissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è l’anima  che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come  concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce  serenità che si diffonde per tutta la prosa: ossia la forma,  la poe.sia, non il contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬  pardiano.   Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella individualità che il Levi vede nelle varie  prose al di sopra del pessimismo cosmico, fino a Tristano  che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo  al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri  uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione:   « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni  cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta  credo fermamente che non sia desiderata al mondo se  non da pochissimi. In altri tempi ho invidiato.... quelli  che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri  mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio  più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con  loro mi cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura,  perché e come potrà farsi una caratteristica del secondo  periodo se nel primo periodo resta, per esempio,  il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che  guerreggia teco   Guerra mortale, eterna, o fato indegno;   e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge  magnanimo contro i numi e l’empia sorte, e, conscio  della propria grandezza al di sopra del « velo indegno »,  emenda il crudo fallo del cieco dispensator dei casi ?   Però credo che nell’esame dei canti del secondo pe¬  riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e  suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più  d’una volta tormentata affinché risponda docilmente ai  preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬  mento sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su tutto,  e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non  ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il  Leopardi canta:   Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni;   Sopire in me gli affanni  L’ingenita virtù.   Non l’annullàr, non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L'infausta verità . . .   Pur sento in me rivivere  Gl’ inganni aperti e noti;   E de’ suoi proprii moti  Si maraviglia il sen.   la chiave, l’intonazione della poesia è in questo mera-  vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento dell’ ingenita  virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché tale.   j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità  della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza,  perché meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia,  questo stupore innanzi al subito rianimarsi del mondo  al risorgere del vecchio cuore, la poesia è svanita.   Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se stesso,  secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,  disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬  soluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi ;   Non vai cosa nessuna  I moti tuoi, né di .so.spiri è degna  La terra. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.   Ma dov’ è qui la solitudine della grandezza, se il Leo¬  pardi vi nega ogni finalità ai moti stessi del cuore, se  cioè non crede che il cuore possa aspirare a nulla, e tutti  i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco sotto  r immane fatalità ?   Infine : « La Ginestra », dice il Levi, « è da taluni,  non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo conte¬  nuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me sembra una cosa grande, anche per quella  maschia e dantesca sprezzatura, onde il poeta non rifugge,  per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere la sua  melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in  versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno  all’ immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo,  eppoi la straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬  viane. La bellezza di questa nasce da cosa molto più  alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è l’in¬  tensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e  la potenza di una personalità, che si colloca di fronte  alla natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene opprimere ». —    Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande  per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la  poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬  menti che interrompono davvero la poesia, il Leopardi,  mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo la  sua poesia; dato che la grandezza della poesia non possa  essere altro die il carattere eccellente di una poesia,  tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e  tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persua¬  dere ad esaltare la Ginestra per il suo contenuto morale;  poiché questa parte appunto (oltre che la polemica contro  la filosofia del secolo XIX e contro il Mamiani) è quella  in cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia;  ma mi pare anche un errore staccare la bellezza delle  meditazioni sul contrasto tra la grandezza sterminata  dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della  descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di  tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le  altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la bellezza della ginestra, del fior gentile, immagine del Leo¬  pardi, che, mentre tutto intorno una mina involve,   al cielo   Di dolcis.simo odor manda un profumo.   Che il deserto consola:   l'espressione più delicata della divina poesia leojìardiana.  E dove il Levi afferma con intenzione, che la bellezza  non so se della descrizione delle eruzioni vesuviane o se  di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta che  non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina  estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò  che egli mostra di non aver forse compreso che s’intende  in questa dottrina per espressione : perché l’intensità  tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso  dalla espressione, se di questa intensità tragica intende    parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espres¬  sione va cercata nell’atteggiamento individuale che lo  spirito assume di fronte a una certa materia, e questa,  quindi, in lui.   Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte  alla natura.... senza lasciarsene opprimere ? — Qui sa¬  rebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra  non supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo,  non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph-  cherebbe indarno al futuro oppressore. Non c’ è, dunque,  né pur qui, l’individuo che si contrappone alla crudel  possanza, ma la serenità pacata della coscienza della  sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che  affermazione romantica dell’umana personalità.   In conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la  poesia leopardiana si sottrae e repugna, per richiudersi  sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos lirico.   ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con alcune  osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente  lettera :    Egregio Professore,   Mi par difficile discutere delle interpretazioni parti¬  colari di questa o quella poesia o altro documento del  pensiero leopardiano senza rimettere in discussione il  concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro.  Perché le mie osservazioni singole non miravano a con¬  futare singole opinioni e determinati giudizi, né a mo¬  strare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a far vedere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con  cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono leggere nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle  mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire  r intento generale e il significato complessivo del mio  articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel luogo  citato dello Zibaldone con vita o sentimento  dell’esistenza H L. intenda la coscienza,   10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto,  della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale,  in quanto parte di una generale intuizione del mondo,  era ciò di cui Ella aveva bisogno per cominciare a vedere  nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana.  Con ciò io non dovevo attribuire al L. soltanto   11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa  dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un  senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari  un concetto, che però non era un vero concetto, della  coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza, ma  non la pensa; sicché per lui pensatore questa coscienza  è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che « praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale,  egli ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di  ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità ».  Il senso della spiritualità e della dignità spirituale di sé  e dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo  essere non il contenuto (la filosofia, il concetto) della  poesia leopardiana, ma la forma (la poesia, la lirica,  l’espressione della personalità del poeta, superiore alla  sua filosofia).   Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda infelice  perché grande, piuttosto che grande jierché infelice.  Ma questo non ha che vedere con la mia osservazione  che, se egli avesse avuto il concetto della coscienza,  avrebbe veduto la propria grandezza in un grado spiri¬  tuale che è al di sopra del dolore e della infelicità. La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza  vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del  dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬  sione sub specie aeterni del dolore stesso, non può non  liberare da esso il soggetto. Nel Dialogo della Natura e  di un Anima il Leopardi, phi che far dipendere l’infe¬  licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra. L’Anima  domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬  naria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando  sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una  dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle anime degli  uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi  di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi  il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa  maggiore intensione della loro vita; la qual cosa im¬  porta maggior sentimento dell’ infelicità propria ; che è  come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove è chiaro  che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè  eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale  in quanto è sentimento di essa, cioè quella vita, nella  cui intensione consiste l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare la propria  grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non avrebbe  fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la nozione della vera realtà spirituale,  che in lui spontaneamente s’afferma quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i « mag¬  giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi  annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori, e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con  altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al  mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è quel dolore impietrato, di cui io parlavo come  dell’unica forma possibile del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza, e quindi di  quella vita del dolore che non è più dolore nella vita  dello spirito il Leopardi non ha coscienza.   E però il contrasto interiore che io vedo nella poesia  del Leopardi è identico a quello che ci vedeva il De Sanctis,  anche se, nel passo citato da me, rappresentato da un  solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della  personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni sostanzialità spirituale, propria del con¬  tenuto della sua poesia.   Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto  che il primo periodo citato da me sia ; « E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole precedenti erano state  pur da me riferite immediatamente prima fino a  Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né  piega il capo al destino, né viene seco a patti, come fanno  gli altri uomini » Ma queste parole non potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce  il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dia¬  logo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella dice, della propria per¬  sona empirica; perché la morte, pel Leopardi, non di¬  strugge soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere  dell’ mdividuo.  Mi piace ricordare la felice osservazione di Sanctis {Studio  sul Leopardi). Leopardi ha la forza di sottoporrei  il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fab¬  bricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche  la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e  fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e  appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare]  Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono  stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del  poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella  contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina  la faccia. Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra  ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e  Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma  la si attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬  siero di suicidio, non occorre negarla per non vedere  né anche nei componimenti più tardi quella coscienza  jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.  ^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a  scorgere, « quella robusta fede nella grandezza umana,  riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a se  stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice  che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo,  in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né  di ritenerla né di lasciarla ». E, se non m’inganno, la  nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della tol¬  lerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni  sono bensì la critica del pessimismo materialistico del  Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, baste¬  vole a conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa  che gli è propria, e sono veramente l’opposto di quella  affermazione dell’ individualità dello spirito, di cui si va  in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione e  della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni;  0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno;  non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima  di addolorare colla uccisione propria gli amici e i do¬  mestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante  di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso  non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca  se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro  alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto  che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il  più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men  liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo».  Se prendessimo atto di questa critica del suicidio — che.  risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come  effusione di stati immediati deU’animo, ma non come  filosofìa — che filosofia diverrebbe questa del Poeta che  ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo  sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo  all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera del  piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte,  senza questa contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta  è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr.  la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione intima  di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia  del commovente dialogo ?   Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento posso  sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba  intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giu¬  dizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto  persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle  domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi  ridesta ? Che virtù nova è questa ?... Chi mi ridona il  piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ;   Da te, mio cor, quest’ultimo  Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto mio  Solo da te mi vien;   ed è vero che nella quartina precedente l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione del problema, in cui consiste la  poesia : l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vec¬  chio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta la  poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha  certamente nel correggere il significato da me attribuito ‘   In un periodo ora non più ristampato dello scritto precedente.     agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la  correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla tesi dell’affermazione della propria grandezza,  gi a quella del grido della disperazione, comune a quasi  tutta la poesia leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia-  luato, della personahtà del Poeta che non si lascia opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna  vedere quanto questo motivo sia attenuato qui dall’umile  coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua. Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato  e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver  le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e  sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli  uomini fra sé confederati, e nella poesia consolatrice che,  commiserando i danni altrui, manda al cielo, come la  ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che consola  il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo  innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla alla gentilezza  del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante,  né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente  cantata dal Leopardi.   Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere  chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬  diani; e io voglio sperare che questa discussione possa  invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose del nostro  grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non  staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di  nuove ricerche. Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof. Bertacchi >  si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di  Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme unità  gli elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le  feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di mcn ;  triste ricorre neUe pagine del Nostro; quanto di attivo  e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j   mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^  se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la '  cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j  strare tutti gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1   leopardiana. 1;   Elementi che non mancano certamente nella detta 'i  poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del suo j  pessimismo, come già osservava sessant’anm fa il De San- '  ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che allo  stesso concetto aveva accennato un ventennio prima *  Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); ,  e conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I  solato pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. |  E molti studi diligentissimi furono fatti in questo senso i  da Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano t  rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J  direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il ,  carattere dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l  timismo edonistico od estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft   vita-. Sag^o leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna, /a  nichelli, igi?-    stratto e superficiale può vedere in alcuni aspetti della  sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi è  la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della  lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come  egli le chiama, a cui non trova posto nel mondo, guar¬  dato come cieco crudele meccanismo naturale; ma che  non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più  vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo purificato e rasserenato in questa  intuizione schiettamente spiritualistica. La quale, d’altra  parte, non a\Tebbe il suo proprio particolar significato,  disgiunta dalla negazione pessimistica della vita dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il  contenuto. In questa contraddizione intima tra la natura  cattiva e lo spirito buono che in sé accoglie la visione  di cotesta natura, consiste proprio la radice, da cui trae  alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender la  quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro  dei due elementi contradittorii.   11 Bertacchi invece crede di poter quasi cogliere  in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬  lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia  il Poeta in rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro  ai suoi canti una sensazione di letizia; per modo che,  contro r intenzione del Poeta, la sua poesia tratto tratto  scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata dal¬  l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia  una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur  seppe attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far  sentire il bello e il sereno di natura; vita ravvisare e  creare le fide corrispondenze con essa », e poi « l’uscirle  incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impre¬  gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o  contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di  atteggiamenti e di modi, circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso sensibile le conchiusioni jiiù nostre  e i significati inattesi » ecc., e il Poeta studiato « ne’ suoi  fedeli commerci con la natura esteriore » apparirebbe  maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia  e ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma  la vita di cui sarebbe maestro il Leopardi è una vita di  piacere | del piacere procurato dalla intuizione estetica  della natura.   Tesi in parte ingenua e oziosa, in parte falsa. Perché  se si volesse dire soltanto che il Leopardi insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar vita  estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma  così del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta;  e non c’ è nessun bisogno di dimostrare questa tautologia,  che un’opera d’arte, qualunque essa sia, è rappresenta¬  zione estetica; e quel che può avere un interesse e un  significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo  un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la pretesa d’indicare attraverso questo  vagheggiamento fantastico della bella natura una vita  diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che questi  ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra  squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne  accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce  di questa s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto  erronea; e giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi  candidamente esposto fin dalla prima pagina del suo  libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.   Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che  l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche  per il modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno  di noi », poiché « spesso dalla parola d’un autore, acco-  r   stata alle anime nostre, si svolgono sensi ulteriori che  l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e le  somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare....  Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di  significazioni e di uffici ». Sicché il Leopardi maestro di  vita è il L. dei sensi ulteriori e non il L. storico; il Leopardi creato più che il creatore: creato,  s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una  volta sul punto di creare, non è più legato da nessuno  dei vincoli onde ogni critico e storico è legato alle opere  che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti  leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti  soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma-  I gine del maestro di vita che desidera raffigurare.   Così comincerà con lo scartare le prose ; perché « nella  voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore sinistro  svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio  di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;  «egh non suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬  zione a quella sua logica amara ». E il Bertacchi vuol  dire che lì c’ è il pensiero del Leopardi, e non c’ è la na¬  tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che  non è poi vero, se si considerano almeno la Storia del  genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese,  La Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel  Bertacchi le Operette morali sono filosofia e non poesia.  — Da scartare poi le poesie in cui il Poeta «trasferisce  nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar  musicale, dalle pur rare imagini che infiorano il discorso  qua e là ». E con questi caratteri il Bertacchi non si pe¬  rita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli, la Palinodia  ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.  Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella  donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! — Scartate, almeno questa volta, le  poesie in cui il Leopardi parla bensì diretto al nostro  cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma can¬  tando se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna  ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal  caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora  in sé in quanto essa gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso ». —  Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento  di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vinci¬  tore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si  resta, sebbene con ampiezza maggiore  nell’ordine  voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima  al cospetto della natura: «vive con la natura, o almeno,  nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena ».   Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può  spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi ulteriori.  Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi  in cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta,  sono sempre evocati nei loro aspetti più belli ; soleg¬  giati sono i suoi giorni; le sue notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in  un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro,  riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina,  attraversata dal sole che entro vi trema sorgendo».  E questa presenza della natura « non è senza effetto per  noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro  ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o  le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano  terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole,  seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella  natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il contrasto  che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non  possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel  sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e  festi in noi quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il poeta  vi associa, congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante  visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi si  raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà avver-  t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana,  un senso ulteriore, che il Leopardi non ci mise (come  il Dante della novella sacchettiana), ma non ha più niente  che vedere colla poesia del L. E dove pare si  accenni a un giudizio critico, non può essere altro che  una vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore.   Così il Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio  e nella Quiete dopo la tempesta « il poeta ha compromesso  il filosofo versandoci con troppa pienezza nel cuore  tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un  errore, perché tutta quella poesia traboccante è l’incar¬  nazione deU’ idea stessa del filosofo, che nel Sabato non  si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette è  il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman  tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la  rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la  gioia d’una speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità della fanciullezza ma non  quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo  già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬  guate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna  non vedere questa pietosa malinconia, che prorompe da  ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica donzelletta  tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole, cioè  chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un  dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende  la mano al filosofo. O. c., p. IO.  Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1 altro La vtla,  solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza, la¬  sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere  a queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬  spensione fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia  perplesso sul proprio stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \  luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente il  piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del  proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,  ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria  fluttua soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e  la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del poeta,  e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c  solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto,  che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri  lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,   alla reina FeUcità servi, o natura »).   Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in  cui propriamente il Bertacchi affisi la poesia del L. invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.   Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo  per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poe¬  ta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra,  riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione  di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima  nostra, non afflitta da quelle cagioni, lascino pure qualcosa  della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa  e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e  j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come sorte da noi, alle sensazioni già  nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano, troppo  umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la  poesia, per dir la verità, non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del Ber-  tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed  a noi, godendo e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della complessa sua  opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa di  vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne  siano gli aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui, che era in se stessa, per lui,  elemento e ahmento di vita ». « Quelle mitologie che, sia  pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi la  visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura  d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme  all’ inconscio e aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa  la fanciullezza dei singoli, la giovinezza dei popoli ».  «Momenti e motivi reali, più che di pura idea, sono que’  tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi  di canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad  avvolgere in aura di poesia.... i temi son temi e temi  che, comunque, ci attestano come la stessa malia delle  sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio indugiar  sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri » ».   Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi  ama troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove  forse i sensi ulteriori gli soccorrono più lenti alla fan¬  tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi  liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle  notti medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di  noi certamente, in qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi in cuore un’eco  di quei canti stellati, e ripensando al poeta congiunto  da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli  è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi  di oratoria ritmica ; alla quale potranno non mancare  gli ammiratori; ma in cui non direi che sia ricreato i]  L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio che  quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture leopardiane che il Comitato della  Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso quella Università;  nella cui Aula Magna questo discorso venne pronunaiato il 13 feb¬  braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia. A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di  letture leopardiane c’ è da essere assaliti da un certo  sgomento, per la responsabilità che si assume. E ciò  per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si rajjpresenta generalmente come un maestro di  pessimismo; ed alzare una cattedra a illustrazione del  suo pensiero e della sua poesia può parere perciò tutt’altro  che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a  vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬  cismo e di allargare il petto ad energici sentimenti di  fiducia nelle proprie forze e ad alte convinzioni di fede  nella vita che è chiamato a vivere. Oggi sopra tutto,  che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di grandi  doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare  nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella  educazione della gioventù a maschi propositi e metodi  di vita l’antica fibra del carattere nazionale. E sarebbe  questo il momento di diffondere nei giovani e nel popolo  gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia  non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa  vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?   Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo  confesso, non turba tanto l’animo mio quanto l’altro  che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella istitu¬  zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una  elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene  che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiam¬  mato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e negl’ ideali  che fanno degna e feconda la vita umana degl individui  e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬  mento di letture pel pubbhco, diventi anche lui materia  di quel malfamato genere letterario che troppo è stato  coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi  delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto  il suo tempo, e potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬  tudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’ Italiani si  persuadano che, se si vuol far davvero, e stare tra le  grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile,  realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla  testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e  morale, bisogna romperla col passato. Dico col jiassato  dell’accademia e della «letteratura», dei sonetti e delle  cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e  colti signori in cerca di onesti passatempi, più o meno  noiosi; in cui ogni argomento era buono purché legger¬  mente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato  con oratoria adatta a mover gli affetti e guadagnare  gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né ascoltatori  debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o  di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con  tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice  o si apiilaudisce, conseguenze che siano norme di con¬  dotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si  dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona  fede, e anche in mala fede, compiono un’azione e si pre¬  parano a compierne altre; e non vuol essere una predica,  che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che  nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio,  nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno   Si    ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con   è venuto alla conferenza.   Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si sviluppò  durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne  fuori il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬  damente per tutto il suolo del bel Paese, tutte quelle  accademie dai nomi strani e burleschi che attestavano  es«i stessi la frivolezza dei propositi e la spensieratezza  jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano; accademie,  che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia dalla  nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬  stono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti  nioderni e alla storia, e vivacchiano oscuramente sul  margine dei bilanci dello Stato nelle provincie e anche  nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a danno  delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬  cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime  e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso,  morale, filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filo¬  sofia alla moda, erudizione per l’erudizione, scienza per  la scienza, nessuna fiassione, né anche nella letteratura  politica, che legasse il pensiero alla persona e la persona  al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo  non era cittadino della sua patria, né padre della sua  famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito  innamorato di astratte forme, senza attinenza con la  pratica della vita e con la realtà degl’ interessi personali.  Cultura intellettualistica, di cervelli magari pieni zeppi  di notizie peregrine e di squisite nozioni e raffinatezze  di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori.  Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,  cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini  proni alla frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad  ogni alto e generoso sentimento e ad ogni idea la cui  attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile, MaiXrZoni e L..  Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana  nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^  risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella  cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri  ha cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo  e che poesia, come ogni altra forma d’ingegno, vuoi  dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa che  j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra  le genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe  stata una creazione effimera ed insignificante senza gl;  Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a unire  e a fondere insieme quel che avevan sempre diviso, l’in.  teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la scienza  e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola  finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica  e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il  dire e altro è il fare », per cominciare a prender sul serio  tutto, a lavorare tenacemente, a sentire come proprio  r interesse comune, a stringere la propria sorte a quella  della patria, a sentirla perciò questa patria come intima  a sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei  si muoia ? Chi non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori  si doveva pur rifare di dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma  venuto meno lo slancio morale di quell’età eroica, tale  aspirazione si attenuò e fu meno sentita; e nei riposati  tempi di pace e di raccoglimento succeduti al periodo  agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,  certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla;  nel rifiorire della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del secolo scorso, in cui  r Italia parve godersi le prospere condizioni acquistate  con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed  elegante; e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu imitato  jn tutte le principali città, e i conferenzieri più brillanti  f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando  j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro  pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva,  del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato.  Perché a certe conferenze, con certi nomi, di dire che  l’ora é lunga a passare pochi hanno il coraggio.   L. non può esser materia di conferenze. Vi si  ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i luoghi solinghi e i silenzi della notte  dove il suo canto possa spandersi in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito; dove  il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a  fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi  segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità  del suo spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e orgoglioso  della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e far  suonare la sua voce esile e tremante di commozione in  mezzo a un numeroso uditorio distratto e proclive a  mondani pensieri e a cure di frivola oziosità o di vanità  letteraria.   No, quanti amano il Poeta, non tollereranno che  anche L. venga alle mani dei pedanti, dei letterati,  dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto di  vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi  che fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla  sua vita con vigilante coscienza morale. E io inizio questo  corso formulando il voto e, per cyuanto è da me, fermando  il programma, che qui sia sempre vivo e presente  L. poeta, che è il L. degli uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap.  passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples.  sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per  la furia con cui nella età più giovanile si gettò sugli studi  per puro amore di sapere. Per molti anni aspirò, finché  la perduta salute e la vista indebohta non gli ebbero  create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo  consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia  degli accademici, fu anche lui studiosissimo, ancorché  ironicamente guardasse dall’alto, per la coscienza che  ebbe del suo più squisito gusto e della sua più perfetta  dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma  la sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella  letteratura. Se ne servì come di strumenti a vedere e  sentire più addentro nel proprio animo, e di grado in  grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la prova  più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse  sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando  la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e  sull’anima umana, indagando i destini dei mortali e le  forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel suo iiensiero  la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il suo  pensiero è una continua, commossa meditazione su se  stesso, in forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge agli interni occhi  trepidanti.   Leopardi, con diversa temperie spirituale e cultura  diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio di  quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e  ne sente il valore e la serietà; profondamente differente  da quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti  italiani cominciarono ad accorgersi che nella stessa poesia  c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo; l’uomo, che è legaio    da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita    a una divina realtà, governata da leggi che domano e  annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una  realtà, in cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo  da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire e  jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni sua azione,  ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sen¬  timento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello  jella morte. Anche Leopardi, razionalista e irrisore di  superstizioni e di dommi, è uno spirito profondamente  religioso, sempre faccia a faccia del destino: incapace di  abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di  prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso  è sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si  scorge il pacato accoramento dell’uomo che non riesce  a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso  dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in particolare, si sforza di vincere il dolore. Per  questa sua costituzionale religiosità Leopardi non fu  soltanto un poeta, ma fu anche un filosofo, allo stesso  titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam  così, di professione, ai filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi risponderanno che  Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee  speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti  più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta personale, perché non furono fecon¬  date da una sua speciale ispirazione. Accettò, riecheggiò,  Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo,  ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità. In una storia della filosofia ei perciò non può trovar  posto; quantunque di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura filosofica della  prima metà del secolo passato. In questo senso, d’accordo, Leopardi non fu un filosofo.   Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare della  filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei  filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare  tutti gli uomini, e non essere una malinconica fantasti¬  cheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello  per cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh che,  senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove  sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno  prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e  forza dello spirito, in cerca di risposta a domande che  sorgono spontanee dal fondo della loro anima, insistenti,  invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere e  far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa  intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da  cui sono senza tregua assillati. Giacché, insomma, la filo¬  sofia, come la poesia, non è privilegio né monopoho dei  pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo  spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,  c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto  nelle esteriorità da non portare in tutto l’accento, per  quanto leggiero, della sua personalità; e c’ è chi si ripiega  e raccoglie in sé, e dentro di sé cerca, trova e coltiva il  germe della sua vita e del suo mondo.   In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi  fu squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con  gli occhi intenti, ansiosi, sopra il mistero della vita, quale  ad ogni uomo che sente e che pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi  passioni svariate che gli tumultuano incessantemente  pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può vivere  così spensierato e abbandonato all’ istinto da non av¬  vertire che la sua vita non scorre tranquilla com’acqua  sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli  da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora  appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la  gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge in  mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie  e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni,  giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire  totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della  sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue  labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e an¬  nientando intorno a noi tante delle nostre persone care,  con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro  ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa  morte ? e che questa vita che precipita fatalmente nella  morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di non  arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una  tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie,  ci priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille osta¬  coli. ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci  concede tregua finché non ci abbatta per sempre ? Nascere  è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede  sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre  più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più  aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti  0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura, del  destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per  soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la no¬  stra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men  difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire;  salire sempre; da un gradino all’altro: sempre più  senza fermarsi mai.   Ma, appena l’uomo che ha un cuore, sente quest  affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la catastrofe”  non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta ché  par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz.  sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi  confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa  per conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita  sua, quale ei la vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia  mette in moto la sua attività; e se egli non debba aprire  gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco inesorabile  della natura, granello di polvere sperduto nel turbine, o  ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato  movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i]  quale ogni sforzo di volontà non può essere, esso mede¬  simo, al pari delle idee e dei sentimenti che lo solleci¬  tano, se non un necessario effetto di una causa necessaria  predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui  si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa  neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi  dentro di esso, tutt’uno con tutte le altre cose, anche  noi mossi dalla forza irresistibile del destino ? 0 siamo  noi veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto  mondo, modificarlo con la nostra opera, con la nostra  volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo  naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬  stro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia  la norma del bene e di un mondo spirituale dotato di  un valore assoluto ? E se non fosse possibile questo  mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male,  e c è una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe  pensare lo stesso mondo inferiore e quella natura spie¬  tata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui afferma¬  zione implica che si ritenga vera? E se a questo mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello  spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^ contrario, se ne contrappone un altro che è  la nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere  che sia libera la natura umana, circondata e condizio¬  nata da una natura che è l’opposto della hbertà ?   Pensieri, che il filosofo più esperto mette in formule  stringenti, e scruta a fondo; ma che confusamente, e  non perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni  umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di cui ogni uomo ha bisogno per non  fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un passo senza  credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta  innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona  per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi,  e gli manchi del tutto, allora non gli resta che rifugiarsi  nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno  invece sentì mai cosi acutamente come il nostro Leo¬  pardi. nessuno vi pensò mai con tanta insistenza, e ne  trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il Leopardi  se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta  in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni  filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero  al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua persona,  lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui  \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La sua concezione  della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche idee,  ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma  della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in  accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e del sapere  speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e  si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e viverne anche, ma elevandosi  sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi, cioè  svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente  della sua individualità, in guisa da parere che non senta  più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta  nella contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia,  lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo stringe a se stesso,  e lo fa vedere immediatamente così come esso è, dentro  di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel  brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere  e nel suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato,  riflesso, ragionato e disindividuato. Lo scienziato cerca  e trova la verità che è di tutti, astrattamente obbiettiva,  in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi  umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa;  e il poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso:  l'amore o qual’altra passione gli detta dentro le parole  in cui egli si esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello spirito poetico è il segreto della miracolosa  potenza della poesia, raffigurata dagli antichi nella virtù  incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che  solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda  anch’essa cultura e finezza spirituale, risultato di studio  e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e delle  moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non  per virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino  miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte  è senza paragone superiore a quella della filosofia.   Perciò quella filosofia, che fu nel Leopardi sentimento  e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente  maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si  chiudesse nel gretto circolo di una concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di educatori del popolo italiano erigere qui una  cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi,  per raggiungere la loro verità, devono salire l’erta faticosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per solito  in una solitudine magnanima, anche a malgrado della  moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti  si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche  lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si  scopre ». Leopardi è tra essi; ma materia del suo  canto è la sua filosofia.  E qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ?  Quello che abbiamo già detto dei problemi filosofici, che  spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero umano,  ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei  problemi martellò il suo pensiero; e di quei problemi  vagheggiò soluzioni, che scossero profondamente il suo  animo. E sono i problemi fondamentah o massimi della  filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno  di assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile  per vivere: la fede nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo  giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi un  suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi  ideali e non dibattersi vanamente in una rete di illusioni  e di sforzi infecondi. Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬  sofia materiahstica, evidentemente, è una filosofia fallita;  la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse da  ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come  ho detto, al suicidio.  Ora Giacomo Leopardi, ogni volta che si trovò a fare  di proposito una professione di fede, fu esplicito nel  manifestare la sua adesione alla filosofia sensualistica e  materialistica; e il Frammento apocrifo  di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è  una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per  altro, si ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti  in prosa e in verso. Poiché da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata nel  Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa  e non si cura dei desiderii né delle sofferenze umane;  natura grande, enorme, infinita, la quale racchiude in  sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende di  contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle  proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una  vita bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere  in concorrenza della dura, quadrata realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni  umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale  delle leggi di natura: dove non c’è bene né male, ma  tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa  che lo determina, non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva  da un principio autonomo, che si faccia centro di una  vita superiore e indipendente, avente in sé la propria  misura, ma è effetto del generale meccanismo, che si  abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in  conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a riflettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni ma¬  terialistiche : uno proprio degh spiriti poco sensibih, che,  raggiunte quelle conclusioni, vi si rassegnano: le trovano  inevitabili, e si fanno un dovere, il cui adempimento  non costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione  di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se  non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore  e la manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro,  e vi si ribellano con tutta la forza del loro sentimento,  che ò come dire della loro stessa personalità. I secondi  non riescono ad affisarsi tanto nella visione di quella  natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬  fatto di queste esigenze, e cioè della lor propria natura.  Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da questo  stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare  l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto  vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una  parte, la natura disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬  lumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra,  questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde dentro  di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano  e vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di  una affermazione, in cui lo spirito umano manifesta la  fede che ha nelle proprie forze e nella propria capacità  di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al primo  in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì  di fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale,  meccanica, chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello  spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di  attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra.  E per ammettere questa, bisogna ammettere prima quella ;  senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si  chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà.  Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero,  con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride  alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose  belle e buone, a cui il nostro cuore tende con irresistibile  slancio ? E come spiegar l’ali, onde noi vorremmo in-  nalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul  muro di bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ?   Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa,  che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo materialistico;  ed essa è il reale contenuto della poesia leopardiana:  quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho detto  esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non  si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché  la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il  cuore, è la negazione del materialismo; e poi perché egli  è un poeta, e come ogni poeta crede nel suo mondo, lo  prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più  luminosa della sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali  dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo  religioso, lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà  che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca scientifica,  alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in sé  quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo deve arren¬  dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente,  celebra la sua assoluta libertà, arbitro della nuova realtà  che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria:  sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga a  orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e  del divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬  pidante tenerezza per le vaghe immagini figlie dell’arte  sua: per quelle dolci parvenze che un po’ gli sorridono  e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore  che essa cagiona ai cuori teneri e gentili. E insieme con  le immagini belle, gli arridono tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non  ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione  (ji quella mezza filosofia, che è il materialismo: le beate  lar\e, che allietano e confortano la vita agli uomini,  nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e  della gioventù quando non ancora si sono appressate le  labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del  mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha  riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica.  Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie : di tutte,  cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che quella  filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate  di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare  dallo spirito umano.   Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea  onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi cono¬  sciamo, risponde il Leopardi, ne è la negazione. Ricordate  il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere ? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante  cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è  una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa  che non si conosce ; non la vita passata, ma la vita futura ».  La quale però un giorno sarà passata, e allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro  è il mondo che vi finge lo spirito; il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male e  trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore;  lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non  è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga,  e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo  averla innanzi a noi, ed effettivamente conoscerla, quella  ci disillude, e ci dimostra che la virtù è un nome vano.  e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più cari  finiscono nel nulla.   Tant’ è che Tuomo conchiuda o per condannare come  semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che la  vita non si può governare se non in rapporto al reale  all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o  per risolversi animosamente a dir no a questo mondo  reale (che è il passato senza futuro) e a governarsi con  l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di es¬  sere pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore  di una vita superiore a quella puramente naturale. E Leo¬  pardi dice questo no con tutta la forza del suo animo,  con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto  proteso verso il futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale che  incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il  brutto poter che ascoso a comun danno impera e V infinita  vanità del tutto. Per lui   Nobil natura è quella  Ch’a sollevar s’ardisce  Gli occhi mortali incontra  Al comun fato.   E quanto a sé non cederà certo ; e alla morte può dire :   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   I.a man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir....   Solo aspettar sereno   Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto  Nel tuo virgineo seno.   Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima umana  pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice.  Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è solo  jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si  jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e regnano sovrane in quella superiore realtà che è propria  dello spirito. Leopardi sa che la grandezza del suo dolore  si commisura alla grandezza del suo pensiero che lo sente  e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto; e che  un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto  il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride.  Leopardi sa che la coscienza dell’umana miseria è già  segno di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha suoi di¬  letti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà un amaro  gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e stanca  della vita che non mantiene mai le sue promesse, si ri¬  duca infatti all’estremo della infelicità, che non è la di¬  sperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non dolore  né piacere, ma il sentimento della nullità, questo terri¬  bile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi  potesse cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria  «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti,  e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri  oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e immedia¬  tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi  de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche  allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo  Leopardi, « la noia è in qualche modo il più sublime dei  sentimenti umani. Il non potere essere soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia.  La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili,  anche i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del  bene, a tutti.... fuorché alla noia» (Zibald.).  Zibald.,    — Giuntile, Manzoni e Leopardi.  alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera;  considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il nu¬  mero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che  tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio;  immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo  infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe  ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accu-  sg^re le cose d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬  mento e vóto, e pero noia, pare a me il maggior segno  di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura  umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬  sun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su tutti i dolori, su tutte le  miserie, al di sopra della mole sterminata di quest’uni¬  verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬  gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la  hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore  degna delle più nobili aspirazioni connaturate all’animo  umano. Anche pel Leopardi, poca scienza pregiudica e  mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce la  fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura,  che la mezza filosofia del materialista ci rappresenta  in voley mutyignu, è pur quella natura che mette nel¬  l’animo nostro le illusioni; e se non sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo non  più contento delle condizioni naturali della vita che egli  dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore,  con la pietà, con tutti gli affetti gentili che riempiono  il cuore di dolci consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura che governa Tuomo, madre benigna e pia  nell’età dei Patriarchi, nei tempi oscuri e favolosi del  genere umano, e risorge amorosa nella prima età di  ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬  ginare la speranza nel futuro a cui egli va incontro;  questa natura, che nell’amore torna sempre a rinverdire  le speranze, e che ci fa conoscere una « verità piuttosto  che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,  quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬  tato il calice amaro, torna a confortare l’uomo, amica e  consolatrice. La natura del materialista è via; ma non  è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11 savio torna  fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è alla  presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto travolge e distrugge quanto a lui è più  caro, ma quello del pensiero, dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici della  filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il filosofo al suicidio, Plotino può rispondere :  <iPorgiamo orecchio piuttosto alla natura che alla ragione»'.  alla natura primitiva « madre nostra e dell’universo »,  la quale ci ha infuso un certo senso dell’animo, che è  amore degli altri e che ferma la mano al suicida ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero  della sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe  togliersi la vita, il filosofo più savio, il maestro, Plotino  dirà:   Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della  nostra specie ! Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un  l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso  scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica   della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo : e   anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò Sanctis paragonando Schopenhauer a  Leopardi, notava questo grande divario tra n filosofo  tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette  in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto  più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù,  tanto più ce ne accende vivo nel petto il desiderio e il  bisogno. Perciò la lettura del Leopardi non sarà mai  pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà leg-  gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso  per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero,  è uno dei più sani e vigorosi ottimisti che ci possano  apprendere il segreto della vita operosa e feconda.   La morte, anche la morte, il simbolo della fatalità  avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬  nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni  speranza e d’ogni fatica, e della nullità della vita a cui  ci sentiamo tutti legati, la stessa morte al Poeta, nella  maturità piena della sua poesia, quando il suo animo  ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la  sua verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa  germana di Amore, che è pel Leopardi, come s’ è veduto,  ciò che dà verità più che rassomiglianza di beatitudine.   Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte   Ingenerò la sorte.   Cose quaggiù si belle   Altre il mondo non ha, non han le stelle.   Morte diviene una bellissima fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore:   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d’ogni saggio core.   Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come  merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo leopardiano, Treviso, bongo e Zoppelli,  Il Poeta sente che   Quando noveUamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto.   Languido e stanco insiem con esso in petto  Un desiderio di morir si sente:   Come, non so: ma tale   D’amor vero e possente è il primo effetto.   Il Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza,  e non vi riesce. Ma ben sente che quando si ama, non ha  più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso nei suoi  limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che  fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore  scopre che la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che  bisogna ch’egli perciò muoia a se medesimo, e spezzi  r involucro della sua individuahtà naturale, centro di  ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte  opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte  è liberatrice, affrancando lo spirito umano dai vincoli  onde ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo,  chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e forze naturali,  incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi, en¬  trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.   Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa  la materia del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che  attraverso il corso di queste letture, che inauguriamo,  tale concetto apparisca in luce sempre più chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane (Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali  di G. L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette morali come una  raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso, sarebbe  tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non  sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite  con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla  terza edizione iniziata a Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate la  prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di  almanacchi e di un Passeggere, e di quello di Tristano  e di un Amico; tornano ora alla luce  ricorrette notabilmente, ed accresciute del Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco, del  Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio.  Intanto, non tutte le Operette furono pub¬  blicate la prima volta a Milano; giacché tre di  esse, come « primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’ Antologia e quell’anno  stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione  di quelle che nella notizia testé riferita sono assegnate  dall’autore furori composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte  leopardiane della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed. Mestica, li,  fa sicura testimonianza con le date apposte alle operette  singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13 dicembre  di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo  in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima  fu concepito, o ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬  ratore nell’animo del Leopardi. Giacché con qual fonda¬  mento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a docu¬  mento di quel periodo spirituale che si suole infatti atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di Simonide (apparte¬  nenti probabilmente a quello stesso tempo), e l’epistola  Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono caratteristici delle  Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già osservato j  che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che  sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti  staccati senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un  Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita  di G. Leopardi, Firenze, Barbèra, e da  me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva tra  le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte; Proposta  di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ;  Dialogo di Malamhruno e di Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico; Dialogo della Natura  e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del  suo Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo di  Ruysck e delle sue Mummie; Detti me¬  morabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e di  Gutierrez);  Elogio degli Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note,  Da N. Serban, L. et la France, Paris, Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle carte  napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo, sul proposito di quella  parlata della natura, all’uomo, che Volney le mette in  bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo  della Natura e di un'Anima) il quale, dunque, al tempo  di quell’appunto non era scritto. Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari degli  antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa  cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬  flessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare  di quelle ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia  nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è delle  ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono per¬  tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in  qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura  e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da com¬  porre ? O egli non aveva neppur composti i Detti me¬  morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe messi  a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?   Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come  par probabile, a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti  segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli  altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade) Egesia  pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬  tuomo e mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco,  da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma ac¬  canto a un altro dialogo. Galantuomo e mondo, che l’autore  abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel '24, senza con¬  durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto  deve risalire. E secondo lo stesso docu¬  mento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre  [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo,  riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬  pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. io8    quattro operette, due del '24 e due del '27. Giacché,  oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico,  qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato  la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel  Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo  e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella  del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento  certamente dimostra che del Plotino e del Copernico,  scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il  concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re-  sentò alla mente del Leopardi, non è posteriore alle  Operette.   E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci dai docu¬  menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate  del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti,  riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella lette¬  ratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in  questo scritto « liberamente il Leopardi raccolse dal suo  Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici; certo  intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di  pubblicare qualche parte del materiale  accumulato giorno per giorno». Sicché s’è  creduto poter conchiudere che nell’ Ottonieri al Leopardi  « venne fatto un centone, non un’operetta come le altre  organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio  d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.  Ili dell’ Ottonieri si legge :    > Egesia infatti è ricordato nel Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo e Pensieri.  Questo dialogo infatti originariamente recava il titolo di Dia¬  logo di Filénore e di Misénore.   Luiso, Sui Pensieri di L., nella Rassegna Nazionale.  Dice che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di  commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno  apparenza di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio,  in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo,  lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per  animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando  colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬  sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬  manità e simili; e da quella abbia origine un numero assai mag¬  giore di cattive opere; e che una grandissima parte delle azioni  e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche  pessima qualità morale, non sieno veramente altro che incon¬  siderati.    Idee che fin dall’ ii settembre 1820 il Leopardi aveva  sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri, scrivendo:   La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e  produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di esser  considerata come una delle principali cagioni della tristizia degli  uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo  c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so bastone,  passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo  a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir  nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel  giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte  volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui, senza  che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e  giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci pe¬  nare il suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole;  molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene  quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo fac¬  ciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo.  Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo stessis¬  simo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni  volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre  quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia che  fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, no  Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a  leggere;   Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo  inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene di  conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi  veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o  qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora  molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬  moria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬  pre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non  iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra  noi di scoprirvele.   E anche questo pensiero, quantunque in forma com¬  pendiata a mo’ di appunto, era già nello Zibaldone;   Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordi¬  naria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari  che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando  anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a  qualunque altra cosa.   E il numero di simili riscontri è tale che pochi sono  i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima prova  nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire  che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma defini¬  tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬  brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro  anni prima ?   Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri.  Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già  nei Pensieri [ b Caratteristico  questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini;   Come città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi  onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e    * V. tra gli altri B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902-  04, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città  grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto basso conto,  non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa fama  che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e l'altre  in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per caso  qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e  di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica,  non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse  volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine  di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del luogo....  E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi,  che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti,  né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io  mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la  terra eh’ io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun  poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo,  fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le  lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma  differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o fa¬  vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per  questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano  minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io  li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un  poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora  moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che  essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.   Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae origine  da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal Leopardi  segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;   Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio,  se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la  stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto, sicché  relativamente considereranno quel tal pregio come molto minore.  Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli studi,  credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e m’interrogavano  indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta,  rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc., insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran  cosa, e per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri, malgrado  la detta opinione che avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo  lodarmi, un giorno mi disse: A voi non disconverrebbe di vivere  qualche tempo in una buona città, perché quasi quasi possiamo  dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima  scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno  del loro grado   Né soltanto la cronologia diventa un problema di  difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.  I quali però non sono possibili se non dove si consideri  ciascun elemento del pensiero del Leopardi astratto dalla  forma che esso ha nelle Of erette. Che se si guarda a questa,  è facile scorgere, per esempio, la superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non  sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si badi, d’altra parte, a non prendere né anche  questa forma in astratto, quasi la forma speciale del  tale passo delle Operette, il quale abbia un antecedente  più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur  così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente  diversa). Anche questa è una forma astratta; perché  la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte di  un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con  tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale,  ossia di quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore  si trovò componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una salda  e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si pre¬  scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬  tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare  che l’opera risulti. Che è quello che è stato fatto per le  prose leopardiane da tutti i critici che se ne sono oc¬  cupati, ora considerando e giudicando le singole operette  ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse  in una serie di frammenti facilmente rintracciabili in  altri scritti, in verso e in prosa, dello stesso L.  (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta inutilmente se  stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del  secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’origina¬  lità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il  L. abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato  ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e confronti,  fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’ inseparabilità  del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò della  necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera  nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni  vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato  tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui  serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto,  nell unità, dove soltanto può essere l’anima e l’origina¬  lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per  così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa  a sé, invece di cercare il Leopardi di tutte le operette,  che sono un’opera sola.   In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del  Venditore di almanacchi e del Tristano, con cui nel '32  l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle Ope¬  rette, tutte le altre pullularono dall’animo del Leopardi  nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e di  sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il  Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei  vagheggiava il suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Ti-  mandro; e meditava insomma quegli stessi pensieri, che  presero corpo nelle Operette del '24; con le quah infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano  accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner,  che gh chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a  Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere aggiunti  alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il suicidio,  l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.  Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a  vostro piacere: solo bisogna eh’ io abbia il tempo di  farle copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero  facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma avvertiva subito,  che da soU questi dialoghi non potevano andare; e tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che  le mie due prose inedite abbiano un interesse sufficiente  per comparir separate dal corpo delle Operette morali, al  quale erano destinate»*. Quanto al Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente posteriore alle altre prose compagne;  anteriore ad ogni tentativo fatto dall’autore per pubbli¬  care le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e totali  fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non  potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬  rialismo che vi è professato, c che le Censure non avreb¬  bero lasciato passare.   Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬  rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi  e Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi  alle prime venti, è certo che queste venti, composte tutte  di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore  scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando  ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che  le singole operette potessero venire in luce alla spic¬  ciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare  Epistolario, Firenze, Le Monnier,  * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore amico vo¬  leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬  segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani,  al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un  editore: con tanto desiderio di vedere stampata la sua  opera, che scrive impaziente  a Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno presto,  perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non  ci pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo  manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus-  seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato,  dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che troverete  riferiti nel n. 61 dell’Antologia, ora pubbhcato, eh’ io ho  il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio  fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato  del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬  lenti scritti. Sento che queste Operette morali verranno  probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai pel  pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte  per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un  giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu  altro che un saggio. Del quale il 5 lugho il Leopardi scri¬  veva all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi stampati  ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio,  e però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La  scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise  l’ultimo per primo » 3 ; affermando così che tra i dialoghi  c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto.   Proponendo pertanto la stampa dell’opera intera al¬  l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella veduto  [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47.  » Nell' Epist. del L.   3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬  trato, ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella ve¬  duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le parlai già.  in Milano di questo mio mano¬  scritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze  per provare se il manoscritto passerebbe in Lombardia.  Giudica ella che faccia a proposito per lei ?... Tutte le  altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve  ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto,  in quel manoscritto consiste, si può dire, il frutto della  mia vita finora passata, e io 1’ ho più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di quel  mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella  ha ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto ».  11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare  altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe provato:  intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il  Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi  sento molto lusingato e superbo del voto favorevole che  ella accorda alle predilette mie Operette morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del  ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente  fitta di mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse  e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi una ri¬  sposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà » i.  Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ri¬  coglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali »,  scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo  a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da  0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non  pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il L. affret-  tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella  stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella  assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si disponeva  a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una  cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i  manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più  di perder la testa che questo manoscritto, e però la sup¬  plico a non avventurarlo formalmente alla Censura senza  una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o che  sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto  partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella  j)oté  informare l’autore d’averlo ricevuto.  poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi  restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali  quanto mi allettano.... altrettanto temo che trovar deb¬  bono degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per poi  stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di  tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento  delle care Operette ? La proposta ferì al vivo l’animo del  Leopardi, che, a volta di corriere, il 31 rispose: «Se a  far passare costì le Operette morali non v’ è altro mezzo  che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante-  mente la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬  scritto al più presto possibile. O potrò pubblicarle altrove,  o preferisco di tenerle sempre inedite al dispiacer di  vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubbli¬  cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume     l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,  conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬  rette, nate come venti capitoli di un’opera sola.   All’unità della quale ei certamente mirò nell’ordina¬  mento definitivo che fece delle singole parti, quando le  ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come  tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione  avvenuta nei tre dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti-  mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte. Infatti era  stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure scritto  prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era  quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente  fin da principio era destinato al ventesimo o, comunque,  ultimo posto, che tenne nella edizione milanese del '27.  È invero un’apologià del libro; e l’apologià non poteva  essere se non la conclusione e il giudizio, che, nell’atto  di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,  nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che  il Leopardi ebbe da ultimo ragione di preferire, non sol¬  tanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura  e di un Islandese, scritti successivamente, con un solo  giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno  frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio  familiare, a cui il Leopardi pose mano appena finito  quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio che senza  una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed  è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se non  negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran  legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari  scritti devono per lo più esser nati già con questi rap¬  porti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germoghava via via nella sua spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n. i.  una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e il  risorgere di un’ ispirazione che era parsa esaurita, traeva  l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine  cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e  alla coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena  levata la mano dall’ Islandese, nasce come un anello che  salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico;  e se l’autore scrive il Timandro,  bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli ante¬  cedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere  esaurito il suo tema; credere perciò di potersi arrestare  a quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese: e  quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro.  Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni,  e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando  fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette  in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un gruppo  distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Ti¬  mandro, del motivo ispiratore delle operette.   III.   Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’or¬  ganismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità  non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero.  Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa bene  in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche  apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad  argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine  non meno vero che non si trova quel che non si cerca;  e che l’unità delle Operette leopardiane, ritenute general¬  mente una semplice raccolta, aumentabile (con la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto,  come tutti fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non si  è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti  questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne  essenziale.   Intanto, lo spostamento osservato del Timandro  epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scor¬  gere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli  scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epi¬  logo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo distacco  formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia  la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del genere umano  a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può  a ragione considerare come un prologo; le diciotto operette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come  tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del Leopardi.  Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa  dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,  (]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo  della Natura e di un Islandese. Precede, e inizia la tri¬  logia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole e  di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui  all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬  tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato  dalle superstizioni moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello.  Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo  insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o  fortuita quando si osservino gl’ intimi rapporti spirituali  onde sono insieme congiunte e connesse, in tale ordina¬  mento, le diverse operette.   Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le varie  note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo non for¬  niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal  primo gruppo.   Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche  Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi  secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco.  j(a la Terra da allora è diventata leggerissima; e quando  Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più  nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli « bat¬  teva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali; e  metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio.  Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che  abbia rotta la molla »; e quanto al ronzare, Ercole non vi  ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che il  mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile;  e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse  morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse  col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi sep¬  pellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre ». È lo stesso  grido, come si vede, de La sera del dì di festa'.   Kcco è fuggito   11 dì festivo, ed al festivo il giorno  Volgar succede, e se ne porta il tempo  Ogni umano accidente. Or dov’ è il suono  Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido  De’ nostri avi famosi, e il grande impero  Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio  Che n’andò per la terra e l’oceano ?   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  li mondo, e più di lor non si ragiona.   Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la  Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa  questo perché alla Morte stessa: poiché i soh frivoli e  accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i  « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono  soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol  morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj.  cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e ri¬  scoperti dai filologi, « se in tutto non siam periti » t  La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta  ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi  che giovano al ben essere corporale, e introdottone o  recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo in  mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo  nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,  così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta  che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità  che sia proprio il secolo della morte ».   Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto  il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬  chine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine».  L’Accademia dei SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro  bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che  restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta  costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa,  quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella donna, che fu  r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come  la « sua donna » da esso il Leopardi :   Forse tu l’innocente   Secol beasti che dall’oro ha nome.   Or leve intra la gente   Anima voli ? o te la sorte avara   Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara ?   Viva mirarti ornai  Nulla spene m’avanza 3 .   ' Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv. 3-4.   » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna.    fbbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo  «espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai negozi  jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco diano  luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa  I la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore,  la morte degh ideali che già fecero virtuoso e magna¬  nimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il quale  non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla  stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e  nei campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e  5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio, d’infiam¬  mare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle  ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della libertà, della  patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’uma¬  nità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo  di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo,  a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si  trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a  proferir questo nome. Di essa, dice il Leopardi, che ne  sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto ».  La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica.  Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa  «che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni  occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché  il testo è da restituire, per travestirlo alla moderna, fa¬  cendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis, memi-  neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula,  epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris  portare.   Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno !  Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita   [Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre  *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L.,  Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un  pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra  uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi  rito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj  uomini sono tutti morti e la razza è perduta ». Mancati  tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando  parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori  pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte  stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e  disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le vie  di far contro la propria natura » ; studiandole tutte con  queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel-  l’antico error », di cui « grido antico ragiona », onde fu  negletta la mano dell’altrice natura, come il Leopardi  aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il nostro  Scellerato ardimento inermi regni  Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora durano e  procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il  mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto  invece crede fosse fatto e mantenuto per i folletti; come  lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità umana pareggia essa  la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti spariti,  la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono  stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano  di nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura  non si commuove allo sterminio di sé a cui l'uomo è  tratto dal suo ardimento.   Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra  L’aonio canto e della fama il grido  Pasce l’avida plebe) amica un tempo    » Inno ai Patriarchi.     Al sangue nostro e dilettosa e cara  Questa misera piaggia, ed aurea corse  Nostra caduca età. Non che di latte  Onda rigasse intemerata il fianco  Delle balze materne, o con le greggi  Mista la tigre ai consueti ovili  Né guidasse per gioco i lupi al fonte  Il pastorei; ma di suo fato ignara  E degli affanni suoi, vota d'affanno  Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura.  Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è  il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà  col pensiero di restaurare la sua vita e riconquistare la  dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa* *;  Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano  con piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo  servigio, lo riapprende da Farfarello, impotente a farlo  felice un momento di tempo. La felicità è la vita che si  V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita col  suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un diletto  infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni  uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai,  perché nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che  appaghi il nostro desiderio naturale. Onde il vivere sen¬  tendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se non  dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda  l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra  vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il  non vivere è meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu-   * Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere  il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura italiana,  sione di quella premessa, che la felicità o valore della  vita consista nel diletto; il quale non può essere altro  che limitato, e quindi mai mero diletto, senza mistura  di amarezza.  Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che  pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla:  ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta:  poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo  è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e  l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con  r irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma.   Ed ecco il problema e il tormento dell’anima del  Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è  quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo,  che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo  avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che  egli penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi  quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uo¬  mini morti e la natura viva, muta, indifferente. Pro¬  blema affrontato nel Dialogo della Natura e di un’Anima,  il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,  dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale  sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi,  e sii grande e infelice ». Giacché, come poi le spiegherà,  « nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle  di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra  cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle    I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitas¬  sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se, ben¬  ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come  prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto  per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna).   jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità pro-  ria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e  l’uomo « ha maggior copia di vita, e maggior sentimento,  che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il  niù perfetto »; e però è il più infelice. E il meglio è per  l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle  (loti che possono nobilitarla, e farsi « conforme al più  stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia  jjjai prodotto in alcun tempo.   Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dia¬  loghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la  cui storia non può avere altra conchiusione che la rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col  suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia  e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto  ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la  Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda,  non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è  semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra  che il linguaggio umano e relativo allo stato degli uomini,  che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e  che insomma non ha base in natura quello che gli uomini  considerano pregio della loro ^^ta, e che, non trovandolo  fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione.   Ma il concetto più direttamente è trattato nella  Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo  (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui  Leopardi guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché  Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere  umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere  dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali », gli era  fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro-  pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della  vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a Londra  vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta  ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su!  pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto  e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, mede¬  simamente morti»: sciagurato padre, che per dispera-  zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: (juan-  tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di  amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione  «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta  andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i  due seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non essere bene da se medesima, e non esser vero che ciascuno  la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama  come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò  che veramente vale. E questa, guardata più da vicino,  consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle  affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel  puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far  essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia  e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran  numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo  pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita  degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno  infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior  parte occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua,  che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi  peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso  Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità sia  vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita,  in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il Leopardi così sente)  non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che  non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella  coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che  l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare  perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore  perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere il pieno;  la morte al posto della vita.  E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del  Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal  ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso  al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui « mi¬  serando esemplo di sciagura » :   O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa  Tua niente allora, il pianto  A te, non altro, preparava il cielo.   Oh misero Torquato ! il dolce canto  Non valse a consolarti o a sciorre il gelo  Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda.   Cinta l’odio e l’immondo   Livor privato e de’ tiranni. .Amore,   Amor, di nostra vita ultimo inganno.  T’abbandonava. Ombra reale e salda  Ti parve il nulla, e il mondo  Inabitata piaggia.  Tasso medesimo, che non trova nel mondo  altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago  inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno  alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso  e del suo Genio ', e non si lagna già del dolore, ma della  noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli pare  abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi  interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti  in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro  non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente.  Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai  piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però.    come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si  dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»;  e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte  di dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona  del povero prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte  alla immutabile natura — si viene via via votando cosi  del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della  tristezza soffocante del tedio.   L’uomo prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio  dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la Natura  a render conto di sé all’uomo: al povero Islandese, che  la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la  vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e  l’ha innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di  forme smisurate, seduta in terra, col busto ritto, ap¬  poggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di  volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con   10 sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero  errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’  tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue  viscere », e « per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto o vi be¬  nedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬  l’universo è un circolo perpetuo di produzione e distru¬  zione. — Ma, riprende 1’ Islandese, poiché chi è distrutto  patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi quello  che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova  cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con  danno e con morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’ Islandese è  mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’ inedia,  che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel  giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo, è la Natura che al principio ha detto  aU’anima: — Sii grande, e infelice. La vita infatti   È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché vuota;  e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa  Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza valore, non appena con la sua  coscienza si stacchi dalle cose, e vi si contrapponga.  L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto  nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima,  il sentire) non ha posto nella natura, che è poi tutto.  Perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio.   V.   E qui potè parere al Leopardi, come osservammo,  di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili  critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso  libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro.   Ma poi considerò che la sua dimostrazione non era  veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare  Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande  Recanatese b scrisse una volta. L.comincia  uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬  venta nel mondo un’anima con queste parole: — Vi\d  e sii grande ed infelice. — Io per me credo proprio il  rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non  in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi  uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva  imparata egh quando produsse quelle canzoni per cui   Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni  profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel volume  La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della  nuova Italia, Lanciano, Carabba,   - Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il De Sanctis doveva osser\’are  più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini della  vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riem¬  piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬  maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa,  cevano materia di diletto quello stesso soffrire. Egli aveva  la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione  e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato  conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza  di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie,  e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino  il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua  anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c’è  pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati mo¬  menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice  del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma né  il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita  al Leopardi. È suo questo pensiero vero e pro¬  fondo ; « L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento  vivo della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto  altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere  di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nul¬  lità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente  e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita, quando  anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad  un animo grande, che si trovi anche in uno stato di  estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e sco¬  raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere  disgrazie.... servono sempre di consolazione, raccendono  l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro  che la morte, gh rendono, almeno momentaneamente,  quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli, Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo  ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi aura   Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il razio¬  cinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno  (ji riprendere la dimostrazione. Il Leopardi non affronta  nelle Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di  questa vita incoercibile che risorge dalla sua più fiera  negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà, non  superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto  l’argomentare della sua filosofia non genera la convin¬  zione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma  la mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla mi¬  sera Saffo « il velo indegno », per rifuggirsi ignudo animo  a Dite, e così emendare il crudo fallo del destino. L’amor  della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima  che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro  i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla  fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi  spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricor¬  danza che essi lasciano di sé ai loro posteri ».   Ebbene, questa gloria, che già non arride all’anima,  quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure  agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui  gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso,  potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto senza  fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser  « nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa gloria,  che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto  più sentiranno la loro infehcità, e più quindi saranno  infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli  riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli alla    loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione  della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per Taddietro,  finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo genio.  La sua sostanza è veramente in questa lode interna e  soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde  il genio vede illuminata la propria opera. Leopardi,  nudrito la mente dei concetti classici e delle idee mate¬  rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa gloria,  in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte  le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in  fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E  perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia  superstite della grandezza spirituale, veduto in questa  forma; l’anima grande e infelice è destinata essa alla  gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che  ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed ecco il  Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto  di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel  mondo presente, da farla apparire mèta inattingibile.  Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande  non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga,  con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la na¬  tura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.   Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si  possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo, quando  altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga  da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual  porto rimane allo stanco spirito umano ? Vivere infeUce ?  Dovecanterà:    O speranze, speranze; ameni inganni  Della mia prima età ! sempre, parlando.  Ritorno a voi; ché per andar di tempo.  Per variar d'alletti e di pensieri,  Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,  Son la gloria e l’onor; diletti e beni  Mero desio; non ha la vita un frutto.  Inutile miseria.   E sia; ma se non si può né anche farsi un monumento  della propria infelicità ?   Sola nel mondo, eterna, a cui si volve  Ogni creata cosa.   In te, morte, si posa  Nostra ignuda natura.   Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor.   La risposta viene dai morti, che si sveghano per un  quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale  vivono immortah; senza speme, ma non in desio, come  le anime del limbo dantesco:   Profonda notte  Nella confusa mente  Il pensier grave oscura;   Alla speme, al desio, l’arido spirto  Lena mancar si sente:   Così d’affanno e di temenza è sciolto,   E l’età vote e lente  Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza senti¬  mento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente  avrà pace, e in cui si può giungere in un languore di sensi  senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,  quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile  dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del  sonno, nel tempo che si vengono addormentando ».  Dolce morte hberatrice ! Ma prima che la morte ci  abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot-  tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬  teneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni  suoi familiari, sopra qualunque materia gli era sommini¬  strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre.  non per farne trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofìa in iscritto e irrigidir]^  in formule che non risponderanno piti ai mutevoli bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e  senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando  ogni vana querimonia: come aveva detto Spinoza: non  ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo  r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e  morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né  della fortuna sua »>. E con la sua pacata magnanimità e  la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate  anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sa¬  pere, e quindi, per lui, del potere umano. L’ Ottonieri  vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e persona.   Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ?  Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte vegliata sull’oceano .stermi¬  nato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando all’amico  che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, « ha posto  la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem-  phee opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli  soggiunge, « quando altro frutto non venga da questa  navigazione, a me ]iare che ella ci sia profittevolissima  in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia,  ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che altrimenti  non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano,  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si. debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo,  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o  pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna  pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla  fxipe di Leucade. E navigazione è ogni rischio della  vita, ogni azione eroica. O filosofare, dunque, come Ot-  tonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al tedio,  P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce  ne liberi.   E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il Dialogo  a Colombo e Gutierrez  Leopardi,  nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza  del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé  l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano  al bellissimo Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor-  gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine Ucta  e ridente: di queste creature amiche delle campagne  verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti,  del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline  e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena  e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col  canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena  d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una  gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero  d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il  canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬  creare gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario  in luogo alto ; donde ella si spandesse all’ intorno per  maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che il  poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi,  che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in  uccello, per provare quella contentezza e letizia della  loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens.  E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di cui parlano  alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca  colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vi¬  brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della  vita, attenuando bensì il tono della lirica precedente, c  smorzando l'entusiasmo, al quale mai come in questo  caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e additandogli  anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la morte  a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente,  ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione  del puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin-  francatore. Sensazione già nota al Poeta:   La mattutina pioggia, allor che l'ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’affaccia  L’abitator de’ campi, e il sol che nasce  I suoi tremuli rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli sussurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;  « Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton-  sene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma  della vita : riducetevi dal mondo falso nel vero ». La fiera  soma! Meglio, meglio dormire, e non destarsi; ma verrà  la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c  canta questa corsa universale alla morte, « ad ogni modo,  il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più  comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella  loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne  La Vita solitaria    producono e formano di presente; giacché gli animi in  quell’ora eziandio senza materia alcuna speciale e de¬  terminata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono  disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali.  Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, tro-  vavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta  uovamente neU’anima la speranza, quantunque ella in  niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la spe¬  ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella  disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita  dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va  alla notte, e alla vita umana che muove dalla heta gio¬  vinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se ter¬  mina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura  sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima  empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della spe¬  ranza mattutina e giovanile non è distrutto: perché  quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più tardi  l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà  mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬  tino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono,  nella misura e nel modo che si può secondo il Leopardi,  quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostrui¬  scono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche  la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo  gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo le prime due  edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del se¬  condo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e  il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo ri¬  fiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al  diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un'Anima  e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine del-  l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬  gatosi su se medesimo, diede della propria intuizione  filosofica: concezione, sullo stile delle teorie cosmolo¬  giche greche più antiche, di un universo go\'ernato da  pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in  fondo a ogni concetto pessimistico del Leopardi; onde  si tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta, l’immagine  di quella Natura che eternamente passa, e che negli ul¬  timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile  e spaventoso ».   Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti ope¬  rette primitive anche nell’edizione di Firenze del '34.  quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi dialoghi  del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che  in questa edizione invece non potè entrare il Frammento  di Stratone molto probabilmente per le difficoltà già ac¬  cennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo  scritto crudamente materialistico, che sia tra le Operette.  11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu scritto  verso il maggio del '25 • (quando il Leopardi aveva tut¬  tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe  già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa  aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico  del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini  della stampa del ’34, che sappiamo scritti a Firenze due  anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene  ad aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi:  come avverrà del Frammento, appena l’autore crederà  potere e dover tralasciare il Sallustio, e sostituirlo.   Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde il Mestica    I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G. L., perché gli parve troppo scolastico e di materia non   [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso conte¬  nuti siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco  movimento e scarso valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva dello  strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo,  e forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse  anche col passar degli anni, il Leopardi non credè più  che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per  opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al  L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà  I pentito delle parole crudissime che usa parlando della  I libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli   f lamenta la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in   modo più vago ». Il Sallustio, in questo cinico pessimismo,  contraddice al motivo fondamentale delle Operette: logico  nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei  sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta  abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva  a un suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali  non sono qui un sistema filosofico astratto, ma l’alimento  segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una  poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità  risuona all’anima del lettore come una musica, secondo  che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena    I operette morali di L.,   ’ Le prose morali di L.Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera  nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un  motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men significante  ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando VAntologia, or  son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora inedite....  io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo della  musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme unite,  mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne  scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava  potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo rrio  tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^  e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor  nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del genere  umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto  estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte  le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re  qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e  d’entusiasmo; a quello spirito, che si può definire con le  parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo in  una lettera al Giordani  (del tempo  in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo  termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬  nere degli studi che io fo, come sono mutato da quel  che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga  di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo  e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché  il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio  di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria  degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente,  speculando questo arcano infelice e terribile della vita  dell’universo ». Lo stesso animo, non altrettanto feli¬  cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tut¬  tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli :   Ben mille volte  Fortunato colui che la caduca  Virtù del caro immaginar non perde  Per volger d’anni; a cui serbare eterna  La gioventù del cor diedero i fati qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del  Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo  amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono  musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più d’una  osservazione notabile.  SuU’amicizia del  L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi leopardiani, Firenze, Le Mounier,    (si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)]   Della prima stagione i dolci inganni  Mancar già sento, e dileguar dagli occhi  Le dilettoso immagini, che tanto  Amai, che sempre inlino all’ora estrema  Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.   Or quando al tutto irrigidito e freddo  Questo petto sarà, né degli aprichi  Campi il sereno e solitario riso.   Né degli augelli mattutini il canto  Di primavera, né per colli e piagge  Sotto limpido ciel tacita luna  Commoverammi il cor; quando mi fia  Ogni bel tate o di natura o d’arte.   Fatta inanime e muta; ogni alto senso.   Ogni tenero affetto, ignoto o strano;   Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men dolci, in eh’ io riponga  L’ingrato avanzo della ferrea vita,   Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi  Destini investigar delle mortaU  E dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi traendo  Verrò: che conosciuto, ancor che tristo.   Ila suoi diletti il vero.   Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare,  scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e  inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che  nel '25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere di  aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno dopo  egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno, non  è ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la  gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora  del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso  e di eloquente è un desiderio, un programma, un propo sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso  ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené  e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Elean-  dro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda  fa alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace'  ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente invece  per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra  protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia  sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva Oggi, benché non sono  ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né  forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non  mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me  stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è pos¬  sibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile  pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle  sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò  sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che  esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per  poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi  possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ribella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella  all’ intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro  che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo Eleandro  conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità  dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene  col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi  libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di  quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte  o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,  [Ed ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬  tolare, come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli  non era davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista.    iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi:  laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo ;  e in line gli errori antichi, diversi assai dagh errori bar¬  bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero dovuti  cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da  queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si  volgono gh occhi del Leopardi, il mondo di Stratone  da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese, — come non è  spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza; ma  non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore  del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro;  e a dispetto di quella natura, che è il vero, ama gli uomini  e la virtù, dichiarandola un’illusione, ma naturale, e  quindi vera, quantunque contradittoria a quell’altra na¬  tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire fred¬  damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di  sopra della universale miseria, sentita come tale, e non  assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza  avrebbe voluto.   Così nella Storia del genere umano, vero preludio  alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto  all’ uno fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’ap-  parire in terra della Verità, spunta egualmente una  divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei  mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è  mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà  di Giove sopra tanta infehcità; e massime sopra quella  di alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto, con¬  giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali  egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più    IO. — (‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi.     che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione  di quel genio»: ossia appunto, della Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità, propose agjj  immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a  visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare  in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente  quelli che dimostravano essere, quanto a se, indegni  della sciagura universale». Tacciono tutti gli altri Dei¬  ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo  massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i  mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della  Verità ». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché  la gente umana ne è generalmente indegna, e perché  gli Dei molestissimamente sopportano la sua lontananza.  EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la sua  grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità  del vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore.  « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri  e più gentih delle persone più generose e magnanime;  e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina  e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e  di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa  al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge  due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima  istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non  gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché  la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve  intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere  pieni del suo nume vince per se qualunque più fortunata  condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Ed  ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente,  allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda  (iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità  (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né  egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a  respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si ag¬  girano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già  segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio  riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo  Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque  inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente  offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei  geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra  logica non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta  questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della  virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella  stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringa¬  gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo  Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza  eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli  uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare,  suscita e rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede,  l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli  anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi  diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano  come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non  ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup-  phzio ne prenderebbe: tanto è da natura magnanimo e  mansueto ».   Qui non c’ è satira, né riso, né fredda anahsi; ma  la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con la  pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean-  dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto  amore tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la  purifica e sana nel gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua  giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e  della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con  nodi divini, e della bellezza, della libertà, della patria,  e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo.   Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la  vita umana, questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬  simista, sì, ma alla Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un  roscau, le plus faible de la nature] mais c’est un roseau pen-  sant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser ;  une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour le tuer. d/a/s,  quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore plus  noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et  l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\  sicché la grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU  misérable E il Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia  delle Operette, e quando il concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza  e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬  biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬  mente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.  Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente  essere infinitesima parte di un globo che è minima parte  degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in  questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬  fondamente sentendola e intensamente riguardandola, si  confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pen¬  siero della immensità delle cose, e si trova come smarrito  nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con que¬  sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova della  sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua  mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées, (Brunschvicg).    è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto  superiori alla natura di lui, e può abbracciare e con¬  tener col pensiero questa immensità medesima della  esistenza e delle cose. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità  sulla trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed è  l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette  rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme  e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio  a questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che  tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione del  Sallustio, che è negazione fredda, senza l’orrore, la ri-  beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da  amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo  parmi il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo.   VII.   Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva  ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi  ad aggiungere alle prime Operette già formanti un orga¬  nismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il  Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore,  la nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando  un’ idea che contro i Timandri medievali attardati aveano  già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle  ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclu¬  sione necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo  (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di  tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragio¬  nevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare  (movendo da premesse, che son quel che sono, ma a lui  paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma  Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza assai più profonda  più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^  1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^  atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP  elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostr^'  che secondo natura uomo. Perché contro natura e contro umanità il suicidio  ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam’orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh  ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre  nostra e deU’universo; la quale se bene non ha mostrato  di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata  assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi  coir ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬  rata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata  ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o  con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia  grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo-  tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla  né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in  ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado  che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere  altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile;  pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai  saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha  prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il  raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne.   E credi a me, che non è fastidio della vita, non  disperazione, non senso della nulhtà delle cose, della  vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio  del mondo e di se medesimo, che possa durare assai:  benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a  notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or  quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella  loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura;  non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,  al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo  senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è  evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal  Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo  silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel Copernico,  opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leo¬  pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata  stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo ».   Senso dell'animo, che è sempre amore per il Leopardi.  Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche  un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare:  « E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi  avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti  di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della  moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali  siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,  bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor nostro  dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto  di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona  cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice la  parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette,  ma di cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma-  Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo  «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito leopardiano, come  principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof. Giovanni  Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia, 1894-99),  passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy.  1gine di Bruto mancante ai funerali della sorella: prae-  fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui che  si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno  degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta  per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il  genere umano: tanto che in questa azione del privarsi  della vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo  il men bello e men liberale amore di se medesimo, che  si trovi al mondo. Dunque quella grandezza non è infelicità; perché  l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe  se vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo  dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità di  beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più  sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa  è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non è più il dolore incomportabile che ci  fa invidiare i morti, ma questo amore che ci stringe ai  viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di  uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice  al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda;  non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci  ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci  incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente;  per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».  Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta  la morte e ci abbellisce l’idea di questo mondo, da cui  non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte  verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo  momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci  rallegrerà il pensiero che, poi che saremo sjienti, così  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ».   Vili.   Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette.  Le quali ebbero ancora una ripresa nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo  grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ri¬  comincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il pas¬  seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione  a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella,  non è la vita che si conosce, ma quella che non si co¬  nosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che si  conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione  di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla:  vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce,  e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e  sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo  venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? Il Leo¬  pardi non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene  dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come  cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte; ma  non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro  sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché fu¬  turo; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che  non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi  la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare  il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con  queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una mi¬  seria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro  cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬  stro amore, una beatitudine divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova  della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però luminosa immagine  della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del cuore  stesso di Giacomo.   Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella  Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta  Infinita beltà parte nessuna  Alla misera Saffo i numi e l’empia  Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni  Vile, o natura, e grave ospite addetta,   E dispregiata amante, alle vezzose  Tue forme il core e le pupille invano  Supplichevole intendo   Non meno supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia;  onde ricorderà:   Or ti vanta, che il puoi. Narra che prima,   E spero ultima certo, il ciglio mio  Supplichevol vedesti, a te dinanzi  Me timido, tremante (ardo in ridirlo  Di sdegno e di rossor), me di me privo.   Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto  Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi  Fastidi impallidir. E cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile  errore, fu « notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma  Saffo proruppe nel grido disperato ; — Morremo ! -- e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. Leopardi  scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più  l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬  tilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella  d’Amore ;    1 Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla,   Dolce a veder, non quale  La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo Amore  Accompagnar sovente;   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d'ogni saggio core   £ la morte sospirata dall’amante, nel languido e  stanco desiderio di morire, che si sente   Quando novellamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto,   perché già a’ suoi occhi la vita diviene un deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta  Vede ornai senza quella  Nova, sola, infinita  Felicità che il suo pensier figura;   Ma per cagion di lei grave procella  Presentendo in suo cor, brama quiete.   Brama raccorsi in porto  Dinanzi al fier disio.   Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.   E a questa morte consolatrice, che insieme con amore  è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza  armare la mano, anzi con umile e mansueto animo, vol-  gesi il Poeta con un sospiro di religiosa preghiera:   Bella morte, pietosa   Tu sola al mondo dei terreni affanni.   Se celebrata mai   F'osti da me, s’al tuo divino stato  L’onte del volgo ingrato  Ricompensar tentai.    • Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina  A disusati preghi.   Chiudi alla luce ornai   Questi occhi tristi, o dell’età reina.   Non già che amore e morte abbian potere di cancellare  la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi abbiano  mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà  le penne al suo pregare, lo troverà   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   La man che flagellando si colora  Nel suo sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir. La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬  dele: ma già Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi  addormentato il volto nel vergineo seno di lei; e il fato  è vinto nel suo animo gentile da questa aspettazione:  vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di Tristano;  il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia  del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬  ciarlo : « non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro  di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici,  ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore»;  perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento  che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in  confidenza, mio caro amico, io credo febee voi e felici  tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e  del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo; e tutti i  giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario ».  Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E  di più vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla  mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco  a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare  la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né vi  parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il  fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho  invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un  gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬  biato con qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più né stolti  né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. In¬  vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri àzH’antico  dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della  morte, è fiducia confortata da una speranza che non  falhrà, e che già allieta di sé Tanimo sottratto per lei a  quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e stupenda,  che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema,  poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione  piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come  accade nella mia solitudine, e con cui vo passando il  tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.   In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore  trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine  da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo  « di cedere inesperto ». Cederebbe il suicida egoista, non  il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore, e  guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo  sottrae, alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta  differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante  0 quella che s’incontra nella Moda, al principio delle  Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge desioso  alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che dall’una  conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.  Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel Messaggero della domenica, poi nei Frammenti  di estetica e letteratura, A proposito del Leopardi toma sempre in campo la  questione delia differenza e del rapporto tra filosofia e  poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo;  ma, d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬  guere una cosa dall’altra, come res dissociabiles, e in un  libro di prosa volle in forma più sistematica e più ra¬  zionalmente convincente esporre quel suo pensiero da  cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie.  E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie  in cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi  di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era formato  della vita, e che attraverso una determinata situazione  personale, un paesaggio, un ’immagine, si sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna  delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto  la forma di scolastica dimostrazione e scevra di quel  sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la  personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti.  La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non po-  tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più  e di meno: affermando che l’elemento filosofico predomina  nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede  così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare  alla filosofia per esser poeti, e viceversa: giacché la loro  natura è così diversa e ripugnante, che l’una non può  esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata.   Ma io non voglio ora affrontare la questione, che  potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata    li. — Gkntilk, Òfamoni e Leopardi.   quanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬  pardi la questione di principio è priva d’ogni interesse,  perché il Leopardi, anche nelle sue prose, è indubbiamente  poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o ragioni,  cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce  se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità  che gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare  e di assoggettarla a quella più alta razionalità, a quella  critica oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui  consiste propriamente una filosofia che non vuol  dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una  filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo  del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare  intera coscienza di sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un  certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde nella  divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore  a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente  di formulare.   Superiore perché, — ormai è noto agh studiosi più  attenti della sua poesia — questa ha pel poeta un conte¬  nuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto  ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatal¬  mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi,  vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta  che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi agli  occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però ogni  poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore  con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬  pardi era, come egli disse una volta, nato ad amare,  ed aveva « amato, e forse con tanto affetto quanto ]iuò  mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo    I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos-  Hai.,  e nel voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vai-  lecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che è piena di do¬  lore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva,  redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ottimismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella  natura considerata dal punto di vista materialistico,  brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa  in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana biso¬  gnosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme  alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede  nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia  dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore.  11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui  il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo del¬  l'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà è  quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità  è questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi  alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col  progresso della riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la canzone All’Italia con La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della  sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e dissolvono nella commossa e tenera  effusione di un’anima angosciosamente agitata da un  bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede  nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di questo superiore ottimismo in cui rimane assor¬  bita la sua iniziale visione pessimistica; e continua a dire  che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-, ma  l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella    ' storia del genere umano.   - Lett. al De Sinner -- realtà che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo  bensì la forma poetica della sua espressione in modo  pieno e perfetto.   Se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico,  ironista, materialista piuttosto mediocre nell’ invenzione,  dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri che  lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph,  disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬  ferma delle sue idee: mediocre nell'esposizione od ela¬  borazione della materia, per evidente inesperienza del  metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi grandi  pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il Leopardi e si  fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima  per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo  ed eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi  la sua poesia s’impone e suscita un’eco solenne nell’animo.  In questo senso bisogna pur dire che in Leopardi non si  deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che  rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima uma¬  nità. C’ è insomma il poeta.   Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere  definitivamente dimostrato con argomenti esterni, at¬  testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso  il Leopardi, e con argomenti interni, desunti dallo svolgimento del pensiero e dagli evidenti legami onde le  singole operette sono congiunte tra loro per graduali  passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal  primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma  un organismo, un tutto unico, che si articola dentro di  se stesso e si conchiude. Si conchiude tra un preludio e  un epilogo in una opera, che è un poema, e non è un  trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬  nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti capitoli, scritti tutti in  un anno di lavoro felice, ma con un intervallo tra i primi  quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte,  svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella  prima serie: dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo  capitolo, quello perché introduzione e questo perché  apologia e conchiusione di tutta la serie, si ottengono  infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in  due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è  destinato a svolgere un certo motivo, e quindi forma  un ritmo a sé. Sospetto confermato da alcuni spostamenti  dall’autore introdotti nel primitivo ordine cronologico,  e poi costantemente mantenuti, salvo una sostituzione  che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al  posto di un capitolo del primo gruppo: capitolo abolito  allora perché infatti non armonico né col gruppo, né  con tutta l’opera.   La distribuzione, è ovvio, non può avere se non una  importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse  voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non  volle mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da  lui curate dei Canti, e diede loro un ordinamento ideale,  che per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed inter¬  preti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto stesso  che tutte e venti le operette furono scritte successivamente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo,  e hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo,  dimostra evidentemente che i loro singoli gruppi non  si possono considerare separatamente, quasi ognun d’essi  formasse un tutto a sé.   La distribuzione del nucleo principale delle Operette  in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un capitolo introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere  le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali  che nel pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj  complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in  questo modo può servire quasi di chiave a un libro, che  fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro  capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre  dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere  un taglio netto tra un gruppo e l'altro, e una soluzione  di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe do¬  vuto introdurre una prima e una seconda volta nel  corso della sua unica opera.   Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor  Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello  che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬  vire quindi come passaggio al secondo, mi domanda:  « Ma non potrebbe stare anche nel secondo, poiché è  una affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta-  mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il  primo gruppo concluso da questo dialogo di Malambruno  e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura  e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero  dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno  quell’anima che si ritrova di fronte alla Natura al prin¬  cipio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi non  un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile  ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è una  constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel se¬  condo ciclo il problema.   Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬  zocco -- da me usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬  renza tra primo e secondo periodo in questa trilogia  delle Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel  primo « r infelicità del genere umano si considera particolarmente nell’età moderna come effetto più che altro  della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel  secondo invece, « questa infelicità si considera come  legge imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del  mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella prima  ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e  di fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio  di ogni male e di ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo  Zumbini tra la prima fase « storica » del pessimismo  leopardiano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non  corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indi¬  cata, tra il concetto del primo e quello del secondo gruppo  delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien  posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto  della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna  sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,  coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e l’uomo  se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irre¬  quieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ».   Qui il pessimismo storico è già superato, e Malam-  bruno può dire che « assolutamente parlando » il non  vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché la  vita umana, fin da principio e per sua natura, è senso,  coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e  affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬  rere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul-  htà o infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una  colpa dei degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è au¬  mento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in realtà,  fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo.    c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Ma-  lambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine del  primo ciclo.   Il secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della  verità scoperta nel primo. E si apre infatti col Dialogo  della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione  del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso  e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior  copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto  il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio  spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e  farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare  l’umanità, rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta,  rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente, che  ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi  alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo  ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è  aperto tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il de¬  stino a cui gli conviene di rassegnarsi, rinunziando a  quella natura che non è per lui, e a quella vita che sol¬  tanto nella natura potrebbe spiegarsi.   Il primo ciclo è una negazione, per così dire teoretica; il secondo è la negazione pratica, che consegue  dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere  quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però  la conclusione del Leopardi, il quale non finisce con  r Ultimo canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché  quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto nel  terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo:  che quella vita che certamente non ha valore, perché è  dolore e perciò negazione della vita che noi vorremmo  vivere, ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua stessa  negazione.   La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa  contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da  tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch,  attraverso una filosofia che sappia intendere e sorridere  con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso  gli stessi rischi in cui la vita si perde e si riconquista  col gusto di una cosa nuova, e in generale attraverso  l’attività, il movimento, la passione e la speranza che  non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore  che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia,  quello che la natura ci nega anche nella piena coscienza  della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e sente  la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo  dalla natura.   Una soluzione dunque del problema della vita nei tre  cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che no: perché la via che filosoficamente si do¬  vrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei  primi due cich è, senza dubbio, quella per cui l’anima  dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente  procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì   10 slancio naturale dello spirito che risorge con tutte le  sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo,  in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. Leopardi sente bensì e vive la verità superiore, ma  non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬  rimenta in sé ed attesta coi moti del suo animo la po¬  tenza dello spirito, che anche nell’uomo che s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza  tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta  la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello  spirito. E in questo balsamo, che il suo animo sparge  così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate  inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore, in  quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui  la personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto  nelle Operette, come nei Canti.   Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si  conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.  scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei.  lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile,  che il centro e l’accento principale dello spirito leojiar-  diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che,  agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vincolo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale  inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite  infatti (coni’ è detto nella Storia del genere umano) a  quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal  sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del L.,  come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi  vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna  d’esser vissuta, per quel che dice appunto Plotino: «E  perché non vorremo noi avere alcuna considerazione  degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei  fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari  e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran  tempo: che morendo, bisogna lasciare per sempre: e non  sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione;  né terremo conto di quello che sentiranno essi, per la  perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del  caso ? ». Questo non è un argomento filosofico, ma un  cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente  come velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed  espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a domandarmi il profes¬  sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle  Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia  consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della  vita nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo  che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto  che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare che  sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo  a Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo  di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro,  egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo  dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e  Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere il Leo¬  pardi ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe  potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dal¬  l’autografo) cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo fu ideato  quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto  fino alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché  il concetto di Mist'nore è puntualmente quel medesimo  che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si  oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si  oppone soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser  detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col domma  della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬  dronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo  vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII  e dai progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche  sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo vittima della  natura e però degno di compassione.   La compassione non è amore; certo. Ma ne è la ra¬  dice. E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del  genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché solo  l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera l’infelice;  e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che  gli si sprigiona dal più profondo del cuore: «Sono nato  ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva », soggiunge. Oggi non  mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie  stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»-  l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si'  sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al  dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce  subito continuando. Con tutto ciò sono solito e pronto  a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di pa¬  timenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg  una sorta di amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte  questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza  col riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore fio¬  rentino, Aspasia e Amore e morte), non è la disperazione  della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è la  bellissima fanciulla che   Gode il fanciullo Amore   Accompagnar sovente;   la bella morte, pietosa, sospirata in quel languido e stanco  desiderio di morire che sorge col nascere d’un amoroso  affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano,  non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì  contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di Tristano.   Vero è che per leggere Leopardi non bisogna tanto  badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in  cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente  consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore della  sua prosa. Che io perciò desidero considerare più come  poesia che come argomentazione. E perciò non posso  accettare quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’ Elogio degli uccelli.   Come mai, mi domanda del primo, «appartiene al  secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è  senza dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato.   vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ».  Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza  che c’ è fra un uomo chiuso nelle quattro mura d’una  prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’ Oceano  infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo  Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che  il grande Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due  han trovato la maniera di fuggire la noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto non  ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo  a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per lungo tempo essa ci tiene  Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte  cose che altrimenti non avremmo in considerazione.  E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla con¬  versazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo  da questo datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche  Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e due, tra  fantasticare o navigare, van consumando la vita: non  con altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico  frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento  che l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo svegliarsi ’ ».   Ora tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale  dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo spunto  del Colombo ci è indicato dallo stesso Leopardi, che,  come io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto  col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del dia¬  logo va quindi cercato nel passo che segue alle parole  citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pm-g  avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na  vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe  di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(,  durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo  conto, ella è superiore assai. Credesi comunemente che  gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in  pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬  pria, che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso  rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche per¬  sone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e  soldati ».   Non il consumai'e la vita è l'utilità del rischio, a cui  Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la gioia di riaf¬  ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfug¬  gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo  bene, appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬  stiamo. 11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma  che bisogna perciò affrontare per vincerlo.   Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il  piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero  prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua  sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i dolori,  la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può parlare  perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino universale degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo  della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo:  « A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la  (juale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose  matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro:  e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra,  quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo mate¬  riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così  nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la mente  per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero.  Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche  in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova con¬  tenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo  da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di  noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il  dolore e il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio  col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier  confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tri¬  stezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza,  ma questa per la più parte del tempo è come una notte  oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia  al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto.  Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare  quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede  sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che  ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del Tasso  l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale,  per chi legga la prosa leopardiana con animo sensibile  all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può  significare altro che un realistico strappo che 1 autore  vuol dare alla stessa poetica illusione consolatrice del-  r infelice prigioniero.   E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello  scrittore io credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli  lirica stupenda sgorgata al Leopardi dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto  di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli  un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj  riflessione; benché questa sia ravvivata dal soffio della  poesia inerente al soggetto. Il Leopardi non intendeva  di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no  litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto  estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello  non è un canto di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo  il Faggi, il Leopardi è filosofo, e non è poeta. « Non ha  creduto di spogliare del tutto la giornea del filosofo-  che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo soli¬  tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico, scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare  Dante e Tasso. .Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende in una lunga digres¬  sione sull’origine e la natura del riso, suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che  fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo suo volea riposarsi, si lascia attrarre  a considerare il riso umano nello scettico, nel pazzo e  nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto  degli uccelli ».   Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia  voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi ritenuta da senno per vera, e industrian¬  dosi di dimostrarla nel miglior modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci  ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione mia fu di far poesia  in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una mito¬  logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi,  senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi,  possiamo aggiungere noi. E del resto a quella conclu¬  sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬  ginazione beta o serena in cui l’animo del Leopardi volea  riposarsi » ; e rispetto alla quale gli uccelli non sono dav¬  vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella tessitura  dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze delle  sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui,  della storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine,  simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione  e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a  questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso  quella Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli  a conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu  notabile prowedimento della natura l’assegnare a un  medesimo genere di animali il canto e il volo; in guisa  che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla  voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si  spandesse all’ intorno per maggiore spazio e pervenisse  a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la  quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata  di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto  e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri  animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli ».   La prosa tranquilla e contenuta vuol essere nella  sua forma esteriore l’eloquio didascalico di un filosofo, ma  tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che vi  si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta,  che fa dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento  degli uomini la vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬  trario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; van-    I Episiol., lett. . — GENTILE, Manzoni e Leopardi.  no e vengono di continuo senza necessità veruna ; usano T  volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen  tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i]  medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccol  tempo che soprasseggono in un luogo, tu non h ved^  stare mai fermi della persona; sempre si volgono cjua I  là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK  lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità  quella prestezza di moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬  sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’  deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi anacreontd  che il Faggi dice eruditi e freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel desiderio  finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco  di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella  contentezza e letizia della loro vita ». Ultime parole  dell’ Elogio, che ne sono quasi la chiave, e che reca me¬  raviglia non vedere intese esattamente nepjmr dal Faggi  Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo  pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito  ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del ni¬  tido pensiero leopardiano, postillò: n Per un poco di  tempo. Meno male ! chè dopo la vantata perfezione degli  uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che  Amelio non sia riuscito a convincere pienamente se stesso,  o il suo entusiasmo non sia stato davvero troppo pro¬  fondo ». Come se si trattasse di convincere!   A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬  dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente  ad ognuno, che rifletta che se il filosofo avesse espresso  il desiderio d’essere convertito per sempre in uccello,  avrebbe fatto ridere. Che diamine, il poeta invidia degh  uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui  sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per  essere disposto a barattarla con esse per sempre. Anche  la morte potrebbe essere per lui, come per Porfirio, la  soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso del¬  l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero,  colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero  alcuno degh altri; non cerca se non la utilità propria;  si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi,  e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del  privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,  o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬  simo che si trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del  Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno-  luglio dello stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di commemorare un poeta è quello  di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo  dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi  della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella  di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in  mezzo alle quali questa vita si svolse, le idee stesse che  egh accolse e che professò, le correnti spirituali ante¬  cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono semplici  generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le  quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬  tografia, rimangono appunto generalità, riferibili a migliaia di persone.  Ogni uomo è una determinata personalità in quanto  è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e  cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.  E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia  del mondo di cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto  che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo di  reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo  pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere nello  stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso  luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi,  tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari  nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta material¬  mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse  idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad entrare nel suo intern  è se stessa, diversa, assolutamente diversa dall’altra  quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr  nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^  subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh”  ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire  atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest  dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in  verità tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto  quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che  ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è  la base d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inaf¬  ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta  se non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni  del carattere, nel complesso degh atti e delle parole,  che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro non  è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza.   Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella  vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione  del poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se  non jierché riesce a stampare una più profonda impronta  di questa segreta potenza nelle espressioni del suo essere.  E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della  moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita  l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa  il suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e  ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena  del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune  esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli  vede e tutto ciò che può dirci è la sua anima, anzi  questo dèmone che si cela nella sua anima.  Nel caso di L., quanto difficile cercarla e tro-  v'arla questa scaturigine della sua poesia: e quanto perciò  s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide  tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che sponta¬  neamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma  studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da  mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base di  mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla preten¬  siosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo  più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi  frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora  alla intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una definizione.   Negli ultimi tempi vi si son provati critici di grande  levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non  disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano  indubbiamente alla comprensione della poesia leopar¬  diana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti.  11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità,  che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho  creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il cui  effetto è questo: che il critico non sente la necessità di  risalire sino alla sorgente da cui la poesia leopardiana  sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere l’unità della  sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei motivi  in essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e  le prose del Leopardi, e si dica. Nelle prose, manco  a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è  una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello  che si sforza di dimostrare sistematicamente uno stato  d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato  d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero  e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo,  sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi  in cui il poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano  e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci  col calore e la passione della vita che ogni uomo vive e  sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche non  meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora-  torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e  non si dimentica nello schietto moto della sua anima  Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di  queir ispirazione, che s’apprende immediatamente all’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo  che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure  fisiche e le tristi condizioni personali gli han lasciato  aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta  che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del  mondo e il vasto respiro delle cose. — £ fortuna se alla  prova di questa critica si salva qualche frammento della  poesia del Leopardi.   Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi critici  a ristampare Leopardi purgandolo da tutte le scorie  della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia; con¬  tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia.  Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema-  mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il  significato di ciascun verso risulta dal contesto a cui  appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel complesso  del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre  un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme.  Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se si  crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella  parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la  fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato,  in cui non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione  del nostro animo. L. non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove  il suo petto si allarga e s’inebria del profumo della na¬  tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande cuore  del mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della  luna, imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona  tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad ora  ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Eleandro; ed è Copernico e Ottonieri; ed è Colombo  e Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura dal volto « mezzo tra bello e terribile »; ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra coi  piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e riempie  del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, « innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato nel  sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero  e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni  travagho c gustano una beatitudine divina, ancorché  confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento  nella vita universale. Ed è anche il poeta che come italiano vede le colonne e i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma non vede più la gloria e le armi dei  padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera infinita  d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza  pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore  la disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù  sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio della misera  Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non  gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode  di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno  fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà  sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo fallo  del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che si  leva col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo  che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si  compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle  mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo specu¬  lare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo altissimo  sentimento della invitta potenza del pensiero umano  nella rocca inespugnabile della noia: di questo che egli  dice « in qualche modo il più sublime dei sentimenti  umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da alcuna  cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; consi¬  derare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e  la mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è  ])oco e piccino alla capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito,  e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora  più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le  cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento  e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di gran¬  dezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana » >.  E perciò anche il Leopardi, nel colmo della sua delusione,  può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e ogni  moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura,  il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli  fece vedere e amare in una donna mortale la Dea della  sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una  notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato   Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di  se medesimo:   su l’erba   Qui neglùttoso immobile giacendo,   Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.   Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della  poesia leopardiana, per restringerci al dolce gusto di  quell’ idillico che è la prima e immediata forma di questa  poesia, noi avremo sì elementi di una poesia squisita,  ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella  quale quella prima forma è solo uno degli elementi del  dramma e del fiero contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia leopardiana per l’appunto consiste. L’i dilli o è certo alla base del Leopardi poeta. Ne  risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello  Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’ idillio, come il Leopardi  r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei quindici versi  che gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe in  spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima  quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in  sé e annichilano la voce del vento che stormisce tra le  piante e il suono delle lotte e delle fatiche umane:   Così tra questa  Immensità s’annega il pensier mio  E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo  si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore errante  dell’Asia, che dice alla sua greggia:  Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe.   Tu .se’ quieta e contenta;   E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato.   Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,   E un fastidio m’ingombra  La mente, ed uno spron quasi mi punge  Si che, sedendo, più che mai son lunge  Da trovar pace o loco.   Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico  mito della colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna  Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto  ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La  noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché  la riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬  cora in grado di domandare alla luna il fine di tanti  moti, e che sia   Questo viver terreno.   Il patir nostro, il sospirar che sia;   Che sia questo morir, questo supremo  Scolorar del sembiante,   E perir dalla terra, e venir meno  .‘Vd ogni usata, amante compagnia;   egh può esser queto e contento come la sua greggia.  Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene  fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto:  non aver più né contentezza né pace. Il Leopardi intanto  sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò  in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e  chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande  e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che  non credono al dolore: A voi non tocca  DeU’umana miseria alcuna parte,   Ché misera non è la gente sciocca. Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna  Kon è dagli astri alcun poter concesso.   Non al dolor, perché alla vostra cuna  Assiste, e poi sull’asinina stampa  11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se talor la vostra vita inciampa.   Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio  Il non sentire e il non saper vi scampa.   Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio  Rompon l’alme ben nate. Ma se il pensiero è la sorgente del dolore, bisogna  pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche questo  è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la stessa  natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore  e nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura  e della vita; che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬  lusioni, che tali si dimostreranno al cimento della espe¬  rienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre dal  fondo del cuore umano a rendere amabile o almen sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro  pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica  e lo demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore umano e  lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del benefizio  di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero naturale,  e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.  Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva  che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che questa  natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno.  Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata  dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se  stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni  suo giorno, come d’ogni nuovo periodo della sua vita  « Il primo tempo del giorno », canta anche il gallo silvestre  « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo  svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-  ma quasi tutti se ne producono e formano di presente  perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia  alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla  giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla  pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione;  destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza  ciuantunque cUa in niun modo se gli convenga. Molti  infortuni e travagli propri, molte cause di timore o di  affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non  parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del  dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in  riso, come effetto di errori e d’immaginazioni vane.  La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario,  il principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬  sione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia:  tanto più acuto quello, tanto più grave questa, quanto  più viva fu la speranza e ardente la fede nella vita. Quindi  la grande importanza del momento idillico, o giovanile,  spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del  Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco  e della opposizione, che è il momento del dolore. Questo  dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza  dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il  suo significato lirico se non corrispondesse a un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così  bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non  possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride spet-  tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto negli  occhi e nel petto;   Placida notte, e verecondo raggio  Della cadente luna; e tu che spunti  Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care  Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato.   Sembianze agli occhi miei. Del resto questo molle spettacolo non fugge da’ suoi  occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo. Noi r insueto allor gaudio ravviva  Quando per l’etra liquido si voi ve  E per li campi trepidanti il flutto  Polveroso de’ Noti, e quando il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo.   Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli  Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta  Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto  Fiume alla dubbia sponda  Il suono e la vittrice ira dell’onda.   Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di  questa natura di cui ella si vede prole negletta:   , Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella   Sei tu, rorida terra. A me non ride   L’aprico margo, e dall’eterea porta  Il mattutino albor; me non il canto  De’ colorati augelli, e non de’ faggi  Il murmure saluta: e dove all’ombra  Degl' inchinati salici dispiega  Candido rivo il puro seno, al mio  Lubrico pie’ le flessuose linfe  Disdegnando sottragge,   E preme in fuga l’odorate spiagge.    13. — GkktIx<s, Manzoni e heopardi.  Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura  sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne odono  di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste:   E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi,   E l’inquieta notte e la funesta  All’ausonio valor campagna esplori.   Cognati petti il vincitor calpesta,   Fremono i poggi, dalle somme vette  Roma antica mina;   Tu si placida sei ? Tu la nascente   Lavinia prole, e gli anni   Lieti vedesti, e i memorandi allori;   E tu su l'alpe l'immutato raggio  Tacita verserai quando ne’ danni  Del .servo italo nome.   Sotto barbaro piede  Rintronerà quella solinga sede.   Ecco tra nudi sassi o in verde ramo  E la fera e l’augello.   Del consueto obblio gravido il petto.   L’alta mina ignora e le mutate  Sorti del mondo: e come prima il tetto  Rosseggerà del villanello industre.   Al mattutino canto   Quel desterà le valli, e per le balze   Quella r inferma plebe   Agiterà delle minori belve.   D’altra parte, fin da quando il  Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed  eternamente giovanile della santa natura e del mondo,  contro cui si volgerà sempre più risentito e dolorante,  egli sente nel petto   Nell’ imo petto, grave, salda, immota  Come colonna adamantma,   quella noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte  Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e grandi idilli che altro, in¬  fine, si canta se non il dolore ?   Dolce e chiara è la notte e senza vento,   E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti  Posa la luna, e di lontan rivela  Serena ogni montagna. O donna mia.   Già tace ogni sentiero, e pei balconi  Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo  Nelle tue chete stanze; e non ti morde  Cura nessuna; e già non sai né pensi  Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.   Tu dormi: io questo ciel, che si benigno  Appare in vista, a salutar m’affaccio,   E l’antica natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme  Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro  Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi  e lo stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna  formano lo sfondo del quadro, in cui risalta la personalità  di quest’uomo, a cui la speranza è negata e i cui occhi  non brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza di  questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna  sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a  lei. Fantasmi e sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono  alla mente del Poeta soltanto per fargli sentire che egli  ne è escluso:  non io, non già eh’ io speri,  .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta per  terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella  gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione  che l’inaridisce:  Ahi, per la via   Odo non lungo il solitario canto  Dell’artigian, che riede a tarda notte.   Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;   E fieramente mi si stringe il core,   A pensar come tutto al mondo passa,   E quasi orma non lascia.   L’artigiano probabilmente non fa questa malinconica  riflessione. Probabilmente egli, come la donna, rimembra  i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta  tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel  mondo festivo e gorgogliante ancora di sensazioni dilet-  tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore de¬  solato.   E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue  poesie, che il Leopardi stesso definì idillii, e in cui più  forte risuona la corda dell’animo commosso e vibrante  della stessa vita del mondo.   Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria   che comincia;   La mattutina pioggia, allor che l’ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’afìaccia  L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce  I suoi tremiili rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli susurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico;   per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura, e  per concludere;   In cielo.   In terra amico agh infehci alcuno  E rifugio non resta altro che il ferro.   Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto  è idillico il principio. I due termini si corrispondono e  si congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione e l’amore per la natura, per  la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza ma¬  gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la  patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che  rende amabile e santa la vita, e non intenderete più lo  strazio delle sue delusioni. Prescindete dal fermo con¬  vincimento, che la sua filosofìa gli ha piantato nel petto,  della arbitraria soggettività degli ideali in cui l’uomo,  non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto  con cui egli, tornando sempre ad esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale degli  uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non  potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca  a questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire  virgineo con cui tutto il suo essere si stringe al mondo,  che non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II  pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte del  Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è  gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬  giato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella sua me¬  moria e nel suo cuore superba visione, sua delizia ed  erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e presente,  torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,  che già lo fece per tanto tempo ululare.   L’atteggiamento negativo ed ostile, quando non si  scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e signi¬  ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme  di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in  qualche raro tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬  rette morali. Di cui si è potuto parlar con sì distratta  intelligenza da vedervi lampeggiare non so che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi,  sa che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici  sono i critici del frammento. Si fermano a una pagina  delle Operette leopardiane, e non curano di guardarne  l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente unità  organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una,  sotto la stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento  dell’autore. Così vedono Momo, i sillografi, Stratone;  ma non vedono il principio e la fine del libro. E si lasciano  sfuggire il significato e l’accento del mito iniziale, la  Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-  v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore  gentilissimo; come si lasciano sfuggire le meditazioni  finali di Eleandro e di Plotino, tutte umanità ed affetto.  Non vedono perciò lo spirito complessivo e centrale e  quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,  che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti  più duri, più pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta  è colpito allo spettacolo del freddo vero.   L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due  opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello  spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime.  La quale nel momento stesso che pare prostri gli animi  nel più disperato dolore, li solleva, conforta ed esalta,  aspergendoli di non so che affettuosa soa\ ita. Idilho e  dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la  vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed  estrania; e fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente  dentro di sé un vuoto infinito. Due cuori diversi, ma non  posti l’uno accanto all’altro, bensì unificati in un cuore  solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né ])cssi-  mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà,  del valore e della superiore letizia della vita, tremenda  insieme e adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬  senza della poesia leopardiana.  In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel  pensiero che ferisce, sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo  stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora  rinverdisce di nuove fronde. Non si può negare che esso  faccia guerra continua alla nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la fede  e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ;  e dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna,  la quale tenta d’immergervisi e sentirne il refrigerio,  sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e s’affretta  per le piagge odorate.   Se non che questo pensiero devastatore e distruttore  della originaria unità dell’uomo con la natura, è esso  stesso una nuov'a natura: è la natura di quell anima  grande perché infelice, e infehee perché grande, onde il  Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in  verità sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori,  ma si pensi, si attui, si viva, esso non è più nulla di  estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in esso, ancorché  rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.  Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità  superiore in cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito  attraverso al pensiero e al canto; poiché (come egli dice)  « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la  potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà  dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce  naufragare, è contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia  spaziando più oltre. Allora egli, piccolo ed esile fiore  sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore, s’inebria del  profumo della sua poesia, che consola il deserto. Allora  egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna  gli può strappare, nel demone divino e onnipotente che  fa insieme la sua infelicità e la sua grandezza, la gioia  e il fervore della vera vita; in cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende l’amcre  con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬  taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire.  A Porfirio che a conclusione d’un rigoroso ragionamento  si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che « non dee  piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere secondo  ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro  chi non cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi  dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere  umano. Uomo chi l’amore di se medesimo pospone al¬  l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini,  è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ?  O non ci sono, per dir così, due ragioni: una, inferiore,  che ci trarrebbe al suicidio attraverso il più sordido amore  di noi medesimi, e una superiore, che ci libera dal giogo  di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini che  ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non  è la natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità  che soffre ed ama e canta.   Quale in notte solinga  Sovra campagne inargentate ed acque.   Là 've zefiro aleggia,   E mille vaghi aspetti  E ingannevoli obbietti    1 Operette. Fingon l’ombre lontane   Infra Tonde tranquille   E rami e siepi e collinette e ville;   Giunta al confin del cielo. Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno  Nell’ infinito seno   Scende la luna; e si scolora il mondo;   Spariscon Tombre, ed una  Oscurità la valle e il monte imbruna;   Orba la notte resta,   E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente luce.   Che dianzi gli fu duce.   Saluta il carrettier dalla sua via;   Tal si dilegua, e tale  Lascia l’età mortale  La giovinezza.   La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.  In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto  segno dello spirito del Poeta. Qui la sua poesia.  Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia Nazionale  dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata, oltre che  ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i» lugUo  dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo  Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla morte di L. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno  di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e interessi  in massima parte estranei all’animo del Leopardi, anzi  osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro  uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così impor¬  tanti, anche secondo il modo di vedere del L.,  da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni e  de’ suoi giudizi storici. Secolo, si può dire, anti-leopardiano, culminante in questa Italia, potente, imperiale,  creazione audace della stessa Italia che alla fantasia giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche  ambe le braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la  faccia nascosta tra le ginocchia, piangente.   Eppure lungo questo secolo la fama del Leopardi è  venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia  ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia, della sua anima ha acquistato  d’anno in anno, e quasi giorno per giorno, di penetra¬  zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a  mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una  coscienza più seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze risorgevano a dignità civile e  politica. Scendevano quindi in campo contro gli oppres¬  sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di  accorgimento e di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva, operante  e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto  sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una  nuova scienza, una nuova cultura, adeguata all’altezza  dell’assunto politico; e creavano un esercito nazionale; e  sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla vita  economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e creavano le scuole, organizzando tutto un sistema  nuovo di pubblica istruzione e portando via via la luce  neUe menti delle plebi abbandonate da secoli all’igno¬  ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte  le energie individuali si venivano educando al senso e  alla tecnica dello Stato; e infine, in una riscossa della  coscienza nazionale che si era venuta formando negli  animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più  grande guerra della storia; combattevano con grande  onore, e contribuivano più d’ogni altra nazione alleata  alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬  fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova  Itaha e una nuova Roma. Quanto cammino! E quanta vita  in quella moribonda Italia, di cui parlava Leopardi!   Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb  cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi,  r ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua  grandezza. La bibliografia leopardiana è una delle più  ricche tra quante se ne siano formate intorno ai maggiori  poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con la dantesca.  Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e su¬  scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con  i casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi  che soprastano con le loro alte cime al vento, da De San-    ctis a Carducci e a Pascoli, per non citare viventi, e di  fitta boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei grossi  tronchi. Intorno al L. non pure letterati, deside-  sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello svolgimento graduale del genio, e di risol¬  vere tutti i problemi che lo studio di tal materia fa na¬  scere; ma filosofi e storici della filosofia, poiché il Leopardi  ebbe il gusto degli alti concetti speculativi, e nel suo  stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri di dottrine  celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme scienziati  (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto  che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬  vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente  da improvvisate teorie e appoggiato a improvvisate os¬  servazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di costruzioni  e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili tuttavia  a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto  in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente,  peraltro, se ci sono state deviazioni ed eresie critiche e  storture di metodi materialistici suggeriti da pigrizia  intellettuale di letterati ottusi, o da presunzione pseudo¬  scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti di qual¬  siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci sono  stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso  le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti  della espressione artistica sa scoprire il principio profondo  dell’ ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di  quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che in  Italia, in questo secolo, da Leopardi a noi, ha avuto  esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato nel¬  l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per  raggiungere il poeta là dove egli e poeta.   Così in questa selva della letteratura leopardiana noi  non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di questo    secolo anti-leopardiano si può dire che egli sia stato prima  scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno  dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il  creatore della più intensa poesia che si sia prodotta mai  in Italia. Fu scoperto quando un nostro grande critico,  che lo aveva conosciuto di persona, gentile e mansueto  come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti,  e acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro,  non poteva paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire  la infinita differenza tra il pessimismo amaro del filosofo  tedesco e il pessimismo sui generis del poeta itahano.  « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a quello  che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬  derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama  illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in  petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che  non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli, che non  cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non  abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa  credente; e mentre non crede possibile un avvenire men  tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo  amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così  basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile  e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse  prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te  l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva confessato  il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più freddamente  si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli occhi  dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza  indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e  degna di esser vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove  esce candidamente a dire « che non è fastidio della vita,  non disperazione, non senso della nuUità delle cose, della  vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio    del mondo e di se medesimo; che possa durare assai;  benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevo¬  lissime e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la dispo¬  sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime e appena possibih a  notare; rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella  speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro  apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non  veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al  senso dell’animo ».   Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo dal  sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché  sente di dover affermare, come fa L. Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva », « sohto e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬  mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire :  <( Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste,  o jier isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e  non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di  deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di (juel  misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o  di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,  iniquità e disonestà di azioni, o perversità di costumi;  laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e  infine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari;  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Così  aveva pensato quando scriveva con animo  di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni  dopo, nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche.   Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo il  succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33  quegli accenti disperati ed empi;   In noi di cari inganni   Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener nostro il fato   Non donò che il morire. Ornai disprezza   Te, la natura, il br\itto   Poter che, ascoso, a comun danno impera,   E r infinita vanità del tutto.   Momento satanico, ma un solo momento: voce sì  dell’anima leopardiana, ma che il lettore attento non  può ascoltare se non commista in armonia profonda a  voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo  stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione  più schietta della sua propria natura. Alla quale egli non  può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima  di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al let¬  tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mez¬  z’ora gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di  fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre spesso nel Leopardi.  Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di questa  forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a  se medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia  di questo universal meccanismo che regge il mondo  concepito, come L. aveva appreso a concepirlo,  in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in  cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù,  né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza    umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e  la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di  dominarla e farne strumento di una vita spirituale sem¬  pre più ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’im¬  magine enorme e tremenda di quella Natura disumana,  che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo  audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta  nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove all’uomo  che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita  per cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel-  r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un  luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco  che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco  di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide  da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli  ermi colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola  di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era una  forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto,  appoggiato il dorso e il gomito a una montagna; e non  finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di  occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ».  La Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più  che altrove la sua potenza. E alle molte parole con cui  1 ’ Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono  l’uomo in questa vita a cui non egli ha chiesto di nascere,  risponde breve che « la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate  ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve con¬  tinuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo;  il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiun¬  gono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che    appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese; come  fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita  per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso,  e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che  r Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò  un superbissimo mausoleo di sabbia; sotto il quale colui  disseccato perfettamente, e divenuto una bella mum¬  mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato  nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo della  prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga questa  immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra  una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace  d’indagare questo mistero enorme delbumverso non per  addolorarsi del disperato destino deU’uomo, anzi per  riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo socratico, che con occhi di lince scopre  tutto il vano e il doloroso della vita, ma ne ragiona con  impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al di sopra  e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo Leopardi non fa la fine dell Islan¬  dese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o còlto  improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda dal¬  l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore  nell’ intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia  n plebeo il quale, non valendo a cessare gli oltraggi del  destino, si consola con la necessità dei danni, quasi fosse  men duro un male senza riparo o non sentisse dolore  chi è privo di speranza. No,  Guerra mortale, eterna, o fato indegno,   Teco il prode guerreggia.   Di cedere inesperto.   È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso  luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de    casi. A quel modo di emenda a cui s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà consentire, come sappiamo.  Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non devecedere.   Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero si leva al di sopra del fato, intende, comprende  e sorride;   Che se d'affetti   Orba la vita, e di gentili errori,   È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me bastante  E conforto e vendetta è che su l’erba.   Qui neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido.   Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si allarga  allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece  battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità.  Ma questa eroica grandezza non basta; poco stante,  nella piena maturità delle sue esperienze morali, tornata  la calma dopo la tempesta della patita delusione e del  sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal  cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator  dei casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi  cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’ impietrata lava,  là dove erano state liete ville e ricche messi e armenti  e città famose, e ora tutto intorno una ruma involve, il  suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra, che,  quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor  manda un profumo, che il deserto consola: simbolo della  sua poesia, del suo animo, che da questa spietata empia  natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana  compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro  al destino:   Nobil natura è quella  Che a sollevar s'ardisce  Gli occhi mortali incontra  Al comun fato, e che con franca lingua,   Nulla al ver detraendo.   Confessa il mal che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma contro la natura che sola è rea:   che de’ mortali   Madre è di parto e di voler matrigna.   Costei chiama inimica; e incontro a questa  Congiunta esser pensando.   Siccome è il vero, ed ordinata in pria  L'umana compagnia.   Tutti fra sé confederati estima  Gh uomini, e tutti abbraccia  Con vero amor, porgendo  Valida e pronta ed aspettando aita  Negli alterni perigli e nelle angosce  Della guerra comune.   Oh l’alta meraviglia del Leopardi, dopo circa un  lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel concetto desolato  del mondo che le meditate dottrine gli mettevano innanzi,  e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella speculazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a  chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta,  ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto  le Operette che sono la filosofia del Leopardi, ma sono  pure un momento essenziale dello svolgimento della sua  poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della  sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno nella filologia  italiana, che furono per lui le cure spese intorno alle  Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia  italiana. oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire  in petto la vita ! Non che risorgesse la speranza; non  che la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si  accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.  Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni.   Sopirò in me gli affanni  L’ingenita virtù ;   Non l'annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L’ infausta verità.   Dalle mie vaghe immagini  So ben ch’ella discorda;   50 che natura è sorda.   Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette:  Pur sento in me rivivere  Gl’inganni aperti e noti;   E de’ suoi propri moti  maraviglia il sen.   Da te. mio cor, quest’ultimo  Spirto, e l’ardor natio.   Ogni conforto mio  Solo da te mi vien. Saffo ha ragione quando afferma;   Mancano, il sento, aH’anima  Alta, gentile e pura. La sorte, la natura.   Il mondo e la beltà.   Saffo però ha dimenticato il suo cuore:   Ma, se tu vivi, o misero.   Se non concedi al fato.   Non chiamerò spietato  Chi lo spirar mi dà.   Ecco, Tanima si calma, torna la vita con le sue attrattive,  con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al cuore del    2 i 6    Poeta Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza  negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa; toma  l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il petto, al suon della sua voce; quando questa  voce gli faceva lasciare gli studi leggiadri per affacciarsi  al balcone della casa paterna:   Mirava il ciel sereno.   Le vie dorate e gli orti,   E quindi il mar da lungi, e quindi il monte.   Lingua mortai non dice  Ouel eh’ io sentiva in seno.   E pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni prima,  in quel capolavoro che è l’idillio scolpito nei quindici  versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna, della spietata natura, aveva intravvista, sentita,  amata un’altra Natura; l’immensa Natura, verso la  quale dal limite stesso della prossima siepe l’anima è  lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica dolcezza:    interminati   Spazi di là da quella, e sovrumani  Silenzi, e profondissima quiete   .... ove per poco  Il cor non si spaura. E come il vento  Odo stormir tra queste piante, io quello  Infinito silenzio a questa voce  Vo comparando; e mi sovvien l’eterno,   E le morte stagioni, e la presente  E viva, e il suon di lei. Cosi tra questa  Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   Di questo momento mistico del Leopardi poco s’è  parlato; ed è momento di grande valore per la compren¬  sione della sua anima, che in quest’atteggiamento reli¬  gioso placa definitivamente il fiero contrasto tra la sua    indomita soggettività e la realtà onnipotente e infinita,  in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in  una situazione idillica che, riportando l’individuo alla  natura madre, infonde in lui la fiducia rinfrancatrice,  di cui l’uomo ha bisogno per vivere, abbandonarsi al¬  l’azione e sentire nel proprio petto il respiro eterno e  r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò,  com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i grandi  idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore  errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più  potente espansione e della lirica più piena e felice del  Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia leopardiana.   Quando si legge la lettera al Giordani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta  la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e  un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi  cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune  immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel  cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura, la cui voce mi parve  di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere com¬  mossi da questo prorompere di così alta vena mistica la  cui scaturigine evidentemente si cela nel centro vivo  più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   Allora si ode quasi il lento respiro queto e dolce e l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria parte,   Sovra un rialto, al margine d’un lago  Di taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si volve.   La sua tranquilla imago il sol dipinge.   Ed erba o foglia non si crolla al vento;   E non onda incresparsi, e non cicala  Strider, né batter peima augello in ramo,   Né farfalla ronzar, né voce o moto  Da presso né da lunge odi né vedi.   Tien quelle rive altissima quiete;   Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio  Sedendo immoto; e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le coramova, e lor quiete antica  Co' silenzi del loco si confonda.   Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur  così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo  sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata  poesia :   Forse s'avess’ io l’ale  Da volar su le nubi,   E noverar le stelle ad una ad una,   O come il tuono errar di giogo in giogo.   Più felice sarei....   Poiché il pastore vede che la sua greggia è beata, quasi  libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non -prova, a  differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra  l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la  mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia  riposo. E ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si  appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è la  felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irre¬  quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile  intrigo, in una fatica vana senza speranza.   Tutta la poesia del Leopardi attinge in quel punto  mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia.  Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni che    gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della  casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti  azzurri ». Per lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi,  né riso, né amore: ma cantare sì, come ruccellino che  dalla vetta della torre antica va cantando, alla campagna,  finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la  valle, mentre   Primavera d’intorno   Brilla nciraria, e per li campi esulta.   Si ch’a mirarla intenerisce il core.   L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che passa e della morte che s’avvicina: poiché  di natura è frutto ogni sua vaghezza e in lei non è affanno :  e da lei sgorga pure il suo canto; il canto che aduna  nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare  l’aria e esultare le campagne.   Anche uomini di alto intelletto, come Capponi,  han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel suo con¬  cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬  zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬  pere. Come se questo stesso lamento non uscisse dalle  Sacre Carte ! E gli han voluto far osservare che felice  era certo egh stesso mentre componeva i suoi canti, e  riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo  il significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente  del suo irresistibile incanto! L. lo sapeva bene,  e sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri  annotava: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita,  e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo !  Passar le giornate senz’accorgermene e parermi le ore  cortissime, e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta  facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non aveva  egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano  intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza?  Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare  della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir così,  a far la più alta prova del suo potere dentro il genio  dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova  se stesso, scoperta che abbia la fonte della sua vita:  quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle beate  larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere  e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze, al  regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre  questa sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente  l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza  e nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad  amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti  parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore  in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto  dello spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento  del proprio valore, quale si svela al contatto di quella  natura eterna, in cui è il suo principio e con cui perciò  deve immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio  essere. E il naufragar m è dolce in questo mare.   Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua  poesia, che i giovani amano per l’amore della giovinezza  che vi spira dentro; che gh uomini maturi ed esperti  della vita amano non meno per il lucido specchio che  essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso  i quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni  disinganno; che tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti  o ignoranti, considerano come uno dei doni più preziosi  di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran cuore  parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono  per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e della non meno innegabile azione dello  spirito che affranca da ogni miseria e infonde la fede  per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro, sacro per  gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in  cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò  faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto :  anima della sua anima. Piccolo libro da leggere bensì  non a brani e frammenti, ma intero, affinché non sia  frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme  la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze e  pubblicata nel volume di letture Giacomo Leopardi a cura di Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di  Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande  poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di  questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto  che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto  falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole.  Ripugna infatti al senso poetico di cui ogni spirito ben¬  nato è più o meno riccamente dotato, questa ricerca che  ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e  affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che  pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta,  e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia  quello che egli sente, e sente profondamente, al paragone  degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire.  Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia,  un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno !  Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza  e col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita  spirituale, nessuno così fortemente come il poeta afferma  la propria fede e la oppone ad ogni più meditata dottrina  che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati  interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto  d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le  altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si  svolgono dentro al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬  sono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una gioia  tutta soggettiva come di chi in sogno viene a capo del  suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del giar¬  dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e le opere loro, perché con la ragione sovrana  prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di fronte  al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contrad¬  dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle  sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede;  e insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene  così a trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza  della sua personalità se a misurarla non adotti un metro  diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inu¬  mano e brutale che accostarsi ai grandi uomini per guar¬  darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano scorgere  i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto  in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è  grande uomo per il suo cameriere; e potrebbe parere che  in fine il filosofo sia, per tale rispetto, il cameriere del  poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le scarpe, ma  non lo guarda mai in faccia.   Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta !  C’ è il filosofo; ma c’ è anche l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ; schiere e schiere  di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i quah,  per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il padrone, per entrargli nel¬  l’anima e scrutarne la passione, intenderla, sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!   Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto  tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se stesso e \fivere la sua vita supe¬  riore, di cui è geloso come del suo tesoro. Talora può  concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile  degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti  occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬  riosi, così opachi, così grevi; — e negh angoh della bocca  il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini che  la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue inces¬  santi inchieste e pretese, diventa materia di satira.   Allora, il Leopardi esce in un’osservazione di gusto  volteriano, come questa che è nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e  della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità  se l’uomo fosse ancora qual era da principio; consiste a  correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter  l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato  s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la som¬  mità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla  filosofia ». Osservazione che ama ripetere, dandola come un «suo principio»: «La sommità  della sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà,  e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non  fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il  suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto  umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato in  cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida  forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi  delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo  di Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si  ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bi¬  sogna filosofare ».   Nei Paralipomeni degli ultimi anni, anzi  degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente dirà;   Non è filosofia se non un'arte  La qual di ciò che l'uomo è risoluto  Di creder circa a qualsivoglia parte.   Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto.   Le ragioni assegnando empie le carte  O le orecchie talor per instituto  Con più d'ingegno o men, giusta il potere  Che il maestro o l'autor si trova avere.    Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬  pardi chi si limitasse a leggere questa sola ottava dei  Paralipomeni, come chi si diverte a ripetere col Petrarca.  Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o ignorando  che PETRARCA continua; Dice la turba al vii guadagno  intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si  ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen-  sier suo in questo modo:   Quella filosofia dico che impera  Nel secol nostro senza guerra alcuna,   E che con guerra più o men leggera  Ebbe negli altri non minor fortuna,   Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera  La mia mente oso dir, portò ciascuna  Facoltà nostra a quelle cime il passo  Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso.   La filosofia, dunque, che il Leopardi schernisce è quella  teologica, come allora si diceva, dommatica, spiritua¬  listica; la filosofia della Restaurazione e del Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni  filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica,  presuntuosa, intollerabile alla mentalità leopardiana per¬  ché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni li¬  bera mente, proveniente, come pur quivi si dice,   da quella   Forma di ragionar diritta e sana  Ch’a priori in iscola ancor s'appella,   Appo cui ciascun’altra oggi par vana.   La qual per certo alcun principio pone  E tutto l'altro poi a quel piega e compone;   cotesta filosofia non è satireggiata qui propriamente  dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole, da  un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è combattuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬  tore par vera. Neanche si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia respinta in tutte le sue  forme e in generale, quando osserva che anch’essi, questi  avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro  filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere  la sua filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli  propriamente professa di averne due. Dico cU più: senza  r intelligenza di questa sua duphce filosofia si rischia  di fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare,  e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una  filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da camerieri che allacciano le scarpe e  non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a braccetto una critica  che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non meno,  tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però  della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione di metodo, che ritengo fonda-  mentale. Ed è questa: che l’essenza della poesia non è  nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta  ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma  negh occhi con cui lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e  vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì,  nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo  ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede  o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la sorgente  della poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette  morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e reazionario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e  per ciò non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e  cioè di positivo ed eterno, è critica radicalmente sbaghata,  che scambia le ombre con i corpi saldi. Poiché le idee,  una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima assume  verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse    partecipano e da cui traggono il loro significato vivente,  sono pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente,  ma non {lotrà mai abbracciare al suo petto.   Nel caso del Leopardi poi c’ è di più; perché, come ho  accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu-  rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e  che fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì  del suo canto, egli ha la filosofia di cotesta sua filosofia.  E in questa filosofia superiore che è negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da  Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che non bisogna filosofare; in questa  filosofia superiore è il senso serio e profondo di quella  che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda della  filosofia, giudicata inutile anzi dannosa.   Lo stesso L., teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della sapienza, la  chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»:  una filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle  cose, ci ravvicini alla natura: filosofia naturale, spon¬  tanea, primitiva, barbara; più che alle origini, si trova  nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo da  capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della filosofia leopardiana contro la pretensiosa  filosofia ottimistica alla moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle  opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano  allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i più  degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello  solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste  cose le dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e  moderni ». Timandro ha concesso ad Eleandro che tutti    sono infelici; gli ha concesso la necessità della nostra  miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli  uomini; gli ha concesso che in queste verità si assommi  la sostanza di tutta la filosofia; ma deplora egh che tali  verità vengano divulgate col solo frutto di spogliare gli  uomini della stima di se medesimi («primo fondamento  della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh  dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle verità che sono la sostanza di tutta la  filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli  uomini; e credo che facilmente consentireste che debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare, come  s’ è detto.   Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia primieramente  è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non  fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima, perché cjuella ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e imparata che sia, non  si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli  uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi  più facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ».   Non si può mettere in opera. Il che significa che  rultrafilosofia — che è la conclusione perfetta e perciò  la vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra, falsa  o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è quella  che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi  resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado,  quantunque insieme con essa e al disopra di essa ci sia  una verità certamente più umana e degna dell’uomo,  diretta a ricostruire quel che la prima ha demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che  si conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto  ragionare che s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa  della filosofia superiore non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda natura,  che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà  mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la verità assoluta, perché messaci innanzi  dalla stessa filosofia quando sia riuscita ad elevarsi fino  alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur non  contraddire alle verità via via accertate e sempre più  strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile  sistema, bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sem¬  bianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte quelle altre  verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale  a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda rivivere  il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva, felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente. L’uomo L. non può non  filosofare; non può non passare attraverso la prima filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda e superiore. Dove egli ritrova tutto quello che ha  perduto. Lo ritrova, s’intende, com’ è possibile soltanto dopo  averlo perduto; poiché dimenticare quel che ha saputo  e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar fanciullo  un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e le  amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della  virtù chi abbia una volta bevuto al calice del bene e  del male.   Chi distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o  forme, la prima di un pessimismo storico in cui tutto il  male è frutto dell’ « irrequieto ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai Patriarchi),  e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi uomini  vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è,  ripeto, il segreto della sua poesia; di quella dolcezza che  ci suona dentro alla lettura dei canti dal primo all’ultimo,  e in forma più palese e più sistematicamente determinata,  almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza  che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie forme  dell’anima di quest’uomo, che fu certamente tanto grande  quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della  sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvol¬  gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione,  anzi per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella  vita con i suoi ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente attestata  nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano  col mito delle origini della umanità governate dall’amore  e finiscono nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei  scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo  dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro  [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare  con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia negli  stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio  di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è  fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza  d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di  costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle  opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili,  forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,  che dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo;  e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari.  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia. E più  tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge  della vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto  al fondo della disperazione della sua vita senz’amore.  Prima parola ed ultima, amore. Quella stessa che risuona  in fondo ai Canti, nella Ginestra. E contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e insomma a tutto il contenuto  prosaico della poesia leopardiana; voglio dire a tutto  quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli insegnamenti di quella filosofia che, per altro, negli stessi Paralipomeni, dove più espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L.  di uscire in quel famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto avvenimento esulta  Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che giustifica un  empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello che  in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il  quale da chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze  imprescindibili, non può non raffigurarsi dotato di liberta,  e quindi appartenente a quel mondo dei valori per cui  è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione  al falso, o un volere buono in contrasto col malvagio,  e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel puro aere  ideale e sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte; lo  stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui libertà  e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,  altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione  ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa  realtà che si rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo  spazio e nel tempo, materiale, risultante da infinite parti  e particelle che si condizionano a vicenda in guisa che  ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre;  in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade,  è fatale di una necessità che schiaccia e stritola ogni  vana pretesa dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso  del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia nel  cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche  il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal  falso. Anche la volontà che non sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle  tempeste della natura.   La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura,  perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a  ogni razionalità (perché la ragione è discriminazione,  scelta, libertà). Un mistero.   Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che  essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come se  cioè fosse possibile un mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per  l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo,  nel mistero di questa tenebra profonda e per definizione  invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la verità sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse possi¬  bile salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni verità.   Filosofia dunque essenzialmente contradditoria, che  nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente contrad¬  dizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per  negarsi rivendica di fatto il proprio potere e valore.  Filosofia accettata dal Leopardi, ma con un’anima che  troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è  naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito  reagisce ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi  al dolore, per non aver coscienza di tale contraddizione.  E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo, pertanto,  che dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso  angoscioso del proprio niente, non piega, invece, non  s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione  di tutto il suo spirito nel senso gagliardo e tenace con  cui l’apprende e lo ferma nel cristallo della sua divina  fantasia, si trasfigura: non è più il limite della sua forza  e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza  umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e  infinita potenza.   Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua  poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale  dall’astratto concetto di quel crudo materialismo, che  annienta l’uomo e fiacca perciò ogni velleità di vivere a  proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un mondo  qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo  senso profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno,  che gli \aene dalla sua « ultrafilosofia », dal bisogno di  respingere come antiumana e contradditoria alla incoer¬  cibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e sof¬  focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma prode,  di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il  fato indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tar¬  taro:  e la tiranna   Tua destra, allor che vincitrice il grava.   Indomito scrollando si pompeggia.   Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride.   Ora è la misera Saffo, grave ospite di natura, estranea  alla infinita beltà di questa, consapevole del prode ingegno  che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie virili  imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può  vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo  indegno ricevuto da natura, primo principio della sua  infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del  cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi.   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato. La man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa   Per antica viltà l’umana gente;   Ogni vana speranza onde consola  Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto  Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento  anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima dispera¬  zione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,  della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto poter che, ascoso, a comun  danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a questa Natura mi¬  steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente  oppone la realtà all’uomo al punto da non lasciargli più  modo di distinguersene e spingerlo perciò al desiderio  d’immergersi e immedesimarsi col tutto infinito che gli  è davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo  dolore, ossia quella sua soggettività solitaria e disperata  di uomo che, perduta la giovinezza, vede intorno a sé  il deserto e il buio della sera e deH’orrida vecchiezza,  nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,  dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce  gusto dell’eterno:   Così tra questa   Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare;   de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe   A pensar come tutto al mondo passa  e quasi orma non lascia;   e il suono delle umane glorie e degl’ imperi più famosi  cede come il canto dell’artigiano che riede a tarda notte  al suo povero ostello poiché la festa è finita:   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  Il mondo;   e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante insieme e viva divenutagli familiare:   ed alla tarda notte  Un canto che s’udia per li . sentieri  Lontanando morire a poco a poco;   de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso all’ immoto specchio del lago di taciturne  piante incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le commova, e lor quiete antica  Co’ silenzi del loco si confonda.   Estasi; estasi mistica che fa risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel canto  Alla primavera, 0 delle favole antiche:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   e quello anche ])iù antico della stupenda lettera al Giordani, che convien rileggere: «Poche sere  addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia  stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna,  e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano  da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche,  e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi  a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto  tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota nello Zibaldone che  « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,  ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della  sua nota, della FILOSOFIA inferiore. Egli stesso ha il pensiero  a una diversa filosofia quando, sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi  si strisciano sempre intorno e appiedi alla verità; di  rado l’afferrano con mano robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto  della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬  timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni,  situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto  il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura  o « senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della  piccola ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale  non s’illude di aver spiegato tutto quando ha spiegato  la natura, e non ha spiegato e si mette in condizioni  di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a  dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita  umana. L’uomo, che è poi colui che si propone il pro¬  blema della natura, e senza del quale {pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella  mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia  nel meccanismo della natura e condanna alla schiavitù  del nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo  valore infinito appena la grande ragione gh faccia sentire  la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna  cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬  noscere e interamente comprendere e fortemente sentire  la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del  cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa,  è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace  alla natura, e può non temere la morte, e può, come la  ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino  alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una  forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio,  che « nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco  savio, che voler savia e filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio  tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita non  c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre  filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano  robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬  lettualismo.  La quale FILOSOFIA, si ponga mente, una volta, come  s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è  poi altro propriamente che la sua personalità, il suo modo  di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù  che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo i  palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia,  il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire;   Non l’annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la  stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la  determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle parole,  nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica-  mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che  l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a fatica  e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci  quei camerieri del Leopardi che sono i suoi interpreti,  pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi non pensò mai di scrivere;  non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti  Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa parola  cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il  Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla  a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e  sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate  non possono essere pel critico altro che accenni, spie  dell’anima del filosofo. La cui individualità è caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella  che, conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega  tanto le sue parole, spesso espressioni di cose pensate e  non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente  nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad  averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato  di idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e inconfondibile individualità si mamfesta e si fa  conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui  lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel colore  che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la  sua anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia  d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente della  filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del  cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove  la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il  suo canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Leopardi: l’implicatura conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo. Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off the old block’ as they have in Recanati!” --  Importante esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi, targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse l'amministrazione della propria eredità.  Dopo un primo progetto di nozze andato a monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria" di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo, passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della biblioteca di famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese, come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".  L'impegno civico  Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di L., Adelaide e Giacomo  Il medico e naturalista britannico Jenner La sua opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.  Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e delle attività teatrali.  Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di "retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe seguito.  Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale»  Morì il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi, la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi, i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di "Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo, ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre in una lettera dell'8 marzo:  «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.»  Per umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi, infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.  Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000 abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza, ironia e umorismo.  Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi storici su Recanati, coltivati in gioventù.  Opere digitalizzate Monaldo Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca pazienza. Rapporto con il figlio  ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono: senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte: la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo.  La lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819, quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli dovette rinunciare ai suoi piani.  «Mio Signor Padre. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.»  Finalmente, Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di attrito fra padre e figlio. Giacomo Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce che fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si sfogò poi per lettera con l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.»  In toni decisamente più miti ne scrive poi a L. il 28:  «Nell'ultimo numero dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.»  Nelle ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima lettera).  Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i due rimaneva però ancora evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non accettando lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina, scriveva a Marianna Brighenti:  «Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto di sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.»  Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà il proprio testamento, alla settima volontà scrisse:  «Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno anniversario della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L. e la sua famiglia, Bietti, Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di Sandro Petrucci  Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo.  Giacomo Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,  (L'ultimo amico del poeta narra di un suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi, Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede & Cultura, L., Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi, Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il bicentenario del trattato di Tolentino,  n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L.. Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi.  Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Corno, L. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi anti-italiano. che dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio , questi sono i doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo, questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi , e non trovo in esso una sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello?  LA CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer. Fin quì non dite male , ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella , ognuno ba i suoi gusti , e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”. Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo, bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo. come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo , e incominciamo le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia , il Cervello e il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi  Cer. Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città , perchè immagino che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non vogliamo un governo all'antica , il quale pretenda di governare davve ro , ma bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra , un simulacro , un brodo di ranocchie e niente di più.  questa è una cosa da nulla, ed è più facile preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer. Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e il più semplice , ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd , oibù ; se fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano diavere ricevuto il loro potere da Dio , e nessuno si azzardava di slendere la mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re falto dal popolo, perchèchipuòfarepuòguastare, ed è più facile sbalzare dal trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di cucina.Sentite dunque signor governo , e imparate bene cosa ha da essere il governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di tutto, il re ha da essere un re di carta , o vogliamo dire che tulta la sua autorilà deve consistere in un pezzo di carta , esso medesimo deve riconoscerla tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e putati , ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza , e per una semplice for malità , sua maestà di carta deve subito pi gliare la frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere i vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa , e di toccare un quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla cainera dei deputali , e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se però la camera non vorrà darglieli ,lascerà che il governo cammini da per sè stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi scacciare il re con tutta la sua maestà e la  Gov. Benissimo. Fil.Siccome poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla , e che egli pad usarne soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua maestà di carta lo dovrà liberare , e se condanneranno ingiustamente un innocente malveduto dal popolo , sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov. Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone in mano , e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono , il governo, tutto è del popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di passatempo al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”. Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia vera mente solida , dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino , il quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici debbano essere lavorali sopra queslo m o dello , un re dipinlo ,ovvero un re di paglia potrebbe servire nello stesso modo.  La Filosofia. Chi siete, e cosa volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti , i quali hanno inolla pratica dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino. Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p  La Filosofia , il Cervello, a la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia , gli avvocati e i procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un altro poco adattarsi al siste ma antico , e perciò venile avanli madonna Giustizia e facciamo i nostri palli.   posta per imparare cosa deve essere la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in m e n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e la giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròin verecondamente per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle cause, quando stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei giudici però i quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere discacciati e puniti.  102 re che questo non è proibilo ; e non manca il modo di stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se però qualcbe volta vi troverelealle strelle , rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e salvare la capra e l'orto , falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono per tutto , e coperlamente , ovvero scopertamente comandano in lulli i dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo   loro , e a chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un capo la dro , e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali , acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i galantuomini i quali giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo. mini indifferenti , ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione quelli iquali desiderano, che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure vengano giuo catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha da essere veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera . Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si vuole la m a n naia del boia , e piuttosto si gradisce ilcol tello degli assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce , Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il Sacramento , te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete, un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli , i frali, i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave re fatto una sconcordanza , caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re , distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi    Giu . H o capitotullo benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il vostro genio; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello perderà il cervello , e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i proprielari,ma anche 105  1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia , e non ci sarà mai pericolo , che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro. Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà , e lulle le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire , m a siccome ancora non siamo arrivati al punto , basterà stabilire per adesso alcu ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja , intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo partito definitivo , l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg gi , tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione uguale ?  106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in mira di spogliare iricchi,i signori   e i benestanti; e di arricchire i cialtroni , e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino, e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer. Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime , e siccome alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca pito,signora Proprietà?   Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo , che bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne; e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia le anticamere , perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a spalle dei mincbioni , se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre preferire i più indegni , i più asini e i più lemerari, e così si deve correre ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni , diffusa l'idea che tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato , e rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni , igoverni e i ministri del governo verranno strascinati da quella piena , e non potranno più impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo disordine e sono vera  108   mente affezionati allo Stato, daranno mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti qualche loro protello , tutti diranno che quella è la eccezione della regola , e tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto, acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato perchè non ebbe mai niente , e non è dovere che nel giorno della cuccagna un galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza , a depositarsi nella pan cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare la diffusione dei beni , o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa - tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi , ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta, con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con dottieri nasali dei grandi , e sino le zitelle , le vedove e le vecchie , pericolate , perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi , e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi , e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori, e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi , siguor Cervello, e imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in quelle casse , m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie tari e ancora dello stato , allora si manife steranno le forze di questa nuova occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le proprielà , e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli i pezzenti , aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni ? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità. Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso , e non credeva cbe la filosofia la sa. pesse tanto lunga , e pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della proprie tào vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo non cerca di mutar posto , 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti , rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e la buona morale , il deside rio dell'ordine , l'altaccamento al governo e la considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite e degra date dalla miseria , sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni ; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine tolta la barriera della ricchezza e della nobillà , o vogliamo dire tolta la barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo , e le gloriose giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni , o vogliamo dire l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire, ma  Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non potranno es sere permanenti e durevoli , perchè l'egua glianza delle proprietà è in opposizionecon gli ordinamenti della natura.  sfasciata da capo a fondo una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo , sì quando avremo subissata ben beno la società , non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo assicurare il bordello , il susurro , e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama Proprietà , ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi ai miei be nefici regolamenti , e ricordatevi che nel re gno dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni e delle proprietà , o sia per assassinare tulle quante le proprielà.  La Filosofia , il Cervello , l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali , e amici tan to sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve nite avanti , signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà.  L'Ins. Parlate pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi è quella appunto con cui si olliene   Fil.Dibò,oibo.Tutti vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società , e che anche i guatleri , i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi , letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia, e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina? la diffusione della civillà.Voi dunque , signor Josegnamento , dovete mettervi in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi , let terati e saccenti, e di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani , que stinon vorrete che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli oziosi,indocili e scontenti diseme desimi , e gravosi e molesti agli altri.   rivare alla diffusione generale dei lumi,e al l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai vostri scon siderati seguaci , qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero d'individui , e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di vil lapi ignoranti , e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla società non conviene alla filoso fia , la quale vuole il movimento e non vuole la quiete , vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio grado , la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni , e che ostacoli insormontabili naturali e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumi e della civiltà, così è certa che la propagazione smodera la dell'ammaestramento e dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi dolli , di scioli , di sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non pensa , neppure quando si trova ubriaco , di essere esso stesso un sovrano.Chi non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come si rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ? e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà.   L'Inc. Orsù , non perdiamo più tempo perchè io muoro di voglia d'incominciare la mia missione , e di andare a diffondere i lumi e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto allescienze, generalmentepar:   L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in ridicolo i preti , i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che trattano scopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive lusingando  > > . 120 lando , potete secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate sempre di oscurargli la verità e di allerare nel loro cuore igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli dell'uomo , le quali scienzc adoperate dalla filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere le dollrine dell’empielà e per suscitare lospiritodellale. merità.Sevoinon capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare la testa dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu l'opera di un essere necessario,ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi , oppure ciolloli del torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non ne sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi, per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la rigenerazione filosofioa , o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate a colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo , serve a legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili, commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta per custo dire le tradizioni , i monumenti e le opere delle lingue viventi ,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal mescolamento di voci nuove 0 straniere , e logorate e guastale dall'uso , si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli italiani , dai francesi , dai goli e dagli arabi , i libri scritti in ilaliano e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici , e non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in comoda precisamente per questo , e che vo gliamo levarcela di altorno appunto , perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco della dottrina ecclesia stica resterà in piedi , vantando diciotto se. coli d’inalterata antichità , i preti e i frati , i vescovi , i papi e i cristiani ce lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli. E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa diventerebbero i canoni dei concili , i placiti dei pontefici, le opere dei padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari , ma in primo luogo è assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente per due dozzine di secoli ,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso l'ultima sua rovina.  Cer. Questo certamente è stato un passo falso carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della filosofia e i danni religiosi e sociali diventi. nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali , e con questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo   indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare , giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot tore e sulla fede del farmacista , così litiganti è lo stesso che le citazioni e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua , giacchè alla fine dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali. Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento della sua importanza e della sua familiarità , si rende sempre più sconosciuta e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la  per i Cer. E quali sono queste ragioni? tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali , gli avvocati e i giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango, e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di quella lingua , gl'impegni , le protezioni e la cabala faranno il resto; il foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere, voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione. L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden dovi, che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere ilfra. tello carnale dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia. L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil. Una volta adunque la vera civiltà con. e   L'Inc. Ho capito benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più , e la civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito d'arlecchino , una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.  sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono , e al più si deve con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità dichiarata e brutale , predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono il frutto della civiltà , m a rendele poi familiari negli scritti e nei trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per opera della civiltà. Fil. Andate pure , e vi accompagnino cou lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi , ma oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo , e l'incilimento deve esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i superbi. Voi dunque , andando sempre contro natura,dovele mettere in tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori , e d o vele meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini , siccbè queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ?  Fil. Voi vi ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola religione può esser vera e tutte le altre devono essere false , così un solo cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere allrellanle imposture e mascherate , ridicole agli occhi degli uomini e oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o  Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne uno. facendo torto agli altri ?   trebbe essere la citla della Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi pare, operate come vi pare , e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua. Fil. Queslo veramente non è necessario , percbè nei paesi della filosofia ci è il datur omnibus , e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco , e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a bere e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei nostri serragli , come vi vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora nell'altro mondo , e che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta , questa , poco più poco meno , è la religione dei fi losofi liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli due sessi del genere umano quella libertà che si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo illuminato , il libertinaggio animalesco libera è il compendio di lulti i voti e lo scopo principale del liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio , e per l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia nuova cillà , esercitatevi il vostro culto liberamente, e non dubitale che i pollai , i pecorili e i porcili non saranno mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio , ma siccome non so cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu dizio.  Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più , e non gli volge mai nè uno sguardo , nè una parola ; questo Id dio è come se non ci fosse , si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi , e la dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni , ed entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro. Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo , ovvero se col tempo prenderà qualche altra figu ra , e non so cosa sia l'uomo e se finirà di essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio , e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini , voglio dire che non c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile , o il sarà quel che sarà , può accomodarsi benissimo con la dottrina della filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le divinità di le gno e di cocco , e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le lucerte , è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei filo sofi non mancheranno adoratori ,e a quella cara Venere, deessa della voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata , e che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p   Ris. Noi siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani, quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli , e co noscerele che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ?   Rif. Per ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci disertori dalla Chiesa romana. Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo godere i privilegi dell'errore , e non volendo assoggettarsi alle seccature della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale, il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi , e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo , perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta.  Fil. Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non sono più di quelli di pri m a , e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia , nata fatta per venire a figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb. Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti , portiamo titoli e decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico , e insieme coi miei compagni desideriamo di professare li  137 e per ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò non è vero nel senso in cui voi lo intendele , e non polrete provare in nes sun modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es sere i soli a credere e insegnare la verità , che fuori della vostra chiesa lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che vivono in un'altra credenza , e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati e  beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei filosofi la fede e il culto cattolico? e  perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in tolleranti , noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache , di frati e di claustrali di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non vanno a genio della filosofia. Cat. Ma , se è vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel pensiero , e animali dallo stesso desiderio , non potranno albergare in una medesima casa,vestire un medesimo abi to , vivere come gli pare e godere anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi , e i Dervis dei maomettani , perchè lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la parola di Dio, istruiscono la gioventù , so stengono il ministero del culto , assistono gli infermi , consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano per forza , assassinando i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle nuvole e non  1 $   Fil. E non contate per niente il celibato del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà , forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è troppo serio , troppo pubblico , troppo pomposo e solenne, e non può essere mai gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione cattolica è la dominante , ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe, epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio. Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat. tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si accordano mai coi cattolici , e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo , perchè accomodata quella piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete accordarci il bru tismo , le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque , i preti e i cat tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città , o la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle. La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa la sua danza pippando , e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello, la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. – the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lettieri: all’isola -- la ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice: “I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on ‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as he put it in his vernacular!” Insegna a Messina. Presidente della Real Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto apprezzato da Mamiani,  Gioberti e Galluppi. Altri saggi: Il sensualismo – cf. Grice, “Some remarks about the empire of the five senses” – Austin, “Sense and sensibilia” --, dissertazione, Messina, Capra; “La fisiologia calunniata di materialismo, Messina, Nobolo; La potenza del pensiero, Palermo, Console; Etica e diritto naturale, Messina, Amico; L’intuito: dialogo filosofico, Messina, Arena; L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata di lu professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico; Introduzione alla filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of ‘rational’ right!” (Messina, Amico; “La cognizione del dovere -- poche nozioni dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico; “Ricordi storici intorno al movimento filosofico in Siciliam Messina, Amico; “L’uomo” Pensieri” (Messina, Amico; Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality – solidarity, beneficence and all the conversational principles appealed by Grice find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on ‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he belong to her!” –  Antonio Catara Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords: implicatura.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lettiere: la ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Liberatore: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’ULIVO DELLA PACE -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo italiano. Grice: “One could write a whole dissertation – especially in Italy: their erudition has no bounds – about Liberatore’s choice of the sign being conventional, ‘ramo d’olivo’ = pace. It’s so obscure! Aeneas held one, against the Phyrgians – but did the Phyrgians know? And if Mars is often represented wearing an olive wreath, one would not think there is a ‘patto’ between Aeneas and the Phyrgian commander about that!”  Grice: “I like Liberatore – a systematic philosopher, as I am! His logic has the expected discussion on ‘sign.’ A conventional sign he says is a branch of olive ‘signifying’ peace – as opposed to smoke naturally meaning fire – As a footnote, one should note that in Noah’s days, the signification of the dove was ALSO natural – although not strictly ‘factive’ – but then not ALL smoke (e. g. dry ice smoke) signifies fire, as every actor knows!”  “Ma il difetto molto comune degl’economisti è il mancare di giuste idee filosofiche, e con ciò non ostante voler sovente filosofare.” Entra nel collegio dei gesuiti di Napoli e chiede di far parte della Compagnia di Gesù. Insegna filosofia. Fonda a Napoli “La Scienza e la Fede” con lo scopo di criticare le nuove idee del razionalismo, dell'idealismo e del liberalismo, dalle pagine del quale venne sostenuta una strenua battaglia in favore del brigantaggio, interpretato come movimento politico contrario all'unità d'Italia, ovvero: "La cagione del brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo governo". Fonda “La Civiltà” per diffondere AQUINO. Uno degl’estensori dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Studia Aquino. Pubblica “Corso di filosofia”. Membro dell'Accademia Romana,. Combatté il razionalismo e l'ontologismo, così come le idee di SERBATI. Sostenne che il brigantaggio e la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma soprattutto ideologica. Difensore dei diritti della chiesa e studioso dei problemi della vita cristiana, delle relazioni tra chiesa e stato, tra la morale e la vita sociale.  I filosofi della sua scuola mettono in evidenza a acutezza dei giudizi, la forza degli argomenti, la sequenza logica del pensiero, la stretta osservazione dei fatti, la conoscenza dell'uomo e del mondo, la semplicità ed eleganza dello stile.  All'inizio professore e giudicato da molti nella Chiesa cattolica il più grande filosofo dei suoi tempi. Si ritenene che vive santamente, e si scorge in lui un profondo spirito religioso. Considerato uno dei precursori del personalismo economico. Altri saggi: “Logica, metafisica, etica e diritto naturale, e in particolare:  “Dialoghi filosofici” (Napoli); “Institutiones logicae et metaphysicae” (Napoli);“Theses ex metaphysica selectae quas suscipit propugnandas Franciscus Pirenzio in collegio neapolitano S. J. ab. divi Sebastiani Quinto” (Napoli); “Dialogo sopra l'origine delle idee” (Napoli); “Il panteismo trascendentale: dialogo” (Napoli); “Il Progresso: dialogo filosofico” (Genova); “Ethicae et juris naturae elementa” (Napoli); “Elementi di filosofia” (Napoli); “Institutiones philosophicae” (Napoli); “Della conoscenza intellettuale” (Napoli); “Compendium logicae et metaphysicae” (Roma); “Sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma); “Risposta ad una lettera sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma); “Dell'uomo” (Roma); “La Filosofia di ALIGHIERI”; In Omaggio a Aligh. dei Cattolici ital. (Roma); “Ethica et ius naturae” (Roma, Typis civilitatis catholicae); “Lo stato italiano” (Napoli, Real tipografia Giannini); “Della composizione sostanziale dei corpi” (Napoli, Giannini); “L'auto-crazia dell'ente” (Napoli); “Degl’universali -- confutazione della filosofia di Serbati” (Roma); “Principii di economia politica” (Roma, Befani); “La proposta dell'imperatore germanico di un accordo internazionale in favore degl’operai”; “Le associazioni operaie”; “Dell'intervenzione governativa nel regolamento del lavoro”; “L'Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII”; “De conditione opificium”; “La civiltà cattolica spiega nei dettagli il clima di "difesa" in cui la chiesa si sente. Il ritorno ad Aquino dov’essere orientato alle sue dottrine originarie. Convinto che dopo di lui ben poco di nuovo ha prodotto il pensiero umano.  Brigantaggio. Legittima difesa del Sud. Gli articoli della "Civiltà Cattolica"  introduzione di Turco (Napoli, Giglio); “Per l'atteggiamento arroccato in difesa della Chiesa vedi ad esempio Sillabo # La "cupa scia" del Sillabo  Nardini, Manca di verità e si oppone ad AQUINO la soluzione di un alto problema metafisico abbracciata da L.” (Roma, Pallotta); “Lettere edificanti della provincia napoletana della Compagnia di Gesù, in La Civiltà cattolica, Civiltà cattolica:, antologia  Rosa,  [ma San Giovanni Valdarno] ad ind.; G. Mellinato, Carteggio inedito L. Cornoldi in lotta per la filosofia di Aquino (Roma, Volpe, I gesuiti nel Napoletano, Napoli, Dezza, Alle origini del tomismo, Milano, Devizzi, La critica all'ontologismo, Rivista di filosofia neo-scolastica, Mirabella, Il pensiero politico di ed il suo contributo ai rapporti tra Chiesa e Stato, Milano, Scaduto, Il pensiero politico ed il contributo ai rapporti tra la Chiesa e lo Stato, in Archivum historicum Societatis Iesu, Serbati, Roma G. Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, Bari ad ind.; Lombardi, La Civiltà cattolica e la stesura della "Rerum novarum". Nuovi documenti sul contributo, La Civiltà cattolica, Dante, Storia della "Civiltà cattolica", Roma Nomenclator literarius theologiae catholicae,  Grande antologia filosofica, Milano, C. Curci, Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum Novarum Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana., presentazione del libro su La Civiltà Cattolica e il brigantaggio. Segno – SENNO -- è generalmente tutto ciò che, alla potenza conoscitiva, ra-ppresenta alcuna cosa da se distinta. Perciò tal denominazione ben si addice al concetto il quale esprime al vivo e ra-ppresenta alla mente l'obbietto intorno a cui si aggira. Ma il concetto è interno all'animo e per pale sarsi di fuora ha bisogno di un segno SENNO esterno. Questo segno SEENO esterno consiste ne' voicaboli, i quali tra tutti i segni ottennero la preminenza iq.ordine alla manifestazione delle cose, che internamente concepiamo. Così il termine mentale, cio è il concetto, e d il termine ora le cioè il vocabolo, convengono tra loro nella generica ragione di segno o SENNO. Ma si differenziano grandemente nella ragione specifica. Imperocchè, primieramente il concetto è segno naturale; il vocabolo è segno – O SENNO -- convenzionale. Dicesi segno naturale quello che di per sè e per sua natura mena alla cognizione di un'altra cosa -- come il fumo, per esempio, rispetto al fuoco, e generalmente ogni effetto, riguardo alla CAUSA. Dicesi segno convenzionale quello, che ARBITRARIAMENTE  o PER PATTO vien destinato a di-notare alcuna cosa; come il ramo d'olivo si ad opera per il termine orale, benchè prossimamente significhi (E SENNO DI) il concetto, non dimeno mediante il concetto significa (E SENNO DI) lo stesso oggetto. Anzi, poi chè da chi parla è ad operato per di-notare il concetto non subbiettivamente ma obbiettivamente, cioè in quanto è espressione della cosa percepita. Ne segue che, quanto alla significazione (SENNO), esso si confonde quasi col concetto, dicuiè come la veste e l'esterna apparizione. E però la logica a buon diritto tratta per ora ni un vocabolo è di sua natura connesso con un determinato concetto; e però tanta varietà di loquela si scorge presso le diverse nazioni. Al contrario, il concetto di per sè e necessariamente rappresenta l'obbietto, essendo ne una natural rassomiglianza; e però il discorso mentale è lo stesso appo tutti. Inoltre il concetto è segno formale; il vocabolo è segno (SENNO) istrumentale. Ad intendere questa differenza, è necessario osservare, che il vocabolo permenarci alla conoscenza della cosa significata, ha mestieri d'esser prima dạ noi compreso. E pero appartiene a quel genere di segni (SENNO), a a cui può applicarsi la seguente definizione. Segno (SENNO) è ciò che, conosciuto, adduce alla conoscenza di un'altra cosa. Ma del concetto non è così: giacchè esso, senza bisogno d'esser prima conosciuto, col solo attuare la mente , ci mena alla conoscenza del l'obbietto, sicchè questo appunto sia il primo ad essere diretta mente percepito. Ciò di leggieri apparisce, tanto solo che si consideri che il concetto non può percepirsi, se non per cognizione riflessa e pel ritorno della mente sopra sè stessa. Laonde quello che si percepisce per prima e diretta cognizione, non può essere esso concetto, ma necessariamente è una qualche cosa diversa dal medesimo. A di-notare per tanto una tal differenza, venne introdotta la distinzione del segno (SENNO) formale e del segno (SENNO) istrumentale. Viene l'abuso del linguaggio che è il mezzo dato all'uomo per esternare ad altrui gl’interni concepimenti dell'animo. L'analisi de’ vocaboli è ordinariamente un grande aiuto allo spirito per rischiarare le idee, merce chè essi sovente tengon chiusi sotto la loro spoglia. Ma accade altresì che si arroghino più di quello che loro di ragion si compele, e tentino non di essere esaminali e giudicali dall'intelletto, ma manciparselo e deltargli legge a capriccio. Per diverse maniere principalmente i vocaboli introducono falsi concetti nell'animo. Per la loro ambiguità e confusione, imperocchè ci ha delle voci d'incerto significato, le quali han bisogno d'esser determinale nel senso in cui si tolgono, altrimenti ingenerano concetto vago e mal fermo da cui procedon poi fallaci giudizii. Tale è a cagion d'esempio la voce natura, la quale suol prender sia d’esprimere or l'essenza di una cosa, or il mondo sensibile; or l'autore dell'universo, or tull'altro a talento di co foi che l'usa. Parimente le idee significate pe' vocaboli sovente sono assai complesse e complicate; e pero ove non bene si risolvano per via d'analisi ne’loro elementi, son cagione che si formiun assai confuse ed informe concetto. Secondo, tal volta i vocaboli vengono ad operati a significar mere negazioni o prodotti arbitrarii della immaginativa, o semplici ASTRAZIONI ell'animo; come la voce “cecità” , “fortuna”, “centauro”, “località”, e somiglianti. Oravviene che per difetto di debita considerazione si cada nella credenza ch'esse esprimano cose positive e reali si nell'essere che nel modo onde sou concepite. I vocaboli delle cose immateriali son formati d'ordinario per analogia presa dagli obbietti materiali, e quindi avviene che talora si confondano le une cogl’altri. Ne'nomi derivati sebbene spesso l'origine e l'etimologia del vocabolo coincide col senso in che comunemente si prende, tuttavia non rade volte se ne dilunga. Nel qual caso per mancanza di attenzione può avvenire che l'una coll'altro si scambi. A queste cause può aggiugnersi la novità de’ vocaboli di che taluni stranamente si piacciono, e l'uso incostante che fanno di quelli stessi che fuor di ragione introduceno. La filosofia per quanto può nell'ad operare il linguaggio non deve scostarsi dall’uso comune, nè cambiare a capriccio il senso delle voci ricevute o da sè stessa una volta determinate. Una indebita applicazione de’ mezzi di conoscenza è radice mal nal ad'errore. Accadecia in prima dal non bene distinguere con quali facoltà dove l'oggetto concepirsi; come a cagion d'esempio in chi con la fantasia vuole comprender ciò che allrimenti non si può che con l'intelletto. Dippiù si bada talora più alla vivacità e felicità della RAPPRESENTANZA, che alla fermezza del motivo che spinge all'assenso. E così le cose che vivacemente e prestamente feriscono l'animo più di leggieri si ammettono che allre non fornite di questa dote, ma più salde per forza di argomenti. Inoltre si procede temerariamente a giudizii senza prima considerare se l'obbietto è debitamente proposto giusta le leggi e le condizioni volute dalla natura. Quinci le fallacie de’ sensi, lo scambiarsi per i principii proposizioni arbitrarie, il formare assiomi illegittimi, il dedurre conseguenze erronee da sofistici ragionamenti. E perciocchè lo schivar questi mali richiede la  conoscenza del dritto cammino che deve tener la mente per le vie del vero, passiamo a trattar diligentemente questa materia, alla quale premettiamo il seguente articolo, che ad essa valga come d'introduzione. Cum animi nostri sensus cogitationesque animo ipso lateant, nec per sese ceteris patefiant; homo, qui ad societatem cum aliis coëundam e nascitur, idoneis mediis a provido naturae Auctore instructus est, ut ideas suas aliis, quibuscum vivit, manifestet. Haec media SIGNA (SENNI) quaedam sunt. Sic enim nominantur quaecumque ad res alias innuendas sive natura sive VOLVNTATE sunt INSTITUTA. Omnibus vere signis, quibus conceptus nostros et affectus animi patefacimus, maximopere vocabula praestant. Etsi enim suspiria, gemitus, nutus, sensa animi nostri significent; minime tamen id efficiunt eadem facilitate, perspicuitate, distinctione ac varietate, quae vocabulorum propria est. Quam quam non diffitear gestuum loquelam, si vivax sit, vehementius commovere, propterea quod imaginationem vividius feriat, et rem veluti ponat ob oculos. Vocabulum definiri potest: vox articulate prolata ad ideam aliquam significandam. Ex quo intelligitur, ope vocabulorum proxime et immediate conceptus, vi autem conceptuum ipsa obiecta significari. Ad originem sermonis quod spectat, nemini dubium est quin, etsi vis loquendi ingenit a nobis sit, verborum tamen determinatio ab arbitrio generatim pendeat. Secus si quodlibet determinatum verbum determinatam rem natura sua innueret; qui fieri posset ut verbum idem apud diversas gentes, quibus certe eadem natura inest, non idem exprimat? De hoc nulla est controversia; at quaestio in eo est utrum absolutae necessitatis fuerit ut sermo aliquis primis hominibus a Deo communicaretur, an homo sermocinandi tantum virtute ornatus sermonem ipse repererit vel saltem reperire potuerit. Qua de re in contrarias sententias FILOSOFI distrahuntur. Non nulli enim non modo possibilitatem, sed factum etiam tuentur, atque hominem sermone destitutum sermonis auctorem fuisse autumant. Alii id neutiquam evenire potuisse arbitrantur, cum sermo sine usu intelligentiae. efforinari nequeat, et ad usum intelligentiae sermonem necessarium esse putent. Equidem sic existimo: ad absolutam possibilitatem quod at tinet, hominem per se potuisse ex insita propensione et facultate loquendi, quam accepit, determinatum sensum vocibus quibus dam tribuere, et sic sponte sua efformare sermonem. Quid enim repugnasset ut homo rem sensibus occurrentem nutu aliquo com mopstraret aliis, atque ex innata vi loquendi sonum syllabis quibusdam distinctum proferret et ad commonstratam rem significandam libere determinaret. Expressis autem rebus sensibilibus, ad insensibiles significandas gradatim pervenire impossibile sane non erat; cum ad has exprimendas nomina quaedam ex rebus materialibus, propter analogiam, quam homo inter utrasque per spicit, transferri facile potuissent. At si non de absoluta et abstracta possibilitate, sed de facto loquimur, rem aliter contigisse certum est. Nam ex sacris litteris indubie colligimus elementa sermonis primo homini a Deo tributa esse, quantum saltem sufficeret ad domesticam societatem, in qua ille conditus est, retinendam. Cuius rei congruentia vel inde patet, quod si, ut supra dictum est, ad divinam pertinuit providentiam opportuna scientia instruere protoparen tem; hoc multo magis de usu sermonis dicendum sit,cuius longe maior necessitas imminebat. An sapienter cogitari poterit totius generis humani parens et magister, qui quasi principium et fun damentum constituebatur futurae societatis civilis et sacrae, sine actuali copia illorum mediorum, quae ad munus hoc adimplen dum tantopere requirebantur. Accedit, quod eruditorum vestigationes, qui de origine linguarum tractarunt, huc tandem concludendo devenerunt, ut omnes linguae tamquam dialecti linguae cuiusdam primitivae, quae perierit, habendae sint. At si sermo inventio esset humana, singulae familiae, quae diversis populis originem dederunt, linguam sibi omnino propriam atque ab aliis radicitus discrepantem creavissent. De utilitate vero, quam ex sermone pro rerum intelligentia mens capit, permulta fabulati sunt FILOSOFI quidam, in primisque Condillachius. Putarunt enim illum esse necessarium ad analysim et synthesim idearum habendam, nec sine ipso ideas generales efformari posse. Quin etiam eo progressi sunt, ut dicerent ipsam intelligentiam non nisi ex usu loquelae progigni. At enim haec esse ridicula optimus quisque iudicabit, modo cogitet non posse loquendi usum concipi nisi iam antea intelligentia sub audiatur. Non enim quia loquimur intelligimus, sed viceversa quia intelligimus loquimur. Unde bruta, quia intelligentia carent, id circo loquendi facultate privantur. Quod si intelligentia e sermone non pendet, poterit illa quidem suis uti viribus ad ideas sive dividendas sive componendas sive etiam abstrahendas, quin id circo sermo velut causa aut instrumentum adhibeatur. Sed de hac refusius erit in Metaphysica disputandum. Vera igitur emolumenta sermonis his continentur. Prae terquam quod ad ideas communicandas inserviat, ac proinde ve luti vinculum sit societatis; intellectui subvenit, quatenus loco phantasmatum verba ut signa sensibilia in imaginatione substituit. Memoriae opitulatur ad ideas semel habitas revocandas. Mentis attentionem figit detinetque in obiecto, quod exprimit, quae secus ad alia contemplanda statim raperetur. Mentis opificia conservat, efficitque, ut illa postquam contemplationis suae partus vocabulis scriptura exaratis ad retinen dum tradiderit, soluta curis ad nova speculanda impune progredi possit. Hae potissimum utilitates e sermone in hominem proficiscuntur; ceterae, quae a nonnullis nimium exaggerantur, sine fundamento ponuntur, et animo humano sunt dedecori. Denique ad dotes loquendi quod attinet, sermo sit perspicuus, usitatus, brevis; non ea tamen brevitate, qua obscurior sententia fiat; sed ea, quam rite descripsit Tullius CICERONE, ubi inquit brevitatem appellanda messe cum verbum nullum redundat, velcum tantum verborum est, quantum necesse est 1.  ANTICHITÀ PER L'INTELLIGENZA DELL'ISTORIA ROMANA E DEI FILOSOFI LATINI DELL'ABATE DECLAUSTRE Wwwna IN VENEZIA CO'TORCHI DI GIUSEPPE MOLINARI MITOLOGICHE   SLIEHE HE KOS WIEN HOFBIBLION KA  1 eeeeeeeeexe erele cele ; egli Ateniesi lee ressero delle statue. Ella fu ancora più celebra ta presso i romani, i quali le innalzarono il più grande ed il più m a goifico tempioche fosse in Roma. Questo tempia, le cui rovine ed anche una parte delle volte restano ancora io piedi, fu cominciato da Agrippina, e poscia compiuto da Vespasiano. Scrive Giuseppe, che gl'imperadori VESPASIANO e Tito deposero nel tempio della pace le ricche spoglie, che aveano levate al tempio di Gerusalemme. In questa tempio della Pace si adunavano quelli che professavano le belle arti per disputervi sopra le loro prerogative, acciocchè alla presenza della dea restasse bandita qualsi voglia asprezza pelle loro dispute. Questotem. pio fu rovinato da un incendio al tempo dell'imperator COMMODO. Presso i greci la Pace veniva rappresentata in questa maniera. Una dono aportava sulla mano il dio Pluto fanciullo. Presso I Romani poi si trova per ordinari o rappresentata la Pace con un ramo di ulivo PACIFERA. In una Medaglia di Marco Aurelio, Minerva viene chiamata “pacifera”; e in una di Massimino si legge Marte puciferus, qmegli, o quella che porta la pace, PACTIA.Suddito dei Persiani, al riferire d'Erodoto, essendosi ricoperato a Cuma città greca, i Persiani non mancarono di mandare a di mandarlo, acciocchè loro fosse consegnato nelle mani. I Cumeifo .  dea P Pace. I Greci e di Romani onoravano la Pace come una gran qualche volta colle ali, tenendo un caduceo, e con un serpente ai piedi, Le danno ancora il cornucopia, el'ulivo è il simbolo della Pace, e il caduceo è il simbolo del Mercurio Negoziatore, per additare la negoziazione, da cui n'è seguita la Pace. In una medaglia di Antonino Pio tiene in una mano un ramo di ulivo, e colla sinistra dà fuoco ad alcu di scudi,e corazze, j   PALAMEDE . Figliuolo di Nauplio re dell'isola d'Eubea, coman daya gli Eubei nell'assedio di Troja. Vi si fece molto stimare per la sua prudenza, pel suo coraggio, e de sperienza nell'arte militare; e dicono che insegnasse ai Greci il formare i battagliopi, e lo schierarsi. Gli attribuiscono l'invenzione di dar la parola delle sentipeļle, quel la di molti giuochi, come dei dadi e degli scacchi, per servire di trat tenimento ugualmente all'ufficiale e al soldato nella noja di up lungo assedio. ΡΑ1CHE tott an que 9 be 8Q CO 32 ti 8 $1 AL sto fu çerp ip contapepte ricercare l'oracolo de’ Branchidi, per sapere come doveano contenersi; el'oracolo rispose, che lo consegnassero. Aristodico, uno dei principali della città, il quale non era di questo parere, ottenne col suo credito, che si mandasse un' altra volta ad interrogare l'oracolo, ed egli stesso si fece mettere nel numero dei deputati. L'oracolo non diede altra risposta, che quella avea data prima. Poco sod disfatto Aristodico, penso nel passeggi. The branch of ‘ulivo’ is represented in the reverse of a coin of Antonius Pius --. Matteo Liberatore. “Segno e cio che, conosciuto, adduce alla conosence di un’altra cosa” – cf. Eco’s tesi su Aquino. Liberatore. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liberatore” – The Swimming-Pool Library. Liberatore.

 

Grice e Liceti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapallo). Filosofo italiano. Grice: “Liceti is a fascinating philosopher; must say my favourite of his oeuvre is “Geroglifici,” which as he knows it’s a coded message – the old Egyptian priests kept this ‘figurata’ away from the plebs!” – Grice: “Alice once wondered what the good of a piece of philosophy is without ‘illustrations;’ surely Liceti’s beats them all!” Allievo ed erede di CREMONINI (si veda). Nacque prematuro (6 mesi), venendo alla luce su una nave presa da tempesta lungo le coste tra Recco e Rapallo. Sempre secondo la tradizione orale suo padre, un medicoo, lo mise in una scatola di cotone dentro un forno, come si fa per far schiudere le uova, inventando così il prototipo della moderna incubatrice. Dopo aver compiuto i primi studi letterari a Rapallo, venne inviato a Bologna per compiere e approfondire gli studi legati alla FILOSOFIA. Insegna a Pisa. Padova, e Bologna. Ascritto ai “Ricovrati”  (oggi i galileii – degl’Accademia Galileiana di scienze, lettere ed arti.  Quando comparve in cielo una cometa, si riaccese una controversia analoga a quella suscitata dalla stella nova  ma questa volta le difese della teoria aristotelica furono assunte da L. ed il compito di attaccarla, partito ormai GALILEI (si veda), e assunto dal suo successore sulla cattedra di matematica, GLORIOSI, che se la prese appunto con L.. Questi risponde pubblicando un suo De novis astris et cometis, in cui, oltre a difendere il LIZIO, critica scienziati, tra i quali anche GALILEI, ma con espressioni molto rispettose e lusinghiere. A questo saggio GALILEI fa rispondere dal suo amico GIUDICCI col Discorso sulle comete. Srive saggi di filosofia, tra le quali “De monstruorum causis, natura et differentiis”,  (Padova), con aggiunte di Blaes, nei quali riprese le soluzioni del LIZIO sul problema delle anomalie genetiche, e “De spontaneo viventium ortu” nei quali sostenne la generazione spontanea degl’animali inferiori.  Altri saggi importanti per la ricerca sono “De lucernis antiquorum reconditis” apprezzato da Berigardo, e la “Silloge Hieroglyphica, sive antiqua schemata gemmarum anularium.” Tratta inoltre la questione dell'anima delle bestie nel “De feriis altricis animae nemeseticae disputationes.” I suoi saggi sono chiaramente ispirate al LIZIO, in particolare gli studi sul problema della generazione vivente e sul cosmo, entrando talvolta in contrasto con GALILEI, specialmente per quanto riguarda la struttura dei cieli e della Luna, che L. considera una sfera perfetta e trasparente la cui luminosità non e un riflesso della luce solare, ma veniva generata al suo interno. Al centro di questo dissenso cosmologico, c'e, infatti, il tentativo di spiegare il fenomeno luminescente della pietra di Bologna, che L. considera un frammento di materia lunare. Alcuni saggi di L. rimasero inediti a causa delle ampie discussioni riportate sulle novità astronomiche. Nella congerie immensa dei suoi saggi e commenti va notata la difesa della pietas d'Aristotele; quella pietas così vivacemente messa in forse alcuni anni più tardi dal platonicissimo cappuccino Valeriano Magno, che taccia d'a-teismo il sistema dello Stagirita. L. invece disserta «de gradu pietatis Aristotelis erga Deum et homines», e nel saggio sua «Philosophi sententiae plurimae, fidelium auditui durae, salubribus explicationibus emollitae, ad pias aures accommodantur, illaeso genuino sensu Aristotelis». E ad epigrafe dell'opera sua si compiace del distico Vulgus Aristotelem gravat impietate, L. Doctorem purgat. Numquid uterque pius? La città di Padova ed Spinola di Roccaforte rendeno omaggio al filosofo facendo erigere una statua in marmo scolpita da Rizzi. A Rapallo vi è dedicata una via. Gli è stato dedicato il cratere “L.” sulla Luna.  Altri saggi: “De centro et circumferentia”’ “De regulari motu minimaque parallaxi cometarum caelestium disputationes”Vtini, Nicola Schiratti, Vicetiae, Amadio, Bolzetta, Encyclopaedia ad aram mysticam Nonarii Terrigenae, Patavii, Crivellari“ Allegoria peripatetica de generatione, amicitia, et privatione in aristotelicum aenigma elia lelia crispis. Ad aram lemniam Dosiadae, poëtae vetustissimi et obscurissimi, encyclopaedia, Paris, Cottard; Ad Syringam publilianam encyclopaedia, Patauii, Pasquato, Bortolo, “Ad Epei Securim Encyclopaedia Genuensis FILOSOFI ac medici, Bononiae, Monti, “De centro et circumferentia, Vtini, Schiratti, “De luminis natura et efficientia, Vtini, Schiratti, “Litheosphorus, siue De lapide Bononiensi lucem in se conceptam ab ambiente claro mox in tenebris mire conservante, Vtini,  Schiratti, “Ad alas amoris divini a Simmia Rhodio compactas, Patavii, Crivellari,“De lucidis in sublimi ingenuarum exercitationum liber, Patauii, Crivellari “De Lunae Sub-obscura Luce prope coniunctiones, “Hieroglyphica”, Patavii, Sebastiano Sardi, “Hydrologiae peripateticae disputationes”, Vtini,  Schiratti, Ad syringam a Syracusio compactam et inflatam Encyclopaedia, Vtini, Schiratti, Baldassarri, La pietra di Bologna da Descartes a Spallanzani. Sviluppo di un modello scientifico tra curiosità, metodo, analogia, esempio e prova empirica, Nel nome di Lazzaro. Saggi di storia della scienza e delle istituzioni scientifiche, Garin, La filosofia, Milano, Vallardi, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Bartholin, Institutiones anatomicae, Lugduni Batavorum, Riolan, Opuscula anatomica nova, in Id., Opera anatomica, L Pombaiae Parisiorum, Bartholin, Epistolarum medicinalium centuria Hafniae (lettere); Vesling, Observationes anatomicae et epistolae, Hafniae, lettere a L.; Dallari, I rotuli dei lettori legisti e artisti dello STUDIO BOLOGNESE, Bologna ad ind.; Edizione delle opere di Galilei, Firenze  ad indices; Acta nationis Germanicae artistarum, Rossetti, Padova, ad ind.; Rossetti, A Gamba, Padova, ad ind.; Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata, A: verbali delle adunanze, Gamba,  Rossetti, Trieste ad ind.; Salomoni, Urbis Patavinae inscriptions, Patavii Facciolati, FASTI GYMNASII PATAVINI, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Renan, Averroès et l'averroïsme, Paris Taruffi, “Storia della teratologia” Bologna, Favaro, Amici e corrispondenti di Galilei, Gloriosi, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Favaro, Saggio di  dello Studio di Padova, Venezia, Ducceschi, L'epistolario di Severino, Rivista di storia delle scienze mediche e naturali, Castiglioni, Storia della medicina, Milano, Ducceschi, Un epistolario inedito di dotti padovani in Atti e memorie della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova, Alberti, La prima incubatrice per prematuri, Minerva medica varia, Boffito, Battaglia di marche tipografiche di  Bella e l'ultima memoria scientifica dettata da Galilei, in La Bibliofilia, Pesce, La iconografia di L., in Genova. Rivista del Comune, Geymonat, Galilei, Torino, Rossetti, L'opera di L. in un manoscritto inedito della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, in Studia Patavina, Bertolaso, Ricerche d'archivio su alcuni aspetti dell'insegnamento medico presso Padova, in Acta medicae historiae Patavinae, Ongaro, Contributi alla biografia di Alpini, Tomba, Gli originali di Galileo in Physis, Ongaro, L'opera di L., in Atti del Congresso di storia della medicina, Roma, Ongaro, La generazione e il moto del sangue in Liceti, in Castalia, Rizza, Peiresc e l'Italia, Torino Simili, Una dedica autografa di Galilei a L. e il clima delle loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in Galileo nella storia e nella filosofia della scienza. Atti del Symposium internazionale, Firenze-Pisa, Firenze Mirandola, Naudé a Padova. Contributo allo studio del mito italiano, in Lettere italiane, Castellani, Marangio, I problemi della scienza nel carteggio con Galilei, Bollettino di storia della filosofia dell'Università degli studi di Lecce, Marilena Marangio, La disputa sul centro dell'universo nel "De Terra" di L., Soppelsa, Genesi del metodo galileiano e tramonto dell'aristotelismo nella Scuola di Padova, Padova, Agosto et al., Rapallo, Berti, Galileo e l'aristotelismo patavino del suo tempo, in Studia Patavina, Ongaro, Atomismo e aristotelismo nel pensiero medico-biologico di L., in Scienza e cultura, Galilei e Morgagni, Padova. Brizzolara, Per una storia degli studi antiquari in Studi e memorie per la storia dell'Bologna, nZanca, L. e la scienza dei mostri in Europa, in Atti del Congresso della Società italiana di storia della medicina, Padova, Trieste, Padova Re, "De lucernis antiquorum reconditis": il capolavoro calcografico di Schiratti, in Ce fastu? Lohr, Latin Aristotle commentaries, Firenze, Basso, erudito ed antiquario, con particolare riguardo agli studi di sfragistica, in Forum Iulii, Basso, "Fortasse licebit". La marca tipografica di Schiratti e l'impresa accademica di L., in Quaderni Artisti Cattolici Ellero, Ongaro, La scoperta del condotto pancreatico, in Scienza e cultura, Poppi, Il "De caelesti substantia" di Ferchio fra tradizione e innovazione, in Galileo e la cultura padovana, Santinello, Padova, Kristeller, Iter Italicum, ad indices. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. sapere, De Agostini, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ruff. L.. Beerbohm: “Send me a letter; I live in Rapallo.” “How should I address it.” “Beerbohm, Rapallo” “Do not worry, there is only one Rapallo.” “Vico L., Rapallo” – “Statua a L. da Rizzi, Spinelli Roccaforte, Padova.xstril. minnstiii UAiTiO Stjftdsb iupon Ratfatia in IV libros De his, quidiuvi- P uunt fine alimento. P1?- 1 in quo eaptobatissimisautonbus afferuntur obferuationes eorum, qui vitra biduu . ab omni obo potuque abftmuere. Abstinentiae vana: intra fepumam diem conclu- .ffaec. Abfimenu, a iepfmo ad decimum diem extenfj. Abftmentixi decimo ad vigefiraumdiera protc- fe.cap.£. Abstinentii ad mensem produAfe. Abstinentiae a primo ad tertium mensem produ- . Ax. c Iehmium populorum Lucomonae ad quinque me des quotannis mire productum. Abstinentia Oftimeftns in muliete Patavina. Abstinentia pueli Tufer ad feitumdec unum- Spiritus non aliaere. Aerem in mitto vivente non ali aere intrinlecus quoraodocunqucattra Ao.lenem in mitto non abfumerc acrcm. Partes animalis 4 przdommio aereas non ali aere inspirato. nui Aerem hunc, quem inffiramus, non efle alendo & creari c 'i t. fpintus. Ad nutricationem metaphoricam non semper cd- sequi veram Rondelctij difficilis alfertio. Soluuntur argumenta quibus nititur pnor opinio, mensem protradla. Abstinentix ad II annos produAx. Ablhncntix ad III annos protenf. cap.i Historia puellae Spirenfis quadriennium abftinen- . tiscap.it. Abftinentt a quarto ad duodecimum annum de- duAx. Abstinenn vitra duodecim annos longissime pro duA varia exempla. Abstinenti $ diuturnae incerto temporis spatio ad-  i' mentr. Difficultatem negotii nos retrahere non debere a proposito. Curante omnia oporteatnos aliorum dogmata de Chatnxleontcm, ac Viperas non ahaere propol i t c tpeudere. inqua omnesaliorum opiniones examinand breui catalogo numerantur. tn quo examinantur sapientum virorum opiniones de natura et caudis tam diu- turni lciumj. Opinio Argenteoj et aliorum exiftimantiu abstmcntcs nomos nutriri aere inlpirato. Cancmlcucm et Manucodiatam apud Indos non alucrc.Secunda opmio Medici Clariflimt ex Augento, Si . M a nardo contendentis abstinentt ncftrosalf odoribus, fle exhala tione aerem obfidente car Examinatur propofita fcntenua, &: primum often diturnon elfe in topi acre vaporem , ac cxhalationcm.cap.a». Exhalationem infpiratam vi calori? humant non pofle cogi in fanguincm.St^ alimentum.Exhalationem non alere 1eiunantcs. Expenditurallata opinio demonttrando primum Non omne fapidu111 alere. caloris aAionein humorem non elle conti- nuam ;caqueiugi, nonidco affiduam clfc debe- re nutricationem, cap.i. intus in animali aereos non efltjfcd igneos. C. J. aimores proprie non ali.Spmtus in viuenni corpore r,ou nutriri.Odores non alere,quia non funt miftorum fpccits, prima ratio Arifiotchs aduerfus PITAGORICI c1phcatur.cap.2d. Secunda ratio Anftotclis LIZIO demonttrans odores n6 alere , quia per coAioncm a calore non podint ex odoribus excrementa lcgrcgan. Omne genera sed vnicum ottcnditurj nec ali omnia qiuecu que diffluunt in viufnteA^" reftauritionc indigent. Acrem ml piratum pon efle miftum , nec adeo ut fit alendo corpori. Explicantur allata dogmata Galeni de eo quod ctt ipiritus aere nutriri, J. Alexandri, Nicolai, CICERONE, ac Thcophraflirii- fla confiderantur.de eo , qupd eft att:m alerem fpiritus,& calorem; & ad A rittotclis, ac Hippo- cratis ccnfuram rediguntur.tf. Hippocratis afiettio dc triplici alimento illuftra- tlir Olimpiodori. ic Platonicorum dogma 'de horni mbus acre, ac radijs folartbus enutritis expendi tur.cap.primo noridari trianutrinientorum trrfs T Omnealimentum, feuexternum,feuinternumco coqui deberc, coftioneque aberctementispur- Odorem n aloris ita concoqui non poffe, vcab excrementis dicatur expurgari quia limplicem, l'eu nutriendo corpori omnino diflimilcm naturam obtineat, Ab odore vi caloris concoqnenris nec tenue, nec craflum fegregari excrementum.cap.j». Tertia ratio Arillotelisoftcndcns odorem nonale requiacoftionea calorenonincraffatur.cajt Quarta ratio, qua Ariftotcles probae odorem non Ci£,& quandopropemare ambulantes falfura. re fenrianr, & alsarum faporem quos prope ab- finthii fuccus agitatur. Tertia opimo doitiilimi Co/lii prxeeptoris exiftf m.mns abflinente» nofttos aqua enutrita» primumofle- Propoli ta sententia confideratnr, ac Ari ditur ex autorita te Platonis ^Haiqpupoacmrantoins a,lere, ftotehs, Galeni, &Auicennp cap Aquamvi calorisnoncraflefcere,ideoqu-everH ahftinentemalerc. Pvrauftas non ali exhalatione illi connmili crementoarugmeri fine ten^ imminutione, ca.7o. Plantae non Canemleucm non ali rore, Manucodiatain rore non pafc1. Argumentum duci non polle a brutomm alimen- to ad nutrimentum hominis. Quo fcnfu verum fit Quod ftpit nutrit, Exhalationem acri permiftam 116 efle fapidl c 5 t Exhalationem non efle odoriferam , & Allomos noneffe, quiodoribusnutriantur, quicqurdFici nusfenfcnt. Democritum , Homerum odonbus vitam libi prorogafle ceu medicamentis , non vt alimentis. Animo delinquentes odotibus recrearr non ut ali- mentis,fcd vt medicamentis Hippocratis dogma vulgatum de ctlcir nutncatio Aqua nihil inefle lcntiatur,nec epota ne per odoratum lUuitratur non poffc in alendi fubflantiam. effealendocorpori, quianonferaturadmem- Aquam coflione non fienfimile malendo corpo- bra nutrimentis dicau. Quinto confirmat Ariftotcles odorem non alere, quia nonnifi per accidens fertur w fontem ali- menti. J. Odor effe medicamentum , non alimentum texta ratione probatur, Ccnfurare fponfionum dcraonftratiombus Antro telicisab Argcntcnoallatarum. Respondetur ad argumenta, quibbs nititur fenten fupenor, ac primum oftendirur exhalatione de terra Turgentem non ubique pntfto fuiffe ab- ftinentibus, nec effe milium, cap.jd. Bxhalationetn odore tciro afferam efle , lapidam ri,vt decet alimentum cap.do. effe Aquam non effe tale mtftom/juale oportet ali roentum.capdr. Aquam effe vehiculum alimenti, alimenniracap.dx. Satisfit rationibus quibus nititut & propterea non aliquot primoque decernitur cur ablhnentium hu- aquam potarent; quoniarmadpiocualbeihc,afpm^c3- mido inftauretur huraidum Aqua nec plantas ali,nec aquatdia. campf.t Arfu.mcnto, Vium non feruartccaalloroirse pvarbualnoi:mc*alorem vtcon- humorem non efleaquammec aqueum. Aqua non reftmn quod aqueume corporibus ef- fluxerit.cap.dd. alimento, &cauf carnem, 5tlac;quxpluatpoftca. AquaexAnflotelcquomodofit obigratia,fi noneffe.Exhalationem a calore non condenlan. Exhalationem in acre cogi non poffc infanguine Qua ratione potuerit animalia pluere,ac fpeciatim vitulum, pifces,ranas,atque lemmer. Hippocratis dogma illuftratur de cxhalatrone ve Solis attrafta ex animalium corporibus. Rorem non effe vaporem vi caloris c6crctum,ncc alimentum cicadarum.Mannam non fieri ex vapore vi caloris dentato in aere,nec folam alere poffc ad Hxbraic* mannas difcnmcn.Mei non effe purum rorem concretum, nec tale quid fine alio nutrimento diu pofle hominem fa ftcrilitatis,& pilobus affumatur non vere alit  adeo ex igno, Animatu quomodo conftituantnuurtriantur aqua_> & aqua,vt moucanlur nigonee,ft vere alimentum. Hippocrati ; cui aqua cap.<8. Quod ex ciborum folidieofrleumaquam ;& quomodo bis in alimentum nonpondere reljxsndeant Hip- aflumptis excreta in quam Quomodo, alimentumnon alat mfi dJutumAri* inlpirarcdicuntur abftinentes, necvtnfquerd6 llotcl1.t.miftumnutricationi. aptumac» Rhinuccmvcnto,&aere, autrorenonah. (.lorcnoftr0 .asl.oris, etfifummefr. igi.danon efle pofle genus ahmenti. Aquam non fieri . putantis abilincntes ali nec humore vt confumptionem tingat exungui ad humoris pociati : dequevmfu.lctaip.hdcyr. iccundc coctionis ex veneno fit, & Ariftoteli ve- ineflecaliduro c.7J. redicatur in aqua paucaluemndo idoneum.etfi ter- Aquam non efle nmoinft cuarmeat, alij fue excrementis, renis partibus ‘ HippocratTi'id.icatur potcntiori- Mulla quomodo folam potantes diutius vi- qua,&L.curaquamabltincntcs fi uant,qu.momnino , aqua nona- dicaturommumpotulcn Aqua Celfoqua rationenon alat cap-7d. torum imbrcilhma.li Quarta opinio Bopaiinnincaiti caloris fumrnam imbc- potuifli aquaob cilhtatcm. & oftcnditur neque Expenditur prupoiita opinio, allata lententia» fubflantia cedit no-  & Aquam moflratem Tolam non eiTe id,quo alantur. Fuffragante Hippocrate^cAriflotelc.cap. iox. Lupi fame vrgente cur terram comedani,fi ea non alumur.Serpentes etfi latentes non ali terra , & cu r terram comedere dicantur.Bufones terra non vefci communi ,& argumento non efle ad humanum alimentum demonflran- duin dKcaci. Animantia imbecillo calorepraedita Columbicurtunbslateribus,&rubricavcTcantur, Aquam notlratcm non continere milium , quod fi terra nonaluntur.cap.io4. futficiat fuftinendo calori exiguo, Elephas Ariftoteb quomodo lapidem vorer,ac ter A(Ira,&cauda; regentesmundumquid,&~quo- ram; devfuOpi)apud Afianos abdinentes commemoratos, neque abfolutcqui bus exilis calor incft.aqua lola diu viuerc, ac nu- triri potTe.Rclpondciur argumentis allatam opinionemco- niumcntibus;ac primum dilquimur an calor ex aqua fpintum gignat, collibeat , animet. cap-7p. modoina quamagant.cap.8a. Aquahacfentiliquomodononnullanutriri dixe- rit ARISTOTELE. An inter plantarocunum aqua fola nutriatur, Cicadas excrementis non carere, nec rhintaccm. Cicadas non ali rorc-cap. 8rf. Rorem non efle aquam Gcco aflcftam ,vt eo nu- triente aquam dicas nutrire.Etfi ros alerct,non tamen ideo alere polTc aquam. Aquamfolamcalore digetlaranon degenerarein quoddamtertium,quodiitaluncntumplanta- E» fcrro. St lapide vi calcris^c fpiritus interni,nul Sitim^acfamemcl Teapetitumalimenti,vtobicdri, lumfuccuin alimentare uicduc qnccrubiginiim quo fcnlu verum fit: non tamcu ideo aqua nu- alere.. tnet, quzinlitiexpetitur, Terra, &lapides vtmiftafintj quamnoshabeamus Sapor, et suauitas vt Iitalimenti conditio,&aqua cumplantis fimilitudinem;&curvnitertiofi- rum.  t fapida, luaui Tjuc fit, etfi non alat, cap.p 1 . Quomodo Anflotcli pituita dicatur altrc permi- tia cum cibo puro, ablque eo quod aqua; vum tribuatalendi. Theophraflo quomodo plantae alantur aqua pura, quxverenonalit.Aqua etfi Galeno dicatur bilelccre, cur infangui- tur, non ideo cx cafblanutrietur. Quomodo Anflotcliaquadicatureilepotiusa-Sexta opiniododiillimi Medici opinanti steiunan- Cameluscurbibiturusfontempedeturbet; Struthiocamelusautem curtcrram, ofla,lapides, ferrum comedat; an ca digerat fibi in alimcniu. Mures farios',& Armadillos, Codertofquc Indi- cos non oflenderc abflincntibus noflris terram ceflblcinalimcntum Lacertum indicum no ait arenulis, aut lapillis, etfi ijsonuflum ventriculum gerat. Noii omne mutum humido pingui fcatcrc ; nec omne bumidum pingue alcrc.Homo terram edeus non alitur luto facto ex terra, & Taliua/ cupituitain ventriculo exundante,  1  ncm,6d" in alimentum conucru nequeat. c-P4- queumquid, miltum quamaqua,&Jim- , plex Quomodo inaqua gigni polfint Arifloteli (lirpes, 6t animalia, cui tamenaqua non alu.Vrricam marinam non ali aqua lola. Quinta opimo Clanfiimi viri putantis abtfinentes commemoratos ab terra clanddlmc comcla. tesnoflrosaciboquidemomniabflinuifle;at vmi potione vfosj vnde alimentum fibi compa- raucrint. Examinatur allata fentenna oflendendo abflinen- tcs noflros non vlbs , nec enutritos funlcvmo; folumque vinum alere no pofie partes corpons folidiores; nec fuificere ad alimentum multo tempore. Expenditurallata fententia, oflcnditurqucprimu Occurriturargumentisprobantibusabflinentcs abflinentcs noflros terra,& calce non enutritos, cap 99- Terram, & calcem nulb viucnti, ac pnefertim nui li homini alimento efle pofle.Allacc , profcillarquc opinionis fundamentadiri- noflros folovino enutritos, oflcnditurquc pn- mum quomodo, fi foio fanguine alimur,lolo vi- no ali non poflimus; quod tamen in fanguinem verti poteflt licet non abiblute id pronuncian- dumiic.cap.no. milia inter lc non iint neceflano fimilia. Vteademfitaniinabbus materia generationis, alimenti ; vtque mures Thebani e terra nalcan- tui.Hominis etymologia non conuinci nobis ortum, itviciumcfola terraeflevalere,Cur fi homo a Deo cx terra fola condi uis efle dica muntur, oflendendo primum ab flinentcsno- Vinum vt fitlinguisterras: nonomnifanguine., flros non comedille terram, nec ea nutritos, li- cet appeuilc illam, fuauitcrque comedille pona- tur.nos ah poffc: an vinum fit venenum cicutz , vt fcrtur.De vmi,& ianguinis mutua proportione Alexan- Abflinentcs non fuifle malo habitu, & cachexiam non efle abundantiam prauorum fuccorummcc ncccflano femper fieri ab clu tcrr9.sc prxlercim uoftris iciunantibus,fi qui fuenutcacheducv Vino folo fi carccratus vixit ad vigmn dies . li fc- dri placitum explicatur, Vini, lafiis proportio explicaturi & vtrum ladle lolo totam vitam viuerc p0flimus.nes maxime vtantur Platoni , & graciles Gale tia ad alimentum. no; nontamenabrt. nentesalipotuifle. Quomodo ex Galeno quisabfquenutrimentoper Alimentum maxime proprium an' folum ftifficut alendo corpori; vinumque vt fit alimentum ta- le,quod omni viuenti competat, brutis przfer- tuu,acplanus,Vlcimum alimentum vule quod fit; an ex vino fo- lo liat; vtrum omnibus partibus alendis fuf- fic1at.cap.i2d. yinofedari famem non poflc,fitim pofle; fame fi- inul ac fiti animal angi non pofle; famemque,ac fitini ad varias partes attinere ;& quid proprie fit fames,ac ficis explicatur,  manens ob virium lecons imbecillitatem diu fuificerepoflit. cap. Abfiincntes an crcuennt; deque vnguium,ac pilo rumincrementom abftmentc Confolcnunca. Fetus in vtero vt fimul non fiat animal, homo; quid ptoprie fit anteaquam humanam induat naturam; nos non ali vt aluntur plantz; Arifio- telefquc a crimine liberatur,Crudiori fucco & pituitae cur nullum a natura da- tum fit receptaculum, fcd cum fanguinclaba- tur.Hippocrati vinum iedare famem vt medicamen- tum,nonvtalimentum; Galenoautemvinum Olfauaopimo Cardanireferentisabflincntinm. folum nutrire inter alios liquores, non corpus vmuerfum fufficientcr alere, Septima opinio decernens abflinentes noftros ali pituita, St loccis crudioribus , qui vltcrion calo- ris aftionc'in probum alimentum vertantur; quod Magni Alberti placitum recepere plurimi.cap.isp. Examinatur allata rententia,oflenditurque prirau abilinentes non fuiffc calore imbecillo, cui fudi nendo ad multum tempus fola pituita fufficiat. Abflinentes nec pituita craffa.cruditatibufue abu dalfe.ncc enutritos fuiffc. cap. iji. nofirorum ieiunium in copiam humoris mclan chohci cx lentis, Si eradi, humoribus exoru. irap. Perpenditur Cardani fententia demonfirado cauf lasdiuturaj abftinentia: redigendas non ede in aerem^ut in reliquias ingluuici,aut in mclacho ham.Diluuntur Cardani rationes offendendo cicadas non aluere; comparatum cx ingluuic non fuffi ccrc ad ieiunium multorum meiifium,& anno- rum; caudas ifiasinabfiinentibus nofinsnon_. concurrere; nec humorem melancholicum una cumalijsconditionibus propofitis huius abfti- nen tia: causam eflc. o Satisfit argumentis communientibus Alberti fen- tcntiam, & offenditur primovoracitatemnon Nona opinio Bonamicifiatuentisiciunantcsali neceflimo pendere a frigiditate, nec effe caufsa colliquamentis internarum partium, cap. ijr. cruditatum, nec habere locum in abifinenubus Perpenditur allata fententiadcmonflrandoabiti- Ablfincntitim cutem noefle ita euaporationi clau fiim, vt retrocedant femperdenuo vapores in a- • I11nentum.Vndc oriatur naulia, mappetentia,6c. ciborum o- dium ,-an hfcomnia fuerint in abflinentibus; & vtrum a pituita fedari pofTit appeti tus,& fiat femper inertia. Quo fcnfu Hippocrati, &T Galeno pituitofi dican tur medum ferre prxter conluetum, &abcs_» vtilitatem pcrcipcre.c Animalia voracia qu* fint Ariflotcli,6t_ quomo- do abundantia pituita minus cibum decoquat, cHippocrati fines cur ieiunium tolerent,& quomo do frigidi fiaruantur.Auiccnnx vt cibi ncceffitas fit ad infiaurationem deperditi; vt appetitus dcijciatur,& ocictur; vt vrii,& latentia bieme alamur, Humorem,qui vomitu reddebatur abftinentibus, nonfuiffcpartemeius, quoalebamur,Calorem non ncccflano icrnpcr abfumcrchumi- dum, necnecellarionifi confumprum humniu alimentis rellaurctur, vitam Citocxtinftam iri. Semina fiirpium extra terram non ali humore in- ternopituita: corrcfpondente Pullulas pituitz copiam non indicall'e,qua nutrire nentes noftros non potuiiTc abundare , nec enu- triri colliquamentis. Explicantur argumenta confirmantia profcilTani opinionem, 5tprimodccc miturquomcdoexfc mine dixerit Anllotclesfien languinein,offendendo etiam colliquamenta non nccdlario ven tnculum petere.An obzli gracilibus fuperuiuantin abfiinentia; id tamen haud fieri quia illi pinguedine liquata nu trantur. Calor na tiuus fime non intendi offenditur, ficcita te non acui,ncque colliquanuus cfsc in famis, In fuinma neccffitatc ali menti colliquamenta non confluere ad ftomachum,velur adeommuno proraptuanum vmuerfi alimenti, c Quo fcnfu Arifioteh colliquamcntum liat vt ali- mentum tnconcoifium,& an ventriculus fitlo- cus ahmenu inconcufli. Quomodo Anftotch diuturna fame laborantes colltquentur,&colliquamentafi adlocumci- bo deftiuatum influxerint, pro cibo corpori ap-plicentur: & Plutarchi placitum expenditur, Qua ratione Hippocrati ventriculus vacuus dicatur frui corpore colliquefcentc; ac partibuscol- liquatishuinor adventriculumdefluat, fi non alimur colliquamentis..turpuella Germanica, necabfiinensalia. Decima opinion putantiumabflinentesalimcflrui Appetitus rtlc habeat ad indigentiam, & mdigen fanguims portione ab vtero materno libi recondita.  dita.cap.tdo. Examinatur allata fententia dcmonftrando ieiu- nantibus alimento non efle menftruura beni- gnum ex vtcro matris comportatum cap.itfi. Refpondetur argumentis allata; opinionis,demon Arando fetum in vtcro non litue ; mcnftruum haud fatis ede nutriendis adultis; nec fium pel- lere. da.. VarioIis,& morbillis origo an fit ex menllruo fan- guine ab vtero comportato, &_ quomodo, cap.ifj. Vndacima opinio Brafauolz, aliorumque pu an- num quod circunfcrtur de abfiincntia plurium menfium,V annorum, fabulofum quid efieo, atque fiAitium. Dccimaquinu opinio exiftimantium abftinente* noftros non clfe corpora viua,fed cadaucn Dae mombus afliimpta.Cribratur addufta opinio, dcmonftrando pofie cor poraphyficc viuentia diu viuere fine alimentis; & a Dxinombus aflumpta cibarijs vti valere Refpondetur argumentis allatae opinionis, often- dendo quo fcnlii Ariftotcli fien non poftit vt vi uatur fine alimento; vtrum alimentis vti pofiint viuentia zquiuocc, fine anima vcgetali Dccimafexta opinio afferentium abftinentes no- ftros ellc homines, at nonviuere vitam huma- nam, led Datmomam, quz cibis non indigct,vt ait lamb!ichus.fumptionem pabuli. Expenditur allata opimo, monftrando quorum- abfiincnti adiuturnaveraxfuerit, quorum Libratur ad dufta opinio,demonftandoDzmo- mendax, & fabulofa dici potuerit: qualeuc fit alimentum.Soluuntur argumenta profeiflse opinionis du- fla ex automate veterum, BC iuniorum. Calorem infitum non refrigerarialimentisintrin- fecusalfumptis.Duodecima opinio Harueti, & aliorum exiftiman tiumprxfatos homines fraudolenter abftinen- tumfimulafle Examinatur allata opimo,demonftnndoqui dolo feieinnium fimulauermt ; & qui verea cibis ab- ftinucrint ; pucllxquc Tufca- hifioria explica- tur. cap. idp. Diluuntur argumenta virorum fublimium,often- dendo alimentum, refpirationem haud efie ad vitam fimplicitcrnecellaria, licet eam con- ferucnt.Decimatcrtia opinio eiufdem Harueti cum alijs dicentis huiufmodi ieiunium a fopranatura- li caufia prodire , ac miraculofum edo  nes non pofle in rebus phyficis naturz limi- tesegredi; necomnibusabftinentibus, clan- deftinum alimentum fubminiArailc Tolluntur argumenta fuperioris opinionis mon- ftrandoquomodoex Iamblicho, Apuleio Damon poftit dfc caula eorum , qua; perti- nent ad aftiones hominum admirabiles Quaratione Ariftoteli fiant fomnia futurorum- prxnuncia, &t_attiones hominum referantur innaturam, cafum, <V m fizmonium-Quo icnfu cx Ariftotelc alimentum ad animatum referatur, & fit non fecundum accidens, led per fc: ac vtrum per fe includat ncccilitatem. Dccunafcptima opinio Apponenfi,&poft eum- Rugcni Baccomj cauflam diuturnx abftmen- tiz referentis in virtutes aftrorum , nuas vo- cant alij peculiares influentias, a quibus pendet tum magnetis conuerfio ad polum, tum— maris xftus, tum frigiditas in hxc infera, Expenditur allata opinio , monftrando quale nam miraculo fitadfcnbendumieiunium, quale naturz vinbus.cap. 17,. Satisfit rationibus allata; opinionis, declarando quid fit Hippocrati Diuinum m moribus ; ablh nentes non omnes pgrotare ; nec feptioue diei abftinennain effc letalem, cap. 177. Decimaquarta opinio ex Diogene Laertio, ac De metno fiatuens ieiunantes clam ali eonfueuifie cxlitus ab Angelis cibo aliquo pretiofifiimo. Perpenditur adduflt opinio monftrando nonom nes commemoratos abftinentes enutritos effej czlitus ope A ngelorum clam illis opumum alimentum fuggcrentium. Occurritur allatis rationibus in oppofitum;& pri- mo explicatur vtrum nutrientis aninuf quiesa fua operatione fit mors. Quomodo Ariftotcli alimentum 110 fumentia ani malia, &plantzcorrumpantur; Biquaratione ignisparuusamagnocxtinguatur, finonadcon Ponderatur addufta fententia, monftrando cauf- lam adeo longi iciunij referendam non efle in- v1rtutcsaftrorum.cap.187. Diftoluuntur argumenta propoli tx fententix , aC primum Celn, BC Apponenfis au toritate libra- ta, oftenditur non femper horum notitiam aes lis auipiciandam efle. Influentias non cflecauflas iciumi.aliorumueeffe ftuum abditorum , ac fpecianm conucrfiones magnetis ad po!um.Diuturnam abftincntiam , marifque fluxum, ac refluxum non; communicare m ortu a mo- tu, lumine, aut influentijs cxli ; led hunc ab exhalationibus de terra turgentibus ; il- lam ab alia caufa pendere Frigiditatem in his fublunaribus pendere non- abInfluentijs,fedacriorumimmobilitate,vt verumfitcx ARISTOTELE. Decima  Dcciitiiofliua opinio decernens longioris abfti- nentix caudam referendam ede m ly mparhiam complexionis cum aere,6c. antipathiam cum_, cibis, cap. ipz. ludicium promitur de hac opinione, offenditur- que hominis temperamentum eam cum acre iympathiam non habere , vt fine alimentis illo fudineatur. cap ipj. Dilfoluuntur argumenta, quibus probatur ieiu- nium pendere a fympathia cum aere, & antipa- thia cum alimentis; odenditurque vi 1'ympa- t hix aerem non pode in alimentum cedere, ve- nenum vero polle, c Decimanona opinio cxiltimantium diuturnotem pore a cibis abdincre proprietatem cdcindiui- dualem.cap.ipy. Penditur hxc opimo, aperiendo quid Physiologo sentiendum (it de proprietatibus occultis tum fpccificis, tum quoque indiuidualibus appella- tis.cap. 1 pif. Soluuntur rationes viri egregii, ac demonftratur autorem problematum non dfe A phrodifxura; cur odor thuris , & rufarum alios male habeat, alios recreet; alijsaluum loluat.ahjsaddrin- gat; &T Galeni, Thcopraftique dogma expli- catur. Vigefima opimo Abulenfis, cui tam longa; abfii- ncntixoneocftex Ecdafi quaieiunandum , anima quali ii corpore alienata canfucta munia non obeat. Eiaminaturallata opinio, demondrando Ecffadm non cdccaudam immediatam longioris ab ftincntix ; ac tandiu ici unantes haud omnes £c flafimpados fuille, cap.rpp. leant: Porphyrio, & Galeno explicat» cap.iO<5. Abdincndbusanaliquideffluatecorpore,&quid exire valeat. Vigcdmateriia Opinio Citefij dicenris diuturne abdmenrix caulfam fuifle conffnftioncm, fiue comnreffionem vifcerum nihil nutrimenti ad- mittentium. Examinaturo iniopropolita, demondrandocoar ifiationcin vifcerum iciumj caufsam non ede, atpotiusctfcftum; nullo quemodofamem, fi- ti mue tollere, fed augere, cap. jop. Satisfit radonibus propoli tx fententix , aperiendo quarationearftccinflipeflore,acventremi- nus comedere podit.cap.2 1 o. Vigefimaq uarta opimo Ioannis Langij exidiman tis longum hoc iciunium a morbo pendere , ni- mirum a tabe iecons, ac ventriculi ffupore, ac omninoabatrophia. Expenditur allata fententia,odendendo caudam cur diu viuant aliqui fine cibo non ede morbo- lamaffeftionem. cap.ir*. Occurritur allatis rationibus , declarando difieren tiam iciunij fan£torum,& prophanorum: non_> femper ex morbo intermitti funiiiones vitx: quxue operationis lilio morbum fequatur. cap.i tj. Vigelimaquinta opinion Qucrcetanireferendsab- ilinenttx caudam in petrificationcm partium . ventrisimi, &nutricatumaliarumexaere,ac odoribus.Expenditurallata lentenda offendendo longum ieiunium haud ortum ede a pctnficatione par- tium naturahum,& a nutricatu aliarum cx aere in vlkiabdinente. Soluuntur allatx rationes hanc opinionem robo- rantes, de dilcriminc inter Ecdafim,ac fom- num;VinterEcdafimgrauem,acleuema- gcntes.cap.aoo. viralianonaerenutrita,necalijsvitamcommu- Vigcfimapriraa opinio Podhij afferentis homines diu ab alrmemo abdincre , anima illorum pec cataphoram,& intendorem fomnum vacante a proprijsofficijs. cap.ioi. Examinatur, & improbatur opinio decernes ab- ftincntiam diuturnam abalto,&t_ profundiori fomno prodirc. Refpondctur ad argumenta de (omni differen- dis, & de longum tempus dormientibus, cap.ioj. Vigefimalecunda opinio Benedilti, Montui,& Mercuriales dicendum caudam longi iciunij ede condri&ionem cutis, pororumque occlu- fionem quidquain ecorpore diffluere non per- uri ttentem.cap.2a4. Expenditur allata lententia demondrando vfum, ac necelficatem alimentorum non ede abfolute indaurationcm deperditi, fcd m alium finem : nec ita meatus omnes occludi pode,vt nihil ef- fluat ccorpore.cap.105. Soluuntur Beucdifli, & Montui radones , oflen- dendo cur cxlum alimends non egear; & quo- modo corpora , c quibus nihil effluat, ali va- nicade. Vigefimafcxta opinio decernens abdinantes no- ftrosdiufinecibo,potuqueviuercviherbx, ac medicamendcuiuldamfamem,fiumquepellen tu. Expenditur allata fentenda offendendo abdinen-' tesnodros nullius hcrbx,autmcdicamenu vir- tute adeo longum pruduxideiciumum. Occurntur argumentis allatam fentenuam corfir- manubus, confiderando naturam herbarum,& pharmacorum fitmem dumque pellentium Vigclimaicptima opinio ex Valeriola referens caudam aiuturnxabdinendxin puram confue tudmcm.cap.ziO. Expenditur propofita fentenda , offendendo con- tuet udinem non patere tam longam abffinen- tiatrccap.2 2 r. Satisfit rationibus viri Clariffimi, offendendo qua rarionemedicamenta,&venenanonagantin_. aduetos;&quomodofc habeat confuctudo ad cibum, & potum, cap.aaa. Soluuntur argumenta Quercetani odendendo ab (linentis vilcera naturalia non fuide petnficata; libri Capita centum Prifatio, inqua& difla dicendis attexuntur, tam mitti Diftnbuitur viucnrium genus m fuas fpccies fupre Ariftotcli mus.cap.r. minem Quomodo fe habeant ad alimenta propofira vi- ucntiura fpecies vniucrfim. cap.z. Semen animalium St in vtero, extra vtrmm . femper viuere fine alimento, cap.3. In animalium mortalium genere aurelias, 8r nym phas appellatas nunquam vllo alimento vri: co. paraturque generatio infefli ex verme cum ge- Ariflotele in tex- pofle Ariflo neratione hominis.cap.4. Semen plantarum non tota fui vita, fed tamen fine alimento viuere.cap.y. Oua diu fine alimento viuere, quamuis non diu peratione viuere ex definitionibus nflotcle promulgatis, Deducitur hoc ipfum cx tngefimo De anima, . o- animae ab A- fexto fecundi vitam fine alimento viuant. cap.tf Ligna,fcu ramos,&arboresextra humum totam diu fine Adijcittir his definitio vira in Tamis exarata propofitam iniermiflionem nis adftruens. naturalibus nutricatio- alimento viuere. cap.7. Stirpes terra infixas diu, ac fpeciarim tota fine alimento viuere pofle. cap.8. Brutorum imperfeftioris naturi plurimas hieme Ariftotclihocidemplacuiflcin Moralium, primo Magnorum diu fine ali mento viuere pofle: ac fpeciarim icuinio,&ortu brutorum viucnrium intra ioli- diflimos,imperuiofquc lapides copertorum.c. Aues quampluresdiu abftmere incolumes, c.ro. Pifces diuturnam tolerareabftincnriam. cap. Tcrrcftrium brutorum perferorum plurima tumumagere ieiunium. cap.r Homines diu a cibo,potuque abftincrc pofle.c.r Quotuplex,quique caufla dc propofito nobis in- quirenda fit.Quotuplex,quiquefitcommunisidea vniuerfa- , lilque forma diuturni abfhncntra. y. E quibufnam fontibus hauriantur argumenta 40. caufla efficiens urqs abftinentes non ali confirmantia, cap. Homines in diuturno ieiunio nutriendi Quid.dr' quomodo radicalis humoris a calore na- ^nem intermittere pofle ratione aninra. Nos diuabftinctes pofle a nutricatione toto co tf- penitus prohibere peffit. ponstraiiuociari corporis habita rarione. De differentia originis xt 8. citra vitfdifpendiuhabitaquoqjrationecaloris.c. jr. iqualitatum mifli, deque Homines diu pofle nutriendi munere priuari ongtne radicalis humoris. Differentia cflentu tnum squalitatum eflcntia natiui calonsfliumidique dicalis explicatur. cap4y. 1 Pofle diuturnam nos agere vitam citra nutrica- tumex ratione vira, fcu viuentis totius, quod ex anima & corpore mediante calore conftitui. tur. Diu intermini pofle nutricationem abhomine ra- propofi- tioneipfiusmct nutricationis. Diu pofle intermitti funrtionem alendi ratione peramentorum, miflorumaqualium tcfcunt; a quibus feiungirur aequalitas humoris primigeni;, Differentia promulgatarum ipecierum hu , , om- natiui mons quicalorifubditusefledicitur nino ratione fpirituum. Confirmatur diu fine opera nutneatus viuerepof- fe homines dc lententia principium autorum, ac pnmum Hippocratis, Nutricatione diu intermitti ex decreto Ocian diu nos pofle 3 nutriendi munere penes durationcm. cap Qui fitiqualitas impediens confumptionem Celfi.c.14, ad aures Galeni ex illuftn fentcnria m opere it lotis ait hu- natiui, SC humidi radicalis reperiri pofle. . & humoris naturalia Quomo- ffir.- caloris, ... I tvi dicendorum ratio , naturaque proponitur. Liber Tertius, inquoexrei natura difquiruntur caufisephyficx tara longum ieiunium confti- tuentes, efficientes, conferuantes, terminantes , ac diftinguetcs cum generarim, tum fpeciarim. fpecies Hominem diutius nutricatione intermittere pof- no- 1 6. funflio- diutunra huius abftinentii. ' Aequalitatem virium in homine diu fcruari pofle. cap. de lc de mente Ariftotelis in y. problemate prtmit 9. 1 j. diu- frOionis.aif.j6. Ariflotele fuppofuifle,ac potius exprefle 3. Laurentio nutricationem vira ncceflariam non fe.cap.3p. ef- Idipfum confirmatur ex eodem Galeno Corrtcli/ fententiam approbante, propofi- Confirmaturhomincmfine aflione alendi ftercpofle conii- diu de mete Galeni excorni 1 feOionis. ' t.a'phor. Operationem virtutis nutririuse in atrophia ex Auicemra fententia. cap. quoque pnuatum aflionc nutriendi viuere pofle intextuij.hb.i.dc Confirmatur id ipfum ex eodem tu 14-e1ufdcmoperis. Nutricationem inviuente intermitti ho- anima. teleautorein yltimo problemate dteimtt fOio- rir. Confirmatur hominem pofleabfquenuiricndi dccreuif- fe viuentia funflionem alendi poffeintcruutte- re,quod ena notauit Auerroes s.dcan. Marcello nutricationem in viucntibus pofle.  t. 5.C.37 intermica Colligitur forma, 8 idea vniuerfaJit abftincnrra noftrum iciunantium. cap Quptuplex,qu*qile fit vniuerialis riuo confumpeionem. Quotuplex efle pofllt *qualitas in — mifto. cap.4?. tarum; ra Difcrimen trium earundem xqualitatum ratione leuradicah. squalitas quantitatis diferera; vnde mnumcry fpecies 47. moris radicalis a calore nanuo. Aequalitatem caloris quoad virtutis in homine inter- te- inno- caloris   Quomodo aequalitas virium caloris natiui, <V tu- midi radicats fit cauda diuturni leiuiuj - Quibus pneferrim xqualitas virium caloris, & hu- moris fit caudilciunij. Dcijs, qux perfedeftruu ntaliam ieiunij caudam, proportionem fcdicct 'firium caloris & humo, ris.ac fpcciatim de er.tnnkcus accidentibus  ptio.cap.yj. Proportionem hanc humidi radicalis ad calorem natiuum,in qua lente humor a calore confutua- tur,in homine reperiri pofle. Commcnfurationcm hanc humidi, & caloris in_, homine diu feruan pofle. Proportio hzc natiui caloris humoris quomo- do Iit: caulla longioris abdinenti. Quibus prxfertim Iit caulfaieium; liare proportio calons ad humorem, cap.57. Quomodo fe habeant ad inuiccm propofit* du* humeris radicalis pofle datui caudas iciumj eo- munes omnibus abdinentibus ab mirio enume- ratis. cap. Manifcftaturcxhis caudis diuturnum hoc ieiu- nium prodcilci rei naturam condderanti. cap.tfo. Confirmatur hoc ipfum argumento defumpto a lucernis ve tudillimis, qux noftris temporibus in fcpulchris ardentes reperiu ntur. Dexqualiratis propofit intervirescaloris,&hu- morisvaricratecffcnriali.cap. <5i. Proportionis inter eadem vitf principia propofit* varietas edentulis. cap.fij. dunt, in quo non podunt intcrmilTum alimenti vfum repetere. De caudis communibus varietatis, feu differentia rumtemporis,(eudurationismonentislongum ieiunium a fubiefto defumptis. Dccaudisvarietatis in durahone ieiunij abefB- cienubus,&" confcruantibus abftinenuam de- promptis.De caudis varietatis in duratione ieiunij defum- ptisj finientibus, acterminantibusabdinenttf. Dc fontibus, vnde hauriantur caudae fpeciales va- De interna cauda per fe pnmo proportionem vi- Dcaltera caudahuiusa Hmirabilisieiunij, quanon numcalons Achumoriseuertente.cap^y. tollituromnmo, udintardaturhumidiconfum Decaudisper accidenseuertentibus eandemvi. numcaloris, &humoris proportionemabftine. tis procreatricem. De forma, fiue idea termini Uhus, in quem definit longum ieiumum. De his.qui coft ieiumum lani remanent, atque ad interminum ciborum vlum necedano redunt. De his,qui ex longo iciunio tandem moriuntur. De his,qui ex longo iciunio incidunt in sgritudi- ncin.a qua conualefcere poliunt redeuntes ad caufli: in producendo iciunio. Aequalitatem, & proportionem caloris natiui, & Dehis, quiex longiori abdinenriamorbuminci- rix durationis abdinentue quoad fingulos gra- Quibus abftinenubusaprimogeneretumsqua- dus. litatis, tum proportionis vinum caloris & hu- Diflribuuntur gndus iciunorum penes durationis moris interni ieiumum ortum duxerit, varietatem incerta capita. Decaudisabdinenti*intrafeptunaminclude,qui Quibus abdinentibus longi ieiunij cauda fit e fe- cundo genere tuin squalitatis, tum proportio- nis,qu* funteum valido calore. Quibus longs abdinenti caufla fuerit squalitas, <St proportio vinum humoris, calons medio eris in tertio genere, De difcriinme trium horum grnerum squalita- tis,ac proportionis virium caloris, humoris in producendo 1c1un10. Decaudis terminantibus ieiumum generarim. cap.dS. De caud a per fe tollere valente virium caloris,^ humoris squalitatem, & odendituream non_. elfe calorcm.ncc humorem,nec animam, fed ex tnnfecus 0ccurlant1a. De caudis per accidens gcncratim euertentibus x- qualitatem virium caloris, humoris interni cap.70. Explicantur ex ternx cauffr per accidens xqualita tem propofium deltruentcs. Afferuntur caulis interne per accidens euerten- tesxqualiutcm virium caloris, &' humon; qua rum vna offenditur ellc anima. Enucleatur altera interna caulla per accidens hu- lu Imodi squali tatem deilruens. efl primus gradus longi ieiunij,inter quas nume ratur fanguims copia in venofo genere , quam-, protulit Bottonnus mfignis Medicus. De caudis ieiunij ad nonam diem produfti.in qui bus locum habere videtur alienatio ammz a vi- txmuneribus Ecdadsnuncupata,quamexeo* gitauit Abulenfis.De caulfis abdinenti ad duodecim dies proroga- te quarum cenfu non rcmouetur caloris im- becillius a IXxftiflimo Bonainico piopofita. De caudis abdinentix quindecim dicrum.quaru vna perhibetur ede morbola coadituuo autore Brafauolo. Dccauilis ieiunij viginri dierum, e quarum nume ro legitur pituitz copia cum Alagno Albcrto; attexiturquepropomisnoua hidoru longioris abdinenti Canonici Leod1cnfis. De caudis ieiunij trigrnu dierum, De caudis abdinenti* quadraginta dierum, quas inter numeratur vim pouo; rluxque mirabiles hidorix longioris ieiunij lupenonbus adijciun- tur ; & fupcrnaturahs, lanctorumque vnorum abftinentia explicatur, vfum alimentorum, De caudis. De cauffis ieiuniiblmeflns, intcrquas reponimus Aquamnonideocf Temiliumalendoaptum, quia meatuumcutis ad ftriaionemcum Bencditto, tuitu non fentiatur iummefrigida, &gufluper & i Montuo. Cecaufli sic ium»trime (Iris Aexplicaturquomo- doammali aquzdamlinenutneatuptnguclcat: Adijciturijuc promulgatu noua longiffimi ieiu nij obicruatio. Decaufia leiunij fcauftns. De caufTis abflinentiz, quz ad annum integrum- prorugatur. De caums abflinctise vitra annum praten fac. frater cauflas phy Ii cardudum allatas, tres alias re pennvalerediuturnihuiusiciuntj procreatri- ccs.cap.pp. Caufiarum propofitarum ablbnentix comparatio ad inuicem. Oj. c i libri quarti Capita ccnlunt quinque cipiatur varij liiporis. Aquispermilhnnnonedeacrem. Aqu terramnoncflepermillam,cuiterne fapo- res mnnt. Aquam motu, ac ventis non incalefccreAcurmo ta dicatur viua.cap. 1 p. Aqua hieme calida mtfli rationem no habct.c.io. Aquam non congelalcere,cui nihil iniit caloris, et fi fngote congelatacalorediffluat. Quomodo aqua frigidiffimaquum fit abexterno frigorevertaturinglaciem. Pratcr qualitates aituales de genere accidentis meile cuique elemento habituales qualitates de genere fubllantias, qux funt forma;,ac differen- tia: conflitutnccs.cap.i;. Vrqualitatcs aftuofz, ac potiffimum frigiditasin Praelatio, in qua notatur difficultatum explican- darumnatura, &agendorumordo. Platonis allcrtuindeelementorumfirapliatatcct Liber Quartus, in quo enodantur difKcilia,quz ha /fenus explicatis obftare , ac obi/ci polTc viden- tur. plicatur.Pilees in pifcims ex lapide eonflruitis no ali aqua; & Ariilotehs locus explicatur de terra, St aqua, Decere Philofophum de re aliqua ex profeflb tra- nantem tum omnes aliorum opiniones de pro- politoexpendere, tumilluflnorestantum: vn- deinnote feuntferibentium fines,officia,crimi- Pifcibusinvafisvitreis conferuatis, finonaqua-y na  Aconemplationum varietates Dicere Phyfiologo inter expendendas opiniones aliorum, nouasa femctiplb comminifciAvehit alienas examinare ; exquo putet coguitionum varietas,irordo. Alimentum omne a viucntibus neccfiario prodi- , re, nec ali ferro llruthiocamelum: quo czno a- laturanimal,&planta, A mortuis vt nobis alimenta,jugumenta, & femi- na fuppeditentur apud Hippocratem, exercita- tio cum acutiffimo Scahgero. Exper inento haud probari aurum putabile pofle nutrire.cap.y. Hominesfziiololoandiualivaleantvtiiumen- Eondcletiiratio denutricareexaere, &aquapen ta.cap.d. Venena in alimentum nulla ratione poffe conce- dere. Vt homo Aomnino animal fuauiter olere valeat fponte nareric.cap.8. Vtfrigusnoningrediaturoperanaturz; acprzfcr diturad Anflotclis trutnnain. Qui Nnodo mutatio fit fimplicis in milium, ac vi- cilfiinA' omnino inter oppolita ; vnde tollitur Olimpiodouratio probans aquam alere, ca. ;8. Aqua fi non alit, quomodo Annoteli vercdicatut alimentoefle, acproindeilliusmutatiomorbo- timvtquxcunqueexputrioriunturacaloregi- ia.gnantur.cap.p. Quomodo aqua feruens remoto calefaciente fc- metipftin tefngcretcap. 10. Abflinen tes a cibo, potuque omni prius affligi, 8c mori fiti, quam farne. Vt aqua potabilis calore putrciccre non poffit, at- que amman.cap.i2M Ex putri fbrmaliter animatum procreari non pof- le. CyprimsA^alijspifciculis fponte natis non efle ortum^ utviftumexaqualbla. Pilees feu frigida nutriri cur aquafo- Ja viucrc non dicendi, quomodo ex ea ver- materia denfiori fitintcnfior. Aqua: calorem non olfendia pclluciditate.c.15. '  Pifciumin perforatis nauiculis quodnam fitalimf tum. quidinalimentumcedat. Oflrca, mytulos holuturia non ali aqua^». cap.;o. Lepades,ac mugiles aqua fola non ali. cap. Sardinas, fitaphyasaquanonali. Plantas marinas lola non ali aqua. cap.;;. Si vinum,(anguis^ac,cetcnquc liquores nutriant, nonideoaquamalerc.cap.;4. Anguillas non oriri, nec ali aqua pnth, fcd ca ali js decaulfisobleitari ARISTOTELE. Aquatilia tum branchias habentia, tum fiflulam flr' fpeciatim tcflacca non ali aqua ex Anllote- lc.cap. ;d. Niucm non e(Tc aquam mes oriantur, & nutriantur, lcporefque Plinio. Aquam vino additam quomodo Ariflotcles dicat in vinum mutari,^ vinum in aquam, qu* m- miflumperfcttigencns, atque adeo matimen- tumconuertinequit. ) Lentem paluflrem non oriri, neque nutriri ex a- ' ; b Quomodo putredo Iit propria miflipafficv&aquf conueniat.;. ' iui; Aquam quomodo calor concoquat Hipoocntr, B ca coitione non vertitur in alimentum, cap-44- quafola.Vtmx   Vtnix efientiam non habeat terra participem ,ac iptunuiam, exercitatio cura lubuhiiimo Scaligc ru.Qua ratione nix fecunditatem afferat agris, fi ter- ra particeps, non cft Vtputredoablblutc Iit corruptio propnj caloris. _ «P47- Cur muta imperferta vmentibus in alimentum ce dere non valeant , fpeciatim cur aqua nufia cumalimentis nonalat. cap.«3. Vt alimentum iimplicitcr huuudum efle opor- teat. CurIitioccurratmagi»vinumquamaqua.5 Vt litis fit defideriuin alimenti. Vtfames quatenu selllenius indigentis, quem_ anunalcin, dicimus, fit affertto lolius oris ventri culi, non ctiain aliarum partium. cap.fz.. Vt dolorfamem. aclitimprxcedat vcluti caulfa nonfubicquaturquafieffertus. Cur pi iguedo.fit^adpes alere non pofiit Vt medulla non Iit alimentum , fed excrementum 0fiium. Ieiuma per •iccidcns.Sr' apparenter calefacere.ve- rc,ac per fe calorem non acucrc,licet p>er fe fitim procreent Vt allinentis per fe non refrigeretur vlla ratione-, calor nauuus.Anflotclis difficilis locus explicatur de refrigerio calor.s ab alimento.Galeno nem alimentum non refrigerare calortm natiumn, nili per accidens, fed per fcilluin au- gere. Vtalimentis augeatur caloris innati gradus, feu qualitas;nonfolamateriacalida exercitatio ; cumdortilfimo Fcrnelio. cap.do. Vt alimentis non pofiit caloris virtus mtfdi abfq; Vt verne melerei de ventrtenld , inteftinis f» gant alimentum non expertato fine cortioms. Vt folia, ttores, frurtus, & femina plantarum pars tes vere non fint, fed excrementa potius,  Vt cx co, ouod oua,& femina citra nutricatum vi uant,colligere polfimus perferta quoque anima lia vitam polle traducere ablquc alimentorum vfu. co quod fubicrta calori materia augeatur. Vt anima nutriens artum habeat immediatum, & Curnonfintfrequentioresnofiri abfiinentes, fed proprium, in quo edendo no v tat ur organo cor» porco.cap.dx. Calorem natiuum in nobis,quin etiam ignis riam- tnamapudnos,nonindigerencccllariohumo- ris,quo vcluti pabulo nutriatur, Cur calor humorem in milio, & in viuentc prxfer- tim d:palcatur,& intentum procuret, exercita- tio cum liibtililfiino Scaligcro. Vttn Ecllali ceffct anima nutriens ab alcndimu- nei4.Vt Ecftafis non Iit priuatio munerum animi intcl ligeutis, exercitatio cu virodortiliiino, ex Sca- ligero.cap.dd. Vehementi fiupore^hjsque plurimis de caudis de 1. Jertabanimopolleomnesnouones,&habitus, cVtalimentivfusnonfitadrefiaurationemdeper- di ti,fcd ad auocandum calorem a cita conlum- tione humons: exercitatio cum Magno Al- crto.cCur femen maris in vtero femina: concipientis no alatur.Vt IcmcnnonIit parsanimati,inquoeff.Vt ou»iubutntancaliat ammata.<5. raro admodum vilimtur. alimentorum indigentia infit viuenti quatenus miftumcfi. Cura bliinentesobxqua Jiatemvirium caloris, & humoris interni iuonantur,feu non femper to- tam vitam degant in ieiunio,fed plerunque re- deant ad ciborum vfum. Vt agentia fecundum virtutem aequalia inuicenL. agant.VtexGalenolubfiantiacorporis iVomninohu‘ , midum [fubltantificum dilfipetur a calore nari- uo,non iolum ab adfcititio,cxerciatio cum Cardano, rnojC  Vt Ariftoteh calor internus ablumat humidunu, fubfianttficum. Vt cx rei natura non colligatur a calore natiuo no abfunuhumidumfubfiantificum, <Vprimo quia calor fit anima: inftrumcntum.cap.pj. Vtcalor non ideo dicatur non confumerc humi- dum quia in miftu elementa non fine in artu fe cundo,Vquahatibus rtfrartis,fubditil' que for mx luenti compolitum Vt calormfitusnonideononconliimat partium, lubfiantiam, quiafitearumtbrma. Vtcalo- Vt facultas alens pofiit a nutriendi funrtione r1.cocia Cur materia corporis nofiri per alimentum femper non debeat innouan, vt cenfet Albertus Inhis, quidiua nutriendi munereociantur ftra non cfie ven triculu m,iecur,& alia membta nutricatui dicata, cap. Vt ratione caloris animal tiinrtioaem alendi diu intermittere ualeat.V piper, pyrethrum, finapi, thapfiaque fit homi- t ne cahd10r.Vt viuenti non repugnet nutricationem intermit- tere, fiucvt animal pofiit abfque nutricatu vi- ucre qua viuens cfi. Vt tini nutricationis formahter non obrteteius pcrauonis intermifiio. Vtin atrophia faculas alens penitus ocictur c. o- i Vt cx Galeni fententia nutriendi funrtio non ' homininccefiaria.1 Vtex Flotini lententia nutricatio iugis ' debeat in corpore viuenris.Vteffcrtui priuatiuo caufla politiua pofiit, afiign* ri,noTqueid fecerimus in fupenonbus.Vt mors viucntibusconuenut fecundum natura fcu quomodo interitus viuentibus fit naturalis.  fru- non efie-> Digil qt fit  mK cuerti naturae lr| Calor, definiendo^ non^UfrAr.cap.8*. o Vt calor iniitus igneo pro| iCrefpondcnscoi cum femetipfo coUlgaturitluod vcgcticficak.re,&hieme tiamehushabeant. aa ,.:j) mi Ha.t.gMUlCi fsklJlli l"v'i fcwnq..4,..V«m .t {}.{ioli>>* 1. :S utrori''- » . 1 . 1 ) r tluf. tvi. 11 . 5 . un. l M-k 'V' t -'iiklia^. Ohtvn.i,*!* i!,» lRttift j 1? ' m. .j.j.il r.cvt • -.• .1 r4 .1 a» c ii t.ojSjva nm.iinhijjafc. Btiftt remtr.il buUma ttiu^ bi' iV.  min vituentCe fiuniftionecs UDt inirn^» marica Mntehumorem abfumert.dicatur. BnOoniidoaw» rf.u. bkrAt^natnitii<f«iiciuimn abKfumnantr.rcanp ti noi Vtabmfito calore corpu* non deftru» ex co qwv mA , : eadem eiuldem rei poffitefie caulia perl^^ac. Yt accidens. Eftpectrum cuiutcaulsas qoi» noujt,cur noniem tione non refp6 deat, fit humiotim. Perisidemprocrearevaleatc Calorem in natum radiolihumoriadeocon Perorauototius operu i flriM l‘Ut '...ftUi -bvt..:; ana.y,ami»1m«i “thVt»Ws0'tV.s. t.\11.a.tm.*"'V;^0•. iiontti tJ H» .1 kf.l »bc. Mi- >\«i>.tthtij . t .1 Sei.t e«10»rilrurfvht 1 ? 9* i >v fp wuiMe''•{! a.l8-t. aavttt '»wj.iW'i'i :.!.wtvers qiR*t . J.vrf>u » -.*-c tiVa humorem \ .s-u.-ue . K. ,i .1 • i/.XIA'*' 'VtrQ\i,' "i'. l 9\a.1 .•' . . r’ .av.iii.pi iA.ivr1 .As.ftla,i) ,at ;.. yi juajm.ih. i1riumdicaviipfuiacunfuaitre Yalcat.0^.1^AwimtarUiAnti«naV.v,?y..«ri*a:Trium Cupidinum; Voluptuofum tyranni demin Animæ facultas,concupiscibilisvtin anima vin Amotescur Alatifingantur. Cur Amores Nudifingantur. De Amoristergemini pulchritudine.Amor curnoncæcus inSchemate fidus. sa, gercnsincacumine volucrem, & caueam De fructuarborissapientiæ, nostroinSchema Inter.viros altafapientiaprestantes, efequi nonvocedocerefintapts, fedtantum, Schema Gemme. Sapientium ,sciendi cupidos edocere valentium, tresesseclasses.Coruicumviro fapientiæ scriptore detegitur analogia. Schematis Amorumtrium explicatio Medica. Devolumine Mufices, invnguibus Coruimy ab Alciato, consideracur. Schema Gemma. Explicatio viri eruditi de Amore nocturnas Amoris origo mirabilis; a Platone polica,de Defrondibus Aoribus hwnanæsapientiæ. claratur. Amor voluptuolus veergabellicum, & litera Amor fapiêtiæcúrnuduse fictus. Decer gemina significatione ftellæ prælucen. Amor sapientiæ curalatus, & quænam finteius cisin Schemate poni caput viripsallentis. Alæ. Quomodo fapientiæsymbolumsitarboranno Amoris Emblemanoftroperfimile,propofitum voce tantumodo docere valeant. Schema primç Gemma. De arboris in Schemate piata coinparatione 16 busomnibus, modo fcriptis. geminos Amoresprobaspassomexercere, çatirascibilem , & rationalem, Amor cur a veteribus Diuinitatc donatus , Explicatio Schematis ab incerto propolica consideratur. Yeiundas. Depriscis Anularium Gemmarum Sche maribus cxplicandis. Amor sapientiæcur, præteralas,adhibearetiam brachiamanusque geminas, quibusfuniculo riuin impcriolam tyrannidem exerceat. Sapientiam apprehendi ab Animo Doctrinę Humanus animus crga sapientiam cur se habeat sermone vocali discendi cupidos crudi. ente :primumque de biformis inferoa parte fticicanentis,repræsentat (1.. Inter viros dostos inueniri, qui non fcriptis Amor sapientiæ cureffictusingemma puellus Supremamonftriparshunana declaratur. Vt Amor pusio,corporepusilo imocens, arq;moribusfimplex gallumreferente. pientiacomparatur. ad arborem scientiæ boni & malı, dudum a De fru&uarborisscientiæboni& mali, primæ uæ inParadiso. xxvi. cantilenas ad amicam personante perpen duplicisecollarinaltum. Responsio de Veterum Gemmarumex- Demagnoconatu,ingentiquelabore,quofa plicationcadcunda.Amoris differentiæ tres cxplicatæ. Cur Amores ætate pueri fingantur a veteri sedulalectione, acintenta Aufcultatione. Schema Gemme. ditur. Propria proponitur explicatiode viro fapien. AmorfapientiæcuringemmafiAusefteffigie DeBarbito, seulyradigitishumanispulfara pusionis,acinfantis. Deo in Paradiso creatam . cedelincatæ.  Pror   Proposito Schemati comparauraliud Fabij Septentiam Viricl. hocsensusunprám, nocon cundiatoris, exterminatione confiftere, SchemaV.Gemmę. uenire Schematis imaginibus, oftendirur. Propria Schematis explicatio prior eft, de Amico veromọitain Amaci & defunctime.  De Armış offendentibus, Heroico Amoribel licodatis in Schema re. De Cun&ationebellicaper Amoremftantem Proponiturexpofitiopropriadeamorę Ca. indicata, tofis: cap.xlvi. postulan. Amicumverum inaduerfitate dignofces, cile fót: vél Tetbydis, aut Veneris Amores:vel Ægyptusludens ditur. Prima cxplicatio noftra moralis ,de formola Peleum ,velVencris ad Anchisen delatione, formofitas, do oscaffo, Şecunda Schematis explicatio, de Amico Pulchramulier ,permarevitavagarsadare De Amoris bel lici clypeo hieroglyphicum, Cur Amor istebellicusPedes,non Equesef, Super incrementa Nili. Amici de funéti memoria femper in corde confer. raptaproponitur, &adhistoricamfidemrc digitur, Amoris bellici, ro , qui dignoscitur in aduersa fortuna, Schema Gemma, exarmati,pendicur.indignacionem.cap.liv. Coniugalis Amor armis offendentibusexpolia. Proprja sententiaproponitur,quæ’est,obocu losooni Schemate noftro proprietares Amoris irascibilis, fiuemilitaris: primumquede Schema .Gemme. Index Titulorum, De Amoris bellicivultufæuo, seuero, actan. Explicatio Schematisacl.Viropropolita, de cumnontoruo,minaçique. De propria significatione Galeæ incapito dicitiamMatriş-familias. Schema Gemm &. De Amore civili,qui vocatur Amicitia,vta tri muliere,quæ nimium extra domum vagans ad arbitrium,vel eft,vel euadit impudica , yanda;& Amantem non redamatum,indi- 143 Propria explicatio Gemmæ proponitur, de gnabundum extinguerequam affectionem, Schema Gemmx . Triconepulchram Nympham marinam yo, Aliena Viri cl.explicatio,de Amore monftran lentematq; lubentemcomplecterte,perqs maria ferentc.redamato, syumAmorem extinguente per Amorem Heroi cummilitiamagisin conferuatio Secundus eruditi viri sensus explicatur, & ne Ducis, & Exercitusoportuneceleris, & cunctantis, quaminhoftium expenditur, moriam eonseruante, Opinio, dicenshocese hieroglyphicum Amo SecundaŞchematisexplicatio, deAmantenon ris concupiscibilis per visam negociofam corporemilicisgeneratim. De Amoris belli ciceleritace, perAlaşindica- CupidineindigneferenteSibifpiculanegari a Venere,proponitur et expenditur, filius in Schemate noftræ Gemmulæ , IN SchemąGemma Smithi anaexplicatiode Nereideper falum Amicus vs que ad Aram Amico illicila busanteadeclaratis,Concupiscibili,Ra. Secunda explication fabulofa, vel Tethydisadrionali, & irascibili contradistinguitur. Opinio ponons hoc esse symbolum Amorisvo- Terrinexplicatiophysicade Ægyprolafciui luptuosi, expenditur, entesuperincrementaNilio Rapina puellas dealiasrespulchrasexponit Propria declaratio prima de Amico vsque ad Aras., cap.xlviii. Fur & pudica Maire- familias. piugali,exarmatospiculisoffensjonisperpu bitrium, velimpudicaeft, velimpudicafa. equo marinoveda, proponitur,& cxpene Sententia virieruditide puella vere a Tritong tccun&ashumanasr esessevanas, proponi- Secunda cxplicatio,deTijroneraptāpuellam tur, & explicatur primosensu noftratélubvndasasportāte, Tertia Capicum Operis. Tertia moralis eft explicatio, depiratis,acpræ- Deoratione Mentalisubhieroglyphiconudæ mortali. Propria Schematisexplicatio, declarans spe tem et  faciem interga versa in,cumligneum scipionem. cDe forma templi Delphici in Schemate. De consulentis Delphicum oraculum baculo, Mundi Systema,partesquevniuerfuminte. grantes,explicantur. ASTV'S DEV DITVR ASTV. In cogniti viri explicatio indicata ex senis datotibus, aliisquemaritimaclasserapienti- mulierisgenuflexæ,sedentis,& vicumque busresalicnas. Sententia C l . viri, de primo quadrigarum inuentore proponitur ac expenditur. Oraculorum Diuinorum propriumest, homini, deEricthonioaPallade, ceu filiofpurio,& tanquam presentes. Schema Gemma. De Papauere, simulachrosomni,aquoprima De rupe templo Delphico subiect:.  Propria fententia proponitur primumquecal sumitexordia et  inquodimidiumsuædura giliapatratarum, perenneinin conftantiam. Proprialententiaproponitur,& confirmatur, impuro proicão.  bus euentus futuros demonftrare Schema Gemme. Aliena declaratioproponitur,& explicatur. ciarim arborem in lacus propeod ntem ,& hominis cõsulentisoraculumcumpailijpar De Papilionc,lignificantebreuitatemhuma- næ vitæ.De Simulachro in templo Delphico. De Canopo , Deo Aepytiorum, superante Iouis figura vesitaptum Terræ hieroglyphicũ. OratioVocalisatque Mentalisvnacon pirantes Pallas nuda ve fignct ignis Elementun . Deum flectunt,ob efficaciterexorant. Schema xiv, Gemma. De Mercurij ligno, Elementum Aeris repræ de Detribus orandi modis antiquis: ftatario,ad Beneficij, velabrutisaccepsi,Deumefegratum remuneratorem geniculato et sedentario.  decoreftantis, ambabusmanibusDeocor offerentis. Deque antiquo more tenendi Pallijmotus in terga declaratur. ExplicationoftradeMundi Syftemate,parti tumAquæ.cap.xci. uariælymbolummedium explicaturdevita Dc Rota,lignantehumanarumactionum,invi. Schema Genoma. tionishabet humana vita. De Vrnasepulchrali, ad quam terminantur a&iones omnes humanæ vitæ mortalis. Schema Gemme. Deum Chaldæorum Ignem, viâorem om. nium aliorum Numinum Gentilitatis. buiqueintegrantibus, proponitur; primum que Zodiaci declaratur imago, pro toto Cælo.D e oraçione Mentali vereres profanos egisse. Facici mira versio in tergus explicata. Schema Gemma , corroboratur. Voca- De Nepturo, repræsentantetotum Elemen D e viribus & proprietatibus orationis  lis, atque Mentalis, Deo Accendo p orrigen . sentante, Poeta HEROV M FILII NOX £ . autoribus proponitur & Humana vita eftmorsvndiquemiserysobfella. expenditur. De oratione Vocali, fignata per mulieremic. miamittam, quædexteralacinian tenet,fini- Schema Gemma, Explicatio Viri Cl.re&taproponitur,& latius ftraserpentem porrigit. Aras ab orantibus. Poetabonus,ad Lgraincanerenescius: vel  Propria Schemaris explicatio proponitur , de canere nescio.  Secunda Schematis explicatio depromitur ex pium natura generica ,Proserpinæ Schema Schema Gemm &. ponendis aprefacilequedislidijstumánimo rum dilceptantium, tum corporca violen:. Noftra explicatiode Ducisexercituumeripli- Sacrilegus Brenus ad Altaresempli Delphici ciproprietate. Tertia declaratio nultra de Amoris genitabilis fcibilis et Rationalis, explicariSchemare. Produnturin Schemate.cap.c. mortem fibi metipfi sponte conscisceredebuis, Auroranettens Atheraterris,prouchit oria diem . Schema Gemma. Aurora diejnuncia,celeriterorbem terrarum circuit. cap.ciij. tiabelligerantur, setranfuerberat. absolute,frustra laboráns. Hesiodo poeta bono carmita sua ad lyram  adagio veçusto de viro fruftra laborante . PRINCIPATVS ANIMALIVM, Ducis exercituum proprietates: Amorisgenitalisimperiosapotestas, G Amoris tres differentia, Elementa vitalia. imperiosapotestate.  vel Ampli il regna benegubernantur, Explicatio viri Cl. de Principatu animalium . altronomo Lunæ,liderumque seruante, cap.cij. phasesob- De Ajacesemetipsuminterficiente,gladiodu dum ab He&ore sibi donato terramcum Plutoneraptoremanente,totie dem supracerráapudmatremdegente,my. Num Sahemapossitintelligi.cap.cix dam fra&tam supplente,affertur,& expen ditur, Schema Gemma. De Cererisfilia Proserpina,sexmenses intra Amoris tresdifferentias,Irascibilis,Concupi Elementa viuentium fcracia,& altricia, terna Anonymisententiade Decio proponitur et  cxpenditur,obferuatoris hieroglyphicum. Schema Gemme, numpoflicimago Schematis interprecari.Explicatio fabulosa , seu poetica viri do &i de Schema xvij Gemme. De Mercurio Canicipite, Regnum Acgyptium optimegubernante, Schema Gemench. De viribus Sapientiæ, ac Eloquentiæincom. Ajaxfurens, ob Achillis armfaibi negata, Schema Gemma. De Catone Veicense, semetipfum cõfodiente, Proponitur explicatio propria,de Brenno, Proditoremnunquamplacereviroforti, etiam cui sot vtilis prodirio nesati hoftis, Schema Gemm. Explicatiovirido &ideCicada,citharæchor Pulchra fæcunditas, a terracalore rapta,fex menfeslaterintraterraviscera,totidem. que fupra terram in aere degit, C. Sapientia, don Eloquentia litigantes,atque pugnantesanimos apsefaciley, componit. Aftrorum Lunariummotuum et phasium Endymione a Diana ad amato. Propria Schematis explicari o proponitur d e Gallorum Duce facrilego, qui semetipsum confecerit ad Aram Apollinis in templo Index Titulorum , thologiacómunisexplicata.cap.civ.227 Propria explicatio de vegetabilium, feu stir te, fabulisquerepræsentata,Sapientia, & fortitudine,fagaciqueprudentia De Bruto, separiter pugione confodiente, Delphico Schema xxvi Gemme. De off Au Cæsarisaccipientiscaput Pompeij Magni a proditore,qui virum interfecerat,  Schema Gemma. Larma. fiueperfona Dramaticum Poctamoftendit. Sue prijci sacrificabantvbigfingulisfere Dijs vitaprecellentibus, ta vetusta .  AftNo . Schema xxxiv, Gemma, Schema Gemma. Virtute fortunamsuperari. Dc Qliadrigain Anulosignatorio PlinijSca cundilunioris ,& Rana fignatoria Mecæna eis. cap.cxiv. tasmaximoperedecet. Schema xxix.Gemme. cultatibusin columem. Martiales virimulierumraptor esprimi, par: Centauricuerentis, & fagitcantis tergeminum novelfatuplenum, &excrinsecusoleolisi. GenerofasindoleseducaridebereabHeroibus ujoueperundum. Lætarin eminemo porterefraude;quum& ipse consimili capi valeat. cPropriæ fententiæ declaratio, devitæconcemAmpli Dominij splendornonofuseatsideraviro Virumingenio,probitate,fortitudinequepolen? thiuminbono Principe, Magnoque Mini, Stro,quem taciturnitas atque celeri. sememergeredefawienrisfortunediffi Gerimis Anulorum insculpiconsucuisse vultus gemina, fugax, dprocax, mysticerepre. Jenialacalefti Sagittario. Insignium virorum, adillorummemoriam, cultum, & imitationem. De Hominisin Alinumtransformationeper maleficā libidine abutentem myfteriumexplicatur,primumquedeScr monishumanidifferentia,& velocitace. Veterumsaltatio Iudicrasupervtresplenos, et extrinfecusvnitosexplicaia. Eodem Hieroglyphico denotari humanæ vitæ naturam fugacem , geminaquc differentia De vererum ludicra (alcationesuper vtrem vi. Schema Gemms. Personam non attribui PoetæLyrico,vel Epi- Chiron Centaurus, vtviruina&uofæfimul& contemplatiuæ vitæperitumindicet adomnia:jeaprecipue Veneriadpuritatem coniugý; dfæcunduarem prolisinNuprijs. Schema Gemma. Furum ex rapto viuentium antiquitus condi Schema Genome , De SacrificioSuisapudantiquos. Fraudulenti pari fraudecapiuniør: do Vitecontemplatricisverumacgenuinum hieroglyphicum. Schema Gemma. Gandium& Mæror viciffomfibifuccedunt. Schema Gemme. Anonymi sententia perpendicur de Psyche Pyralidisalasbabente, ansit Animesymbo fomquediffamati. Humani Sermonis ; do bumana vite natura inactuosapariter& incontemplatrice Schema Gemmt. Furacisrapacitatistypus,& inftrumen. Virorum infignium imagines Anulis in fculpifo: litas,adeorum memoriam , culium , Mulierumraptoresprimos,& paffim fuissevi ros bellicolos. imitationem. Libidinis atque Magia prauapoteftasingens, Schema Gemma, virtutis, & vitijdistinctam ,maximeque libi. dinosam. Cole delle proprium fymbolum Dramatici. aprum cducaregenerosa indolisadolcicencs. cDe Marlya geminatæ tibiæinucntorc fabula menio latjusexplicato. Schema Gemme. Schema Gemma. tionesexplicatæ. lum absolute. platricisintimisattributis. Atuosa vita prima species Bigisinludorum Alia Panos explicatio devniuerfo proponitur.Circensium Schemare currentibus hieroglyphiceinterpretata. Aftuofa vita secunda species, Moralis&Actiua lufta Zelotypamulieris indignatio, familjemaeft: nuncupata, Quadrigarum fpectaculomy. ftice representata. Schema Gemme de Equo Troianoproposita,&expensa: Propria Schematis explicatio primumque Darctis Phrygij deNaturalicu narratio. piditatesciendi. Virorum Heroica virtute preftantium vultus Potentiorumprædeopulenti:Tellurisoccupatio apud antiquos merorieac imitationis ergo Dilly's Cretensis Ephemeridum inuentio communis receptio. veterum, Achillisi mago qualis, & curin Schemace. vltionem , Bigarum cursus in stadio ve indicet Artificum vitam effe&ricem. comprehendere fatagientis. Responsio LICETI denneac formasuisymboli Schema Gemmik. Sophiftaperimitindocius, adoctisinterficitur in literario mundo. Quadrigarum cursu signariviram Adiuam, Naturaliscupidosciendiqu.erielatentesrerum præcipueque Milicarem. que Aduerfus hoftesinbelloiusto,dolis Schema Gemma , expenduntur. cap.cxli. paratur,ac de singulis tribus censura pro mulgatur. cap.cxxxiij. interitus , Schema xlvij. Gemma. pafjem effigiatos. haberi. a fortioribus: Agraria Legis occafio, do ego Amicitia cogens ad iustam PerfeisimulacrocurfignaueritAlexander, cur vsiveteresin Numis. Multiplexænigmatis explicatio: & primade potentioribus diripientibus aliorum opes. De Anulis, quos adsignandum habebat Magnus Alexander. Secunda Schematis explicatio nostra est,de robustioribus,terræ dominium ,acpofsef PanosHieroglyphica,deSermone,deque Vniuerfo declarata. Tertia explicatio politica noftra Schematis, de terræ distributionem ilitibusvi&toribus, per Schema Gemma Platonica Panos explicatio, de conditionibus, Legem Agrariam ,affertur. QuartaSchematisexplicationoftraeftphysi. Auctarium. Schema Gemima. ca, de typo Agriculturæ. Hostium donfau fpecta fempereffedebere.nam. Poetarum & historicorum communisopinio, Veriores fententiæ deSphinge proponuntur exalijs,cap.cxlij. Tertiafententia PLINIO, Pausaniæque de Troia- Equo proponitur, & allatisanteacom Arcana Numinis, & edifta Principumnonime telligentem, acnonobferuantemmanet Schemaxlij.Gemme.' vis: Agriculturetypus: Ægyptus: Schema xlvii. Gemma, et PROPIA NATURA SERMONIS HUMANI proponitur. QuintanoftriSchematis explicacio, de regione fionem fibi occupantibus. licerarij. inuentis ingenia macerat. Schema x! Gemme . aqueacviribusvtendum . Aliorum opiniones de Sphingereferuntur,& Propria Schematis explicatio proponitur de Troiano Equo secundum senfa poetarum Principum,& nonintelligentesoracula. Index Titulorum, De Schemate noftri Mercurij Pana fugientem caufas, quibus inuentiscellat, non Sphinxcurinterimatnon obseruantesedi & a Ægypti. Postres i Poftreina Schematis explicatioest, de Amici- . Crucifixi Predicatores, Pifcatoreshominum: ciæ , ad vindictam injuriarum cxcrcitum. co. Chiorumantiquain Homerum obseruanti apu Explicatio prima Smethiæ Gemmæ de Crucie c Explicatio primæ Gemmæ Rhodianæ, rife, Propria Schematis explicario de Mula Thalia rentis obseruatores cæleftium luminumn proponitur et comprobatur. Curanti quis acerdotes offerrentali quando la Secunda explicatio Gemmæ, dehomineforcu crificia Numinisedentes, licibello Cælaris Augusti nata ,Belisarja. Afferturgenuina declaratio Numi Comitis11  Comica lafcime gaudet fermone Thalia: vel Sccunda noftra Schematis affertur explicatio dia gentium comparari. Salute patratum natomarehumanævitænauigante ventose chariftie Sacramento.Schema Gemme. ad veritatis imaginem. Felicishominis,feu formuaritypus, Nawigans cum ventis in V'tre conclufis. culo. gentis, hieroglyphico, c UniuersalisIudicijtypus: Mirabileconuiuium in Deserto; Viros fapientes publicismonumentisefe colendos Schema. Numifmatis, Schemą liv, Gemm. De Smithiana gemma.cap.clxii, Animo pacato facrificandum et fupplicandum, Fructuum atque frugum vbertatem concors Schema Gemma. Concordia, & fidedata, feruataquçmirificam Miles atrocibella fuper ftes in ærum nofam incidit inopiam fæpiffime duobus piscibus mirifice, Quarta explication Gemmæ, de Sacrofan&oEu Schema Gemma. cundoadarbitrium,fincracionis guberna blica.cli, Comparantur Numismati de-Lazara duo ali Numiab Augustino propositi. rá curba in deserto quinque panibus et explication viri eruditi de Venere, loco, et Cupidi neproponitur, cap.clv. Schema Gemma, De Amore fơecundante criainferaelementa. apud homines promoucri bonorum ome niumybercarem, Schemalvý, Gemma Belisarij et Horatij [ORAZIO] poetæ paupertas, exinfc Fortiondinis audar facinus, pro patrie næ calamitatisfere çoinpar exprimitur. Digreffiode Cicuræ medicamentis, &veneno. Mutij Sczuolæ Romani grande facinus et inli- Responsio deCicutæviribus: & pri mum , cus non habeat vim ex purgandi cor et eucharistia symbolum. Fixi prædicatoribus hominum piscatoribus. Schema lv. Gemmila luftriss, loannisde Lazara, De sepulchrorum differentiis et Homericu. Secunda explicatio Gemmæ , finale iudiciuin mulo, cap,cliii. Poeta Comici, Lyrici uelafciuiori sactus, Gemma celestium obferuationivacandum animo curis vacuo, quies centeque corporeprorsus Expendunturalları Schematis imagines,& sensaViricl.cap.clvi, Aftronomio blernaca, et Aftrologiludicia, vc exarretieridebcant.cap.clxvii. myftice referentis.Tertia explication Gemmæ, desaturatainnume de Poerafcu Comico, feulyricolafciua fupidoMaria,Terras doAeremfæcundans: carmina pangente , cap.clviii, gnis erga Patriam Pictas atquc fortitudo detegiturinGemma cap.clxi.  pora çiçuræplanta : deque duplici genere Cicutarum, Sale. beat molliendi. etiamproba, plerumque multum nocet fibi , dum viro coniugi, Cupido au olans a Psyche fibi non morigera , Amaritudomunuscælitus datumhumanænaty. Ra ad procreandas multasbonasactiones. Schema lix. Gemma. Quatuor Nouissimorum explicatio in gemma de mortis memoria, per anulum schematis De secundonouiffimo, quodeftludicium Dei poftobitum hominum, perperdentis corum post ludicium luendis a vita de f u n & is per perenni poft obitum , aut purgationem in cælis possidenda, per Stellam, lunam et cicadam hieroglyphice signata. Per oratio totius Operis,Caputvlcim  n quo agitur de Monftris generatim. CJ^ Onflri varia ftgnijicatio 5 (02 propria efi, ac noflri inflituti^. deteoitHr, Monjlri etymologia vulgaris, quaft res eventnras monjiret^confiitatidr; vem (^ propria proponttur» DeMonjlroriim Hnmanorum reali existentia, Realts extftentta Monjlrornm irrationalium natH- ram non eoredientium patefit, OBenditur in fiirpibus etiam revera MonBra contingere, De Mon''hor Hmcauffis generatim ijtiot ^qu^ecjue fint, Monflrorum caujfa Hnalis generatim (jtiQtupLex^qucec^He fit. DeMonflrorumcattffaformaligeneratim, quotuplex quaquefit, De Moniirorum caufiaejfetiricegeneratim,quotaplex, qu&quefit» De MonflrorHm caiifia effeflricegeneratimtquotuple Xiqucequefit, Propria Alonfiriffeneratim accepti definitio investigator. Inventa Monfiri definitioexplicatur.CMonfridivifioin fuas fpeciesfupremasmtiltiplexaffertur, fedaptior eltgitur In quo fpeciatim agitur de Monftris tjumanis.Attexensdi6iisdicenda^&dkendorumordinempromulgans.ORige^^ canjfd Mon^f OYPimh manorumcomm Hmsqti<e^ &quotwplexejfe valeat. Monftrorum in humana f^ecie mutilorum realis exiftentia ex Uiflo- ricis elicitur, Origo , (^ prima caujfa monBri uniformis mutili educitur ex propria materits defe^u. Secunda caujjfa^ C=f orfgo MonHri mutili oHenditurejfe ex dehilitate, ac defe^uvirtutis formatricis, Tertiacaufa,(^origoMonBrimutilijlatuiturinangufiiauteri, acloci f(stum continentis, uarta mutili Monjlricaujfa^(^origoadmateriaineptitudinem redigitUY. Q^inta Mon(iri mutiLicaujja^ (£ origo eft ex parente itidem trunco. Sexta causa 3 origo Monflri mutili admorhumfoetus attinere dicitur, Monflra muttlaex imaginationis parentumviexoririnonpojfc Monjiri uniformis excedentis redis exifientia ex hiHoricis item compro- batur, (tajia, Monjiriexcedentisnatura, G?caujfa. prima elicitor ex parentum phan- Secunda causa, (^ origo Monjlri excedentis in materics nimio excejfu ejje perhibetur. Non omnia A^fonjlra excedentia ex materi^srednndantia ex oririiJed aliquaexcedeniiumfuicaajfamtertio locoin una materiae penuria obtinere. ^jiarta canfa, (^ oriuo Monjlri excedentis infk perfcetattone collocatur, .^inta caujja , ^ origo Monjlri excedentis rejolvitur in iteratam ejfu^ Jionem maternifeminis in uterum citrafispeYfQ^tattonem. Sextacauffa, £? origo Monjtri excedemis pertinet ad anguHiam uteri„ Septima caujfi , c^ origo Adonftri excedentis ex parentibus monjirofts elicitur. OUava origo , ^ caujfa Monftri excedentis in vitio nutricationis confiftcre perhibetur„ Nona ratto , (^ canfja Monftri excedentis monftratnr in animipajfio* nibus parentes aJJicientibHS : ex^rciiatio cum Cavdano , (^ Parxo. , Decima causa origo MonjiriexcedentisinviolentafKaternicorpo^ ns concnljione reponimr, .U/idecimacmjpi, ^origo Mon^riexcedentisrefertnradmorhnm foetus, Monjlrorum ancipitis natur^efHbfillentia realis demonflratnr,  Jldonftrianctpitisorigo, C^ causa. Communis injtntiaturj ermturque prima. ex ?nateriet diverfce dcfe^H, ac excejja. Secmda Alondrfancipitisorigo, caujjaextiteriangufiia, (de" feSiu virtuttsformatricis explicatur Tertia Monjtnancipitis origo, cau^ainmorhofmtm, ^ffiperfce' tatiom deteqitur^ ^iarta Mon^ri ancipitis origo, caujsa refertur in materi<e ineptitudinem, iteratammaterntjeminis, (fanguinisejjluxtoftemaduterum, citra fiper fostationsm, intaMonjlriancipitisorigo, causa de promitur ex parentum corpore Monjlrojb. Sexta Monjlriancipitisorigoy Ccaujfaexvehemenii parentum imaginationei vitio nutricationis in faetu enucleator Mofiflri ancipitis origo , Cscaujja feptima reponitur in arte, peccata JSfatura^ imitante, ac nonfine ai^ilio Naturiz operante. Mon^ridijformisexi Bentiaexhi Horicispromalgatur. De Monjlri dijformis natura, caujfis ; primaque illius origo refoU vitur in malam uteri conformationem Secunda Monjlridijformisorigo, &caujfaJpe5lat ad malumjitum placenta nuncupatas : cujus ufns explicatur, TertiadijformisMonfhicaujfa, (^origoexmoladepromitur. arta Monjiridiffhrmisorigo, (^canjfaofienditurexmotu,  ^^inta Monjlri dijformis origOj (^ caujfa flatuitur imhecillitas fa- cuttatis difcretricis, yi. S.exta origo, (^ caujfa Monjiri dijformis ad nimiam materiie vifet- ditatem rediaitur, f^lI. Monflrainformia, dehitammemhrorum figuram non retinentia reipfa inveniri. Cde Ad onflrovuminformiumorigine,&caujfa; qu^primlmde» ducitur ex imbecillitatefacultatis formatricis. Secunda Monfirtinformisorigo, (^caujfj,exanguliiautericolli" gitur.  Tertia informium monfirorum caujfa , (^ origo in motu inordinato repO" nltur„.   arta informis Monflri origoi^ caufpi d(?prmiturifi mola^ (^ fLicema , tumore utm^concuTYmie virtHtisform^trkn imhcilliime , acmatem tertceweptimdifie,inta informis Monflri orlgo j ($' C(^0jj4 ex imMgimtio^e parmtum vehementiexi^ltcatHr» Cap, Sexiatn formis Monftricauffa^ origo innsonflrofo parentedete* gttMY, Septimainformis Monjlriorig QcaajfnrefertmadmenflrmYHm fliixum tempore conceptus, Monjirienormisexi Hentiapatefit, Monjlra enormia^ & omnino monfira mn ejfe infantcs candidos e fareKtibus JEihioipibws ortos necviciffm iEthiopum moremgros e cmdidis: (^decolore Aadromeds.  Monflri enormis origo, caujfa prima ejje in imaginatione paren» tHmperhibetur: ^miiltadeaureocri^re Pythagorse confiderantHr, Secunda Monfirienormisaureofemorecaujfa, origo reponitur tn exhalationeigneadecorporeviveniis efliMente, Tertia Monfirie normisameofemore caufia, ^origorefblvitHYin morbum regium,^ana Monfiri enormiter pilofi caujfa i (origo ex craffitiei (^ fuligi* num copia extruditptr ; ubiplura de cordepilofo Ariftomenis, inta Manflri enormiterpilofi origo, causa ex parentepariterpih» Jo petenda eft. Sexta Monflri enormiter Upi defcentis origo et causa ex intempefiei tic materiae ineptttudine dedudtur Mon^rimuiltt formtsineademfpeciefnbf Mentiapatefit; ubidecapi-'le ytrtli mulieris corpori ajfixo de Hermapbrodttts mira quadam explaviantur. Monfirimultiformisineadem fpecie^muUerisnempeviritecaputha- benits origo , ej" cauffa prima ex hetero^e»ea feminis natura educitur j  defemi» nis' Vulgo tnwiafculosmutatts; Qfdemn fculisefieminatis, Secund.canfia ejufdem moftlhi multiformis ^ (^ ori<To excutitur ex de jtdu fminis m^fcpilei Tenia Monjiri multiformis in eadsmfpecie origo (£ cauJfarefertHf i,id pdrentumimairin Mionem..^t^ariuorigo, (^cauffaMonfirimuliiformisin eademfpecieadpa rent^s conjimilem natnram attinef, monfira mnltiformia ^diverfas animulium species in ecdem genere proxmoreferemta fnonefie figmsnta ^jed in rernmnatura reperiri J^donjlYt midti formis diverfas animali Hmfpecies in eodem geneYepYO^ ximo referentiSy canjfa c origo frima depromitur ex apparentia. Secunda causa, G? origo Jkfanflri , mtiltiplicis fpeciei animalia referen' tts , ex imbecillitate generantis pendere demon(lrattir,  Tertia canjfa, Cs* origo Adonflri multiformi animalium fpecie elicitur ex deirenerata fsminis anima in nattiram alienam.arta Aionflri mnltiformis varias animaliam species referentis origo cmffa ermtm ex materialifostus principio, jtinta Monflri lotimani hrntalem effigiem habentis orioo scattjfa ex virtnt is alentis vitio elicitptr, Ssxta hominis monflroseferinaspartes habentisoritroj caujfain altmentaris materiis vitio reperitar, Septimacanjfa,(^origo Monflrihitmaniferinam effigiem habentisex morboelicitur. O^avacauffa, origo Monflrihnmaniybrtitorumejfl gieminmem' bris habentiSfjx imaginatione parentum defttmitHr Nona caufja , corigo Alonflri varias animalitim effigies habentis agnofcitnr ex parentzbfis monflrofs,  Decima causa origo Monflri partes habentisbrtitorum membra (hnmana referentes, explicatur exfeminum miHione, ac nefaria venere. Dttbitafiones propofltam theoriam. urgentes diluuntur (prima edn a ex ARISTOTELE , alicubi n^gante monjlrtim fieri ex animalibus diverfs fpeciei. AlteradubitatiQ Maniliana, G Lucretiana diluitur, negans qtiiA ejfenobiscommunecumferis, plantis ad invicem {nam Caftronianam ver^ bistemer efttffttltam, non autemrationibusinnixam, latedif cujfimusinopett de Feriis Aitricis Anim3?, difputat. Tertia dubitatio viri eximii negantis ex variis fpeciebus poffe ejuid uni tantum parenti congeneum nafci. Exercitatio cum acutiffimo Delrio. Di in le magis explicatur origo humani monflri ex fera nafcentis,Vndecima causa et origo Monfiri y varics speciei anirmliumi partes habentis, ex cacodamonis opera elicitur, Monflra muhiformia fuijfe conflruUa ex partibus referentibus animantia diverfl qeneris, Monflrihttmani membravHiorumanimalium habentis origo caujfa prima in apparentiam refertur.  Secunda Monfira diverp generis origo S cauffa ex imbeciUitatsj vtrtutis generamis colligitur. Tertia Monflridmffigemi origo, emffain Milifate fcrma- tricis repomtnr artacmujfa c origo Monflrimnln gemie cimbecillitatcviv tmisfeparatricis dedHcttm. inta causa,  erigo Monflri multigenei referturad femims degeneranoncm. Sexta caujfa Monflri poligenii materice ineptitudo ejfe offenditur. Septima causa origo Monflri multigeneidejumitur ex debilitate virtmis alentisfoetum,  Octava causa origo Monflri diverft genii ex inepto partium alimento educitur,  Nona cauffa , origo Monflri multigenii ex morbofostus adducitur, Decima caujfa, G? origo Monflri multtgenii ex parentum imagi' natione hauritur. Vndecima cauflaj Gf origo Monflri diverft generis adparentes  mon Yofosrefertur, Duodecima causa y origo Monflripoligenii habetur infemitium permifiione, Decima tertia causa originis Medufaei tapitis in ovogallin s...Decima quarta caujfa origo Monjirimultigeniiadvim mali Diemonis refertur,  Monftricacodamonis origo explicatur ex causis prius adducis.  Vewv&tio totius operis. Licetus. Fortunio Liceti. Liceti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liceti” – The Swimming-Pool Library

 

Grice e Licone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Licoforonte: all’isola -- la scuola siciliana – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. A pupil of GORGIA (si veda) di Leonzio. Primarily a sophist, he takes positions on philosophical matters. For example, he declares that being from a noble family is worthless in itself, as its value depends solely on the esteem in which the family is held. Licofronte. Licofronte.

 

Grice e Liguori: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura critica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Personally, my favourite of Liguori’s metaphors is ‘the abyss of reason,’ since Speranza has elaborated on this: it’s Gide’s ‘mise-en-abyme’ no less, which breaks my principle of ‘conversational perspicuity’ – a mise-en-abyme text is just untextable!” -- Grice:  “Liguori has studied the metamorphosis of language in one of his philosophical noble ancestors!” “I like Liguori: he has the gift of the gab for metaphor: ‘i baratri della ragione,” “la fucina del filosofo,” “l’alambicco dell’anima,” “la condizione del senso” ‘il razionale dello irrazionale” o “le ragione dell’irrazionale” “le ambiguita della ragione,” “Trasimaco ha ragione” “Giustizia e carita” Ritratto. Frequenta il liceo classico dell’Istituto Massimo di Roma. Studia alla Sapienza. “Scherzi della memoria.” Si laurea con la tesi “La scesi giuridica.” Insegna a Lecce ed Ostuni. Si dedica alla storia della filosofia. Insegna a Bari, Urbino, Ferrara, Trento, Salento, Torino, Firenze, Lecce, Cassino, Napoli, e Noceto. Con “E il vero baratro della ragione umana” – cf. H. P. Grice, “Mise-en-abyme conversazionale” --  viene riconosciuto come uno studioso di Kant, Graf, LEOPARDI (si veda), e Cartesio. Tratta  Positivismo di Sergi,  Lombroso, Morselli e Vignoli; della scesi di RENSI (si veda) ponendolo in critica relazione tra LEOPARDI (si veda) e PIRANDELLO (si veda). Scrive di de' Liguori e di Benedictis, detto l'Aletino. Collabora con l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli. Tenne rapporti epistolari con GARIN, BOBBIO, Augias, Binni, Donini, Ferrarotti e Timpanaro. Fonda ad Ostuni il Circolo Culturale “Sic et Non”, cui aderiscono e collaborano note personalità della politica e della cultura quali Donini,  Fiore,  Radice, matematico e fondatore e direttore di “Riforma della scuola” e docenti delle Bari, Roma e Lecce. “Sic et Non” si impegna in complesse battaglie civili come quella per un dialogo tra marxisti e cattolici, ed altre incombenti questioni sociali come la campagna per il divorzio. Stringe intese, oltre che con moti uomini politici e studiosi di chiara fama, con il gruppo dei cattolici del Gallo di Genova e coi fiorentini seguaci di Giorgio La Pira, i quali si riunivano intorno alla rivista “Testimonianze” diretta da Balducci e Zolo, nonché con i ragazzi della Scuola di Barbiana, diretta da Don Lorenzo Milani. Manifesto editoriale del "Sic et Non" è la rivista Presenza, da lui diretta, che testimonia questa attività politica allora pionieristica per una piccola provincia del Sud Italia. I sette numeri pubblicati della rivista Presenza, e altra documentazione di tale impegno politico, sono attualmente depositati presso la Biblioteca di Ostuni intitolata a Trinchera e comunque ampiamente documentati nell'unico saggio autobiografico dello stesso autore.  Critica e commenti sull'opera di L. Carteggio con illustri studiosi Bobbio: Il saggio mi pare di grande interesse, per l’ampiezza e la serietà della ricerca su un tema, se non sbaglio, mai scandagliato a fondo, eppure importante nell'ambito più vasto della storia della filosofia positiva, della critica letteraria e della cultura torinese (argomento a me particolarmente caro). Sono convinto che si tratta di un lavoro di prim'ordine, che rende giustizia a uno studioso e a uno scrittore (e poeta) che è stato sì, ricordato più volte dai suoi discepoli, ma è stato poi dimenticato dagli storici. Credo che questo libro sia un effettivo contributo alla migliore di quel periodo della nostra storia che la cultura idealistica aveva disdegnato: un contributo di cui soprattutto noi piemontesi dobbiamo essere grati». Sebastiano Timpanaro: «Mi sembra, e non lo dico per adulazione, ma con piena sincerità, un'opera di livello davvero eccezionalmente alto, per la caratterizzazione del protagonista e di tutto il suo ambiente, per tutto ciò che finora ignoto essa porta alla luce. E’ venuto fuori cosi un lavoro che molto di rado accade di leggere». Donini: “Mi pare, ad un primo esame, fondamentale per la conoscenza del periodo ancora poco conosciuto. Apprezzo moltissimo tale metodo di indagine e la serietà della documentazione. Uno studio di questo genere è certamente costato decenni di intensa documentazione.  Oldrini: ho letto subito il volume su Graf così ricco e con non poco profitto. Quando l’autore, in un punto se la prende con gli storici della filosofia italiana che trascurano Graf, anzi noni menzionano affatto, mi sento in colpa; e tanto più in quanto io, studioso della cultura napoletana, mi son lasciato sfuggire quei nessi di Graf con Napoli che il volume di L. illustra con tanta passione». Contorbia: “poche volte accade di fare i conti con un libro così fatto, stratificato, totalizzante; ad apertura di pagina si avverte l’impegno, il grado di coinvolgimento appassionato con cui lei ha condotto avanti negli anni una così impegnativa ricerca peculiare, quasi il centro della sua esistenza intellettuale, il punto di arrivo (e a un tempo di partenza) di un confronto che è culturale ma anche morale e politico.La qualità di un tale lavoro, mi pare, fuori dell’ordinario». Valli: «L’autore ha consegnato alla critica e alla conoscenza uno studio così complesso da poter essere considerato un esaustivo panorama della cultura del secondo Ottocento italiano e non solo italiano]». Recensioni di illustri studiosi Rossi, “L'autore… ha fatto emergere un quadro ricco e articolato dove accanto alle ombre brillano alcune luci importanti». Recensione sulla rivista «Panorama» riguardante il  di de Liguori Materialismo inquieto, edito da Laterza. Cosmacini, «Il lavoro di L. è largamente meritorio oltreché ampiamente documentato». Recensione uscita su «Il Corriere della sera» riguardante il  di L. Materialismo inquieto, edito da Laterza. Marti::Dalle appassionate e diuturne indagini dell’autore su Graf e il suo tempo è venuto fuori il ponderoso, massiccio volume, che ho ricevuto come caro e preziosissimo dono. Davvero lusinghiera la “presentazione” di un grande Maestro come Garin, e accattivante e simpatica l’”Avvertenza”. Tutto il resto è da leggere». Recensione al volume di L. su Graf, Giornale storico della letteratura italiana. Augias: «Quella di De Liguori è infatti una storia meridionale che parte da una finzione narrativa di gusto classico ma così classico da poterla ritrovare in alcuni capolavori tanto celebri che non vale nemmeno la pena di citarli. Saggi: “Trasimaco ha ragione” (La Rassegna pugliese); “Giustizia e carità” “fra filosofia e vita” Ivi “Lo scetticismo giuridico di Rensi” (Rivista di Filosofia del diritto); “Una moderna enciclopedia del sapere, Rassegna pugliese, II“Efirov e la filosofia italiana, «Problemi», “Un Leopardi anti-progressivo” (Dimensioni); In tema di materialismo comunista, Ivi, “Gioberti e la filosofia leopardiana -- momenti del conflitto tra l’ideologia cattolico borghese e la protesta leopardiana” (Problemi); “Un episodio di solitudine. Rassegna di studi su Graf,” Ivi “Leopardi e i gesuiti -- appunti per la storia della censura leopardiana, Rassegna della Letteratura italiana, Quel povero “Diavolo” di Graf, «Giornale critico della Filosofia italiana», Le «Scandalose razzie». Scienza, politica, fede in Graf Ivi, Scetticismo e religiosità in una rivista militante: «Pietre» in, La filosofia italiana attraverso le riviste, A. Verri, Micella, Lecce,  “La condizione del senso”; “Per una riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi” «La Rassegna della Lett. It.», Il mito e la storia” – “Le ragioni dell’irrazionale in Graf, «Problemi», Quella «dubitante religiosità». Graf e il modernismo, «Giornale cr. della fil. It.», Doria tra platonismo e riformismo, «GCFI», Il sodalizio Labriola-Graf negli anni della loro formazione «Studi Piemontesi»,  Un anti-cartesiano di Terra d’Otranto: Benedictis, in, Miscellanea di Storia Ligure, Genova); “Materialismo e positivism -- questioni di metodo” (Facoltà di Filosofia, Bari); “Aletino e le polemiche anti-cartesiane a Napoli” (Rivista di storia della filosofia); “L’araba fenice: ossia la filosofia nella secondaria, «Idee», “E il vero baratro della ragione umana” – “Graf e la cultura” Prefazione diGarin, Lacaita, Manduria,  “Le ambiguità della ragione” – cf. Grice: ‘the equi-vocality of ‘reason’ Grice: “Liguori has a taste for unnecessary plurals: the abysses – the ambiguities -- ” -- «Idee», “Per la storia della psico-fisica in Italia”; “Il materialismo psico-fisico e il dibattito sulle teorie parallelistiche in Italia -- Masci e Faggi «Teorie e modelli», “Di una rinnovata attenzione al materialism” (Idee); “Mito e scienza nell’antropologia e nella storiografia del positivismo italiano”; “La filosofia tra tecnica e mito, Atti del Convegno della SFI, Assisi,  Porziuncola); Dimensioni», Livorno, Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism” (Laterza Bari); “Tommasi e la filosofia zoologica di Siciliani, Rileggere Siciliani, G. Invitto e N. Paparella, Capone, LecceI Presupposti epistemologici e immagine della scienza in Morselli e Graf, Filosofia e politica a Genova nell’età del positivismo, Atti del Conv. dell’Associazione filosofica Ligure--  Cofrancesco,  Compagnia dei Librai, Genova, pMaterialismo e scienze dell’uomo; Kant e la religiosità filosofica di Martinetti, iA partire da Kant; L’eredità della “Critica della ragion pura”, A. Fabris e L. Baccelli. Introduzione di Marcucci, Angeli, Milano, Materialismo e scienze dell’uomo -- Il dibattito su scienze e filosofia, Lacaita, Manduria, La fondazione razionale della fede in Martinetti, Dimensioni, Livorno, Darwinismo e teorie dell’evoluzione nella prospettiva monistica di  Morselli, Il nucleo filosofico della scienza, Cimino, Congedo, Galatina,  L’immagine della donna nel paradigma positivistico della degenerazione, Morelli. Emancipazione e democrazia, G. Conti Odorisio, Scientif. Ital., Napoli, La cultura filosofica in Torino, Rivista di filosofia», Presupposti torinesi della singolarità filosofica di Martinetti, «Studi Piemontesi»,  E’ possibile la storia dello scetticismo?, “Segni e comprensione»”; “ filosofi delle bancarelle». Per la critica della storiografia filosofica,  «Lavoro critico»,  Il sentiero dei perplessi -- scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, La città del Sole, Napoli, La reazione a Cartesio in Napoli, Giovambattista De Benedictis, «GCFI», La revisione della storiografia sul mezzogiorno, «Segni e comprensione», Positivismo e letteratura. Antologia di testi, con Introd. e note, Graphis Bari, La lezione scettica di Rensi, Critica liberale,- La psicofisica in Italia,  La psicologia in Italia, a cura di Cimino e Dazzi, Led, Milano, Vignoli e la psicologia animale e comparata, Ivi, Pensatori dell’area torinese --Percorsi», Quaderni del Centro Frassati, Torino, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo leopardiano, in Biscuso e Gallo, Leopardi anti-italiano, Manifesto libri, Roma, Kant e le scienze della natura -- in margine alle lezioni kantiane di Geografia fisica, in Filosofia, Lecce, Lacaita Manduria, Cattaneo, Psicologia delle menti associate, G. de L., Riuniti, Roma, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli»,  Geymonat, Treccani. Antropologia e tassonomia in Kant. Da Blumembach a Buffon, Atti del Convegno sulla Geo-fisica kantiana, Congedo Lecce, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli»,  Cronache di filosofia del diritto in Italia. Sforza e i suoi corrispondenti, in «Quaderni di Storia dell’Torino»,  Per Mucciarelli: positivismo psicologia e storia, «Segni e comprensione», Geymonat e il “materialismo verso il basso”, GCFI, Il materialismo di Timpanaro, «Critica liberale»,  Lettere di Timpanaro a Liguori, in Il Ponte, Da Teofrasto a Stratone. L’itinerario filosofico di Leopardi, «Quaderni materialisti», Labriola e Graf -- Principio e fine di un sodalizio di vita e di pensiero, in Labriola e la sua università. Mostra documentaria per settecento anni della “Sapienza” Aracne, Roma, A. Graf, Memorie, Introduzione, commento e cura, “Gli Arsilli”, Edizioni dell’Orso, Alessandria Un catalogo per Labriola, «Critica Sociologica», Utilità dell’inutile. Dalla elaborazione concettuale alla programmazione e alla costruzione di un catalogo, «Itinerari», I Gesuiti. Le polemiche sui riti confuciani tra l’Aletino e i missionari domenicani, «Studi filosofici»,Le «imbrogliate bestemmie germaniche». Moleschott e la medicina materialistica, «Physis», La fucina del filosofo. «Segni e comprensione», Filosofia teologia e fisica di Cartesio nella Difesa della Terza lettera apologetica dell’Aletino, «Il Cannocchiale», Liguori e la filosofia del suo tempo: Spinoza, Bayle, Hobbes e Locke, Rivista di Storia della Filosofia, “Libido Sciendi”. Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento (da Magalotti a Valsecchi), GCFI, Scherzi della memoria. Mappa di un itinerario non turistico tra politica e cultura in una provincia del Sud, Prefazione di Ferrarotti; Postafazione di Cumis, Salvatore Sciascia, Medicina e filosofia in Italia tra evoluzionismo e scientismo. Da Tommasi a Morse,  «Il cannocchiale»,, L’ ”il lambicco dell’anima”. Note sul Mind body problem in Italia nell’età del positivismo, in Anima, mente e cervello. Alle origini del problema mente-corpo, P. Quintili, Unicopoli,  L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Le Monnier /Università, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, Romanzo con pefazione di C. Augias Movimedia, Lecce, Pensatori dell’area torinese tra i due secoli, in Quaderni  Noce, Marco,  Lungro di Cosenza, Ateismo e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e sul rapporto tra fede e ragione, «Il Cannocchiale», Le metamorfosi del linguaggio nella controversistica e nella pratica missionaria, Le metamorfosi dei linguaggi, Borghero e  Loretelli, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, Dannazione e redenzione dell'Eros. Soggetti e figure dell'emarginazione: la donna come oggetto determinante nella invenzione cattolica del peccato di lussuria in «Bollettino della Società filosofica italiana»,  Le cose che non sono, in «Critica Liberale»,   Prefazione di E. Garin, Manduria (TA), Bari, Roma, Lacaita, Gemoynat Treccani, Le Carteggio privato (corrispondenza autografa) tra L. e i singoli autori citati  Rossi, Viaggio nel Positivismo, in Panorama, Arnoldo Mondadori, L., Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism, Bari, Roma, Laterza, Giorgio Cosmacini, Povero medico condannato al materialismo, in Corriere della Sera,  Marti, Recensione a I baratri della ragione  in Giornale storico della letteratura italiana, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, [Romanzo], Prefazione di Augias, Lecce, Movimedia.  Dannazione e redenzione dell’eros. Soggetti e figure dell’emarginazione: la donna come oggetto determinante nell’invenzione cattolica del “peccato” di lussuria di L. Il Cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto vario e molteplice nei modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si riproducono e a cui gli antichi avevano preposta una della maggiori fra le divinità dell’Olimpo, è, agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e turpe e la malvagità e turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura d’Adamo, essere emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non altro in teoria, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il coniugio e la continenza è virtù che va tra le maggiori. A. Graf1. L. examines the story of Eros, from ancient Greece to the age of Enlightenment, and tries to underline relevant connections with other events of thought and religious traditions as well as European popular customs. The ideological conflict with Christian ethics and Catholic church is particularly highlighted thanks to a specific textu- al analysis, particularly during 17th and 18th centuries. Keywords: Subjects and Figures of Marginalization, Woman Condi- tion, Ethics and Christianity, St. Alphonsus M. de’ Liguori. 1 A. Graf, Il Diavolo, Treves, cur. Perrone, introduzione di Firpo, Salerno, Roma. Avverto l’eventuale lettore che il saggio che segue ha natura meramente divulgativa e di mera indicazione didattica nei confronti dei docenti di discipline storico-filosofiche. Nasce dall’assemblaggio di appunti per il canovaccio di uno spettacolo tenutosi a Parma al Teatro del Vicolo, dal titolo Eros e Poesia. M’è d’obbligo infine rimandare sull’argomento che qui espongo, agli interventi di alta e corretta divulgazione, curati per Rai Educational, di Argentieri, Curi e Moravia, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. Raccolta e catalogazione dei materiali Non partiamo dalla consueta e abusata presunzione ontologica; non diciamo che le cose sono, piuttosto ci limitiamo, cartesianamente, a scoprire in noi il pensiero e, col pensiero il corpo e la sua capacità di rapportarci ad altri corpi attraverso quelli che chiamiamo i sensi. Ci hanno preceduto i sensi sti: nulla è dentro la nostra mente che non ci viene fornito dai sensi. E così la fantasia, la logica, la ragione, la fede altro non sono che gli strumenti più raffinati di un corpo tra i corpi (materia) che, come l’infima creatura che emette pseudopodi, procede dal coacervato all’ameba e arriva all’uo- mo, cuspide di presunzione, anelito più che sensata pregnanza di vita.. Non lasciamoci impressionare dai prodotti di questo strumentario intellettuale: arti, religioni, presenze invisibili, futurologie improbabili, paradisi perduti o escatologici disegni, virtualità effimere come sogni, denunciate già dal fol- le di Danimarca una volta per tutte. Sono sirene lusingatrici di contro al cui canto ammaliante hanno ancora buona validità i tappi di cera nelle orecchie usati da Odisseo, navigante curioso, per escludere i suoi compagni2. Qualcuno sostiene che le cose non sono se non create. Qui noi non soste- niamo l’inesistenza delle cose: in tal caso dovremmo postulare e ammettere la trascendenza, laddove noi riteniamo l’oltre una autonoma creazione (se vogliamo mantenere il termine) del nostro pensiero. Abbiamo raggiunto (a livello di pensiero puro, non certo di pensiero soggettivo) un tale grado di evoluzione da creare dal niente, come aveva, in termini tutti romanti- ci, spiegato Fichte enunciando i tre celebri principi della sua dottrina della scienza! Ma gli sviluppi delle neuroscienze, in particolare, hanno reso sterili tali tentativi di esplicazione del reale. Idealismo e religione fanno a gara a rincorrersi nella loro foga di raggiungere la verità eterna! Meglio perciò rinchiudere i filosofi nel trittico che si sono costruiti con secolare pazienza della Metafisica, Teodicea e Ontologia. Che farnetichino in eterno sull’ori- gine dell’anima, sul rapporto col corpo e sul destino futuro della umanità. Si potrà, una volta sgombrato il terreno dalla zavorra, procedere in modo più lineare, ordinato ed onesto alla diagnosi del male di vivere: del nascere e morire. Tolta di mezzo la pretesa razionalità e la scientificità teologica (e teleologica) con la sua saccenteria, gli strumenti dei sensi come la fantasia, la fede, la ragione potranno riprendere legittimamente la loro funzione di guida o di orientamento. Se partiamo dalla nostra “condizione umana” (senza scomodare Mal- reau) vera e concreta, viene prepotente in ballo, la nostra sensualità, prima ancora che la nostra sensitività. Avvertiti da Freud, che va ascoltato con la 2 Vedi quanto scrive, Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma. 30  dovuta prudenza filosofica, ci accorgiamo facilmente che è l’eros la molla privilegiata delle nostre azioni o inazioni. Tanto è vero che sul terreno della storia è con l’eros che il Cristianesimo ha ingaggiato fin dalle sue prime origini la sua battaglia aperta, dagli erotici furori degli anacoreti fino ai ra- ziocinanti dogmatismi teologici dei nostri giorni. Conviene delinearne un breve profilo. Profilo storico dell’Eros in Occidente. Dal mito di Venere a Maria Vergine È proprio nel mondo romano, e in quella che gli storici designano come età tardo-antica, che si compie una storica metamorfosi della mitologia pa- gana: il suo graduale trasferimento da religione delle classi colte e dominanti a religione dei campi (pagi = pagani), della plebe rurale. Indicativo tra tutti il passaggio di Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fecondità, da un canto, a quella di Demonio, Lucifero (portatore di luce), stella del mattino, per i suoi referenti legati alla sessualità, e, dall’altro, a quella della Vergine Maria, madre di Gesù Bisogna ricordare che mentre avanza il Cristianesimo, il mito di Roma non solo permane ma, sotto mutate spoglie, cresce e si svolge fino ai nostri giorni. Perde la sua valenza politica, la sua forza sugli eventi immediati ma guadagna nell’immaginario. Entra a far parte del grande patrimonio del- la memoria collettiva. Ma in tale processo, se perde i suoi caratteri storici, obbiettivi, acquista una rinnovata immagine fantastica, rispondente alle esigenze delle masse. Soprattutto il Medioevo trasforma Roma, i suoi dei, la sua cultura in nuova mitologia sincretica, mista di elementi tradiziona- li e di apporti nuovi conferiti dalle differenti popolazioni d’Europa, attinti soprattutto alla nuova fede cristiana che diventa l’amalgama di germane- simo, usanze barbariche, romanità, orientalismi, ecc. Roma continuava ad avere un suo primato nell’immaginario o mondo incantato dei miti e delle leggende3, come l’aveva avuto in quello, storico, politico culturale e civile. Ricordiamo l’accorato rimpianto di Rutilio Namaziano Fecisti patriam diversis gentibus unam. Urbem fecisti quae prius orbis erat Nella cultura illuministica, tra Settecento e Ottocento, il mito di Roma si veste di forme neo classiche. Goethe, Winkelmann, e Byron che 3 Cfr. F. Denis, Le monde enchanté,. Cosmographie et histoire naturelle fantastiques du Moyen Âge, richiamato da Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, 2 voll., Loe- scher, Torino. Ma vedi, dello stesso, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio evo, 2 voll., Loescher, Torino  ne fa la patria ideale delle genti Oh Rome! My country! City of the soul! The orphans of th heart must turne to thee, Lon mother of dead impires! Tale trasformazione della mitologia classica, porta con sé naturalmente un radicale cambiamento della maniera di concepire l’amore e di vivere l’e- ros. L’amore tra uomo e donna acquista differenti valenze e si prepara quella teorizzazione dell’amore tutto spirituale che verrà dommatizzato e praticato per tutto il Medioevo e, nella forma più angelicata e sublime, da Dante al Petrarca, ...quel dolce di Calliope labbro che amore nudo in Grecia e nudo in Roma, d’un velo candidissimo adornando, rendeva in grembo a Venere celeste. Dilagheranno per tutta Europa fenomeni di sessuofobia completamente ignoti alla società greca e latina, quale ad es. il fenomeno dell’ascetismo. Sorgerà la figura, del tutto nuova e inconcepibile per il mondo classico, dell’anacoreta e, d’altro canto, l’immagine del peccato prenderà aspetto dia- bolico orripilante, venendo a popolare tutta una nuova mitologia di presen- ze infernali che accompagnano e turbano la vita degli uomini del Medioevo. Molte e varie le rappresentazioni tipiche della diabolicità mostruosa, frutto, in particolare, del peccato di lussuria, quali il mosaico nel Battistero di Fi- renze, opera popolaresca di Coppo di Marcovaldo che tanto impressionò Dante fanciullo, il poema predantesco di Bonvesin della Riva, Il libro delle tre scritture o il De Babilonia di Giacomino da Verona e i vari “precursori” di Dante, fino alle allucinate raffigurazioni de il Giardino delle delizie di Bosch al Museo del Prado4. Ma che accadeva? Venere, scacciata, veniva ugualmente a tentare gli sciagurati che volevano sfuggirle, quali monaci ed asceti; e, come ci ricorda sempre Graf, «invadeva le loro celle ugualmente, immagine vagheggiata e detestata a un tempo». Siamo nell’epoca delle tentazioni. Ecco l’autorevolis- sima testimonianza di San Girolamo, il grande dottore della Chiesa, autore indiscutibile della Volgata, l’edizione ufficiale della Sacra Scrittura, in una sua lettera alla vergine Eustochia: Si ricordi, Villari, Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia, «Annali delle Univ. Toscane», Pisa. Soprattutto, A. D’Ancona, I precursori di Dante, Sansoni, Firenze. Per ulteriori e dettagliati riferimenti, cfr. il mio, I baratri della ragione. Graf e la cultura del secondo Ottocento, prefazione di Garin, Lacaita, Manduria. Oh quante volte, essendo io nel deserto, in quella vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione, immaginavo d’essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima d’amarezza, vestito di turpe sacco e fatto nelle carni simile a un Etiope. Non passava giorno, senza lagrime, senza gemiti e quando mi vinceva, mio malgrado, il sonno, m’era letto la nuda terra. E quell’io, che per timor dell’inferno m’era dannato a tal vita e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di fiere, spesso m’im- maginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti. Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva di desideri e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divampavano gli incendi della libidine. E qui l’iconografia sacra ha lavorato sul santo, riempiendo di San Girolami, atteggiati in guise diverse, tele, altari, absidi, pale, trittici per tutto il medioevo e il Rinascimento. Da Dürer a Caravaggio, da Cima da Conegliano a Masolino, da Masaccio a Tiziano, dalle tentazioni di Giovanni Girolamo Savoldo al Perugino, fino alla compostezza gotico-geometrica di Antonello, ecc.Si assiste ad una evoluzione storica dell’eros, che si arricchisce, per così dire, dell’idea stessa del peccato. Simboleggiato dal frutto proibito, l’atto carnale tra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre viene stigmatizzato come peccato originale, una sorta di marchio che da quel momento in poi mac- chierà ogni creatura. Homo vulneratus est naturaliter, sanziona definitiva- mente San Paolo! Anche se la dottrina della chiesa troverà il modo di recu- perare in positivo quella ferita, quella malattia costituzionale, con il concet- to dell’agape, nel quale l’eros si diluisce in amicizia includente la mediazione del Cristo. Ma la cosa più sorprendente è che Venere, simbolo dell’amore carnale, cantata da Lucrezio, poeta epicureo, come colei che presiede alla bellezza della fecondazione sia di piante che di animali, e perciò come voluttà d’uo- mini e di dei, subisce nel corso della storia differenti e impensabili metamor- fosi. Da un canto, come quasi tutte le divinità pagane, trapassa a popolare la mitologia cristiana di nuove figure positive e negative, arrivando a iden- tificarsi dapprima con il Demonio in persona, poi con la stella portatrice di luce, (Lucifero, angelo caduto e stella del mattino); infine, fattasi mite e mise- ricordiosa, gradualmente perdendo i suoi più accesi caratteri erotici di beltà voluttuosa, assurge addirittura al ruolo di Maria Vergine, concepita senza peccato, Madre di Gesù, figlio unigenito di Dio! Siamo di fronte a un fenomeno storico noto agli storici e agli antropologi come sincretismo religioso 5 Trad. fedele di Graf da Gerolamo, Epistolae, in Patrologia latina, cur. Migne, Parigi. Cfr. Graf, Il Diavolo, cit.,per cui le divinità pagane continuano una loro vita, si direbbe più dimessa e quasi nascosta, nei pagi, nelle campagne tra la povera gente, trasformandosi, e sovente confondendosi, coi santi e le divinità della nuova religione ebraica e cristiana. Ne è un esempio la favola di Tanhäuser, il cavaliere francone di cui la dea Venere si innamora. È nel mondo romano in sfacelo che gli dei di Roma – GIOVE CAPITOLINO -- si avviano alla loro metamorfosi -- quello che non e accaduto agli dei ellenici. Da un canto si rintanano nei pagi, nei campi, tra la povera gente di campagna e ne continuano a propiziare raccolti, a combattere carestie ad aiutare la gente misera nelle quotidiane disgrazie che affliggevano gl’umili e gl’indifesi. Dall’altro lato, in questa storica trasformazione, raccolgono in loro tutto il male esecrabile del mondo antico: il turpe, il diabolico, l’illecito, il peccaminoso del mondo romano. Soprattutto l’osceno -- ciò che è dietro alla scena e, pertanto, non è visibile -- e il sensuale nei rapporti amorosi. Gli dei di ROMA si trasformano così in demoni. Si passa dalla celebrazione dell’amore fisico, cantato dai poeti, da OVIDIO (si veda), Catullo (i neoteroi) a LUCREZIO (si veda), che lo inserisce nel fluire e divenire dei fenomeni naturali, alla definitiva divaricazione della sessualità dall’amore spirituale, come aspetti di una passionalità di differente e contrapposta natura. Si ricordi l’inno a Venere di LUCREZIO: AENEADVM GENITRIX HOMINVM DIVOMQVAE VOLVPTAS ALMA VENUS CAELI SVBTER LABENTIA SIGNA QUAE MARE NAVIGERVM QVAE TERRAS FRUGIFERENTES CONCELEBRAS PER TE QUONIAN GENVS OMNE ANIMANTVM CONCIPITVR VISITQVAE EXORTVM LVMINA SOLIS. Ma ecco come espone Graf, storico dei miti romani, la sottile trasformazione degli dei di Roma -- quelli stessi che VIRGILIO, guida d’ALIGHIERI, chiama falsi e bugiardi  -- in divinità o potenze demoniache. I numi che hanno altari e templi non muoiono, non dileguano. Si trasformano in demoni, perdendo alcuni l’antica formosità seduttrice, serbando tutti la gravità antica, accrescendola. GIOVE DEL CAMPIDOGLIO, Giunone, Diana, Apollo, MERCURIO, Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al culto che loro e reso, ricompaiono fra le tenebre dell’inferno, ingombrano di strani terrori le menti, provocano fantasie e leggende paurose. Diana, mutata in demonio meridiano, invade i disaccorti troppo obliosi di lor salute, e la notte, pei silenzi dei cieli stellati, si trarrà dietro a volo le [6 G. Paris, Legendes du Moyen Age, Hachette, Paris, dove esamina la storia e la diffusione della leggenda (La légende de Tanuhäuser). Fonte delle varianti della stessa leggenda resta Guglielmo di Malmesbury. Vedi Graf, Il Diavolo]  squadre delle maliarde, istruite da lei. Venere sempre accesa d’amore, non meno bella demonio che dea, usa negli uomini l’arti antiche, inspira ardori inestinguibili, usurpa il letto alle spose, si trarrà fra le braccia, sotterra, il cavaliere Tanhäuser, ebbro di desiderio, non più curante di Cristo, avido di dannazione. Scienza, filosofia e fantasia: il pensiero femminile e la ”teoria e pratica della dimenticanza”. Il rapporto latente tra il sapere e il credere. Ogni proposta gnoseologica parte opportunamente da quelle ben note premesse che GALILEI (si veda) autorevolmente chiama la sensata esperienza, anche se le pone in relazione con la certa dimostrazione. Così, prudentemente procedendo, ogni teoria della conoscenza, pur restando legata alla dimensione esperienziale, per così dire, non esclude né puo escludere l’elaborazione successiva di ipotesi con l’ausilio della fantasia, della fede, dell’intuizione oltre che della facoltà razionale con la quale da sempre la mente umana prova ad elaborare i portati sensoriali, di volta in volta vari e complicati. Proviamo a valutare, ad esempio, non le nostre idee, o i nostri elaborati razionali ma alcuni particolari sentimenti o pulsioni come l’amore, l’erotismo, o, addirittura, la poesia con cui ci accostiamo ad una persona o ad uno scenario naturale quale, che so? la volta celeste di kantiana memoria. Gl’eroi greci per comprendere una verità nascosta, scendevano nell’Ade, entrano nel regno imperscrutabile delle ombre. Da altra prospettiva, sub specie feminae, da quel che oggi chiamiamo pensiero femminile, ci viene incontro, spalancandoci una diversa rinnovata visuale, un modo solitamen-te desueto di scrutare l’imperscrutabile. Abbiamo davanti un continente dissepolto, il nostro Ade, tutto da esplorare. È così che – s’è detto e sostenuto da parte delle donne – le poesie vivono delle voci narranti che, appassionatamente, riflettono su un passato da abbandonare. Quel che sembra finito e nascosto entro i luoghi del cuore. Da tale prospettiva, per giungere a tanto bisogna scendere all’Ade, come fa il viaggiatore Odisseo: provare i dolori più cupi e le delusioni più cocenti a cui seguono le esperienze. S’entra così nell’universo del senso fantastico senza ripudiare la possibilità razionale di elaborare non [Graf, Il Diavolo. Utilizzo in questo paragrafo, frammettendone brani a mie riflessioni e commenti, il testo originale inedito, cortesemente messo a mia disposizione, dalla filosofa della mente Bussolati, Teoria e pratica della dimenticanza.] più ciò che è nei sensi ma quanto ribolle nella fantasia. Un esempio potrebbe fornircelo LEOPARDI dell’infinito laddove dalla esperienza sensibile -- la siepe, il vento, lo stormir delle foglie -- che non si lascia elaborare razionalmente, sale, quasi spinozianamente, ad un sapere più complesso: una sorta d’amor dei intellectualis che s’apre al mistero sia della poesia che dell’amore. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio e questa voce vo comparando e mi sovviene l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei. E, ancora, entrando nel campo intricato del male di vivere, addirittura nelle patologie del comportamento, delle ossessioni, delle schizofrenie, laddove ci siamo chiesti, con l’angoscia nel cuore, se questo è un uomo, proviamo a proporre la teoria e pratica della dimenticanza: l’obliviologia. È certo come un lavoro di scavo; ma non abbiamo da riportare al celeste raggio nessuna sepolta Pompei. Non procediamo, in senso freudiano, a rimestare nella memoria, nel sogno, recuperando oggetti rimossi, tutt’altro. L’oggetto è diventato uno scheletro che va dimenticato, ritenuto per non posto: mai esistito. La dimenticanza è dapprima una sola pratica; quasi l’abitudine a dimenticare le chiavi di casa. Poi assurge a tecnica e, infine a teoria e pratica dell’oblio. Corre, in un certo senso, parallela alla terapia farmacologica del sonno, indotto da dosi opportune di psicofarmaci. Si tratta di togliere le fissazioni tramite la dimenticanza: di riportare il conosciuto agl’elementi puri ma allo scopo di favorire un intervento di maggior forza ectoplasmica sugli oggetti e sugli eventi esterni, e per eliminare il noto processo di invecchiamento e, infine, di morte mentale. Scendendo al piano sperimentale, abbiamo cancellato i sovraccarichi delle impressioni mnemonizzatrici e fatto sparire le figure retoriche fantasmatiche, i “mostri” o “giganti” che si fissano e si ripetono continuamente, oberando la mente affralita. Dimenticare diventa così l’ausilio migliore del vivere senza alcun sforzo il presente. Non è la panacea, non si raggiunge il Nirvana; non si recuperano paradi- si perduti. Si vive riconquistando un più corretto rapporto col corpo, i sensi, la natura. La memoria deve servirci, non turbarci. Se è una soffitta ingombra rischia di confonderci nel suo disordine; dobbiamo far pulizia perché la vita va vissuta non sopportata E arriviamo infine a una considerazione alquanto complessa ma di facile comprensione. Quella stessa nostra propensione che chiamiamo fede altro non è, finanche nella sua forma più umile, che sempre e soltanto costruzio- 36  ne della ragione, in quanto ogni fede presuppone sempre un giudizio della ragione. Da tale considerazione deriva la plateale conseguenza che la fede non è altro, alla fin fine, che la nostra visione più o meno razionale della realtà; pertanto quella fede nel numinoso e nel fantastico che è la fede re- ligiosa dei fedeli e che alla nostra razionalità più sofisticata ripugna, è solo un puro e semplice equivoco, imposto dall’educazione, dalle convenzioni e mai può derivare dalla nostra libera scelta intelligente che in tal modo si contraddirebbe9. Credere, altro non è che atto razionale; in quanto, rigoro- samente, non c’è fede senza il sostegno della ragione. Ma, ci si chiede, fino a che punto? Il limite è il sano buon senso. Oltre c’è la follia e l’assurdo; ma follia, sempre ed esclusivamente della ragione stessa, unico vero soggetto di quanto chiamiamo fede! 4. Emarginazione femminile e non. La donna da oggetto a soggetto di pensiero Da differente angolatura l’oggetto del mistero che chiamano la verità, si svela gradatamente, di sotto il velame delli versi strani. Del resto, a ben pensare, quando penso, penso al maschile, ho sempre pensato al maschile. La storia, la civiltà tutta, occidentale e orientale, hanno pensato soltanto al maschile. Non solo: per secoli, il vero, il bene, il bello sono stati visti, si al maschile, ma ancora nella implicita insignificanza oltre che della donna, di altre figure sociali di grande rilevanza: del bambino, del disadattato o del diseredato o escluso dalla comunità, dell’alienato o del demente. Interi uni- versi come continenti inesplorati si sono schiusi appena abbiamo provato a visitarli. Erano emersi, nella dannazione dell’inferno dantesco, nei mosaici e negli affreschi allucinati di Coppo, nei battisteri, nelle chiese medioevali, nelle allucinazioni di raffiguratori fantasiosi fino al paradosso come in Bosch o in Goja, nei racconti favolosi delle mitiche origini di intere popolazio- 9 Cfr. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura di Agazzi, Ed. di Comunità, Milano, dove tra l’altro si legge: «Anche LA FILOSOFIA è sotto certi rispetti una fede; in quanto essa è uno sforzo verso l’unità sistematica che in ogni grado raggiunto si pone come una visione definitiva della realtà; ciò che non può fare che trasformandosi in una fede razionale; la fede nella dottrina kantiana. D’altra parte la fede comune non è assolutamente irrazionale; è una razionalità adatta alla mente comune, ma è una forma di razionalità; non v’è sistema di dogmi così assurdo che non tenti subito una razionalizzazione. Ogni esposizione d’un sistema di filosofia è, sotto questo riguardo, l’esposizione di una fede. Non ha quindi ragion d’essere la contrapposizione della ragione e della fede (come qualcosa di irrazionale): la fede è l’espressione stessa di una formazione razionale; ogni grado della vita razionale in quanto si esprime, si fissa e diventa una realtà operante, è una fede». Più analitica esposizione della questione si trova nel mio, Ateismo e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e contempora- neo e sul conflitto tra la fede e la ragione, Il Cannocchiale,  ni, tramandate oralmente nei miti e nelle leggende che correvano per l’Eu- ropa come fiumi carsici, uscendo di tanto in tanto al “celeste raggio”, dove l’oblio di secoli li aveva segregati....Soltanto oggi cominciamo a prenderne consapevolezza, filosofica e scientifica: scopriamo un nuovo continente speculativo, il pensiero al femminile come rinnovato modo di guardare la vita, la storia, la natura. Proviamo a riandare di qualche secolo addietro. Le cosiddette scienze umane ci si erano accostate per via di quel loro par- ticolare porsi dalla prospettiva del diverso, ma solo l’assurgere di quell’og- getto alla dignità di soggetto pensante e determinante trasforma del tutto la prospettiva. La partecipazione del femminile come quella del diverso, del disadattato alla ricerca della verità completa veramente il mondo storico della cultura portandolo al suo stadio più alto, fuori da ogni gilepposo pa- ternalismo o indulgente concessione caritatevole. Del tutto trascurati o stipati alla rinfusa nella soffitta anodina della eru- dizione, alcuni sprazzi di consapevole disponibilità al diverso erano emersi già nel passato, in ambito borghese progressista, presso spiriti particolar- mente sensibili. Ma restava un fatto isolato che non ha vissuto significanza o storicità. Sentite questa: siamo: E dei disadattati all’ambiente non è giusto parlar con tanto disprezzo. Ol- trecché esercitano alcune funzioni non esercitate dagli altri, essi sono un lievito sociale utile e necessario; tengon viva nell’organismo collettivo un’inquietezza nemica delle stagnazioni prolungate, e non avvien mutazio- ne alla quale in qualche maniera non cooperino che se i geni fossero pazzi davvero bisognerebbe riconoscereche i più disadattati fra i disadattati, quali son per l’appunto i pazzi, resero alla misera umanità più di un buon servigio. Da altra banda è da considerare che un perfetto adattamento all’ambiente farebbe gli uomini supinamente contenti e tranquilli e porte- rebbe fine al moto della storia, per la ragione potentissima che chi sta bene non si muove. Lo direi il vademecum per l’onest’uomo del nostro tempo! Ma molto an- cora resta da fare: e questa è la vergogna del nostro tempo. La chiesa cat- tolica ad es., che ha chiesto, solo di recente, con un pontefice tormentato e disponibile al dialogo, perdono al mondo islamico, ha ancora da chiedere scusa alle donne, ai bambini, alle coppie di fatto, agli omosessuali, agli atei, agli agnostici, agli scienziati onesti e laici che dalle dottrine e dai dogmi della chiesa vengono quotidianamente offesi, respinti e vilipesi. I libri proibiti e il rapporto sessuale come “peccato” contro il sesto precetto del Decalogo Tra i compiti primari che si assunsero al loro tempo gli apologisti catto- lici e i controversisti, figura subito in primo piano quello della lotta ai libri proibiti, che è come dire a tutta la prodizione libraria moderna. Prendo an- cora ad es. emblematico il santo teologo moralista e dottore autorevole della Chiesa: L. Ne La vera sposa di Gesù Cristo10, a dimostrazio- ne di quanto possa essere pericolosa la lettura in genere, sconsiglia alle Mo- nache addirittura lo studio sia della Teologia Morale che di quella Mistica. Parimenti libri inutili ordinariamente sono, ed alle volte anche nocivi per le Religiose, i libri di Teologia Morale, poiché ivi facilmente possono inquietarsi con la coscienza oppure apprendere ciò che lor giova non sapere. An- che nociva può essere a taluna la lettura dei libri di Teologia Mistica, giacché può essere che ella si invogli dell’orazion soprannaturale, e così lascerà la via ordinaria della sua orazione solita, in meditare e fare affetti, e così resterà digiuna dell’una e dell’altra. Vige, come una sentenza inappellabile, il motto lapidario di San Paolo: Sapienza carnis inimica est Deo. L’amore del sapere viene paragonato ad un vizio, alla libidine sessuale: libido sciendi11. Circa i classici del pensiero che pur contengono delle verità, si domanda con San Girolamo: Che bisogno hai di andar cercando un poco d’oro in mezzo a tanto fango, quando puoi leggere i libri devoti, dove troverai tutt’o- ro senza fango?». La lettura è importante, fondamentale anche alla via della salute, ma ha dei rigorosi limiti. Quanto è nociva la lettura de’libri cattivi, altrettanto è profittevole quella de’buoni. Il primo autore de’libri devoti è lo Spirito di Dio; ma de’li- bri perniciosi l’autore n’è lo spirito del Demonio, il quale spesso usa l’arte con alcune persone di nascondere il veleno, che v’è in tali suoi libri, sotto il pretesto di apprendersi ivi il modo di ben parlare, e la scienza delle cose del mondo per ben governarsi, o almeno di passare il tempo senza tedio. Con determinate categorie di persone, l’esclusione si fa radicale. Alle suore scrive così: Ma che danno fanno i romanzi e le poesie profane, dove non sono parole 10 Cito dall’ed. Remondini, Bassano, Vedi l’uso di tale espressione nella denuncia controversistica cattolica (aristotelica) della filosofia cartesiana e moderna nel saggio di chi scrive, «Libido sciendi». Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento (Da Magalotti al padre Valsecchi), Giornale critico della filosofia italiana,  immodeste? Che danno voi dite? Eccolo: ivi si accende la concupiscenza de’ sensi, si svegliano specialmente le passioni, e queste poi facilmente si gua- dagnano la volontà, o almeno la rendono così debole, che venendo appresso l’occasione di qualche affezione non pura verso qualche persona, il Demonio trova l’anima già disposta per farla precipitare12. Contro il risveglio delle passioni e contro la concupiscenza dei sensi, i controversisti scagliano i loro dardi infuocati e avviano le loro sottili disqui- zioni teologiche su quanto vada considerato peccato mortale. Ed è questo un fardello che la chiesa si porta dietro così come uno ster- corale si rotola la sua palla di escrementi. L’ossessione del sesso: la cura me- ticolosa con cui si prova da secoli a disciplinarlo, legittimarlo, canalizzarlo, evirandolo della sua essenza: la ricerca del piacere e costringendolo alla sola funzione riproduttiva. Ci serviremo non di un semplice scrittore di opere di pietà ma di un autorevole moralista della chiesa cattolica, santo per giunta, dottore della chiesa, uomo di grande pietà e d’erudizione: che CROCE define il più santo dei napoletani, il più napoletano dei santi. Ecco cosa scrive il nostro moralista sul sesto precetto del Decalogo e in che modo espone le sue precauzioni con cui anticipa una minuziosa tratta- zione di quanto potremo chiamare la fattispecie del peccato mortale. Il peccato contro questo precetto è la materia più ordinaria delle Confessioni, ed è quel vizio che riempie d’Anime l’Inferno; onde su questo precetto parleremo delle cose più minutamente; e le diremo in latino, affinché non si leggano facilmente da altri che dai confessori, o da quei sacerdoti che in- tendano abilitarsi a prendere la Confessione; e preghiamo costoro a non leg- gere né in questo né in altro libro di quella materia (che colla sola lezione o discorso infetta la mente) se non dopo tutti gli altri trattati e quando ormai sono prossimi ad amministrare il Sacramento della Penitenza. Affronta perciò subito lo scabroso tema della fornicazione, e dei rapporti carnali con l’altro sesso con minuta casistica sessuofobica: de tactibus, de muliebre permittente se tangere, an puella oppressa teneatur clamare, an possit unquam permittere sua violationem, de aspectis, de verbis, de audientibus verba turpie, ecc. Ma non manca di precisare: Ante omnia advertendum, quod in materia luxuriae (quidquid alii dicant de levi attrectatione manus foeminae, vel de in torsione digiti) non datur par- vitas materiae; ita uti omnis delectaio carnalis, cum plena advertentia, et consensu capta, mortale peccatum est. 12 La vera Sposa di G.C., L., Istruzione e pratica per li Confessori, Giuseppe Di Domenico, Napoli, e sgg., anche per le citaz. successive. 40  Il pio moralista, scaltrito nella casistica giuridica, sa che bisogna scende- re nei minimi particolari per trovare la situazione peccaminosa: se grave o lieve o poco rilevante o, addirittura, del tutto inesistente; perciò distingue gli atti sessuali compiuti nel matrimonio o extra matrimonium. In situazio- ne extra coniugale, tutti i toccamenti, oscula et amplexus ob delectatione, mortale sunt. Vi sono numerosi casi dubbi da esplicitare: ne va di mezzo la salute delle anime, calate in situazioni mondane sempre diverse e comunque sempre a stretto contatto con le tentazioni della carne. Ad es., la donna o il fanciullo non peccano se si fanno toccare secondo la consueta pudicizia dettata dalla simpatia o dalla buona affettuosa disposizione; peccano invece se non si op- pongono a contatti impudichi, o a baci insistenti (morosis) e furtivi. E anco- ra: la fanciulla aggredita allo scopo di usarne violenza è tenuta a urlare ad se liberandam a turpitudine? Nel caso non invocasse aiuto con la dovuta forza e insistenza lo stupro si cambierebbe facilmente in consenso peccaminoso. Ma la questione resta controversa se debba ritenersi consenso il non aver gridato o invocato aiuto, secondo un’antica sentenza per la quale, praesume- batur puella non clamans consentiente. Perviene infine a definizioni accurate degli atti turpi, differenziando quelli compiuti naturalmente da quelli innaturalmente. Ecco la definizione di fornicazione e di concubinaggio, quali peccati mortali: Fornicatio est coitus intersolutos ex mutuo consensu. Concubinatus autem non est aliud quam continuata fornicatio, habita uxorio modo in eadem vel alia domo; [e quella di stupro, come:] defloratio virginis ipsa invita, et ideo praeter fornicationis malitiam habet etiam injustitiae. Attraverso una minuziosa casistica quasi boccaccesca, buona – si direbbe - ad arricchire la documentazione erotica di un romanziere libertino, il moralista passa in rassegna le svariate forme di rapporti sessuali, da quelle legittime a quelle addirittura più strane e peregrine, come l’accoppiarsi in luogo sacro, quali una chiesa, il cimitero, l’oratorio, il monastero, ecc. Pone addirittura questioni dubbie sulle maniere e le condizioni in cui tale rap- porto potrebbe verificarsi. Pur ammettendosi il peccato, sorge la questio se si tratti o meno di sacrilegio. Ad es. «an copula maritalis, aut occulta abita in Ecclesia, sit sacrilegium?» Vi si potrebbero emanare tre sentenze differenti: una che ritiene irrilevante la condizione di coniugi, un’altra la situazione occulta (che l’abbiano fatto di nascosto) e una terza che ritiene essere sacri- lego l’atto in ogni caso. Addirittura se si tratta di marito e moglie, secondo alcuni teologi, l’atto consumato in chiesa potrebbe essere scusato, si ipsi sint in morali necessitate coeundi, puta si ipsi in pericolo continentitiae, vel si diu in Ecclesia permanere debeant. Il lettore ne trae l’impressione che l’autore (più che dietro suggerimenti letterari coevi) vada ad estirpare direttamente dalla vita, dalle lussuriose esperienze dei peccatori, dalle situazione più impensabili, apprese nelle lun- ghe ore passate al confessionale ad ascoltare ed a sollecitare le confessioni più intime dei fedeli, tutte le forme, i modi che la secolare ricerca del piacere ha suggerito di epoca in epoca all’uomo, dalle più rozze e volgari maniere di accoppiamento fino alle più raffinate arti di amare e trarre godimento che proprio I LIBERTINI andano perfezionando e praticando in forme sempre più sofisticate. La stessa lingua latina – ma qui dovrebbe- ro dirla i linguisti – si fa molto particolare fino all’uso di neologismi non presenti nei classici. Parlando della sodomia distingue quella propriamente detta da quella impropria ed eterosessuale coitum viri in vase praepostero mulieris esse sodomiam imperfectam, specie distinctam a perfecta. Si quis autem se pollueret inter crura aut brachia mu- lieres, duo peccata diversa committeret, unum fornicationis inchoatae, alterum contra naturam. An pollutio in ore fit diverse speciei? Affirmant aliqui, vocantque hoc peccatum irrumantionem, dicentes quod sempre ac sit pollutio in alio vase quan naturali, speciem mutat. Sed probabilius sentiunt quod si pollutio viri sit in ore maris est sodomia; si in ore feminae, sit fornicatio inchoata, et in super peccatum contra naturam ut mox diximus... Arriva addirittura ad ipotizzare il coito cum femina morta, che non rien- trerebbe nella fattispecie dei rapporti bestiali ma nella polluzione e in quella che Alfonso chiama fornicatio affective. Dalla sessuofobia all’erotismo peccaminoso: Cortigiane poetesse e libertini filosofi. L’Eros redento Prendiamo due secoli di storia molto emblematici. Dall’Italia delle corti signorili alla Francia della grande rivoluzione. Due secoli in cui l’eros vive una sua storia illustre, tra cortigiane raffinate poetesse e abati filosofi e libertini. A dirla franca alla sua maniera sull’eros e a dargli veste poetica disinibita, ci pensa subito Pietro Aretino: ma sempre da una angolatura tutta maschile. Nonostante si salvi la dignità della partner che qui giuoca un ruolo attivo di co-protagonista del rapporto amoroso, in cui l’atto sessuale si trasforma in una sticomitia drammatica non priva di poetica oscenità. Soltanto nel petrarcheggiare delle cortigiane, come la soave Franco che riceve sotto le sue lenzuola di tela d’Olanda finanche Enrico III di Valois, la donna trova finalmente il suo primo vero riscatto sul maschio, con un suo modo raffinato (di alto erotismo) di 42  pilotare la barca dell’Amorosa Dea; ad esse, tra principi, sovrani, alti prela- ti, pontefici gaudenti, spetta il compito di riscattare dall’eterna dannazione l’Eros e fargli recuperare il valore perduto colla tradizione ebraica-cristiana. Un recupero, tutto al femminile, del paradiso perduto. Così canta il suo ufficio amoroso, guidato da Apollo, la dolce Veronica. Febo che serve a l’ amorosa Dea E in dolce guiderdon da lei ottiene Quel che via più che l’esser Dio il bea, A rilevar nel mio pensier ne viene Quei modi che con lui Venere adopra Mentre in soavi abbracciamenti il tiene. Ond’io instrutta a questi so dar opra, Si ben nel letto, che d’Apollo all’arte Questa ne va d’assai spazio di sopra E il mio cantar e ‘l mio scrivere in carte S’oblia in chi mi prova in quella guisa Ch’a suoi seguaci Venere comparte. Nel Settecento, cui ora vogliam far cenno, sia pur per sommi capi, le cose stavano in modo ben differente da come ce le hanno rappresentate quando a scuola ci hanno spiegato quel periodo. I libri del Marchese de Sade rap- presentano, ad es., una nuova filosofia morale e non sono la pura e semplice invenzione di tecniche erotiche pervertite, come comunemente si crede. I recenti studi hanno sfatato quella immagine del divin marchese. “La filo- sofia deve dire tutto”, egli ha affermato: tutto senza ipocrisie e fingimenti. Egli non fu né il primo né il solo a sostenere i diritti della carne, che grida la sua legittima soddisfazione contro le assurde costrizioni della cosiddetta civiltà. Il celeberrimo sadismo: ricerca del piacere attraverso il godimento per la sofferenza del partner, ha ben altre origini che le sole discendenze da Sade. Bisognerebbe intanto rifarsi alle meticolese ricerche di Skipp, di Leeds, che ha schedato tutti i testi erotici inglesi scoprendovi come l’uso educativo della frusta e le sculacciate a pelle nuda sui ragazzi, era praticato dai gesuiti in chiave educativa e correttiva, ma finiva per confinare molto spesso con l’erotismo portando addirittura all’orgasmo vero e proprio. Nacque un termine: “orbinolismo” che vuol dire “smania di frustare” (Cfr. Rodez, Memorie storiche sull’orbinolismo). Né si dimentichi, oltre la pratica, anche l’elogio cattolico, presso non solo l’ordine dei gesuiti ma anche di Scolopi e Salesiani, fatto in termini pedagogici della frusta e della sua frequente pratica a scopi educativi e correttivi: virga tua et baculus tuus salus mea fuerunt!.... A tali osservazioni sul costume del secolo va aggiunto che la proverbia- le sporcizia che caratterizzava il ménage domestico dell’epoca anche tra le famiglie nobili e abbienti, non era poi così generalizzata. Soprattutto le donne avevano introdotto l’uso davvero innovativo dell’erotico bidet (che ha la forma di violino e, al tempo stesso, quella dei fianchi femminili) che permetteva loro di mantenere igiene e pulizia in quelle parti del corpo che ne avevano più bisogno. A tal proposito restano molto istruttive le pagine dei romanzi erotici e libertini, tra i quali spicca Restif de La Breton con il suo Anti Justine dove si nota l’uso frequente e generalizzato di tale strumento da toilette, prima e dopo gli incontri amorosi.. Perciò, una volta sfatata l’immagine stereotipata del Settecento illumi- nistico, astrattamente razionalista, irreligioso e dai costumi depravati, pro- viamo a riguardare sotto diversa luce e angolatura, libere da pregiudizi e remore moralistiche e confessionali, la letteratura erotica e d’amore di quel secolo che, oltre tutto, fu di Mozart, di Kant, di Bach, oltre che di Voltaire, di Rousseau e di Goethe e ci lasciò in eredità non soltanto la grande rivoluzione dell’89 ma anche quella che fu la più colossale e universale summa di sapere moderno: l’Enciclopedia, ovverosia dizionario ragionato di tutte le scienze, le arti e i mestieri contro la quale pullularono subito una serie di Anti-Enciclo- pedie anche da noi in Italia per porre un argine all’avanzata di quelle idee di libertà e di progresso civile. Il ricordare LEOPARDI è qui d’obbligo: Così ti spiacque il vero, dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè, per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese... Insomma lo zelo sessuofobico, la guerra dichiarata all’istinto sessuale porta il sacerdote, il ministro del culto cattolico, il confessore a scendere nei particolari della vita sessuale singola e della coppia, sia entro che fuori del matrimonio: a scoprire i più segreti momenti dell’intimità delle coppie fino a scrutare e distinguere, entro le fantasie erotiche più raffinate, i comporta- menti più o meno peccaminosi, cioè conformi a canoni tutti da verificare di volta in volta (casistica). Una sorta di filo invisibile lega pertanto il pio cen- sore al libertino e al peccatore o la peccatrice (lo denuncia la stessa corrente espressione possessiva: il” mio” confessore!) tanto da diventare complemen- tari, avvincersi in un legame indissolubile fino a non poter più fare a meno l’uno dell’altro14. Ma il legame tra religiosità e libertinismo, così come tra l’erotismo e la religione cattolica in particolare, si fa sempre più stretto fino a dipendere l’uno dall’altro: come, in regime capitalistico, domanda e offerta. Il cattoli- 14 Cfr., infine, “L’Asino” di Podrecca a Galantara e le critiche positivistiche e anticlericali alla morale alfonsiana, Feltrinelli, Milano] cesimo deve disciplinare a suo modo il sesso e, in genere, tutta l’attività e la fantasia umane; l’eros deve trovare entro una nuova coscienza storica la sua rinnovata voluttà. Ecco allora il piacere stesso trovar vie differenti rispetto al piacere degli antichi, allor quando quella ricerca non veniva combattuta, non era un tabù, anzi era apprezzata come uno dei più ambiti doni della na- tura. Vengono a far parte del piacere anche i marchingegni e i sotterfugi per eludere le prescrizioni correnti e i limiti che le norme religiose impongono dall’esterno. Finanche i pregiudizi siano di ispirazione cattolica o meno - diventano materia di raffinato erotismo. L’esecrabile peccato della lussu- ria, prodotto tipico del Cristianesimo, diventa perciò stesso fonte di piacere (la Jouissance illuministica), proprio perché vietato e esecrato: soprattutto quando l’atto viene compiuto di nascosto, cogliendo quello che è diventato, dopo la mitica cacciata dal Paradiso terrestre, il frutto proibito, il godimen- to raggiunto di soppiatto e contro la legge o la morale corrente perciò più seducente e ricercato per la sua illegtittimità! La letteratura è piena zeppa di esempi e finisce per produrre un genere di scrittura narrativa particolare che chiamiamo “erotica” o “pornografica”: di libri che s’han «da leggere con una mano sola», un genere che non si spiegherebbe prima del cristianesimo e della dannazione dell’eros e del piacere e che va dai canti carnascialeschi al Decamerone, al Ruzante, all’ARETINO, ai poeti dialettali: da BAFFO, veneziano, al grandissimo BELLI, romanesco, al dimenticato TEMPIO, siciliano, nato a Catania, per arrivare alla letteratura erotica del romanzo libertino francese in cui confluiscono le innumerevoli forme e modi di estraniazione, di sogno, di fuga dalla realtà che delineano l’universo fantastico che sarà la base della letteratura romantica europea e soprattutto del romanzo e della grande narrativa ottocentesca e contemporanea, da Balzac a Flaubert, a Hugo a Dumas, dal romanzo russo al nostro MANZONI, a Zola, a VERGA alla miriade dei narratori dei nostri giorni. In conclusio-ne, ma in una maniera tutta nuova, possiamo ritenere avesse davvero visto giusto il grande saggio napoletano CROCE quando affermò che non possiamo non dirci cristiani. Se persino l’erotismo è stato, malgré lui, influenzato e raffinato dal cristianesimo. Se ne stanno accorgendo anche in Francia dove nasce la letteratura libertina e la illuminata filosofia del piacere: dal materialista La Mettrie all’esecrato marchese De Sade16. 15 Emblematico, per quanto qui si va rilevando, il romanzo libertino, non ancora tradot- to, D.A.F. de SADE, Alina et Valcour, ovvero il romanzo filosofico. Cfr., la Mostra: BNF, L’Enfer de la Biblioteque Nazionale. Eros au secret, Paris, 2 Ricco di titoli, è venuto alla luce un significativo numero di opere e autori soltanto  ad opera di specialisti che li vanno pubblicando e illustrando. Intanto segnalo l’originale antologia da Mettrie e Diderot, curata da Quintili, L’Arte di godere. Testi dei filosofi libertini, Manifesto libri, Roma. Alfonso di Liguori. Girolamo de Liguori. Liguori. Keyword: “Associazione Filosofica Ligure” – Keywords: implicature critica, ‘… is the true abyss of human reason” – “il baratro della ragione conversazionale” – l’anima distilata – il lambicco dell’anima”, redenzione dell’eros, la lussuria, la degenerazione, la metamorfosi dei linguaggi – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lilla: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Vico – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Francavilla Fontana). Filosofo italiano. Grice: “I like Lilla; for one, he ‘revindicated,’ as he puts it, the philosophy of Vico, which, in Italy, is like at Oxford ‘revinidcare’ Locke!” Formatosi nelle scuole dei Padri Scolopi aderì alle idee cattolico liberali divulgate dai filosofi della prima metà dell'Ottocento: Gioberti, Minghetti, Balbo e SERBATI al quale dedicherà molteplici studi subendone una marcata influenza. Lascia Francavilla per l'ostentata contrarietà di tutto il clero  alle sue idee patriottiche d'ispirazione giobertiana, manifestate apertamente nel "Programma d'insegnamento filosofico" pubblicato sul giornale il "Cittadino leccese", decise di trasferirsi a Napoli ove ebbe modo di confrontarsi con le idee di Sanctis, Spaventa, Settembrini, Tari e Vera. Si laurea e insegna a Napoli. Durante questi anni videro la luce "La provvidenza e la libertà considerate nella civiltà", "Dio e il mondo", e "La personalità originaria e la personalità derivata" (Nappoli, Rocco), nei quali getta le premesse degli studi filosofici e giuridici in cui si cimenterà per tutta la vita: la storia della filosofia, la filosofia teoretica e la filosofia del diritto; sviluppando altresì e precorrendo una moderna concezione del rapporto tra "diritti umani e progresso scientifico" sin da “La scienza e la vita” (Torino, Borgarelli) -- titolo paradigmatico del suo saggio – cf. Grice, “Philosophical biology,” “Philosophy of Life” Insegna a Messina. Furono quelli gli anni più fecondi della produzione scientifica volta a perfezionare la sua concezione dello Stato, approfondire le fonti rosminiane, confrontarsi con le teorie evoluzionistiche di Spencer e contemporaneamente intrattenere contatti epistolari con alcuni fra i maggiori filosofi, giuristi, patrioti e storici dell'epoca quali:  Jhering, Bluntschli, Roy, Tommaseo, Capponi e molti altri. Altri saggi: “Kant e SERBATI” (Borgarelli, Torino); “AQUINO” (Torino, Borgarelli); “Filosofia del diritto,”“Critica della dottrina utilitarista liberale empirica etico-giuridica di Mill”“Le supreme dottrine filosofiche e giuridiche di Vico ri-vendicate” -- “La pretesa persona giuridica e le funzioni personali degl’enti morali” (L. Gargiulo); “Della Riforma civile di Spedalieri” (Messina, Amico); “Le fonti del sistema filosofico di Serbati-Rosmini” (L.F. Cogliati); “Due meravigliose scoperte di Rosmin-Serbatii: l'essere possibile e l'unità della storia dei sistemi ideologici, Cogliati, Il Canonico Annibale Maria Di Francia e la sua Pia Opera di beneficenza, Messina, San Giuseppe, Manuale di filosofia del diritto, Milano, Società editrice , Pagine estratte. Martucci, Il concetto dello stato  Antonio Tarantino, Diritti umani e progresso scientifico: Polacco, La "Filosofia del diritto” (Randi); “Filosofia” (Milano, Giuffré); Tarantino, “La filosofia della giustizia sociale, Milano” (Giuffré) – cfr. H. P. Grice, “Social justice” in “The H. P. Grice Papers,” Bancroft, MS. In occasione del conferimento della "Cittadinanza onoraria (di Messina) alla memoria, su nettuno press.Tarantino, Diritti umani e progresso scientifico: emeroteca.provincia.brindisi. Martucci,Il concetto dello stato, su emeroteca.provincia.brindisi.  Treccani, su treccani. Lettere a Jhering. non accordabile col supremo principio della Scienza Nuova Ilmiolavoro Vico rivendicato» meritòl'onoredi essere preso in considerazione dai due più competenti degli stu dii vichiani, ed al giudizio dei competenti bisogna dare gran peso, perchè effetto di conoscenza bene approfondita sopra un determinato autore, specialmente se si mira ricostruire la mente di Vico. Questi scrittori sono Ferri e Fornari i quali si trovarono in pienissimo accordo, tanto da far supporro che fosse effetto di un concetto prestabilito. L'accordo fu pie nissimo nella prima parte del lavoro di carattere puramente critico e riconobbero che la rivendicazione delle dottrine filoso fiche e giuridiche da tutte le fallaci interpetrazioni fatte in Europa Rivista Italiana di Filosofia. Quando gli opuscoli hanno un valore così notevole come quello qui sopra indicato del prof. Lilla , è giusto segnalarli all'attenzione degli studiosi piuttosto che i volumi di gran molo o di poca sostanza. Questo lavoro dice molto in poche pagine e il suo intento è questo: rivedere i giu dizi che sulle dottrine del Vico sono stati portati in Italia , in Germania e in Francia particolarmente, ricostruire dietro indagino esatta il concetto di questa dottrina e questo intento ci pare raggiunto. Il Vico non è sem plicemente un ontologista platonico, come parrebbe dal giudizio del Gioberti, nè un razionalista kantiano, o piuttosto un precursore del Kant, come sembra a Spaventa, nè un positivista como fu rappresentato da altri. Questi apprezzamenti risultarono dall'interpetrazione parzialeesoggetti va di qualche parte dei pensieri filosofici del Vico che nelle sue opero non sono esposti in ordine sistematico , e che l'autore di questo lavoro con grande dili genza raccoglie e combina riferendo le formole e le parole proprie dell'autore della scienza nuova sparse nei moltiplici suoi scritti. »   era esauriente e condotta con criterii elevati. La mia interpretazione sulla vera mente di Vico fu riconosciuta vera ed adeguata tanto che il Fornarì mostrò vivissimo desiderio di veder fecondare quelle supreme linee con svolgimenti ed appli cazioni. Dominato da tale pensiero concepii il disegno di scrivere un lavoro di lena, mirante ad un triplice scopo di rivendicare, illustrare, ed integrare la mente dell'autore della « Scienza Nuova» A tale scopo indirizza i tutte le mie ricerche attingendo sempre maggiori lumi dalle sue opere edite ed inedito e fin anche dai manoscritti che si conservano gelosamente nella bi· blioteca Nazionale di Napoli. I grandi genii, e segnatamente il Vico che, come non ha guari, fu appellato da un poderoso intelletto di una delle più famose Università il più grande filosofo del mondo, muovono da una idea madre fecondissima ed alla quale rannodava tutte le idee secondarie e particolari. Uvità ed armonia cioè perfetto organismo è la nota caratteristica del lavoro dei sommi.Ed io vado riunendo non poche idee per ricostruire su solide basi quest'opera di architettura gigante e le mie indagini non ric scono infruttuose, e ne è prova evidentissima questo frammento inedito dal titolo « Pratica della Scienza nuova . » Non poche censure mosse la turba dei filosofanti al Vico perchè s'ispirava a concezioni idealistiche negligentando la pra tica della vita. Tale critica presenta apparenze di verità tanto che VICO stesso no rimase impressionato,ma raffrontando dottrine a dottrine si coglie il genuino e loro vero significato. La grand o idealità diquestamassima la storia ideale eterna delle nazioni. L. ha liberato la dottrina del VICO da tutte le fallaci inter petrazioni. La sua dottrina che mi pare giusta, merita di essere più larga mente svolta. » Nel volume delle Onoranze; è una vera esagerazione , e chi si addentra nella parte riposta del sistema Vichiano si accorgerà che non si possa ascrivere ad essa une perfetta interpetrazione astratta e specialmente raffrottandola colla psicologia sociale che sta a base del processo del filosofo napoletano. Bisogna por mente innanzi tutto alle tre fasi che percorre l'umanità nella sua storica evoluzione; età del senso, della fantasia, e della ragiono. E molto più alla dottrina del corso e ricorso delle nazioni, cioè al loro periodo d'infanzia, di giovinezza e di vecchiaia. Valga ciò a smentire l'assoluto idealismo del VICO il quale è puramente immaginario. Tutta la seconda Scienza nuova è derivata dalla psicologia sociale evoli tiva e tutti i diritti, i costumi, le religioni, le costituzioni plitiche degli stati sono emanazionidiquesto principio. Nelprimo stadio tutto è divino, gli uomini inselvatichiti hanno un diritto divino, tuttoprocededagli Dei; il Governo teocraticorappresen ato dagli oracoli, la lingua divina per atti muti di religiose cerimonie. In Giove e Giunone si personifica ciò che si riferisce agli auspicii ed alle nozzo: la Giurisprudenza è scienza d'intendere i misteri della divinazione; il giudizio divino, cio è che nei templi divini,tutte le azioni sovo invocazioni agli Dei :ogni dritto è divino,ogni pena è sacrificio, ogni guerra assume carat tere religioso ed ha giudici gli Dei: od il giudizio di Dio si riduce a duello ed alle rappressaglie : tali categorie sono sim boleggiate dal lituo, dall'acqua e fuoco sopra un altare. Seguo poi un ordine di fatti eroici da cui deriva la natura eroica, o dei nati sotto gli auspicii di Giove, il costumo eroico como quello di Achille, il governo civico o aristocratico o dei for tissimi, la lingua eroica o delle armi gentilizie o stemmi. I caratteri eroici come Achille ed Ulisse, che personificano tutte le grandezze e i savii consigli. La giurisprudenza eroica, che stà nella solennità delle formule della legge, la ragione di stato conosciuta dai pochi provetti del governo, il giudizio eroico che consiste nell'esatta osservanza delle formule e precipua mente deriva il feudo dalla proprietà dei forti. Infine c'è un or dine di fatti umani, cui corrisponde la natura umana intelligente e perciò benigna,modesta, che riconosce per legge lacoscienza, la ragione, il dovere, e poi il costume officiale, indi il diritto umano fondato dalla ragione, il governo umano dettato dalla ragione, la lingua umana, Abbiamo motivo di credere che VICO impressionato dalle obiezioni dei contemporanei vollo dichiarare il supremo princi pio della Scienza Nuova, cioè la storia eterna ed ideale delle nazioni con questo frammento e senza addarsene disconobbe l'efficacia positiva della Scienza nuova. Egli dotato di mente speculativa, pratica e progressiva, non si poteva mai acconciare a vivere di formule astratte e di  umana , il parlare articolato , i caratteri in telligibili, che la mente umana rivelò dai generi fantastici se parando le forme e le proprietà dai subietti. La giurisprudenza umana che mira non al certo, ma alvero delle leggi. L'auto rità umuna che nasce dalla rinomanza di persone capaci e sa pienti nelle agibili ed intelligibili cose , la ragione umana o ragione naturale che divide a tutte le uguali utilità. Il giu dizio umano velato di pudore naturale e mallevadore della buona fode che ai fatti applica benignamente le leggi temperandone il rigore. E questi fatti hanno ancheiloro simboli nellabilanciache rappresenta le qualità civili nelle repubbliche popolari, perchè la natura ragionevole è uguale in tutti gli uomini. Questi tre ordinidifatti riposanointreprincipii, chesono:iltimore, l'amore , il dolore, simboleggiati dallo altare, dalla pace e dal l'urnacineraria,ecosì sifondarono loreligioni, imatrimoni e l'immortalità dell'anima.In questi concetti siriassume tutta la seconda Scienza nuova. Rispettaro tutto quanto i nostri maggiori operarono di grande è la disposizione più favorevole a quest'opera di conciliazione, ma perchè il ri spettonon portia delle idee esclusive e non soffochi la libertà dei nostri giudizi verso lo scopo ultimo della scienza, avvicinata a questo scopo la pro duzione più perfetta dell'uomo, ci rivela la sua imperfezione , in questo modo è riconosciuta la necessità dell'Ideale, perchè fossecriticatoemiglio rato il presente.  puri concetti metafisici, poichè il processo inquisitivo che egli seguiva aveva un fondamento storico e dava origine ad un temperato e ragionevole positivismo, pel quale non si poteva disgiungere la scienza dalla vita.Egli ben vedeva che la scienza fuori la vita era una vana supellettile intellettuale, un giuoco dialettico del pensiero e non punto proficua al beninteso pro gresso delle nazioni. Esiste un ideale di perfettibilità , supe riore , ma non indipendente dalla vita , verità questa intuita dall'antesignano della scuola storica tedesca, da Savignys, ilquale era ammiratore passionato delle istituzioni giuridiche romane nelle quali vedeva la più alta manifestazione del progresso giu ridico. Ma fatto maturo di anni e di senno confessò apertamente che per quanto possono sembrare perfette le istituzioni romane, pure comparate all'idealità mostrano la loro incompiutezza. VICO gittò le basi di una vasta costruzione scientifica fondata nel processostorico– filosofico. E dàbiasimo al divorzio fraquesti due processi metodici, in questa memoranda sentenza Peccarono per metà i filosofi perchè non accertarono le loro idee coll’autorità dei filogici; peccarono per metà i filologi perchè non inverarono la propria conoscenza coll'autorità dei filosofi». La storia ci rivela il certo, l'origine, le fasi o gl'incrementi degl'istituti politici, sociali giuridici, e la filosofia rivela l'ele mento razionale e addita le perfezioni ideali, cui si possono inalzare; veritá questa intuita da Bacone da Verulamin. I filosofi, dic'egli, scoprono molte cose belle a contemplarsi, ma impossi bile ad essere attuate, ed i giuristi ragionanı) come prigionieri nelle catene. Alla mente di VICO si affaccia, un dubbio che poteva presentare questo supremo principio della scienza studiossi ripararvi con questo frammento inedito. Tutla quesť opera è stata ragionata come una scienza puramente spe culativa intorno alla comune natura dello nazioni. Però sembra per quest’istesso mancare di soccorrere alla prudenza umana, ond'ella si adoperi perchè le nazioni, le quali vanno a cadere o non ruinino affatto, o non s'affrettino alla loro ruina ed in conseguenza mancare nella pratica , qual dev'essere di tutte le scienze, che si ravvalgono d'intorno a materie , le quali dipendano dall'umano arbitrio , che tutte si chiamano attive. Anche nella coscienza dei grandi vi sono delle oscil lazioni sulle loro concezioni. VICO nel fram . citato, dice che la scienza pratica non si possa dare dai FILOSOFI, ma i filosofi civili e i reggitori degli stati possono creare costituzioni politiche e leggi, e richiamare le nazioni al loro stato di perfe zione. Niente di più vero: le nazioni e tutto il mondo moralo creato dall'arbitrio umano non può ridursi a categorie logiche, non può essere sottoposto alla legge ferrea della necessità, e quindi la scienza puramente contemplativa o ideale non può contenere nella sua orbita le leggi relative dei fatti umani. Se quest'ordine è indipendente dalla necessità logica, può essere [Qui do legibus scripserunt, omnes vel tanquam PHILOSOPHI, vel tan quam Jureconsulti, argumentum illud tractaverunt. Atque Philosophi proponunt multa dictu pulcra, sed ab uso remoto. Jureconsulti autem, suae quisque patria legum , vel etiam Romanorum, aut Pontificiarum placctis abnoxüetad dicti, judicio sincero non utuntur,sedtanquam evincolis sermocinantur. Tractatus de dignite et augmentis scientiarum ; solo regolato o disciplinato dalle scienze pratiche ed attive e non dall'ordine puramente scientifico. Nel capitolo VIII della seconda Scienza nuova pare che VICO incorra in un'incoe renza, in quanto si propone di trattare di una storia eterna sulla quale corre di tempo la storia di tutte le nazioni con certo originiecerteperpetuità,e poidico chelescienze pratiche possono regolare la vita. Ma come si può parlare d'una storia eterna, sulla quale sono modellate le storie di tutte le nazioni se il mondo morale, con tutti i suoi fattori , procede dall'arbitrio umano ? Questo ardito disegno del filosofo napoletano racchiude un pen siero riposto. Questa Storia eterna delle nazioni, modellatrice, esemplatrice di tutte le storie delle nazioni è uno dei più grandi problemi della Scienza Nuova, che è assai bisognoso di com menti illustrativi ed esplicativi. In questo capitolo si nasconde una speculazione alta, e, dirò meglio, vertiginosa. Qui il Vico si rivela come idealista, o meglio tale appare, poichè nello stabilire un ideale comune a tutte le nazioni pare che proceda con un metodo astratto e formale, cioè como un ideale fanta stico di pura creazione del cervello. Parvenza vana inganna trice! Ad un pensatore meditativo apparisce,com'è infatti, una dottrina a fondo realistico. Essa non è generata ma è ricavata da uno studio coscienzioso ed accurato dei fatti. Il diritto naturale delle genti è reale quanto la natura umana, ed è la fonte di questa dottrina. Secondo la mente di VICO non si potrà revocare in dubbio l'esistenza d'un dritto naturale, comune a tutti i popoli. Cotal diritto, comune a tutte le nazioni, ricavasi dalla psicologia sociale , la quale ci attesta la natura comune sociale dei popoli.  Questo argomento comparativo trova la sua conferma nel fatto irrecusabile che questo diritto comune, patrimonio di tutto le genti, non poteva essere stato trasferito o comunicato da popolo a popolo, perchè fra loro non vi era, nè era possibile nes suna comunanza di relazione. Ponendo mente all'esistenza di un diritto naturale identico a tutti, o perciò universale e necessario, non si può negare un sicuro fondamento all'esistenza d'una sto ria eterna nella quale corrono di tempo in tempo le storie di tutte le nazioni. Il diritto é uno, come uno è il tipo umano. Nella varietà dei costumi dei popoli vi è qualche cosa che non va ria nè si trasforma. Dunque uno è il diritto, ed una è la storia ideale delle nazioni , la quale è fondata sull'unità del diritto. Dunque dalla medesimezza del costume, sigenera ildirittona turale,e da ciò nasce ildisegno di una storia eterna delle na zioni Concetto ardito e profondo, poichè in tanto è possibile una storia eterna ed ideale, in quanto vi è un tipo unico nel di ritto e nel costume. I grandi genii hanno il presentimento di certe verità che poscia approfondite dalle venture generazioni acquistano piena coscienza. Questa divinazione del VICO oggi è rifermata dalla analisi comparativa degli istituti giuridici e politici, e questa scienza divinata dal Vico è una delle più belle glorie dei nostri tempi, a cui un forte ingegno siciliano addisse il suo ingegno e ne abbozzò il primo disegno. E qui si adombrano le prime lince di un metodo armonico fra il vero e il fatto, fra LA FILOSOFIA e la Storia La Storia dei costumi deve emanare da due cause coefficienti: dall'ordine reale e dell'ordine ideale,e così si avvera il gran principio di VICO, verum et factum reciprocantur. Ma l'ordine ideale per non essere una chimera deve Ideo uniformi nate appo interi popoli fra essi loro non conosciuti, debbono avere un motivo comune di vero. Scienza nuova, Dignitá. avere un'origine per quanto rimota,ma sempre realistica, non è fantasmagorico, ma ricavato,o meglio osservato nell'elemento comune che presenta il costume dei popoli,e perciò non è in fecondo e sterile,ma proficuo alla vita. (1Questo brano è tolto dal capitolo Incoerenze di Vico del mio saggio: La mente del VICO rivendicata, illustrata e integrata.  A riassumere la dottrina giuridica di Vico  è indispensabile determinare i principi fondamentali  dell» scuola storico-filosofica da Ini splendidamente  rappresentata.   La Scienza Nuova è lu riprova più sicura della lenominazione apposta ; iu quel lavoro di architettura gigante si vede adombrato il disegno dell’armonia fra i principii razionali e il fatto storico. La psicologia sociale è il substratum delle leggi,  delle religioni, delle lingue e di tutti gli altri elementi della civiltà. In quella filosofia della storia  contenuta in germe LA FILOSOFIA DEL DIRITTO POSITIVO, perchè le costituzioni civili, sociali e politiche sono  conseguenza necessaria della vita, della cultura e  dei costumi delle varie nazioni.   Egli divide in tre grandi periodi la storia civile  delle nazioni, cioè l’età del senso, della fantasia e della ragione, e tutti i fattori dell’incivilimeiito, dalla  religione alla lingua, da questa alla giurisprudenza  c infine alla politica rispecchiano fedelmente le immagini e i caratteri di quei tre grandi avvenimenti  '‘tarici. Anche nell’opera, De universi iurte et prtnùfno et fine uno le ricerche del DIRITTO FILOSOFICO sono  accompagnate dall’indagine storica e innumerevoli applicazioni fa al diritto romano, da cui poi si eleva  ai supremi principii giuridici. Questo sapiente indirizzo trova la ragion di essere in quel supremo pronunziato del De antiquissima Italorum sapiential, che « verum et factum reeiprocantur. Il fatto adunque deve procedere di  conserva col vero, altrimenti si cade o nel formalismo astratto o nell’imperiamo gretto. E con questo criterio VICO dà biasimo ai FILOSOFI ed ai filologi; mancarono per metà I FILOSOFI perché  non accertarono le loro idee con l’autorità dei filologi, e mancarono per meta i filologi perchè non  avverarono le loro idee con l’autorità dei filosofi.  Il vero e il fatto sono due termini convertibili, e,  perchè convertibili, l’indagine storica trova la sua  vera integrazione nei principii di ragione, e questi  hanno il loro fondamento nell’ordine dei fatti bene  accertati.   Storia e Ragione sono adunque i due fattori del  diritto filosofico e, quando si scinde il fatto dal vero,  si avrà del diritto un’idea esclusiva, incompiuta, o fallace. Il diritto, secondo VICO, è un’idea umana, vale  a dire un principio ideale e storico, o meglio un  principio ideale che si attua nella storia; e tanto  è vero ciò che mette radice nell’ordine eterno dell’eterna ragione o dell’eterna volontà in quanto  prescrive alia volontà umana l’equo bono. Secondo questa dottrina il diritto deriva da due  cause coefficienti, cioè: l’utile e l’eterna ragione. L’una dà la forma e l’altra la materia. Utilità»  fiiit occasio iuris, honestas causa. Tutto ciò risponde esattamente allo spirito del sistema vichiano. Infatti la plebe, insorgendo contro il patriziato, conquistava i propri diritti, eppure era mossa dalla molla dell’interesse. Sicché il progresso morale e  civile delle nazioni era occasionato dalle passioni, lagli interessi, i quali contribuivano a far riconoscere i principii razionali. Quao vis veri sen liumann ratio virtus est quantuin cum cupiditate pugnat. Quantum utilitates diligit et exquat, quao  nnum universi iuris principium unusque iincs. L’utile non è per sè stesso né onesto nè turpe, ma  pnò divenire l’uno o l’altro quando è o confonne o disforme alla giustizia. Ecco dunque come il diritto ha l’anima e il corpo,  la materia e la forma, ed lia un contenuto etico, che applica nell’utile. E da ciò segue la definizione del diritto: Igitur ius est in natura utile a eterno, coniincusu acquale. I punti salienti nei quali si rias  mine la teorica del Vico sono i seguenti : l’indagine storica, base della ricerca razionale, convertibilità. del vero col fatto; insidenza del diritto nel  bene, incarnata nella formula dell’equo buono : inerenza dell’equo buono nell’ordine eterno; futilità  in quanto è regolata dalla ria veri; l’utile è materia;  e la ragione forma del diritto. Vincenzo Lilla. Lilla. Keywords: implicature, Vico, Vico ri-vendicato, Vico ri-vendicate, Luigi Speranza, “Grice e Lilla: la semiotica di Vico” – The Swimming-Pool Library. “Il Vico di Lilla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Limone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della simbolica del potere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella). Filosofo italiano. Grice: “I like Limone; like me, he has explored the idea of value in terms of catastrophe – I didn’t. He has explored the poetics of philosophy – and he has investigated on a concept that Strawson and I always found fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel mondo umano, la persona?” “Tutto.” “Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria, Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del personalismo comunitario. Si laurea a Napoli e il  Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry, sede dell'Association des amis de Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi, cui appartenevano Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi interessi di ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici, filosofico-pratici e simbolici. Al centro della sua attenzione teoretica è “la persona”. Fonda la rivista "Persona” e "Symbolicum" sulla simbolica. SIMBOLO. Sonda in profondità l’idea di persona. Là dove la persona non è né la semplice nobilitazione dell’essere umano in generale, né una singola unità seriale. Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché l’idea è aperta come la vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona, però, non è l’idea di un quid ma di un “QVIS” perché la persona è un “chi” (“Someone is hearing a noise”) non un “che” (“Something is hearing a noise”)– That’s why it’s very wrong to call “the chair is red” as third-PERSON seeing that the chair is hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata dalla concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto idea di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce la visione del gius-personalismo. Altri saggi: “Tempo della persona e sapienza del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi, Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli, Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice, “Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento (Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua (Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria). Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila: distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato (Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV. Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto farina. Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione del simbolo,  ventennio, fascismo, simbolica del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica, simbolo, composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --.  Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e persona” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lisi: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean. When the Pythagoreans were being persecuted in Italy, L. escapes and makes his way to Teba. There he becomes the tutor of Epaminonda, the city’s military leader. He writes a letter to Ipparco. Lisi

 

Grice e Lisiade: all’isola – la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisibio: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisimaco: la ragione conversazionale al portico romano --  Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. He belonged to The Porch. The tutor of Amelio Gentiliano. Since Amelio comes from Firenze, that may be taken as having been the home of L. as well.

 

Grice e Livio: la ragione conversazionale e la storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Although famous as one of the great Roman historians, he is also a philosopher, who popularises the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o  vi  mando  un  presente, il  quale  se non  corrisponde  agl’obblighi  clic io ho con  voi,  è tale  senza  dubbio,  quale  ha potuto Niccolò Machiavelli  mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso quanto io  so,  quanto  io ho imparato per una lunga  pratica  e continova lezione  delle  cose  del  mondo.  E non  porlendo  nè  voi  nè  altri  disiderare  da  me più,  non  vi  potete  dolere  se  io  non  vi ho  donato  più.  Bene  vi  può  incrcsccre della  povertà  dello  ingegno  mio,  quando siano  queste  mie  narrazioni  povere ; e della fallacia del  giudizio, quando  io in  molte  parli , discorrendo, m'inganni. Il che  essendo , won  so  quale  di  noi  si abbia  ad  esser  meno  obbligato  all’altro; o io  a voi , che  mi  avete  forzalo  a scrivere quello  ch’io  mai  per  me  medesimo non  arci  scritto;  o voi  a me,  quando scrivendo  non  abbi  soddisfatto. Pigliate, adunque,  questo  in  quello  modo  che  si pigliano  tulle  le  cose  degli  amici:  dove si considera  più  sempre  la  intenzione di chi  manda,  che  le  qualità  della  cosa che  è mandata.  E crediate  che  in  questo io  ho  una  salis fazione , quando  io penso  che,  sebbene  io  mi  fussi  ingannato in  molle  sue  circostanze,  in  questa sola  so  eh io  non  ho  preso  errore,  di avere  delti  voi,  ai  quali  sopra  tutti  gli altri  questi  miei  Discorsi  indirizzi : sì perché,  facendo  questo,  ini  pnre  aver mostro  qualche  gratitudine  de  benefizii ricevuti : si  perchè  e  mi  pare  esser uscito  fuora  dell’uso  comune  di  coloro che  scrivono , i quali  sogliono  sempre le  loro  opere  a qualche  principe  indirizzare ; e,  accecati  dall’ambizione  c dall’avarizia,  laudano  quello  di  tutte le  virtuose  qualitadi,  quando  di  ogni vituperevole  parte  doverrebbono  biasimarlo. Onde  io,  per  non  incorrere  in questo  errore,  ho  eletti  non  quelli  che sono  Principi,  ma  quelli  che  per  le  infinite buone  parti  loro  meriterebbono  di essere ; nè  quelli  che  polrebbono  di  gradi, di  onori  e di ricchezze riempiermi, ma  quelli  che,  non  polendo,  vorrebbono farlo.  Perchè  gli  uomini,  volendo  giudicare dirittamente,  hanno  a stimare quelli  che  sono , non  quelli  che  possono esser  liberali;  e così  quelli  che  sanno , non  quelli  che, senza  sapere,  possono governare  un  regno.  E gli  scrittori  laudano più  Icronc  Siracusano  quando  egli era  privato,  che  Perse Macedone quando egli  era  re:  perchè  a Icronc  a esser principe  non  mancava  altro  che il principato; quell’altro  non  avera  parte alcuna  di  re,  altro  che  il  regno.  Godetevi, pertanto  quel  bene  o quel  male  che voi  medesimi  avete  voluto  : e se  voi  starete in  questo  errore,  che  queste  mie oppinioni  vi  siano  grate , non  mancherò di  seguire  il  resto della  istoria,  secondo che  nel  principio  vi  promisi. Valete Ancouaciiè,  per  la invida  natura  degli uomini,  sia  sempre  stato  pericoloso il  ritrovare  modi  ed  ordini  nuovi,  quanto il  cercare  acque  e terre  incognite,  per essere  quelli  più  pronti  a biasimare  che a laudare  le  azioni  d’ altri  ; nondimeno, spinto  da  quel  naturale  desiderio  che fu  sempre  in  me  di  operare,  senza  alcun rispetto,  quelle  cose  che  io  creda rechino  comune  benefìzio  a ciascuno,  ho deliberato  entrare  per  una  via,  la  quale, non  essendo  stata  per  ancora  da  alcuno pesta,  se la mi arrecherà fastidio e diffìcultù,  mi potrebbe  ancora  arrecare  premio,  mediante  quelli  che  umanamente di  queste  mie  fatiche  conside-rassero. E se  T ingegno  povero,  la  pocoesperienza  delle  cose  presenti,  la  de-bole notizia  delle  antiche,  faranno  que-sto mio  conato  difettivo  e di  non  moltautilità  ; daranno  almeno  la  via  ad  al-cuno, che  con  più  virtù,  più  discorso  egiudizio,  potrà  a questa  mia  intenzionesatisfare:  il  che  se  non  mi  arrecheràlaude,  non  mi  dovrebbe  partorire  bia-simo. E quando io  considero quantoonore si attribuisca all’antichità,  c comemolte  volte,  lasciando andare  moltialtri  esempi,  un  frammento  d’ una  antica statua  sia  stato  comperato  granprezzo,  per  averlo  appresso  di  sè,  onorarne la  sua  casa,  poterlo  fare  imitareda  coloro  che  di  quella  arte  si  diletta-no; e come  quelli  poi  con  ogni  indu-stria si  sforzano  in  tutte  le  loro opererappresentarlo:  e vcggendo,  dall’altrocanto,  le  virtuosissime  operazioni  che  leistorie  ci  mostrano,  che  sono  state  operate  da  regni  cda  repubbliche  auliche,dai  re,  capitani,  cittadini,  datori  di  leggi,ed  ultri  che  si  sono  per  la  loroatfaticati,  esser  più  presto  ammirate  cheimitate;  au/i  in  tanto  da  ciascuno  inogni  parte  fuggite,  che  di  quella  anticavirtù  non  ci  è rimaso  alcun  seguo:posso  fare  che  insieme  non  me  nelavigli  e dolga;  e tanto  più,  quantoveggio  nelle  differenze  che  intra  iladini  civilmente  nascono,  o nelle  inalattie  nelle  quali  gli  uomini  incorrono,essersi  sempre  ricorso  a quelli  giudiciio a quelli rimedi che dagli antichi sonostati giudicati  o ordinati.  Perchè  le  leggicivili  non  sono  altro  che  sentenzio  datedagli  antichi  iurcconsulti,  le  quali,  ridotte in  ordine,  a’ presenti  nostri  iure-consulti  giudicare  insegnano;  nè  ancorala  medicina  è altro  che  cspcrienzia  fattadagli  antichi  medici,  sopra  la  quale  fon-dano i medici  presenti  li  loro  giudicii. Nondimeno,  nello  ordinare  le  repubbli-che, nel  mantenere  gli  Stati,  nel  govcr-nai  e i regni,  nell’  ordinare  la  milizia  edamministrar  la  guerra,  nel  giudicare  isudditi,  nello  accrescere  lo  imperio,  nonsi  trova  uè  principi,  nè  repubbliche,  nècapitani,  nè  cittadini  che  agli  esempidegli  antichi  ricorra.  Il  che  mi  persuadoche  nasca  non  tanto  dalla  debolezzanella  quale  la  presente  educazione  hacondotto  il  mondo,  o da  quel  male  cheuno  ambizioso  ozio  ha  fatto  a molteprovincie  c città  cristiane,  quanto  dalnou  avere  vera  cognizione  delle  istorie,per  non  trarne,  leggendole,  quel  senso,nè  gustare  di  loro  quel  sapore  che  lehanno  in  sè.  Donde  nasce  che  infinitiche  leggono,  pigliano  piacere  di  udirequella  varietà  delli  accidenti  che  in  essesi  contengono,  senza  pensare  altrimeuted’ imitarle,  giudicando  la  imitazione  nonsolo  difficile  ma  impossibile:  come  se  ilcielo,  il  sole,  gli  elementi,  gli  uominifossero  variati  di  moto,  d’ordine  e dipotenza,  da  quello  eli’ egli  erano  antica-mente. Volendo,  pertanto,  trarre  gli  uo-mini  di  questo  errore,  ho  giudicalo  ne-cessario scrivere  sopra  tutti  quelli  libri di  L. che  dalla  malignità  deitempi  non  ci  sono  stati  interrotti,  quelloche  io,  secondo  le  antiche  e modern cose,  giudicherò  esser  necessario  permaggiore  intelligenzia  d'essi;  acciocchécoloro  che  questi  miei  discorsi  legge-ranno, possino  trarne  quella  utilità  perla  quale  si  debbe  ricercare  la  cogni-zione della  istoria.  G benché questa impresa sia  difficile,  nondimeno,  aiutato  dacoloro  che  mi  hanno  ad  entrare,  sotto  aquesto  peso  confortato,  credo  portarloin  modo,  che  ad  un  altro  resterà  brevecammino  a condurlo  al  luogo  destinato. I.  Quali  siano  stati  universalmente i pr  incipit’  di  qualunque  città ,c quale  fosse  quello  di  ROMA. Coloro  che  leggeranno  qual  principio fosse  quello  della  città  di  ROMA,  e da quali  legislatori  e come  ordinato,  non
si  maraviglieranno  che  tanta  virtù  sisia  per  più  secoli  mantenuta  in  quella città;  e che  dipoi  ne  sia  nato  quello  im-perio, al  quale  quella  repubblica  ag-giunse. E volendo  discorrere  prima  il nascimento  suo,  dico  che  tutte  le  cittàsono  edificate  o dagli  uomini  natii  delluogo  dove  le  si  edificano,  o dai  forestieri. Il primo  caso  occorre  quandoagli  abitatori  dispersi  in  molte  e piccole parli  non  par  vivere  sicuri,  nonpotendo  ciascuna  per  sè,  e per  il  sitoe per  il  piccol  numero,  resistere  all’impeto di  chi  le  assaltasse;  e ad  unirsi  perloro  difensione,  venendo  il  nemico,  nonsono  a tempo;  o quando  fossero,  converrebbe loro  lnsciare  abbandonati  molti de’ loro  ridotti,  e cosi  verrebbero  ad  esser sùbita  preda  dei  loro  nemici:  talmente che,  per  fuggire  questi  pericoli, mossi  o da  loro  medesimi,  o da  alcunoche  sia  infra  di  loro  di  maggior  autorità, si  ristringono  ad  abitar  insieme  in luogo  eletto  da  loro,  più comodo a vivere  e più  facile  a difendere.  Di  queste,infra  molle  altre,  sono  state  Atene  e Vincaia. La  prima,  sotto  l’autorità  di  Teseo, fu  per simili  cagioni  dalli  abitatoridispersi  edificata;  l’altra,  sendosi  moltipopoli  ridotti  in  certe  isolette  che  eranonella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle  guerre  che  ogni  dì,  per  loavvenimento  di  nuovi  barbari,  dopo  ladeclinazione  dello  imperio  romano,  na-scevano in  ITALIA,  cominciarono  infra loro,  senza  altro  principe  particolareclic  gli  ordinassi,  a vivere  sotto  quelleleggi  che  parvono  loro  più  atte  a mantenerli. Il  che  successe  loro  felicemente per  il  lungo  ozio  che  il  sito  dette  loro, non  avendo  quel  mare  uscita,  e nonavendo  quelli  popoli  che  affliggevano ITALIA,  navigi  da  poterli  infestare:  talché ogni  picciolo  principio  li  potò  fare  ve-nire a quella  grandezza  nella  quale  sono. Il  secondo  caso,  quando  da  genti  forestiere è edificata  una  città,  nasce  o dauomini  liberi,  oche  dipendano  da  altri come  sono  le  colonie  mandate  o da  unarepubblica  o da  un  principe,  per  Sgra-vare le  . loro  terre  d’abitatori,  o per  di-fesa di  quel  paese  che,  di  nuovo  acqui-stato, vogliono  sicuramente  e senzaspesa  mantenersi;  delle  quali  città  IL POPOLO ROMANO ne  edificò  assai,  e pertutto  l’imperio  suo:  ovvero  le  sono  edi-ficate da  un  principe,  non  per  abitarvi,nia  per  sua  gloria;  come  la  città  di Alessandria  da  Alessandro.  E per  nonavere  queste  cittadl  la  loro  origine  libera,rade  volte  occorre  che  le  facciano  pro-gressi grandi,  e possinsi  intrai  capi  deiregni  numerare.  Simile  a queste  fu  V edificazione di  FIRENZE,  perchè  (fi  edificatada’ soldati  di  SILLA,  o,  a caso,  dagli  abitatori dei  monti  di  Fiesole,  i quali,  confi-datisi in  quella  lunga  pace  che  sotto  OTTAVIANO nacque  nel  mondo,  si  ridusseroad  abitare  nel  piano  sopra  Arno)  si  edi-ficò sotto  l’imperio  romano;  nè  potette,ne’  principii  suoi,  fare  altri  augumentiche  quelli  che  per  cortesia  del  principe li  erano  concessi.  Sono  liberi  li  edificatori delle  cittadi,  quando  alcuni  popoli,o sotto  un  principe  o da  per  sé,  sonocostretti,  o per  morbo  o per  fame  o perguerra,  od  abbandonare  il  paese  potrio,e cercarsi  nuova  sede  : questi  tali,  oegli  abitano  le  cittadi  elle  e’ trovano  neipaesi  eli’ egli  acquistano,  come  fece  Moisè;  o ne  edificano  di  nuovo,  come  fe ENEA.  In  questo  caso  è dove  si  conosce la  virtù  dello  edificatore,  e la  fortunadello  edificato:  la  quale  è più  o menomeravigliosa,  secondo  che  più  o menoè virtuoso  colui  che  ne  è stato  principio.La  virtù  del  quale  si  conosce  in  duoimodi:  il  primo  è nella  elezione  del  sito;F altro  nella  ordinazione  delle  leggi.  Eperchè  gli  uomini  operano  o per  necessità o per  elezione;  e perchè  si  vede quivi  esser  maggiore  virtù  dove  la  elezione ha  meno  autorità;  è da  considerare se  sarebbe  meglio  eleggere,  per  laedificazione  delle  cittadi,  luoghi  sterili,acciocché  gli  uomini,  costretti  ad  indùstriarsi,  meno  occupati  dall’ozio,  vives-sino  più  uniti,  avendo,  per  la  povertàdel  sito,  minore  cagione  di  discordie;come  intervenne  in  Raugia,  e in  moltealtre  cittadi  in  simili  luoghi  edificate:la  quale  elezione  sarebbe  senza  dubbiopiù  savia  e più  utile,  quando  gli  uo-  .mini  fossero  contenti  a vivere  delloro,e non  volcssino  cercare  di  comandarealtrui.  Pertanto,  non  potendo  gli  uominiassicurarsi  se  non  con  la  potenza,  ènecessario  fuggire  questa  sterilità  del
pnese,  e porsi  in  luoghi  fertilissimi  ;dove,  potendo  per  la  ubertà  del  sito  ampliare, possa  e difendersi  da  chi  l’ assaltasse, e opprimere  qualunque  alla  grandezza sua  si  opponesse.  G quanto  a quell’ozio  che  le  arrecasse  il  sito,  si debbe  ordinare  che  a quelle  necessitadi le  leggi  la  costringhino  che  ’l  sito  non la  costringesse;  ed  imitare  quelli  che sono  stati  savi,  ed  hanno  abitato  in  paesiamenissimi  e fertilissimi,  c alti  a pròdurre  uomini  oziosi  ed  inabili  ad  ogni
virtuoso  esercizio:  chè,  per  ovviare  aquelli  danni  i quali  l’amenità  del  paese,mediante  l’ozio,  arebbero  causati,  hannoposto  una  necessità  di  esercizio  a quelliche  avevano  a essere  soldati:  di  qualitàche,  per  tale  ordine,  vi  sono  diventatimigliori  soldati  che  in  quelli  paesi  i qualinaturalmente  sono  stati  aspri  e steriliIntra  i quali  fu  il  regno  degli  Egizi,  chenon  ostante  che  il  paese  sia  amenissi-mo, tanto  potette  quella  necessità  ordi-nata dalle  leggi,  che  vi  nacquero  uo-mini eccellentissimi;  e se  li  nomi  loronon  fussino  dalla  antichità  spenti,  sivedrebbe  come  meriterebbero  più  laudeche  Alessandro  Magno,  c molti  altri  deiquali  ancora*  è la  memoria  fresca.  E chiavesse  considerato  il  regno  del  Soldano,e l’ordine  de’Mammaluchi.  e di  quellaloro  milizia,  avanti  che  da  Sali,  GranTurco,  fusse  stata  spenta  ; arebbe  ve-duto ili  quello  molti  esercizi  circa  i sol-dati, ed  arebbe  in  fatto  conosciutoquanto  essi  temevano  quell’ozio  a che la  benignità  del  paese  gli  poteva  con-durre, se  non  vi  avessino  con  leggi  for-tissime ovviato.  Dico,  adunque,  esserepiù  prudente  elezione  porsi  in  luogofertile,  quando  quella  fertilità  con  leleggi  infra*  debili  termini  si  restringe.Ad  Alessandro  Magno,  volendo  edificareuna  città  per  sua  gloria,  venne  Dino-erate  architetto,  e gli  mostrò  come  eila  poteva  fare  sopra  il  monte  Albo;  ilquale  luogo,  oltre  allo  esser  forte,  po-trebbe ridursi  in  modo  che  a quellacittà  si  darebbe  forma  umana;  il  chesarebbe  cosa  meravigliosa  e raro,  e de-gna della  sua  grandezza:  e domandan-dolo Alessandro  di  quello  che  quelli  abi-tatori viverebbono,  rispose,  non  ci  averepensato:  di  che  quello  si  rise,  e lasciatostare  quel  monte,  edificò  Alessandria,dove  gli  abitatori  avessero  a stare  vo-lentieri per  la  grassezza  del  paese,  e perla  comodità  del  mare  e del  Nilo.  Chi  esa-minerò, adunque,  la  edificazione  di  Ro-ma, se  si  prenderà  Enea  per  suo  primoprogenitore,  sarà  di  quelle  citladi  edifi-cate da’  forestieri  ; se  Romolo,  di  quelleedificate  dagli  uomini  natii  del  luogo;ed  in  qualunciic  modo,  la  Vedrà  avereprincipio  libero,  senza  depcndere  da  al-cuno: vedrà  ancora,  come  di  sotto  sidirà,  a quante  necessitadi  le  leggi  fatteda  Romolo,  Numa,  e gli  altri,  la  costrin-gessino  ; talmente  clic  la  fertilità  del  sito,la  comodità  del  mare,  le  spesse  vittorie,la  grandezza  dello  imperio,  non  la  po-terono per  molti  secoli  corrompere,  e Ir»  -»  **mantennero  piena  di  tante  virtù,  djp^quante  mai  fusse  alcun’ altra  repubblicaornata.  E perchè  le  cose  operate  da  lejj,  ^e che  sono  da  Tito  Livio  celebrate,  sonoseguite  o per  pubblico  o per  privatoconsiglio,  o dentro  o fuori  della  cittade,io  comincerò  a discorrere  sopra  quellecose  occorse  dentro,  e per  consiglio  pub-blico, le  quali  degne  di  maggiore  an-notazione giudicherò,  aggiungendovi  tut-to quello  che  da  loro  dependessi  : coni quali  Discorsi  questo primo libro, ovvero  Questa  prima  parte,  si  terminerà. Cap.  II.  — Di  quante  spezie  sono  le  *epnbbtiche , e di  quale  fu  la  Repubblica Romana. Io  voglio  porre  da  parte  il  ragionare di  quelle  cittadi  clic  hanno  avuto  il  loro principio  sottoposto  ad  altri;  e parlerò di  quelle  che  hanno  avuto  il  principio 'ontano  do  ogni  servitù  esterna,  nia  si ; j sono  subito  governate  per  loro  arbitrio, o come  repubbliche  o come  principato: U quali  hanno  avuto,  come  diversi  principi, diverse  leggi  ed  ordini.  Perchè  ad alcune,  o nel  principio  d’esse,  o dopo non  molto  tempo,  sono  state  date  da  un
solo  le  leggi,  e ad  un  tratto  ; come  quelle che  furono  date  da  Licurgo  agli  Spartani: alcune  le  hanno  avute  a caso,  ed in  più  volte,  e secondo  li  accidenti,  come Roma.  Talché,  felice  si  può  chiamare quella  repubblica,  la  quale  sortisce  uno uomo  sì  prudente,  che  le  dia  leggi  ordinate in  modo,  che  senza  avere  bisogno di  correggerle,  possa  vivere  sicuramente sotto  quelle.  E si  vede  che  Sparta  le osservò  più  che  ottocento  anni  senza corromperle,  o senza  alcuno  tumulto  pericoloso: e,  pel  contrario,  tiene  qualche grado  d’  infelicità  quella  città,  che,  non si  sendo  abbattuta  ad  uno  ordinatore prudente,  è necessitata  da  sè  medesima riordinarsi:  e di  queste  ancora  è più infelice  quella  che  è più  discosto  dall’ordine; e quella  è più  discosto, con  suoi  ordini  è al  tutto  fuori  del  dritto cammino,  che  la  possi  condurre  al  perfetto e vero  fine:  perchè  quelle  clic  sonoiu  questo  grado,  è quasi  impossibile  che per  qualche  accidente  si  rassettino. Quel le altre  che,  se  le  non  hanno  V ordine perfetto,  hanno  preso  il  principio  buono,e atto  a diventare  migliori,  possono  perla  occorrenza  delli  accidenti  diventareperfette.  Ma  fia  ben  vero  questo, mai  non  si  ordineranno  senza  pericolo
perchè  li  assai  uomini  non  si  accordano mai  ad  una  legge  nuova  che  riguardi uno  nuovo  ordine  nella  cit tà,  se  non  è mostro  loro  da  una  necessità  che  bisogni farlo  ; e non  potendo  venire  questa necessità  senza  pericolo,  è facil  cosa  che quella  repubblica  rovini,  avanti  che  la si  sia  condotta  a una  perfezione  d’ordine. Di  che  ne  fa  fede  appieno  la  re-pubblica di  Firenze,  la  quale  fu  dalloaccidente  d’  Arezzo,  nel  11,  riordinata,  eda  quel  di  Prato,  nel  XII,  disordinata.Volendo,  adunque,  discorrere  quali  fu-rono li  ordini  della  città  di  Roma,  equali  accidenti  alla  sua  perfezione  lacondussero)  dico,  come  alcuui  che  hannoscritto  delle  repubbliche,  dicono  essere
in  quelle  uno  de' tre stati,  chiamati daloro  Principato,  d’Ottimati  e Popolare; e come  coloro  che  ordinano  una  città, debbono  volgersi  ad  uno  di  questi,  secondo pare  loro  più  a proposito.  Alcuni altri,  e secondo  la  oppinione  di  molti più  savi,  hanno  oppinione  che  siano  di sei  ragioni  governi;  delti  quali  tre  ne siano  pessimi;  tre  altri  siano  buoni  in loro  medesimi,  ma  sì  focili  a corrompersi, che  vengono  ancora  essi  ad  essere perniziosi.  Quelli  che  sono  buoni, sono  i soprascritti  tre:  quelli  clic  sono rei,  sono  tre  altri,  i quali  da  questi  tre dependono;  c ciascuno  d’  essi  è in  modo simile  a quello  che  gli  è propinquo,  che facilmente  saltano  dall’  uno  all’  altro: perchè  il  Principato  facilmente  diventa tirannico;  li  Ottimati  con  facilità  diventano stato  di  pochi  ; il  Popolare  senza diflìcultà  in  licenzioso  si  converte.  Talmente che,  se  uno  ordinatore  di  repubblica ordina in una città uno  di  quelli tre  stati,  ve  lo  ordina  per  poco  tempo; perchè  nessuno  rimedio  può  farvi,  a far che  non  sdruccioli  nel  suo  contrario, per  la  similitudine  che  ha  in  questo caso  la  virtù  ed  il  vizio.  Nacquono  queste variazioni  di  governi  a caso  intra li  uomini:  perchè  nel  principio  del  mondo, sendo  li  abitatori  rari,  vissono  un tempo  dispersi,  a similitudine  delle  bestie; dipoi,  multiplicando  la  generazione, si  ragunorno  insieme,  e,  per  potersi meglio  difendere,  cominciorno  a riguardare fra  loro  quello  che  fusse  più  robusto c di  maggiore  cuore,  c fecionlo come  capo,  e lo  obedivano.  Da  questo nacque  la  cognizione  delle  cose  oneste e buone, differenti dalle perniziose  e ree:  perchè,  veggendo  che  se  uno  noceva  al  suo  benefattore,  ne  veniva  odio e compassione  intra  gli  uomini,  biasimando li  ingrati  ed  onorando  quelli  che fusscro  grati,  e pensando  ancora  che quelle  medesime  ingiurie  potevano  esser fatte  a loro;  per  fuggire  simile  male,  si riducevano  a fare  leggi,  ordinare  punizioni a chi  contea  facesse:  donde  venne la  cognizione  della  giustizia.  La  qual cosa  faceva  che  avendo  dipoi  ad  eleggere un  principe,  non  andavano  dietro al  più  gagliardo,  ma  a quello  che  fussi più  prudente  c più  giusto.  Ala  come  di poi si  cominciò  a fare  il  principe  per successione,  e non  pei*  elezione,  subito cominciorno  li  eredi  a degenerare  dai loro  antichi  ; e lasciando  1’  opere  virtuose, pensavano  che  i principi  non avessero  a fare  altro  clic  superare  li  altri di  sontuosità  e di  lascivia  c d’  ogni  altra' qualità  deliziosa:  in  modo  che,  cominciando il  principe  ad  essere  odialo,  e per  tale  odio  a temere,  e passando  tosto dal  timore  all’  offese,  ne  nasceva presto  una  tirannide.  Da  questo  nacquero appresso  i principi»  delle  rovine,  c delle conspirazioni  e congiure  contea  i principi; non  fatte  da  coloro  clic  fussero  o timidi  o deboli,  ma  da  coloro  che  per genei'osità,  grandezza  d’  animo,  ricchezza e nobiltà,  avanzavano  gli  altri;  i quali non  potevano  sopportare  la  inonesta  vita di  quel  principe.  La  moltitudine,  adunque, seguendo  l’ autorità  di  questi  potenti, si  armava  contra  al  principe,  c quello  spento,  ubbidiva  loro  come  a suoi liberatori.  E quelli,  avendo  in  odio  il nome  d’  uno  solo  capo,  constituivano  di loro  medesimi  un  governo;  e nel  piincipio,  avendo  rispetto  alla  passata  tiratinide,  si  governavano  secondo  le  leggi ordinate  da  loro,  posponendo  ogni  loro comodo  alla  comune  utilità  ; e le  cose private  e le  pubbliche  con  somma  diligenzia  governavano  c conservavano.  Venuta  dipoi  questa  amministrazione  ai loro  figliuoli,  i quali,  non  conoscendo  la variazione  della  fortuna,  non  avendo mai  provato  il  male,  e non  volendo  stare contenti  alla  civile  equalità,  ma  rivoltisi alla  avarizia,  alla  ambizione,  alla  usurpazione delle  donne,  feciono  clic  d’  uno governo  d’  Ottimati  diventassi  un  governo di  pochi,  senza  avere rispetto ad alcuna  civiltà  : tal  che  in  breve  tempo intervenne  loro  come  al  tiranno;  perchè infastidita  da’  loro  governi  la  moltitudine, si  fe  ministra  di  qualunque  disegnassi in  alcun  modo  offendere  quelli governatori;  e cosi  si  levò  presto  alcuno che,  con  I’  aiuto  della  moltitudine, li  spense.  Ed  essendo  ancora  fresca  la memoria  del  principe  e delle  ingiurie ricevute  da  quello,  avendo  disfatto  lo Stato  de’  pochi  e non  volendo  rifare  quell del  principe,  si  volsero  allo  Stato  popolare; c quello  ordinarono  in  modo,  che nè  i pochi  potenti,  nè  uno  principe  vi avesse  alcuna  autorità.  E perchè  tutti gli  Stali  nel  principio  hanno  qualche  reverenza, si  mantenne  questo  Stato  popolare un  poco,  ma  non  molto,  massi-
me spenta  che  fu  quella  generazione  che l’aveva  ordinato;  perchè  subito  si  venne alla  licenzia,  dove  non  si  temevano nè  li  uomini  privati  nè  i pubblici;  di qualità  che,  vivendo  ciascuno  a suo  modo, si  facevano  ogni  di  mille  ingiurie:  talché, costretti  per  necessità,  o per  suggestione  d’ alcuno  buono  uomo,  o per fuggire  tale  licenzia,  si  ritorna  di  nuovo al  principato;  e da  quello,  di  grado  in grado,  si  riviene  verso  la  licenzia,  nei modi  e per  le  cagioni  dette.  E questo  è il  cerchio  nel  quale  girando  tutte  le  repubbliche si  sono  governate,  e si  governano:  ina  rade  volte  ritornano  nei governi  medesimi;  perchè  quasi  nessuna repubblica  può  essere  di  tanta  vita, che  possa  passare  molle  volte  per  queste mutazioni,  c rimanere  in  piede.  Ma bene  interviene  che,  nel  travagliare,  una repubblica,  mancandoli  sempre  consiglio e forze,  diventa  suddita  d'uno  Stato  propinquo, clic  sia  meglio  ordinato  di  lei  : ina  dato  che  questo  non  fusse,  sarebbe atta  una  repubblica  a rigirarsi  infinito tempo  in  questi  governi.  Dico,  adunque, che  lutti  i detti  modi  sono  pestiferi,  per la  brevità  della  vita  che  è ne’  tre  buoni, e per  la  malignità  che  è ne*  tre  rei.  Talché, avendo  quelli  che  prudentemente ordinano  leggi  conosciuto  questo  difetto, fuggendo  ciascuno  di  questi  modi  per se  stesso,  n’  elessero  uno  che  partieipasse  di  lutti,  giudicandolo  più  fermo  e più  stabile  ; perchè  l’uno  guarda  l’altro, scudo  in  una  medesima  città  il  Principato, li  Ottimati  ed  il  Governo  Popolare. Infra  quelli  che  hanno  per  simili constituzioni  meritato  più  laude,  è Licurgo; il  quale  ordinò  in  modo  le  sue leggi  in  Sparta,  che  dando  le  parti  sue ai  He,  agli  Ottimali  e al  Popolo,  fece uno  Stato  che  durò  più  che  ottocento anni,  con  somma  laude  sua,  e quiete  di quella  città.  Al  contrario  intervenne  a Solone,  il  quale  ordinò  le  leggi  in  Atene che  per  ordinarvi  solo  lo Stato  popolare lo  fece  di  sì  breve  vita,  che  avanti  morisse vi  vide  nata  la  tirannide  di  Pisistrato:  e benché  dipoi  anni  quaranta ne  fusscro  cacciati  gli  suoi  eredi,  c ritornasse Atene  in  libertà,  perchè  la  riprese lo  Stato  popolare,  secondo  gli  ordini di  Solone;  non  lo  tenne  più  cliccento  anni,  ancora  che  per  mantenerlo facesse  molte  constituzioni,  per le  quali  si  reprimeva  la  iusolenzia grandi  c la  licenzia  dell’  universale,  le quali  non  furou  da  Solonc  considerate nientedimeno,  perchè  la  non  le  mescolò con  la  potenzia  del  Principato  e con quella  dclli  Ottimali,  visse  Atene, spetto  di  Sparla,  brevissimo  tempo.  Ria vegniamo  a ROMA  ; la  quale  nonostante che  non  avesse  uno  Licurgo  che  la  ordinasse in  modo,  ilei  principio,  che  la  potesse vivere  lungo  tempo  libera,  nondimeno furon  tanti  gli  accidenti  che  in quella  nacquero,  per  la  disunione  che era  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che quello  che  non  aveva  fatto  uno  ordinatore, lo  fece  il  caso.  Perchè,  se  ROMA non  sortì  la  prima  fortuna,  sortì  la  seconda; perchè  i primi  ordini  se  furono defettivi,  nondimeno  non  deviarono  dalla diritta  via  che  li  potesse  condurre  alla perfezione.  Perchè  ROMOLO  e tutti  gli  altri Re  fecero  molte  e buone  leggi,  conformi ancora  al  vivere  libero:  ma  perchè il  fine  loro  fu  fondare  un  regno  e non una  repubblica,  quando quella  città  rimase libera,  vi  mancavano  molte  cose che  era  necessario  ordinare  in  favore della  libertà,  le  quali  non  erano  state da  quelli  Re  ordinate.  E avvengachè quelli  suoi  Re  perdessero  V imperio  per le  cagioni  e modi  discorsi;  nondimeno quelli  clic  li  cacciarono,  ordinandovi  subito duoi  Consoli,  che  stessino  nel  luogo del  Re,  vennero  a cacciare  di  Roma  il nome,  e non  la  potestà  regia:  talché, essendo  in  quella  Repubblica  i Consoli ed  il  Senato,  veniva  solo  ad  esser  mista di  due  qualità  delle  tre  soprascritte: cioè  di  Principato  e di  Ottimali.  Restavali  solo  a dare  luogo  al  Governo  Popolare: onde,  essendo  diventatala  Nobiltà romana  insolente  per  le  cagioni  che  di sotto  si  diranno,  si  levò  il  Popolo  contro di  quella  ; talché,  per  non  perdere il  tutto,  fu  costretta  concedere  al  Popolo la  sua  parte;  e,  dall’altra  parte,  il  Senato e i Consoli  restassino  con  tantaautorità,  che  potcssino  tenere  in  quella Repubblica  il  grado  loro.  E cosi  nacque la  creazione  de’  Tribuni  della  plebe  ; dopo la  quale  creazione  venne  a essere  più stabilito  lo  stato  di  quella  Repubblica,
avendovi  tutte  le  tre  qualità  di  governo la  parte  sua.  E tanto  li  fu  favorevole  la fortuna,  che  benché  si  passasse  dal  governo de’ Re  e delli  Ottimati  al  Popolo, per  quelli  medesimi  gradi  e per  quelle medesime  cagioni  che  di  sopra  si  sono discorse  : nondimeno  non  si  tolse  mai, per  dare  autorità  alli  Ottimati,  tutta l’autorità  alle  qualità  regie;  nè  si  diminuì l’autorità  in  tutto  alli  Ottimati,  per darla  al  Popolo;  ina  rimanendo  mista, fece  una  repubblica  perfetta  : alla  quale perfezione  venne  per  la  disunione  della Plebe  e del  Senato,  come  nei  duoi  prossimi seguenti  capitoli  largamente  si  dimostrerà. III. Quali  accidenti  facessino creare  in  Roma  i Tribuni  della  plebe ; il  che  fece  la  Repubblica  più  perfetta. Come  dimostrano  lutti  coloro  che  ragionano del  vivere  civile,  e come  ne  è piena  di  esempi  ogni  istoria,  è necessario a chi  dispone  una  repubblica,  ed ordina  leggi  in quella,  presupporre  tuttigli  uomini  essere  cattivi,  e clic  li  abbinosempre  od  usure  la  malignità  dello  animo loro,  qualunchc  volta  ne  abbino  libera occasione:  e quando  alcuna  malignità sta  occulta  un  tempo,  procede  da una  occulta  cagione,  ebe,  per  non  si  essere veduta  esperienza  del contrario, non  si  conosce;  ma  la  fa  poi  scoprire il  tempo,  il  quale  dicono  essere  padre d’ogni  verità.  Pareva  clic  fusse  in  Roma intra  la  Plebe  cd  il  Senato,  cacciati  I Tarquiili,  una  unione  grandissima;  e che  i Nobili,  avessino  deposta  quella  loro superbia,  c russino  diventati  d'animo popolare,  c sopportabili  da  qualuncbc, ancora  ebe  infimo. Stette  nascoso  questo inganno,  nè  se  ne  vide  la  cagione, infino  ebe  i Tarquini  vissono;  de’ quali temendo  la  Nobiltà,  ed  avendo  paura che  la  Plebe  mal  trattata  non  si  accostasse loro,  si  portava  umanamente  con quella:  ma  come  prima  furono  morti  I Tarquini,  e die  a’ Nobili  fu  la  paura fuggita,  cominciarono  a sputare  contro Olla  Plebe  quel  veleno  che  si  avevàno tenuto  nel  petto,  ed  in  tutti  i modi  che potevano  la  offendevano:  la  qual  cosa  fa testimonianza  a quello  che  di  sopra  ho detto,  che  gli  uomini  non  operano  mai nulla  bene,  se  non  per  necessità;  ma dove  la  elezione  abbonda,  e che  vi  si può  usare  licenzia,  si  riempie  subito  ogni cosa  di  confusione  e di  disordine.  Però  si dice  che  la  fame  e la  povertà  fu  gli  uomini industriosi,  e le  leggi  gli  fanno buoni.  E dove  una  cosa  per  sè  medesima senza  la  legge  opera  bene,  non  è necessaria la  legge;  ma  quando  quella  buona consuetudine  manca,  è subito  la  legge necessaria.  Però,  mancati  i Tarqnini, che  con  la  paura  di  loro  tenevano  laNobiltà  a freno,  convenne  pensare  a unonuovo  ordine  ehe  facessi  quel  medesimoeffetto  che  facevano  i Tarquini  quandoerano  vivi.  E però,  dopo  molte  confu-sioni, romori  e pericoli  di  scandali,  chenacquero  intra  la  Plebe  c la  Nobiltà,  sivenne  per  sicurtà  della  Plebe  alla  creazionc  ile* Tribuni  ; e quelli  ordinaronocon  laute  preminenze  e tanta  riputa-zione, che  potcssino  essere  sempre  dipoi  mezzi  intra  la  Plebe  e il  Senato,  eovviare  alla  insolenzia  de’ Nobili. IV.  Che  la  disunione  della  Plebe c del  Senato  romano  fece  libera  e polente  quella  Repubblica. H0U njt  fil  ùi  òVvil  tf,  ; il  "iit* lo  non  voglio  mancare  di  discorrere sopra  questi  tumulti  che  furono  in  Roma dalla  morte  de’ Tarquini  alla  creazione de’  Tribuni;  e di  poi  alcune  cose contro  la  oppinionc  di  molti  clic  dicono. Roma  esser  stata  una  repubblica  tumultuaria, e piena  di  tanta  confusione,  clicse  la  buona  fortuna  c la  virtù  militare non  avesse  supplito  a’  loro  difetti,  sarebbe stata  inferiore  ad  ogni  altra  repubblica. Io  non  posso  negare  che  la fortuna  e la  milizia  non  fussero  cagioni dell’imperio  romano;  ma  e’ mi  pare bene,  che  costoro  non  si  avvegghino, clic  dove  è buona  milizia,  conviene  clic sia  buono  ordine,  e rade  volte  anco  occorre clic  non  vi  sia  buona  fortuna.  Ma vegniamo  all i altri  particolari  di  quella città.  Io  dico  clic  coloro  clic  dannano  I tumulti  intra  i Nobili  c la  Plebe,  mi pare  clic  biasimino  quelle  cose  che  furono prima  cagione  di  tenere  libera  Roma ; c clic  considerino  più  a’  romori  ed alle  grida  clic  di  tali  tumulti  nascevano, che  a’ buoni  effetti  clic  quelli  partorivano: e che  non  considerino  come  ei sono  in  ogni  repubblica  duoi  umori  diversi, quello  del  popolo,  c quello  dei grandi  ; c come  tutte  le  leggi  che  si  fanno in  favore  delia  libertà,  nascono  dalla disunione  loro,  come  facilmente  si  può vedere  essere  seguito  in  Roma:  perchè da’ Tarquini  ai  Gracchi,  che  furono  più
di  trecento  anni,  i tumulti  di  Roma  rade volte  partorivano  esilio,  radissime  sangue. Nè  si  possono,  per  tanto,  giudicare questi  tumulti  nocivi,  nè  una  repubblica divisa,  che  in  tanto  tempo  per  le  sue differenze  non  mondò  in  esilio  più  che otto  o dieci  cittadini,  e ne  ammazzò  pochissimi, e non  molti  ancora  condennò in  danari.  Nè  si  può  chiamare  in  alcun modo,  con  ragione,  una  repubblica  inordinata, dove  siano  tanti  esempi  di  virtù; perchè  li  buoni  esempi  nascono  dalla buona  educazione;  la  buona  educazione dalle  buone  leggi  ; e le  buone  leggi  da quelli  tumulti  che  molti  inconsideratamente dannano:  perchè  chi  esaminerò bene  il  fine  d’essi,  non  troverà ch’egliabbino  partorito  alcuno  esilio  o violenza in  disfavore  del  comune  bene,  ma  leggi ed  ordini  in  benefizio  della  pubblica  libertà. E se  alcuno  dicesse  : i modi  erano straordinari,  e quasi  efferati,  vedere  il Popolo  insieme  gridare  contro  il  Senato, il  Senato  contra  il  Popolo,  correre  tumultuariamente per  le  strade,  serrare  le botteghe, partirsi tutta la  Plebe  di  Roma. le  quali  tutte  cose  spaventano,  nonclic  altro,  chi  legge;  dico  come  ogni città  debbe  avere  i suoi  modi,  con  i  quali  il  popolo  possa  sfogare  l’ambizione sua,  e massime  quelle  ciltadi  che uelle  cose  importanti  si  vogliono  valere del  popolo:  intra  le  quali  la  città di  Roma  aveva  questo  modo,  che  quando quel  Popolo  voleva  ottenere  una  legge, o e’  faceva  alcuna  delle  predette  cose, o e’  non  voleva  dare  il  nome  per andare  alla  guerra,  tanto  che  a placarlo bisognava  in  qualche  parte  satisfargli.  E i desiderò  de’  popoli  liberi,  rade  volle sono  perniziosi  alla  libertà,  perchè  e’na- seono  o da  essere  oppressi,  o da  suspizionc  di  avere  a essere  oppressi.  E quando queste  oppinioni  fussero  false,  e’  vi  è il rimedio  delle  concioni,  che  sorga  qualche uomo  da  bene,  che,  orando,  dimostri loro  come  c’  s’  ingannano:  e li  popoli, come  dice  Tullio CICERONE,  benché  siano  ignoranti, sono  capaci  della  verità,  e facilmente cedono,  quando  da  uomo  degno di  fede  è detto  loro  il  vero.  Debbesi, adunque,  più  parcamente  biasimare  il governo  romano,  e considerare  che  tanti buoni  effetti  quanti  uscivano  di  quella repubblica,  non  erano  causati  se  non  da ottime  cagioni.  E se  i tumulti  furono  cagione della  creazione  dei  Tribuni,  meritano somma  laude;  perchè,  oltre  al  dare la  parte  sua  all’ amministrazione  popolare, furono  constituiti  per  guardia  della libertà  romana,  come  nel  seguente  capitolo si  mostrerà. V.  Dove  più  sccurnmentc  si  ponga la  guardia  della  libertà , o nel Popolo  o ne * Grandi  ; c c/uali  hanno maggior  cagione  di  tumultuare , o chi vuole  acquistare  o chi  vuole  mantenere. Quelli  clic  prudentemente  hanno  constituita  una  repubblica,  intra  le  più necessarie  cose  ordinate  da  loro,  è stato constituire  una  guardia  alla  liberta:  e secondo  che  questa  è bene  collocala,dura  più  o meno  quel  vivere  libero.  Eperché  in  ogni  repubblica  sono  uomingrandi  e popolari,  si  è dubitato  nellemani  di  quali  sia  meglio  collocata  dettaguardia.  Ed  appresso  i Lacedemoni,  c,ne’  nostri  tempi,  appresso  de’  Viniziani,la  è stata  messa  nelle  mani  de’  Nobili  ;ma  appresso  de’ Romani  fu  messa  nellemani  della  Plebe.  Per  tanto,  è necessa-rio esaminare,  quale  di  queste  repub-bliche avesse  migliore  elezione.  E se  siandassi  dietro  alle  ragioni,  ci  è chedire  da  ogni  pajte:  ma  se  si  esaminassiil  fine  loro,  si  piglierebbe  la  partede’  Nobili,  per  aver  avuta  la  libertà  diSparla  c di  Vinegia  più  lunga  vita  chequella  di  Roma.  E venendo  alle  ragio-ni, dico,  pigliando  prima  la  parte  de’  Ro-mani, come  e’  si  debbe  mettere  in  guar-dia coloro  d’  una  cosa,  che  hanno  menoappetito  di  usurparla.  E senza  dubbio,se  si  considera  il  fine  de’  nobili  e deiliignobili,  si  vedrà  in  quelli  desideriogrande  di  dominare,  cd  in  questi  solodesiderio  di  non  essere  dominati;  e, perconseguente,  maggiore  volontà  di  vivereliberi,  potendo  meno  sperare  d’ usurparla  che  non  possono  li  granili:  tal-ché, essendo  i popolani  preposti  a guar-dia d’ una  libertà,  ò ragionevole  neabbino più  cura  : e non  la  putendo  occu-pare loro,  non  permettino  clic  altri  laoccupi.  Dall’  altra  parte,  chi  difendel’ordine  sparlano  e veneto,  dice  cliccoloro  che  mettono  la  guardia  in  inanode’  potenti,  fanno  due  opere  buone:I’  una,  che  satisfanno  più  all’  ambizionedi  coloro  che  avendo  più  parte  nellarepubblica,  per  avere  questo  bastone  inmano,  hanno  cagione  di  contentarsi  più;I’  altra,  clic  bevano  una  qualità  di  au-torità dagli  animi  inquieti  della  plebe,che  è cagione  d’ infinite  dissensioni  escandali  in  una  repubblica,  e alta  a ri-durre la  nobiltà  a qualche  disperazio-ne, che  col  tempo  faccia  cattivi  eliciti.E ne  danno  per  esempio  la  medesimaRoma,  che  per  avere  i Tribuni  dellaplebe  questa  autorità  nelle  mani,  nonbastò  loro  aver  un  Consolo  plcbeio,  chegli  vollono  avere  ambedue.  Da questo, c*  voltano  la  Censura,  il  Pretore,  e tuttili  altri  gradi  dell’imperio  della  città:nè  bastò  loro  questo,  chè,  menati  dalmedesimo  furore,  cominciorno  poi,  coltempo,  a adorare  quelli  uomini  che  ve-devano atti  a battere  la  Nobiltà  ; dondenacque  la  potenza  di  Alarlo,  e la  rovinadi  Roma.  E veramente,  chi  discorressebene  I’  una  cosa  c l’ altra,  potrebbestare  dubbio,  quale  da  lui  fusse  elettoper  guardia  tale  di  libertà,  non  sapen-do quale  qualità  d’uomini sia  più  no-civa in una  repubblica,  o quella  ohedesidera  acquistare  quello  che  non  ha,‘ o quella  che  desidera  mantenere  V ono-re già  acquistato.  Ed  in  fine,  chi  sot-tilmente esaminerà  tutto,  ne  farà  que-sta conclusione:  o tu  ragioni  d’  unarepubblica  che  vogli  fare  uno  imperio,come  Roma  ; o d’  una  che  li  basti  man-tenersi. Nel  primo  caso,  gli  è necessa-rio fare  ogni  cosa  come  Roma;  nel  se-condo, può  imitare  Yinegia  e Spartaper  quelle  cagioni,  e come  nel  seguente capitolo  si  dirà.  .Ma,  per  tornare  a di-scorrere quali  uomini  siano  in  una  re-pubblica piu  nocivi,  o quelli  clic  desi-derano d’acquistare,  o quelli  clic  te-mono di  perdere  lo  acquistato;  dicodie,  scudo  fatto  Marco  Meiiennio  ditta-tore, e Marco  Fulvio  maestro  de’ caval-li, tutti  duoi  plebei,  per  ricercare  certecongiure  clic  si  erano  falle  in  Capovaconlro  a Roma,  fu  dato  ancora  loro  au-torità dal  Popolo  di  poter  ricercare  chiin  Roma  per  ambizione  e modi  straor-dinari s’ingegnasse  di  venire  al  con-solato, ed  agli  altri  onori  della  città.  Eparendo  alla  Nobiltà,  che  tale  autoritàfusse  data  al  Dittatore  contro  a lei,sparsero  per  Roma,  clic  non  i nobilierano  quelli  che  cercavano  gli  onoriper  ambizione  e modi  straordinari,  magl’  ignobili,  i quali,  non  confidatisi  nelsangue  e nella  virtù  loro,  cercavano  pervie  straordinarie  venire  a quelli  gradi;e particolarmente  accusavano  il  Ditta-tore. E tanto  fu  potente  questa  accusa, che  Mencnnio,  fatta  una  conclone  c do-lutosi deite  calunnie  dategli  da*  Nobilidepose  la  dittatura,  e sottomessesi  aigiudizio  che  di  lui  fussi  fatto  dal  Po*polo;  c dipoi,  agitala  la  causa  sua,  nefu  assoluto:  dove  si  disputò  assai,  qualesia  più  ambizioso,  o quel  che  vuolemantenere  o quel  che  vuole  acquistare;perchè  facilmente  1*  uno  e V altro  ap-petito può  essere  cagione  di  tumultigrandissimi.  Pur  nondimeno,  il  più  dellevolte  sono  causali  da  chi  possiede,  per-chè la  paura  del  perdere  genera  in  lorole  medesime  voglie  che  sono  in  quelliche  desiderano  acquistare;  perchè  nonpare  agli  uomini  possedere  sicuramente
quello  clic l’uomo  ha,  se  non  si  acqui-sta di  nuovo  dell’  altro.  E di  più  vi  è,che  possedendo  molto,  possono  con  mag-gior potenzia  c maggiore  moto  fare  alterazione. Ed  ancora  vi  è di  più,  che li  loro  scorretti  e ambiziosi  portamenti accendono  ne’  petti  di  chi  non  possiede voglia  di  possedere,  o per  vendicarsi  contro  di  loro  spogliandoli,  o per  potere ancora  loro  entrare  in  quella  ricchezza c in  quelli  onori  clic  veggono essere  male  usati  dagli  altri. VI.  — Se  in  1 ionia  si  poteva  ordinare uno  stalo  che  togliesse  via  le inimicizie  intra il  Popolo  ed  il  Senato. Noi  abbiamo  discorsi  di  sopra  gli  effetti che  facevano  le  controversie  intra il  Popolo  ed  il  Senato.  Ora,  sendo  quelle seguitate  in  fino  al  tempo  de’ Gracchi, dove  furono  cagione  della  rovina  del  vivere libero,  potrebbe  alcuno  desiderare che  Roma  avesse  fatti  gli  effetti  grandi  che la  fece,  senza  che  in  quella  fussino  tali inimicizie.  Però  mi  è parso  cosa  degna  di considerazione,  vedere  se  in  Roma  si  poteva ordinare  uno  stato  che  togliesse  via dette  controversie.  Ed  a volere  esaminare questo,  è necessario  ricorrere  a quelle repubbliche  le  quali  senza  tante  inimicizie c tumulti  sono  state  lungamente  libere,  e vedere  quale  stato  era  il  loro,  e se  si  poteva  introdurre  in  Roma.  In esempio  tra  lì  antichi  ci  è Sparta,  tra i moderni  Yinegia,  state  da  me  di  sopra uominate.  Sparla  fece  uno  Re,  con  unpicciolo  Senato,  che  la  governasse.  Vinegia  non  ha  diviso  il  governo  con  i nomi  ; ma,  sotto  una  appellazione,  lutti quelli  che  possono  avere  amministrazione si  chiamano  Gentiluomini.  Il  quale modo  lo  dette  il  caso,  più  che  la  prudenza di  elùdette  loro  le  leggi:  perchè, sendosi  ridotti  in  su  quegli  scogli  dove è ora  quella  città,  per  le  cagioni  dette di  sopra,  molti  abitatori;  come  furon cresciuti  in  tanto  numero,  che  a volere vivere  insieme  bisognasse  loro  far  leggi, ordinorono  una  forma  di  governo;  c convenendo  spesso  insieme  ne’  consigli  a deliberare  della  città,  quando  parve  loro essere  tanti  che  fussero  a sufficienza  ad un  vivere  politico,  chiusono  la  via  a tutti quelli  altri  che  vi  venissino  ad  abitare di  nuovo,  di  potere  convenire  ne’ loro governi:  e,  col  tempo,  trovandosi  in quel  luogo  assai  abitatori  fuori  del  governo, per  dare  riputazione  a quelli  clic governavano,  gli  chiamarono  Gentiluomini, e gli  altri  Popolani.  Potette  questo modo  nascere  e mantenersi  senza  tumulto, perchè  quando  e’  nacque,  qualunque allora  abitava  in  Vinegia  fu  fatto del  governo,  di  modo  che  nessuno  si  poteva dolere;  quelli  che.  dipoi  vi  vennero ad  abitare,  trovando  lo  Stato  fermo  c terminato,  non  avevano  cagione  nè  comodità di  fare  tumulto.  La  cagione  non y*  era,  perchè  non  era  stato  loro  tolto cosa  alcuna:  la  comodità  non  v’era, perché  chi  reggeva  gli  teneva  in  freno, c non  gli  adoperava  in  cose  dove  e’ potessino  pigliare  autorità.  Oltre  di  questo, quelli  che  dipoi  vennono  ad  abitare Vinegia,  non  sono  stali  molli,  c di  tanto numero,  che  vi  sia  disproporzione  da chi  gli  governa  a loro  che  sono  governati; perchè  il  numero  de’ Gentiluomini o egli  è eguale  a loro,  o egli  è superiore:  sicché,  per  queste  cagioni,  Vinegia  potette  ordinare  quello  Stalo,  e mantenerlo unito.  Sparta,  come  ho  detto,  essendo governata  da  un  Re  c da  una stretto  Senato,  potette  mantenersi  così lungo  tempo,  perchè  essendo  in  Sparta pochi  abitatori,  ed  avendo  tolta  la  via n chi  vi  venisse  ad  abitare,  ed  avendo prese  le  leggi  di  Licurgo  con  reputazione, le  quali  osservando,  levavano via  tutte  le  cagioni  de’  tumulti,  poterono vivere  uniti  lungo  tempo:  perchè Licurgo con le sue leggi fece in  Sparta più  cqualità  di  sustanze,  e meno  equalità  di  grado;  perchè  quivi  era  una eguale  povertà,  ed  i plebei  erano  manco ambiziosi,  perchè  i gradi  della  città  si distendevano  in  pochi  cittadini,  ed  erano tenuti  discosto  dalla  plebe,  uè  gli  nobili col  trattargli  male  dettero  mai  loro  desiderio di  avergli.  Questo  nacque  dai  Re spartani,  i quali  essendo  collocati  in quel  principato  e posti  in  mezzo  diquella  nobiltà,  non  avevano  maggiore  ri-medio  a tenere  fermo  la  loro  degnità,ehc  tenere  la  plebe  difesa  da  ogni  in-giuria : il  che  faceva  che  la  plebe  nontemeva,  c non  desiderava  imperio  ; e nonavendo  imperio  nè  temendo,  era  levatavia  la  gara  che  la  potessi  avere  con  !unobiltà,  c la  cagione  de’ tumulti;  e po-terono vivere  uniti  lungo  tempo.  Ma  duecose  principali  causarono  questa  unione:T una  esser  pochi  gli  abitatori  di  Sparta,e per  questo  poterono  esser  governatida  pochi;  l’altra,  che  non  accettandoforestieri  nella  loro  repubblica,  non  ave-vano occasione  nè  di  corrompersi,  nè  dicrescere  in  tanto  che  la  fusse  insoppor-tabile a quelli  pochi  che  la  governavano.Considerando,  adunque,  tutte  queste  cose ,si  vede  come  a’ legislatori  di  Roma  eranecessario  fare  una  delle  due  cose,  a vo-lere che  Roma  stessi  quieta  come  le  so-praddette repubbliche:  o non  adoperarela  plebe  in  guerra,  corne  i Viniziani;onon  aprire  la  via  a’ forestieri,  come  gliSpartani.  E loro  feceno  1’una  e l’altra; il  che  dette  alla  plebe  forza  ed  augu-mento,  ed  infinite  occasioni  di  tumul-tuare. E se  lo  stato  romano  veniva  adessere  più  quieto,  ne  seguiva  questo  in-conveniente, ch’egli  era  anco  più  debile,perchè  gli  si  troncava  la  via  di  poterevenire  a quella  grandezza  dove  ei  per-venne: in  modo  che  volendo  Roma  le-vare le  cagioni  de’  tumulti,  levava  ancole  cagioni  dello  ampliare.  Ed  in  tutte  lecose  umane  si  vede  questo,  chi  le  esa-minerà bene:  che  non  si  può  mai  can-cellare uno  inconveniente,  che  non  nesurga  un  altro.  Per  tanto,  se  tu  vuoifare  un  popolo  numeroso  ed  armato  perpotere  fare  un  grande  imperio,  lo  faidi  qualità  che  tu  non  lo  puoi  poi  ma-neggiare a tuo  modo:  se  tu  lo  mantienio piccolo  o disarmato  per  potere  ma-neggiarlo, se  egli  acquista  dominio,  nonlo  puoi  tenere,  o diventa  sì  vile,  che  tusei  preda  di  quaiunche  ti  assalta.  E però,in  ogni  nostra  deliberazione  si  debbeconsiderare  dove  sono  meno  inconve-nienti,  c pigliare  quello  per  migliorepartito:  perchè  tutto  netto,  tutto  senzasospetto  non  si  trova  mai.  Poteva,  adun-que, Roma  a similitudine  di  Sparta  fareun  Principe  a vita,  fare  un  Senato  pic-colo; ma  non  poteva,  come  quella,  noncrescere  il  numero  de’  cittadini  suoi,  vo-lendo fare  un  grande  imperio;  il  chefaceva  che  il-  Re  a vita  ed  il  picciol  nu-mero del  Senato,  quanto  alla  unione,  glisarebbe  giovato  poco.  Se  alcuno  volesse,per  tanto,  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  arebbe  a esaminare  se  volessech’ella  ampliasse,  come  Roma,  di  domi-nio e di  potenza,  ovvero  ch’ella  stessedentro  a brevi  termini.  Nel  primo  caso,è necessario  ordinarla  come  Roma,  edare  luogo  a’ tumulti  e alle  dissensioniuniversali,  il  meglio  che  si  può;  perchèsenza  gran  numero  di  uomini,  e benearmati,  non  mai  una  repubblica  potràcrescere,  o se  la  crescerà,  mantenersi.Nel  secondo  caso,  la  puoi  ordinare  comeSparta  c come  Yinegia:  ma  perchè  l’anipitale  è il  veleno  di  simili  repubbliche, tlebbc,  in  tutti  quelli  modi  che  si  può,citi  le  ordina  proibire  loro  lo  acquistare;  perchè  tali  acquisti  fondati  sopra
una  repubblica  debole,  sono  al  tutto  la rovina  sua.  Come  intervenne  a Sparta ed  a Yinegia  : delle  quali  la  prima  avendosi sottomessa  quasi  tutta  la  Grecia, mostrò  in  su  uno  minimo  accidente  il debole  fondamento  suo  ; perchè,  seguita la  ribellione  di  Tebe,  causata  da  Pelopitia,  ribellandosi  V altre  cittadi,  rovinò al  tutto  quella  repubblica.  Similmente Yinegia,  avendo  occupato  gran  parte d’Italia,  e la  maggior  parte  non  con guerra  ma  con  danari  e con  astuzia, come  la  ebbe  a fare  prova  delle  forze sue,  perdette  in  una  giornata  ogni  cosa. Crederei  bene,  che  a fare  una  repubblica che  durasse  lungo  tempo,  fussi  il miglior  modo  ordinarla  dentro  come Sparla  o come  Yinegia  ; porla  in  luogo forte,  e di  tale  potenza,  che  nessuno  cre-desse poterla  subito  opprimere;  e dal-l’altra  parte,  non  fussi  si  grande,  che la  fussi  formidabile  a’  vicini  : c così  potrebbe  lungamente  godersi  il  suo  stato. Perchè,  per  due  cagioni  si  fa  guerra ad  una  repubblica:  Cuna  per  diventarne signore,  l’altra  per  paura  ch’ella non  ti  occupi.  Queste  due  cagioni  il  sopraddetto modo  quasi  in  tutto  toglie  via; perchè,  se  la  è difficile  ad  espugnarsi, come  io  la  presuppongo,  sendo  bene  ordinata alla  difesa,  rade  volte  accadere, o non  mai,  che  uno  possa  fare  disegno d’ acquistarla.  Se  la  si  starà  intra  i termini suoi,  e veggasi  per  esperienza,  che in  lei  non  sia  ambizione,  non  occorrerà mai  che  uno  per  paura  di  sè  gli  faccia guerra  : e tanto  più  sarebbe  questo,  se e’  fusse  in  lei  constituzione  o legge  che le  proibisse  l’ampliare.  E senza  dubbio credo,  clic  polendosi  tenere  la  cosa  bilanciata in  questo  modo,  che  e’ sarebbe il  vero  vivere  politico,  e la  vera  quiete di  una  città.  Ma  scudo  tutte  le  cose  degli uomini  in  moto,  c non  potendo  stare salde,  conviene  che  le  saglino  o clic  le scendino  ; e a molte  cose  che  la  ragione non  t' induce,  t’  induce  lo  necessità:  talmente che,  avendo  ordinata  una  repubblica atta  a mantenersi  non  ampliando, e la  necessità  la  conducesse  ad  ampliare, si  verrebbe  a torre  via  i fondamenti suoi,  ed  a farla  rovinare  più  presto. Così,  dall’altra  parte,  quando  il  Cielo  le fusse  si  benigno,  che  la  non  avesse  a fare  guerra,  ne  nascerebbe  che  l’olio  la farebbe  o effeminata  o divisa;  le  quali due  cose  insieme,  o ciascuna  per  sè, sorebbono  cagione  della  sua  rovina.  Pertanto, non  si  potendo,  come  io  credo, bilanciare  questa  cosa,  nò  mantenere questa  via  del  mezzo  a punto  ; bisogna, nello  ordinare  la  repubblica,  pensare alla  parte  più  onorevole;  ed  ordinaria in  modo,  che  quando  pure  la  necessità la  inducesse  ad  ampliare,  ella  potesse quello  ch’ella  avesse  occupato,  conservare. E,  per  tornare  al  primo  ragionamento, credo  che  sia  necessario  seguire l'ordine  romano,  e non  quello  dell’altre repubbliche;  perchè  trovare  un  modo, mezzo  infra  l’uno  e l’altro,  non  credosi  possa:  e quelle  inimicizie  che  intra  il popolo  ed  il  senato  nascessino,  tollerarle, pigliandole  per  uno  inconveniente necessario  a pervenire  alla  romana  grandezza. Perchè,  oltre  all’ altre  ragioni  allegate dove  si  dimostra  Y autorità  tribun zia  essere  stata  necessaria  per  la  guardia della  libertà,  si  può  facilmente  considerare il  benefizio  che  fa  nelle  repubbliche l’autorità  dello  accusare,  la  quale era  intra  gli  altri  commessa  a’  Tribuni  ; come  nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. VII. Quanto siano necessarie in una  repubblica  le  accuse  per  mante-nere la  libertà.A coloro  che  in  una  città  sono  preposti per  guardia  della  sua  libertà,  non si  può  dare  autorità  più  utile  e necessaria, quanto  è quella  di  potere  accasare  i cittadini  ai  popolo,  o a qualunque magistrato  o consiglio,  quando  che pcccassino  in  alcuna  cosa  contea  allo stato  libero.  Questo  ordine  fa  duoi  effetti utilissimi  ad  una  repubblica.  Il primo  è che  i cittadini,  per  paura  di non  essere  accusati,  non  tentano  cose contro  allo  Stato:  e tentandole,  sono  incontinente e senza  rispetto  oppressi. 1/  altro  è che  si  dà  via  onde  sfogare  a quelli  umori  che  crescono  nelle  citladi, in  qualunque  modo,  contea  a qualunque cittadino:  e quando  questi  umori non  hanno  onde  sfogarsi  ordinariamente, ricorrono  a’  modi  straordinari,  che fanno  rovinare  in  tutto  una  repubblica. G non  è cosa  che  faccia  tanto  stabile  e ferma  una  repubblica,  quanto  ordinare quella  in  modo,  che  l’ alterazione  di questi  umori  che  la  agitano,  abbia  una via  da  sfogarsi  ordinata  dalie  leggi.  Il che  si  può  per  molti  esempi  dimostrare, e massime  per  quello  che  adduce Livio  di CORIOLANO,  dove  ei  dice, che  essendo  irritala  contro  alla  Plebe la  Nobiltà  romana,  per  parerle  che  l Plebe  avesse  troppa  autorità  mediante la  creazione  de’  Tribuni  che  la  difendevano; ed  essendo  Roma,  come  avviene, venuta  in  penuria  grande  di  vettovaglie, ed  avendo  il  Senato  mandato  per grani  in  Sicilia;  Coriolano,  nimico  alla fazione  popolare,  consigliò  come  egli era  venuto  il  tempo  da  potere  gastigare  la  Plebe,  e torte  quella  autorità die  ella  si  aveva  acquistata  c in  pregiudizio della  nobiltà  presa,  tenendola affamata,  c non  li  distribuendo  il  frumento; la  qual  sentenza  sendo  venuta alii  orecchi  del  Popolo,  venne  in  tanta indegnazione  contro  a Coriolano,  che allo  uscire  del  Senato  lo  arebbero  tumultuariamente morto,  se  gli  Tribuni non  1’  avessero  citato  a comparire  a difendere la  causa  sua.  Sopra  il  quale accidente,  si  nota  quello  che  di  sopra si  è detto, #quanto  sia  utile  e necessario che  le  repubbliche,  con  le  leggi  loro, diano  onde  sfogarsi  oli’  ira  clic  concepc la  universalità  contra  a uno  cittadino; perchè  quando  questi  modi  ordinari  non vi  siano,  si  ricorre  agli  estraordinari; c senza  dubbio  questi  fanno  molto  peggiori effetti  che  non  fanno  quelli.  Perchè, se  ordinariamente  uno  cittadino  è oppresso,  ancora  che  li  fusse  fatto  torto, ne  seguita  o poco  o nessuno  disordine in  la  repubblica:  perchè  la  esecuzione si  fa  senza  forze  private,  e senza forze  forestiere,  che  sono  quelle  che rovinano  il  vivere  libero;  ma  si  fa  con forze  ed  ordini  pubblici,  che  hanno  i termini  loro  particolari,  nè  trascendono a cosa  che  rovini  la  repubblica.  E quanto a corroborare  questa  oppinione  con gli  esempi,  voglio  che  degli  antichi  mi basti  questo  di  Coriolano;  sopra  il  quale ciascuno  consideri,  quanto  male  saria resultato  alla  repubblica  romana,  se tumultuariamente  ci  fussi  stato  morto; perchè  ne  nasceva  offesa  ila  privati  a privati,  la  quale  offesa  genera  paura; la  paura  cerca  difesa;  per  la  difesa  si procacciano  i partigiani;  dai  partigiani nascono  le  parti  nelle  cittadi;  dalle parti  la  rovina  di  quelle.  Ma  sendosi governata  la  cosa  mediante  chi  ne  aveva autorità,  si  vennero  a tór  via  tutti quelli  mali  che  ne  potevano  nascere  governandola con  autorità  privata.  Noi avemo  visto  ne’  nostri  tempi,  quale  novità ha  fatto  alla  repubblica  di  Firenze non  potere  la  moltitudine  sfogare  l’ nniino  suo  ordinariamente  contra  a un  suo cittadino;  come  accadde  nel  tempo  di VALORI,  clic  era  come  principe della  città  : il  quale  essendo  giudicalo ambizioso  da  molti,  e uomo  che volesse  con  la  sua  audacia  e animosità trascendere  il  vivere  civile;  e non  essendo nella  repubblica  via  a poterli  resistere se  non  con  una  setta  contraria
alla  sua  ; ne  nacque  che  non  avendo paura  quello,  se  non  di  modi  straordinari, si  cominciò  a fare  fautori  che  lo difendessino;  dall’  altra  parte,  quelli  clic lo  oppugnavano  non  avendo  via  ordinaria a reprimerlo,  pensarono  alle  vie straordinarie  : intanto  che  si  venne  alle armi.  E dove,  quando  per  l’ordinario si  fusse  potuto  opporseli,  sarebbe  la  sua autorità  spenta  con  suo  danno  solo; avendosi  a spegnere  per  lo  straordinario, seguì  con  danno  non  solamente suo,  ma  di  molti  altri  nobili  cittadini. Potrebbesi  ancora  allegare,  a fortificazione della  soprascritta  conclusione, l’ accidente  seguito  pur  in  Firenze  sopra SODERINI;  il  quale  al  tutto segui  per  non  essere  in  quella  Repubblica alcuno  modo  di  accuse  contra  alla ambizione  de’ potenti  cittadini:  perchè lo  accusare  un  potente  a otto  giudici in  una  repubblica,  non  basta  : bisogna che  i giudici  siano  assai,  perchè  pochi sempre  fanno  a modo  de’  pochi.  Tanfo che,  se  tali  modi  vi  fussono  stati,  o icittadini  lo  arebbono  accusato,  vivendo egli  male;  e per  tal  mezzo,  senza  far venire  l’ esercito  spagnuolo,  arebbono sfogato  l’animo  loro:  o non  vivendo male,  non  arebbono  avuto  ardire  operarli contra,  per  paura  di  non  essere accusati  essi  : e cosi  sarebbe  da  ogni parte  cessato  quello  appetito  che  fu  cagione di  scandalo.  Tanto  che  si  può concludere  questo,  che  qualunque  volta si  vede  che  le  forze  esterne  siano  chiamate da  una  parte  d’ uomini  che  vivono in  una  città,  si  può  credere  nasca da’  cattivi  ordini  di  quella,  per  non esser  dentro  a quello  cerchio,  ordine da  potere  senza  modi  islraordinari  sfogare i maligni  umori  che  nascono  nelli uomini:  a che  si  provvede  al  tutto  con ordinarvi  le  accuse  alii  assai  giudici,  e dare  riputazione  a quelle.  Li  quali  modi furono  in  Roma  sì  bene  ordinati,  che in  tante  dissensioni  della  Plebe  e del Senato,  mai  o il  Senato  o la  Plebe  o alcuno  particolare  cittadino  non  disegnò valersi  di  forze  esterne;  perche avendo  il  rimedio  in  casa,  non  erano necessitati  andare  per  quello  fuori.  E benché  gli  esempi  soprascritti  siano  assai sufficienti  a provarlo,  nondimeno ne  voglio  addurre  un  altro,  recitato  da L.  nella  sua  istoria:  il  quale riferisce  come,  scudo  stato  in  Chiusi, città  in  quelli  tempi  nobilissima  in  TOSCANA, da  uno  Lucumone  violata  una sorella  di  Aruntc,  c non  potendo  Arunte vendicarsi  per  la  potenia  del  violatore, se  n'andò  a trovare  i Franciosi,  che  allora regnavano  in  quello  luogo  che  oggi si  chiama  Lombardia;  e quelli  confortò a venire  con  annata  mano  a Chiusi, mostrando  loro  come  con  loro  utile  lo potevano  vendicare  della  ingiuria  ricevuta : che  se  Arunte  avesse  veduto  potersi vendicare  con  i modi  della  città, non  arebbe  cerco  le  forre  barbare.  Ma come  queste  accuse  sono  utili  in  una repubblica,  così  sono  inutili  e dannose le  calunnie  ; come  nel  capitolo  seguente discorreremo. Vili.  — Quanto  le  accuse  sono utili  alle  repubbliche,  tanto  sono  perniziose  le  calunnie.Non  ostante  che  la  virtù  di Cnmmillo,  poi  ch’egli  ebbe  libera  Roma dalla  oppressione  de’ Franciosi,  avesse fatto  che  tutti  i cittadini  romani, parer  loro  tòrsi  reputazione  o cedevano  a quello;  nondimeno  MAULIO Capitolino  non  poteva  sopportare  chegli  fusse  attribuito  tanto  onore  e tanta gloria;  parendogli,  quanto  alla  salute di  Roma,  per  avere  salvato  il  Campidoglio, aver  meritato  quanto  CAMMILLO; c quanto  all’  altre  belliche  laudi,  non essere  inferiore  a lui.  Di  modo  che,  carico d’  invidia,  non  potendo  quietarsi per  la  gloria  di  quello,  c veggendo  non potere  seminare  discordia  infra  i Padri, si  volse  alla  Plebe,  seminando  varie oppinioni  sinistre  intra  quelfb.  E intra V altre  cose  che  diceva,  era  come  il  tc-
soro  il  quale  si  era  adunato  insieme per  dare  ai  Franciosi,  e poi  non  dato loro,  era  stato  usurpalo  da  privati cittadini  ; e quando  si  riavesse,  si  poteva convertirlo  in  pubblica  utilità,  alleggerendo la  Plebe  da’  tributi,  o da qualche  privato  debito.  Queste  parole poterono  assai  nella  Plebe;  talché  cominciò avere  concorso,  ed  a fare  u sua  posta  tumulti  assai  nella  città:  la qual  cosa  dispiacendo  al  Senato,  e parendogli di  momento  e pericolosa,  creò uno  Dittatore,  perchè  ei  riconoscesse questo  caso,  e frenasse  lo  impeto  di MANLIO.  Onde  che  subito  il  Dittatore  lo fece  citare,  e eondussonsi  in  pubblico all’incontro  l’uno  dell’altro;  il  Dittatore in  mezzo  de’  Nobili,  e MANLIO  in mezzo  della  Plebe.  Fu  domandato  Manlio che  dovesse  dire,  appresso  a chi  fusse questo  tesoro  che  ei  diceva,  perchè  ne era  cosi  desideroso  il  Senato  d’ intenderlo come  la  Plebe:  a che  MANLIO  non rispondeva  particularmenfe;  ma,  andando  fuggendo,  diceva  come  non  era
necessario  dire  loro  quello  die  e’  si  sapevano: tanto  che  il  Dittatore  lo  fece mettere  in  carcere.  È da  notare  per questo  testo,  quanto  siano  nelle  città libere,  ed  in  ogni  altro  modo  di  vivere, detestabili  le  calunnie;  e come  per  reprimerle, si  debbe  non  perdonare  a ordine alcuno  che  vi  faccia  a proposito. Nè  può  essere  migliore  ordine  a torle via,  che  aprire  assai  luoghi  alle  accuse; perchè  quanto  le  accuse  giovano alle  repubbliche,  tanto  le  calunnie  nuocono:  e dall’ altra  parte  è questa  differenza, che  le  calunnie  non  hanno  bisogno di  testimone,  nè  di  alcuno  altro particulare  riscontro  a provarle,  in  modo che  ciascuno  da  ciascuno  può  essere calunniato;  ma  non  può  già  essere  accusato, avendo  le  accuse  bisogno  di  riscontri veri,  e di  circostanze,  che  mostrino la  verità  dell’  accusa.  Accusatisi gli  uomini  a’  magistrati,  a’ popoli,  a’ consigli ; calunniatisi  per  le  piazze  è per  le logge.  Usasi  più  questa  calunnia  dove si  usa  meno  1’  accusa,  c dove  le  città sono  meno  ordinate  a riceverle*  Però, uno  ordinatore  d’  una  repubblica  debbe ordinare  che  si  possa  in  quella  accusare ogni  cittadino,  senza  alcuna  paura o senza  alcuno  sospetto;  e fatto  questo e bene  osservato,  debbe  punire  aeremente  i calunniatori:  i quali  non  si possono  dolere  quando  siano  puniti, avendo  i luoghi  aperti  a udire  le  accuse di  colui  che  gli  avesse  per  le  logge calunniato.  E dove  non  è bene  ordinata questa  parte,  seguitano  sempre  disordini grandi  : perchè  le  calunnie  irritano, c non  castigano  i cittadini;  e gli irritali  pensano  di  valersi,  odiando  più presto,  che  temendo  le  cose  che  si  dicono contea  a loro.  Questa  parte,  come è detto,  era  bene  ordinata  in  Roma  ; ed  è stata  sempre  male  ordinala  nella nostra  città  di  FIRENZE.  E come  a Roma questo  ordine  fece  molto  bene,  a FIRENZE questo  disordine  fece  molto  male.
E chi  legge  le  istorie  di  questa  città, vedrà  quante  calunnie  sono  state  in ogni  tempo  date  a’  suoi  cittadini  che  si sono  adoperati  nelle  cose  importanti  di quella.  Dell’  uno  dicevano,  ch’egli  aveva rubati  danari  al  comune;  dell’  altro,  che non  aveva  vinto  una  impresa  per  essere stato  corrotto;  e che  quell’  altro per  sua  ambizione  aveva  fatto  il  tale  e tale  inconveniente.  Del  che  ne  nasceva che  da  ogni  parte  ne  surgeva  odio  : donde  si  veniva  alla  divisione;  dalla  di- visione alle  sètte;  dalle  sètte  alla  rovina. Che  se  fusse  stato  in  Firenze  ordine d’  accusare  i cittadini,  c punire  i calunniatori,  non  seguivano  infiniti  scandali che  sono  seguiti:  perchè  quelli  cittadini, o condennati  o assoluti  che  russino, non  arebbono  potuto  nuocere  alla città;  e sarebbono  stati  accusati  meno assai  clic  non  ne  erano  calunniali,  non si  potendo,  come  ho  detto,  accusare come  calunniare  ciascuno.  Ed  intra  l’ altre cose  di  clic  si  è valuto  alcuno  citadino  per  ventre  alla  grandezza  sua, sono  state  queste  calunnie:  le  quali  venendo conira  a’  cittadini  potenti  che allo  appetito  suo  si  opponevano,  facevano assai  per  quello;  perchè,  pigliando la  parte  del  Popolo,  e confirmandolo nella  mala  oppiatone  eh’  egli  aveva  di loro,  se  lo  fece  amico.  E benché  se  ne potesse  addurre  assai  esempi,  voglio essere  contento  solo  d’  uno.  Era  lo  esercito fiorentino  a campo  a Lucca,  coman- dato da  GUICCIARDINI (si veda), commissario  di  quello.  Vollono  o i cattivi suoi  governi,  o la  cattiva  sua  fortuna, che  Ja  espugnazione  di  quella città  non  seguisse.  Pur,  comunque  il caso  stesse,  ne  fu  incolpato  inesser  Giovanni, dicendo  com’  egli  era  stato  corrotto da’  Lucchesi:  la  quale  calunnia sendo  favorita  da’  nimici  suoi,  condusse messer  Giovanni  quasi  in  ultima  disperazione. E benché,  per  giustificarsi,  ei si  volessi  mettere  nelle  mani  del  Capitano; nondimeno  non  si  potette  mai
giustificare,  per  non  essere  modi  in quella  repubblica  da  poterlo  fare.  Di che  ne  nacque  assai  sdegno  intra  li amici  di  messer  Giovanni,  che  erano  la maggior  parte  delli  uomini  Grandi,  ed infra  coloro  che  desideravano  fare  novità in  Firenze.  La  qual  cosa,  e per queste  e per  altre  simili  cagioni,  tanto crebbe,  che  ne  seguì  la  rovina  di  quella repubblica.  Era  dunque  MANLIO  Capitolino calunniatore,  e non  accusatore*,  ed i Romani  mostrarono  in  questo  caso appunto,  come  i calunniatori  si  debbono punire.  Perchè  si  debbe  fargli  diventare accusatori;  e quando  1’  accusa  si  riscon- tri vera,  o premiarli,  o non  punirli  : ma  quando  la  non  si  riscontri  vera Uf»5  IX. Come  egli  è necessario  esser solo  a volere  ordinare  una  repubblica di  nuovo , o al  lutto  fuori  delti  antichi suoi  ordini  riformarla.
 E’ porrà  forse  ad  alcuno,-  che  io  sia troppo  trascorso  dentro  nella  istoria  romana, non  avendo  fatto  alcuna  menzione ancora  degli  ordinatori  di  quella  Repubblica, nè  di  quelli  ordini  che  o alla  religione o alla  milizia  riguardassero.  E però,  non  volendo  tenere  più  sospesi  gli animi  di  coloro  che  sopra  questu  parte volessino  intendere  alcune  cose;  dico, come  molti  per  avventura  giudicheranno di  cattivo  esempio,  che  uno  fondatore d’  un  vivere  civile,  quale  è  ROMOLO,  abbia prima  morto  un  suo  fratello,  dipoi consentito  alla  morte  di  Tito  TAZIO Sabino, eletto  da  lui  compagno  nel  regno; giudicando  per  questo,  che  gli  suoi  cittadini potessero  con  T autorità  del  loro principe,  per  ambizione  e desiderio  di comandare,  offendere  quelli  che  alla  loro autorità  si  opponessino.  La  quale  oppinionc  sarebbe  vera,  quando  non  si  considerasse che  line  l’avesse  indotto  a fare lai  OMICIDIO. E debbesi  pigliare  questo per  una  regola  generale:  clic  non  mai  o di  rado  occorre  che  alcuna  repubblica o regno  sia  da  principio  ordinato  bene,  o al  tutto  di  nuovo  fuori  delti  ordini  vecchi riformato,  se  non  è ordinato  da  uno;  anzi è necessario  che  uno  solo  sia  quello  clic dia  il  modo,  e dalla  cui  mente  dependa qualunque  simile  ordinazione.  Però,  uno prudente  ordinatore  d’ una  repubblica,  e che  abbia  questo  animo  di  volere  giovare non  a sé  ma  al  BENE COMUNE,  non alla  sua  propria  successione  ma  alla  comune patria,  debbe  ingegnarsi  di  avere l’autorità  solo;  nè  mai  uno  ingegno  savio riprenderà  alcuno  di  alcuna  azione istraordinaria,  che  per  ordinare  un  regno o constituire  una  repubblica  usasse. Conviene  bene,  che,  accusandolo  il  fallo, lo  effetto  lo  scusi  ; e quando  sia  buono,
come  quello  di  ROMOLO,  sempre  lo  scuserà: perchè  colui  che  è violento  per guastare,  non  quello  che  è per  racconciare, si  debbe  riprendere.  Debbe  bene in  tanto  esser  prudente  e virtuoso,  che quella  autorità  che  si  ha  presa,  non  la lasci  ereditaria  ad  un  altro  : perchè,  essendo gli  uomini  più  proni  al  male  che al  bene,  potrebbe  il  suo  successore  usare ambiziosamente  quello  che  da  lui  virtuosamente fusse  stato  usato.  Oltre  di questo,  se  uno  è atto  ad  ordinare,  uoti è la  cosa  ordinata  per  durare  molto, quando  la  rimanga  sopra  le  spalle  d’  uno; ma  si  bene,  quando  la  rimane  alla  cura di  molti,  e che  a molti  stia  il  mantenerla. Perchè,  cosi  come  molti  non  sono atti  ad  ordinare  una  cosa,  per  non  conoscere il  bene  di  quella,  causato  dalle diverse  oppinioni  che  sono  fra  loro; cosi  conosciuto  che  lo  hanno,  non  si accordano  a lasciarlo.  E che  ROMOLO fusse  di  quelli  che  NELLA MORTE DEL FRATELLO e del  compagno  meritasse  scusa; e che  quello  che  fece,  fusse  per  IL BENE COMUNE,  e non  per  ambizione  propria  ; lo  dimostra  lo  avere  quello  subito  ordinato uno  Senato,  con  il  quale  si  consigliasse, e secondo  l’oppinione  del  quale deliberasse.  E chi  considera  bene  P autorità che  ROMOLO  si  riserbò,  vedrà  non se  ne  essere  riserbata  alcun’  altra  che comandare  alli  eserciti  quando  si  era deliberata  la  guerra,  e di  ragunare  il Senato.  Il  che  si  vide  poi,  quando  Roma divenne  libera  per  la  cacciata  de’  Tarquini;  dove  da’  Romani  non  fu  innovato alcun  ordine  dello  antico,  se  non che  in  luogo  d’  uno  Re  perpetuo,  fussero  duoi  Consoli  annuali;  il  che  testifica, tutti  gli  ordini  primi  di  quella città  essere  stati  più  conformi  ad  uno vivere  civile  e libero,  che  ad  uno  assoluto e tirannico.  Polrebbesi  dare  in corroborazione  delle  cose  sopraddette infiniti  esempi;  come  Licurgo, Solonc,  ed  nitri  fondatori  di  regni  e di repubbliche,  i quali  poterono,  per  aversi attribuito  un’  autorità,  formare  leggi  a proposito  del  bene  comune;  ma  gli  voglio lasciare  indietro,  come  cosa  nota. Addurronne  solamente  • uno,  non  si  celebre,  ma  da  considerarsi  per  coloro che  desiderassero  essere  di  buone  leggi ordinatori:  il  quale  è,  che  desiderando Agide  re  di  Sparta  ridurre  gli  Spartani intra  quelli  termini  che  le  leggi  di Mcurgo  gli  avessero  rinchiusi,  parendoli che  per  esserne  in  parte  deviati, la  sua  città  avesse  perduto  assai  di quella  antica  virtù,  e,  per  conseguente, di  forze  e d’ imperio  ; fu  ne'  suoi  primi
principii  ammazzato  dalli  Efori  spartani, come  uomo  che  volesse  occupare  la tirannide.  .Ma  succedendo  dopo  lui  . nel regno  Cleomene  c nascendogli  il  medesimo desiderio  per  gli  ricordi  e scritti eh’  egli  aveva  trovati  di  Agide,  dove  si vedeva  quale  era  la  mente  ed  intenzione sua,  conobbe  non  potere  fare  questo bene  alla  sua  patria  se  non  diventava solo  di  autorità;  parendogli,  per  1*  arabizione  degli  uomini,  non  potere  fare utile  a molti  contra  alla  voglia  di  pochi:  e presa  occasione  conveniente,  fece ammazzare  tutti  gli  Efori,  e qualunque altro  gli  potesse  contrastare  ; dipoi  rinnovò in  tutto  le  leggi  di  Licurgo.  La quale  deliberazione  era  atta  a fare  risuscitare Sparta,  e dare  a Clcomcne quella  reputazione  che  ebbe  Licurgo, se  non  fussc  stato  la  potenza  de’  Macedoni e la  debolezza  delle  altre  repubbliche greche.  Perchè,  essendo  dopo tale  ordine  assaltato  da’  Macedoni,  e trovandosi per  sè  stesso  inferiore  di  forze, c non  avendo  a chi  rifuggire,  fu vinto;  e restò  quel  suo  disegno,  quantunque giusto  e laudabile,  imperfetto. Considerato  adunque  tutte  queste  cose, conchiudo,  come  a ordinare  una  repubblica è necessario  essere  solo;  c ROMOLO per  LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa,  e non  biasmo. X.  — Quanto  sono  laudabili  * fondatori d*  una  repubblica  o dJ  uno  regno, tanto  quelli  dJ  una  tirannide sono  vituperabili. Intra  tutti  gli  uomini  laudati,  sono  i laudatissimi  quelli  die  sono  stati  capi e ordinatori  delle  religioni.  Appresso dipoi,  quelli  che  hanno  fondato  o repubbliche o regni.  Dopo  costoro,  sono celebri  quelli  che,  preposti  alti  esercìti,  hanno  ampliato  o il  regno  loro,  o quello  della  patria.  A questi  si  aggiungono gli  uomini  iilterati;  e perchè  questi  sono  di  più  ragioni,  sono  celebrati ciascuno  d’ essi  secondo  il  grado  suo. A qualunque  altro  uomo,  il  numero de’  quali  è infinito,  si  attribuisce  quut* che  parte  di  laude,  la  quale  gli  arreca l’ arte  e V esercizio  suo.  Sono,  per  lo contrario,  infumi  e detestabili  gli  uomini destruttori  delle  religioni,  dissipatori de’  regni  e delie  repubbliche,  ini-
mici  delle  virtù,  delle  lettere,  e d'ogni altra  arte  che  arrechi  utilità  ed  onore alla  umana  generazione;  come  sono  gli empii  e violenti,  gl*  ignoranti,  gli  oziosi, i vili,  e i dappochi.  E nessuno  sarà mai  sì  pazzo  o si  savio,  si  tristo  o si buono,  che,  propostogli  la  elezione  delle due  qualità  d’  uomini,  non  laudi  quella che  è da  laudare,  e Biasini  quella  che  è da  biasmare:  nientedimeno,  dipoi,  quasi tutti,  ingannati  da  un  falso  bene  e da una  falsa  gloria,  si  lasciano  andare, o voluntariamente  o ignorantemente, ne’ gradi  di  coloro  che  meritano  più  biasimo che  laude;  c potendo  fare,  con perpetuo  loro  onore,  o una  repubblica o un  regno,  si  volgono  alla  tirannide: nè  si  avveggono  per  questo  partito quanta  fama,  quanta  gloria,  quanto  onore, sicurtà,  quiete,  con  satisfazione  d’animo, e’fuggono;  e in  quanta  infamia, vituperio,  biasimo,  pericolo  e inquietudine incorrono.  Ed  è impossibile  che quelli  che  in  stato  privato  vivono  in  una repubblica,  o che  per  fortuna  o virtù ne  diventano  principi,  se  leggcssino l’ istorie,  e delle  memorie  delle  antiche cose  facessino  capitale,  che  non  volessero  quelli  tali  privati,  vivere  nella loro  patria  piuttosto  Soipioni  che  Cesari; e quelli  che  sono  principi,  piuttosto Agesilai,  Timolconi  e Dioni,  clic Nabidi,  Falari  e Dionisi  : perchè  vedrebbono  questi  essere  sommamente  vituperati, e quelli  eccessivamente  laudati. Vedrebbono  ancora  come  Timoleone  e gli  altri  non  ebbero  nella  patria  loro meno  autorità  che  si  avessiuo  Dionisio e Falari;  ma  vedrebbono  di  lungo  avervi avuto  più  sicurtà.  Nè  sia  alcuno  che  si inganni  per  la  gloria  di  Cesare,  sentendolo, massime,  celebrare  dagli  scrittori: perchè  questi  che  lo  laudano,  sono  corrotti dalla  fortuna  sua,  e spauriti  dalla lunghezza  dello  imperio,  il  quale  reggendosi sotto  quel  nome,  non  permetteva che  gli  scrittori  parlassero  liberamente  di  lui.  Ma  chi  vuole  conoscere quello  che  gli  scrittori  liberi  ne  direbbono,  vegga  quello  che  dicono  di  CATILINA. E tanto  è più  detestabile  GIULIO (si veda) CESARE , quanto  più  è da  biasimare  quello  che ha  fatto,  che  quello  che  ha  voluto  fare un  inule.  Vegga  ancora  con  quante  laudi celebrano  BRUTO (si veda);  talché,  non  potendo  biasimare  quello  per  la  sua  potenza,  e’ celebrano il  nemico  suo.  Consideri  ancora quello  eh’  è diventato  principe  in  una
repubblica,  quante  laudi,  poiché  ROMA fu  diventata  imperio,  meritarono  più quelli  imperadori  che  vissero  sotto  le leggi  e come  principi  buoni,  che  quelli che  vissero  al  contrario:  e vedrà  come a Tito,  Nerva,  Traiano,  ADRIANO,  Antonino e Marco,  non  erano  necessari  i soldati pretoriani  nè  la  moltitudine  delle legioni  a difenderli,  perchè  i costumi L loro,  la  benivolenza  del  Popolo,  lo  amore i del  Senato  gli  difendeva.  Vedrà  ancora come  a Caligola,  Nerone,  Vitellio,  ed  a tanti  altri  scellerati  imperadori,  non  bastarono gli  eserciti  orientali  ed  occidenItili  a salvarli  conira  a quelli  nemici,  che li  loro  rei  costumi,  la  loro  malvagia  vita aveva  loro  generati.  E se  la  istoria  di costoro  fusse  ben  considerata,  sarebbe assai  ammaestramento  a qualunque  priucipe,  a mostrargli  la  via  della  gloria  o del  biasmo,  e della  sicurtà  o del  timore suo.  Perchè,  di  ventisei  imperadori  che furono  da  Cesare  a Massimiuo,  sedici  ne furono  ammazzati,  dicci  morirono  ordinariamente; c se  di  quelli  che  furono morti  ve  ne  fu  alcuno  buono,  come Galba  e Pertinace,  fu  morto  da  quella corruzione  che  lo  antecessore  suo  aveva lasciata  nc’ soldati.  E se  tra  quelli  che morirono  ordinariamente  ve  ne  fu  alcuno scellerato, nome  Severo,  nacque  da una  sua  grandissima  fortuna  e virtù  ; le quali  due  cose  pochi  uomini  accompagnano. Vedrà  ancora,  per  la  lezione  di questa  istoria,  come  si  può  ordinare  un regno  buono:  perchè  tutti  gl' imperadori che  succederono  all*  imperio  per  eredità, eccetto  Tito,  furono  cattivi  ; quelli  che  per
adozione, furono  tutti  buoni,  come  furono quei  cinque  da  Nervo  a Marco:  e come P imperio  cadde  negli  eredi,  ei  ritornò nella  sua  rovina.  Pongasi,  adunque,  innanzi un  principe  i tempi  da  Nerva  a Marco,  e conferiscagli  con  quelli  che erano  stati  prima  e che  furono  poi;  edipoi  elegga  in  quali  volesse  essere  nato,o a quali  volesse  essere  preposto.  Per-chè in  quelli  governali  da’ buoni,  vedràun  principe  sicuro  in  mezzo  de’ suoi  si-curi cittadini,  ripieno  di  pace  e di  giu-stizia il  mondo:  vedrà  il  Senato  con  lasua  autorità,  i magistrati  con  i suoi  ono-ri ; godersi  i cittadini  ricchi  le  loro  ric-chezze ; la  nobiltà  c la  virtù  esaltata  :vedrà  ogni  quiete  ed  ogni  bene;  e,  dal-l’altra parte,  ogni  rancore,  ogni  licenza,corruzione  e ambizione  spenta:  vedrà  itempi  aurei,  dove  ciascuno  può  tenere  edifendere  quella  oppinione  che  vuole.  Ve-drà, in  fine,  trionfare  il  mondo;  pienodi  riverenza  e di  gloria  il  principe,d’  amore  e di  sveurilà  i popoli.  Se  con-sidererà,  dipoi,  tritamente  i tempi  deglialtri  imperadori,  gli  vedrà  atroci  per  leguerre,  discordi  per  le  sedizioni,  nellapace  e nella  guerra  crudeli:  tanti  prin-cipi morti  col  ferro,  tante  guerre  civili,tante  esterne  ; P Italia  afflitta,  e piena  dinuovi  infortunii  ; rovinate  e saccheggiatele  città  di  quella.  Vedrà  Roma  arsa,  ilCampidoglio  da’ suoi  cittadini  disfatto,desolati  gli  antichi  templi,  corrotte  lecerimonie,  ripiene  le  città  di  adulterii:vedrà  il  mare  pieno  di  esilii,  gli  scoglipieni  di  sangue.  Vedrà  in  Roma  seguireinnumerabili  crudeltadi  ; e la  nobiltà,  le ricchezze,  gli  onori,  e sopra  tutto  ia  virtùessere  imputata  a peccato  capitale.  Ve-drà premiare  li  accusatori,  essere  corrotti i sèrvi  contro  al  signore,  i liberi contro  al  padrone;  e quelli  a chi  fusscro  mancati  i nemici,  essere  oppressi dagli  amici.  E conoscerà  allora  benissimo quanti  obblighi  Roma,  Italia,  e il mondo  abbia  con  Cesare.  E senza,  dubbio, se  e*  sarà  nato  d’uomo,  si  sbigottirà I da  ogni  imitazione  dei  tempi  cattivi,  c accenderassi  d’uno  immenso  desiderio  di
seguire  i buoni.  E veramente,  cercando un  principe  la  gloria  del  mondo,  doverrebbe  desiderare  di  possedere  una  città corrotta,  non  per  guastarla  in  tutto  come Cesare,  ma  per  riordinarla  come  lloinolo.  E veramente  i cieli  non  possono dare  all i uomini  maggiore  occasione  di gloria,  nè  li  uomini  la  possono  maggiore desiderare.  E se,  a volere  ordinare  bene una  città,  si  avesse  di  necessità  n dcporrc  il  principato,  meriterebbe  quello clic  non  la  ordinasse,  per  non  cadere di  quel  grado,  qualche  scusa:  ma  potendosi tenere  il  principato  ed  ordinarla, non  si  merita  scusa  alcuna.  E in  somma, considerino  quelli  a chi  i cieli  danno tale  occasione,  come  sono  loro  proposte due  vie:  1’  una  che  gli  fa  vivere
sicuri,  e dopo  la  morte  gli  rende  gloriosi ; I’  altra  gli  fa  vivere  in  continove angustie,  e dopo  la  morte  lasciare  di  sè una  sempiterna  infamia. XI.  — Delta  religione  de*  Romani. Ancora  che  Roma  avesse  il  primo  suo ordinatore  ROMOLO,  e che  da  quello  abbia riconoscere  come  figliuola  il  nascimento e la  educazione  sua;  nondimeno, giudicando  i cieli  che  gli  ordini  di  ROMOLO non  bastavano  a tanto  imperio, niessono  nel  petto  del  Senato  romano  di eleggere  NUMA (si veda)  Pompilio  per  SUCCESSORE A ROMOLO,  acciocché  quelle  cose  che  da lui  fossero  state  lasciate  indietro,  fossero da  Numa  ordinate.  II  quale  trovando  un popolo  ferocissimo,  e volendolo  ridurre nelle  ubbidienze  civili  con  le  arti  della pace,  si  volse  alla  religione,  come  oosa al  tutto  necessaria  a volere  mantenere una  civiltà  ; e la  costituì  in  modo,  che per  più  secoli  non  fu  mai  tanto  timore di  Dio  quanto  in  quella  Repubblica  : ilche  facilitò  qualunque  impresa  che  ilSenato  o quelli  grandi  uomini  romanidisegnassero  fare.  E ehi  discorrerà  in-finite  azioni,  e del  popolo  di  Roma  lutto insieme,  e di  molli  de’ Romani  di  per  sé, vedrà  come  quelli  cittadini  temevano  più assai  rompere  il  giuramento  che  le  leggi  ; come  coloro  clic  stimavano  più  la  potenza di  Dio,  che  quella  degli  uomini: come  si  vede  manifestamente  per  gli esempi  di  SCIPIONE  e di  MANLIO TORQUATO. Perchè,  dopo  la  rotta  che  Annibale  aveva dato  a’ Romani  a Canne,  molti  cittadini si  erano  adunati  insieme,  c sbigottiti  e paurosi  si  erano  convenuti  abbandonare l’ITALIA,  e girsene  in  Sicilia:  il  che  sentendo SCIPIONE,  gli  andò  a trovare,  e col  ferro  ignudo  in  mano  gli  costrinse a giurare  di  non  abbandonare  la  patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu  dipoi  chiamato  Torquato,  era  stato accusato  da  MARCO POMPONIO,  Tribuno della  plebe  ; ed  innanzi  che  venissi  il di  del  giudizio,  Tito  andò  a trovare Marco,  e minacciando  d’ ammazzarlo  se non  giurava  di  levare  l’accusa  al  padre, lo  costrinse  al  giuramento  ; e quello,
per  timore  avendo  giurato,  gli  levò  t'accusa. E cosi  quelli  cittadini  i quali l'amore  della  patria  e le  leggi  di  quella non  ritenevano  in  ITALIA,  vi  furon  ritenuti da  un  giuramento  che  furono  forzati a pigliare;  e quel  Tribuno  pose  da parte  l'odio  che  egli  aveva  col  padre, la  ingiuria  che  gli  aveva  fatta  il  figliuolo, c i’  onore  suo,  per  ubbidire  al  giuramento preso:  il  che  non  nacque  da  altro, che  da  quella  religione  che  Numa aveva  introdotta  in  quella  città.  E vedesi,  chi  considera  bene  le  istorie  romane, quanto  serviva  la  religione  a comandare agli  eserciti,  a riunire  la  plebe, a mantenere  gli  uomini  buoni,  a fare vergognare  li  tristi.  Talché,  se  si  avesse a disputare  a quale  principe  Roma  fusse più  obbligata,  o a ROMOLO  o a Numa, credo  più  tosto  Numa  otterrebbe  il  primo grado:  perchè  dove  è religione,  facilmente si  possono  introdurre  l’armi; e dove  sono  l’armi  e non  religione,  con diflìcultà  si  può  introdurre  quella.  E si vede  che  a ROMOLO  per  ordinare  il  Senato, e per  fare  altri  ordini  civili  e militari, non  gli  fu  necessario  dell’ autorità di  Dio;  ma  fu  bene  necessario  a Numa, il  quale  simulò  di  avere  congresso  con una  Ninfa,  la  quale  lo  consigliava  di quello  ch’egli  avesse  a consigliare  il popolo  : e tutto  nasceva  perchè  voleva mettere  ordini  nuovi  ed  inusitati  in quella  città,  e dubitava  che  la  sua  autorità non  bastasse.  G veramente,  mai  non fu  alcuno  ordinatore  di  leggi  straordinarie in  uno  popolo,  che  non  ricorresse a Dio  ; perchè  altrimenlc  non  sarebbero accettate:  perchè  sono  molli  beni  conosciuti da  uno  prudente,  i quali  non hanno  in  sè  ragioni  evidenti  da  potergli persuadere  ad  altri.  Però  gli  uomini savi,  che  vogliono  torre  questa  diflìcultà, ricorrono  a Dio.  Cosi  fece  Licurgo,  cosi Solone,  cosi  molti  altri  che  hanno  avuto il  medesimo  fine  di  loro.  Ammirando, adunque,  il  popolo  romano  la  bontà  e la prudenza  sua,  cedeva  ad  ogni  sua  deliIterazione,  Ben  è vero  che  l’essere  quelli tempi  pieni  di  religione,  e quelli  uomini, con  i quali  egli  aveva  a travagliare, grossi,  gli  detlono  facilità  grande  a conseguire i disegni  suoi,  potendo  imprimere in  loro  facilmente  qualunche  nuova forma.  E senza  dubbio,  ehi  volesse  ne’presenti  tempi  fare  una  repubblica,  più  facilità troverebbe  negli  uomini  montanari, dove  non  è alcuna  civilità,  che  in quelli  che  sono  usi  a vivere  nelle  città, dove  la  civilità  è corrotta:  ed  uno  scultore trarrà  più  facilmente  una  bella  statua d’  uno  marmo  rozzo,  che  d’ uno  male abbozzato  d’altrui.  Considerato  adunque tutto,  conchiudo  che  la  religione introdotta  da  Piuma  fu  intra  le  primecagioni  della  felicità  di  quella  città:  perchè quella  causò  buoni  ordini;  i buoni ordini  fanno  buona  fortuna  ; e dalla buona  fortuna  nacquero  i felici  successi delle  imprese.  E come  la  osservanza  del culto  divino  è cagione  delia  grandezza delle  repubbliche,  cosi  il  dispregio  di
quella  è cagione  della  rovina  d’esse.  Perchè, dove  manca  il  timore  di  Dio,  conviene che  o quel  regno  rovini,  o che sia  sostenuto  dal  timore  d’  un  principe che  supplisca  a’ difetti  della  religione.  E perchè  i principi  sono  di  corta  vita, conviene  che  quel  regno  manchi  presto, secondo  che  manca  la  virtù  d’  esso.  Donde nasce  che  i regni  i quali  dependono solo  dalla  virtù  d’ uno  uomo,  sono  poco durabili,  perchè  quella  virtù  manca  con la  vita  di  quello  ; e rade  volte  accade che  la  sia  rinfrescata  con  la  successione, come  prudentemente  ALIGHIERI (si veda) dice: tt  Rade  volte  risurge  per  li  ramiL'umana  probitade:  e questo  vuoloQuel  che  la  dà,  perchè  da  lui  si  chiami.  „Non  è,  adunque,  la  salute  di  una  repubblica o d’uno  regno  avere  uno  principe che  prudentemente  governi  mentre  vive  ; ma  uno  che  l’ordini  in  modo,  clic,  morendo ancora,  la  si  mantenga.  E benché agli  uomini  rozzi  più  facilmente  si  persuade uno  ordine  o una  oppinione  nuova,  non  è per  questo  impossibile  persuaderla ancora  agli  uomini  civili,  e che si  presumono  non  essere  rozzi.  Al  popolo di  Firenze  non  pare  essere  nè  ignorante nè  rozzo:  nondimeno  da  frate  Girolamo Savonarola  fu  persuaso  che  parlava con  Dio.  lo  non  voglio  giudicare s’egli  era  vero  o no,  perchè  d’ un  tanto uomo  se  ne  debbe  parlare  con  reverenza : ma  io  dico  bene,  che  infiniti  lo credevano,  senza  avere  visto  cosa  nessuna istraordinaria  da  farlo  loro  credere; perchè  la  vita  sua,  la  dottrina,  il soggetto  che  prese,  erano  sufhzienti  a fargli  prestare  fede.  Non  sia,  pertanto, nessuno  che  si  sbigottisca  di  non  potere conseguire  quello  che  è stato  conseguito da  altri  ; perchè  gli  uomini,  come  nella Prefazione  nostra  si  disse,  nacquero, vissero  e morirono  sempre  con  un  medesimo ordine. XIF.  — Di  quanta  importanza  sia tenere  conto  della  religione j e come la  Italia  per  esserne  mancata  mediante la  Chiesa  romana y è rovinata. Quelli  principi,  o quelle  repubbliche, le  quali  si  vogliono  manienere  incorrotte, hanno  sopra  ogni  altra  cosa  a mantenere incorrotte  le  cerimonie  della  religione, e tenerle  sempre  nella  loro venerazione;  perchè  nissuno  maggiore indizio  si  puote  avere  della  rovina  d’una provincia,  che  vedere  dispregiato  il  culto divino.  Questo  è facile  a intendere,  conosciuto che  si  è in  su  che  sia  fondata la  religione  dove  V uomo  è nato;  perchè ogni  religione  ha  il  fondamento  della vita  sua  in  su  qualche  principale  ordine suo.  La  vita  della  religione  gentile  era fondata  sopra  i responsi  delti  oracoli e sopra  la  setta  delli  aridi  e delli aruspici:  tutte  le  altre  loro  cerimonie, sacrifìcii,  riti,  dependevano  da  questi; perchè  loro  facilmente  credevano  che quello  Dio  che  ti  poteva  predire  il  tuo futuro  bene  o il  tuo  futuro  male,  te lo  potessi  ancora  concedere.  Di  qui nascevano  i tempii,  di  qui  i sacrifici!, di  qui  le  supplicazioni,  ed  ogni  altra cerimonia  in  venerarli:  perchè  l’oracolo di  Deio,  il  tempio  di  GIOVE  Aminone,  ed altri  celebri  oracoli,  tenevano  il  mondo in  ammirazione,  e devoto.  Come  costoro cominciarono  dipoi  a parlare  n modo de’  potenti,  e questa  falsità  si  fu  scoperta ne’  popoli,  divennero  gli  uomini increduli,  ed  atti  a perturbare  ogni  ordine  buono.  Debbono,  adunque,  i Principi d’uria  repubblica  o d’un  regno,  i fondamenti  della  religione  che  loro  tengono, mantenerli;  e fatto  questo,  sarà loro  facil  cosa  a mantenere  la  loro  repubblica religiosa,  e,  per  conseguente, buona  ed  unita.  C debbono,  tutte  le cose  che  nascono  in  favore  di  quella, come  che  le  giudicassino  false,  favorirle ed  accrescerle;  e tanto  più  Io  debbonofare,  quanto  più  prudenti  sono,  e quanto più  conoscitori  delle  cose  naturali.  E perchè  questo  modo  c stato  osservato dagli  uomini  savi,  ne  è nata  l’oppinione dei  miracoli,  che  si  celebrano  nelle  religioni eziandio  false:  perchè  i prudenti gli  aumentano,  da  qualunche  principio e’ si  nascano;  e l’autorità  loro  dà  poi a quelli  fede  appresso  a qualunque.  Di questi  miracoli  ne  fu  a Roma  assai;  e intra  gli  altri  fu,  che  saccheggiando  i soldati  romani  la  città  de’ Veienti,  alcuni di  loro  entrarono  nel  tempio  di  Giunone, ed  accostandosi  alla  immagine  di quella,  e dicendole  vis  venire  Romani ,parve  od  alcuno  vedere  che  la  accennasse; ad  alcun  altro,  che  ella  dicesse di  si.  Perchè,  sendo  quelli  uomini  ripieni di  religione  (il  che  dimostra  L.  perchè  nell’entrare  nel  tempio,
vi  entrarono  senza  tumulto,  tutti  devoti e pieni  di  reverenza),  parve  loro  udire quella  risposta  che  alla  domanda  loro per  avventura  si  avevano  presupposta  : la  quale  oppiuione  e credulità,  da  Cammillo  e dagli  altri  principi  della  città  fu ni  tutto  favorita  ed  accresciuta.  La  quale religione  se  ne’ Principi  della  repubblica cristiana  si  fusse  mantenuta,  secondo  che dal  datore  d’ essa  ne  fu  ordinato,  sarebbero gli  stati  e le  repubbliche  cristiane più  unite  e più  felici  assai  ch’elle non  sono.  Nè  si  può  fare  altra  maggiore conieltura  della  declinazione  d’essa, quanto  è vedere  come  quelli  popoli  che sono  più  propinqui  alla  Chiesa  romana, capo  della  religione  nostra,  hanno  meno religione.  E chi  considerasse  i fondamenti suoi,  e vedesse  l’ uso  presente quanto  è diverso  da  quelli,  giudicherebbe esser  propinquo,  senza  dubbio,  o la  rovina  o il  flagello.  E perchè  sono alcuni  d’oppinione,  che  ’l  ben  essere delle  cose  d’ Italia  dipende  dalla  Chiesa di  Roma,  voglio  contro  ad  essa  discorrere quelle  ragioni  che  mi  occorrono  :e ne  allegherò  due  potentissime,  le  quali, secondo  me,  non  hanno  repugnanza.  La, prima  è,  che  per  gli  esempi  rei  di  quella i corte,  questa  provincia  ha  perduto  oguI divozione  ed  ogni  religione:  il  clic  si i lira  dietro  infiniti  inconvenienti  e infi-niti disordini;  perchè,  così  come religione  si  presuppone  ogni  bene, dove  ella  manca  si  presuppone  il  contrario. Abbiamo,  adunque,  con  la  Chiesa e con  i preti  noi  Italiani  questo  primo obbligo,  d’essere  diventati  senza  religione c cattivi:  ma  ne  abbiamo  ancora un  maggiore,  il  quale  è cagione  della rovina  nostra.  Questo  è die  la  Chiesa ha  tenuto  e tiene  questa  nostra  provincia divisa. E veramente,  alcuna  provincia non  fu  mai  unita  o felice,  se  la  non viene  tutta  alla  obedienza  d’  una  repubblica o d’uno  principe,  come  è avvenuto alla  Francia.  E la  cagione che  la  Italia  non  sia  in  quel  medesimo termine,  nè  abbia  aneli’  ella  o una  repubblica  o uno  principe  che  la governi,  è solamente  la  Chiesa  ; perchè, avendovi  abitalo  e tenuto  imperio  temponile,  non  è stata  sì  potente  nè  dì  tal virtù,  che  l'abbia  potuto  occupare  il  restante d’Italia,  e farsene  principe;  e non  è stata,  dall’altra  parte,  si  debile, che,  per  paura  di  non  perder  il  dominio delie  cose  temporali,  la  non  abbi potuto  convocare  uno  potente  che  la  difenda contra  a quello  che  in  Italia  fusse diventato  troppo  potente:  come  si  è veduto anticamente  per  assai  esperienze, quando  mediante  Carlo  Magno  la  ne  cacciò i Lombardi,  eh’ era  no  già  quasi  re di  tutta  Italia;  e quando  ne’ tempi  nostri ella  tolse  la  potenza  a’  Veneziani  con l’aiuto  di  Francia;  dipoi  ne  cacciò  i Franciosi  eoa  l’aiuto  de’ Svizzeri.  Non essendo,  dunque,  stata  la  Chiesa  potente da  potere  occupare  l’ Italia,  nè  avendo permesso  che  un  altro  la  occupi,  è stata cagione  che  la  non  è potuta  venire  sotto un  capo;  ma  è stata  sotto  più  principi e signori,  da’ quali  è nata  tanta  disunione e tanta  debolezza,  che  la  si  è condotta ad  essere  stata  preda,  non  solamelile  di  barbari  polenti,  ma  di  qualunque I*  assalta.  Di  clic  noi  altri  Italiani abbiamo  obbligo  con  la  Chiesa,  c non con  altri.  E chi  ne  volesse  per  esperienza certa  vedere  più  pronta  la  verità,  bisognerebbe che  fusse  di  tanta  potenza,  che mandasse  ad  abitare  la  corte  romana,  con l’autorità  che  l’ha  in  Italia,  in  le  terre de’ Svizzeri;  i quali  oggi  sono  quelli  soli popoli  che  vivono,  e quanto  alla  religione e quanto  agli  ordini  militari,  secondo  gli antichi  : e vedrebbe  che  in  poco  tempo furebbero  più  disordine  in  quella  provincia i costumi  tristi  di  quella  corte, che  qualunchc  altro  accidente  clic  in qualunche  tempo  vi  potessi  surgere. XIII.  — Come  t Romani  si  servirono della  religione  per  ordinare  la città,  e per  seguire  le  loro  imprese  e fermare  i tumulti.Ei  non  mi  pare  fuor  di  proposito  ad-durre alcuno  esempio  dove  i Romani  si
servirono  della  religione  per  riordinare la  cillà,  e per  seguire  l’imprese  loro;  e quantunque  in  L.  ne  siano  molti, nondimeno  voglio  essere  contento  a questi. Avendo  creato  il  Popolo  romano  i Tribuni,  di  potestà  consolare,  e,  fuorché uno,  tutti  plebei;  ed  essendo  occorso quello  anno  peste  c fame,  e venuti  certi prodigii  ; usorono  questa  occasione  i Nobili nella  nuova  creazione  de’  Tribuni, dicendo  che  li  Dii  erano  adirati  per  aver Roma  male  usata  la  maestà  del  suo  imperio, e che  non  era  altro  rimedio  a placare  gli  Dii,  che  ridurre  la  elezione de’ Tribuni  nel  luogo  suo:  di  che  nacque
che  la  Plebe,  sbigottita  da  questa  religione, creò  i Tribuni  tutti  nobili.  Vedesi ancora  nella  espugnazione  della  città de’  Ycienti,  come  i capitani  degli  eserciti si  valevano  della  religione  per  tenergli disposti  ad  una  impresa  : ehè  essendo  il lago  Albano,  quello  anno,  cresciuto  mirabilmente, ed  essendo  i soldati  romani  in fastiditi per  la  lunga  ossidione,  e volendo tornarsene  a Roma,  trovarono  i Romani, come  Apollo  e certi  altri  responsi  dicevano che  quell*  anno  si  espugnerebbe  la  città de’ Veienti,  che  si  derivasse  il  Ingo  Albano  : la  qual  cosa  fece  ai  soldati  sopportare  i fastidi  della  guerra  e della  ossidione, presi  da  questa  speranza  di  espugnare la  terra  ; e stettono  contenti  a seguire  la impresa,  tanto  che  Cammillo  fatto  Dittatore espugnò  detta  città,  dopo  dieci  anni che  l’era  stala  assediata.  E cosi  la  religione, usata  bene,  giovò  e per  la  espugnazione di  quella  città,  e per  la  restituzione dei  Tribuni  nella  Nobiltà:  chè senza  detto  mezzo  difficilmente  si  sarebbe condotto  e l’uno  e l’altro.  Non voglio  mancare  di  addurre  a questo proposito  un  altro  esempio.  Erano  nati in  Roma  assai  tumulti  per  cagione  di Terentillo  Tribuno,  volendo  lui  promulgare certa  legge,  per  le  cagioni  che  di sotto  nel  suo  luogo  si  diranno  ; e tra  i primi  rimedi  che  vi  usò  la  Nobiltà,  fu la  religione:  della  quale  si  servirono  i duo  modi.  Nel  primo  fecero  vedere  i li- bri Sibillini,  e rispondere,  come  alla città,  mediante  la  civile  sedizione,  soprastavano quello  anno  pericoli  di  non  perdere la  libertà  : la  qual  cosa,  ancora  che fusse  scoperta  da’ Tribuni,  nondimeno messe  tanto  terrore  ne*  petti  della  plebe, che  la  raffreddò  nel  seguirli.  L’altro modo  fu,  che  avendo  uno  APPIO ERDONIO,  con  una  moltitudine  di  sbanditi  e di  servi,  in  numero  di  quattromila  uomini, occupato  di  notte  il  Campidoglio, in  tanto  che  si  poteva  temere,  che  se gli  Equi  ed  i Volsci,  perpetui  nemici  al nome  romano,  ne  fossero  venuti  a Roma, la  arebbono  espugnata  ; e non  cessando i Tribuni  per  questo  di  insistere nella  pertinacia  loro  di  promulgare  la legge  Terentilla,  dicendo  che  quello  in- sulto era  fittizio  c non  vero:  uscì  fuori del  Senato  uno  Publio  Rubezio,  cittadino grave  e di  autorità,  con  parole  parte amorevoli,  parte  minacciatiti,  mostrandoli i pericoli  della  città,  e la  intempestiva  domanda  loro;  tanto  che  e’ constrinse la  Plebe  a giurare  di  non  si  partire dalla  voglia  del  Consolo:  onde  che la  Plebe  obediente,  per  forza  ricuperò il  Campidoglio.  Ma  essendo  in  tale  espu-gnazione morto  Publio  Valerio  consolo, subito  fu  rifatto  consolo  Tito  Quinzio;  il quale  per  non  lasciare  riposare  la  Plebe, nè  darle  spazio  a ripensare  alla  legge  Terentilla,  le  comandò  s’  uscissi  di  Roma per  andare  contra  a’  Volsci,  dicendo  che per  quel  giuramento  aveva  fatto  di  non abbandonare  il  Consolo,  era  obbligata  a seguirlo:  a che  i Tribuni  si  opponevano, dicendo  come  quel  giuramento s’era  dato  al  Consolo  morto,  e non  a lui.  Nondimeno  L.  mostra,  come la  Plebe  per  paura  della  religione  volle più  presto  obedire  al  Consolo,  che  credere a’ Tribuni;  dicendo  in  favore  della antica  religione  queste  parole:  Nondum htiDPj  quce  nunc  tenet  sceculum,  negligcntict  Dcùm  venerai , nec  interpretando sibi  quisque  jasjurandum  et  legcs  aplas■ a La  *faciebal.  Per  la  qual  cosa  dubitando  i Tribuni  di  non  perdere  allora  tutta  la lor  degnila,  si  accordarono  col  Consolo di  stare  alla  obedienza  di  quello;  e che per  uno  anno  non  si  ragionasse  della legge  Terentilla,  ed  i Consoli  per  uno anno  non  potessero  trarre  fuori  la  Plebe alla  guerra.  E cosi  la  religione  fece  al Senato  vincere  quella  diffìcultà,  che  senza essa  mai  non  arebbe  vinto. XIV.  I Romani  interpretavano gli  auspicii  secondo  la  necessità , con  la  prudenza  mostravano  di  osservare la  religione j quando  forzali  non V osservavano  ; c se  alcuno  (emwariamente  la  dispregiava , lo  punivano. Non  solamente  gli  auguri!,  come  di  sopra si  è discorso,  erano  il  fondamento in  buona  parte  dell'antica  religione de’ Gentili,  ma  ancora  erano  quelli  che erano  cagione  del  bene  essere  della  Repubblica romana.  Donde  i Romani  ne uvevano  più  cura  che  di  alcuno  altro  ordine di  quella;  ed  usavangli  ne’ comizi consolari,  nel  principiare  le  imprese, nel  trai*  fuori  gli  eserciti,  nel  fare  le giornate,  ed  in  ogni  azione  loro  importante, o civile  o militare;  nè  maisarebbono  iti  ad  una  espedizionc,  che  non avessino  persuaso  ai  soldati  che  gli  Dei
promettevano  loro  la  vittoria.  Ed  infra gli  altri  nuspicii,  avevano  negli  eserciti certi  ordini  di  aruspici,  che  e’ chiamavano Pollarii:  e qualunque  volta  eglino ordinavano  di  fare  la  giornata  col  nemico, volevano  che  i Pollarii  fucessino i loro  auspicii;  e beccando  i polli,  combattevano con  buono  augurio:  non  beccando, si  astenevano  dalla  zuffa.  Nondimeno, quando  la  ragione  mostrava  loro una  cosa  doversi  fare,  non  ostante  che gli  auspicii  fossero  avversi,  la  facevano in  ogni  modo;  ma  rivoltavanla  con termini  e modi  tanto  attamente,  che non  paresse  che  la  fucessino  con  dispregio dello  religione  : il  quale  termine  fu  usato  da  Papirio  consolo  in una  zuffa  clic  fece  importantissima  coi Sanniti,  dopo  la  quale  restorno  in  lutto deboli  ed  afflitti.  Perchè  sendo  Papirio in  su’  campi  rincontro  ai  Sanniti,  e parendogli avere  nella  zuffa  la  vittoria certa,  e volendo  per  questo  fare  la  giornata, comandò  ai  Pollarii  che  fucessino i loro  auspicii;  ma  non  beccando  i polli, e veggendo  il  principe  de’ Pollarii  la gran  disposizione  dello  esercito  di -combattere, e la  oppinione  che  era  nei  capitano cd  in  tutti  i soldati  di  vincere, per  non  torre  occasione  di  bene  operare a quello  esercito,  riferi  al  Consolo  come gli  auspicii  procedevano  bene:  talché Papirio  ordinando  le  squadre,  ed  essendo da  alcuni  de' Pollarii  detto  a certi soldati,  i polli  non  aver  beccato,  quelli lo  dissono  a Spurio  Papirio  nipote  del Consolo;  e quello  riferendolo  al  Consolo, rispose  subito,  eh’  egli  attendesse a fare  l’oflìzto  suo  bene,  e che  quanto a lui  ed  allo  esercito  gli  auspicii  erano rolli;  e se  il  Pollarlo  aveva  detto  le  bugie, ritornerebbono  in  pregiudicio  suo. E perchè  lo  effetto  corrispondesse  al pronostico,  comandò  ni  legati  clic  constituìssino  i Pollarii  nella  primo  fronte della  zuffa.  Onde  nacque  che,  andando contra  ai  nemici,  sendo  da  un  soldato romano  tratto  uno  dardo,  a caso  ammazzò il  principe  de’ Pollarii;  la  qual cosa  udita  il  Console,  disse  come  ogni cosa  procedeva  bene,  e col  favore  degli Dii;  perchè  lo  esercito  con  la  morte  di quel  bugiardo  si  era  purgato  da  ogni colpa,  e da  ogni  ira  che  quelli  avessino preso  contra  di  lui.  E cosi,  col  sapere bene  accomodare  t disegni  suoi agli  auspicii,  prese  partito  di  azzuffarsi, senza  clic  quello  esercito  si  avvedesse che  in  alcuna  parte  quello  avesse  negletti gli  ordini  della  loro  religione.  Al contrario  fece APPIO Pillerò  in  Sicilia, nella  prima  guerra  punica:  che  volendo azzuffarsi  con  P esercito  cartaginese,  fece fare  gli  auspicii  a’ Pollarii;  e referendogli  quelli,  come  i polli  non  beccavano, disse  : veggiamo  se  volessero  bere  ; e gli  fece  giUare  in  mare.  Donde  che,  azzuffandosi, perdette  la  giornata  : di  che egli  ne  fu  a Roma  condennato,  e Papirio onorato;  non  tanto  per  aver  V uno  vinto e P altro  perduto,  quanto  per  aver  1’  uno fatto  contra  agli  auspicii  prudentemente e l’altro  temerariamente.  Nè  ad  altro line  tendeva  questo  modo  dello  aruspicare, che  di  fare  i soldati  confidentemente ire  alla  zuffa  ; dalla  quale  confidenza quasi  sempre  uasce  la  vittoria.  La qual  cosa  fu  non  solamente  usala  dai Romani,  ma  dalli  esterni  : di  che  mi  pare di  addurre  uno  esempio  nel  seguente capitolo. XV. Come  i Sanniti,  per  estremo rimedio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsono  alla  religione. Avendo  i Sanniti  avute  più  rotte  dai Romani,  ed  essendo  stati  per  ultimo  distrutti  in  Toscana,  e morti  i loro  eserciti e gli  loro  capitani  ; ed  essendo  stali  vinti  i loro  compagni,  come  Toscani,  Franciosi ed  Umbri  ; ncc  suis,  nec  extcrnis  viribus  jam  slare  polcrant  : t amen  bello  non abstinebantj  adeo  ne  infeliciler  quidem defensae  libcrtatis  tcedcbalj  et  vinci > quarti  non  tentare  victorianij  malebant. Onde  deliberarono  far  ultima  prova:  e perché  ei  sapevano  che  a voler  vincere era  necessario  indurre  ostinazione  negli animi  de’ soldati,  c che  a indurla  non v’ era  miglior  mezzo  che  la  religione; pensarono  di  ripetere  uno  antico  loro  sacrifìcio, mediante  Ovio  Faccio,  loro  sacerdote. Il  quale  ordinarono  in  questa forma  : che,  fatto  il  sacrificio  solenne,  e fatto  intra  le  vittime  morte  e gli  altari accesi  giurare  lutti  i capi  dello  esercito, di  non  abbandonare  mai  la  zuffa,  citarono i soldati  ad  uno  ad  uno  ; ed  intra quelli  altari,  nel  mezzo  di  più  centurionicon  le  spade  nude  in  mano,  gli  face-vano prima  giurare  che  non  ridirebbono cosa  che  vedessino  o sentissino;  dipoi,con  parole  esecrabili  e versi  pieni  di  spa-vento, gli  facevano  giurare  e promettereagli  Dii,  d’essere  presti  dove  gli  impe-radori  gli  comandassino,  c di  non  si  fug-gire mai  dalla  zuffa,  e d’ ammazzarequalunque  vedessino  che  si  fuggisse:  laqual  cosa  non  osservata,  tornasse  soprail  capo  della  sua  famiglia  e della  sustirpe.  Ed  essendo  sbigottiti  alcuni  diloro,  non  volendo  giurare,  subito  da’ lorocenturioni  erano  morti;  talché  gli  altriche  succedevano  poi,  impauriti  dalla  fe-rocità dello  spettacolo,  giurarono  tutti.E per  fare  questo  loro  assembramentopiù  magnifico,  sendo  quarantamila  uo-mini, ne  vestirono  la  metà  di  pannibianchi,  con  creste  e pennacchi  sopra  lecelate  ; e così  ordinati  si  posero  pressoad  Aquilonia.  Contra  a costoro  vennePapirio;  il  quale,  nel  confortare  i suoisoldati,  disse:  Non  enim  crislas  vulnerafacere,  et  pietà  alque  aurata  scuta  tran-sirc  ttomanum  pileum.  E per  debilitarela  oppinione  clic  avevano  i suoi  soldatide’ nemici  per  i)  giuramento. preso,  disseche  quello  era  per  essere  loro  a timore,non  a fortezza;  perchè  in  quel  medesi-mo tempo  avevano  uvere  paura  de’ cit-tadini, degli  Dii,  c de*  nemici.  E venutial  conflitto,  furono  superati  i Sanniti;perchè  la  virtù  romana,  ed  il  timoreconccputo  per  le  passate  rotte,  superòqualunque  ostinazione  ei  potessino  averepresa  per  virtù  della  religione  e per  ilgiuramento  preso.  Nondimeno  si  vedecome  a lóro  non  parve  potere  avere  al-tro rifugio,  nè  tentare  altro  rimedio  apoter  pigliare  speranza  di  ricuperare  laperduta  virtù.  Il  che  testifica  appieno,quanta  confidcnzia  si  possa  avere  me-diante la  religione  bene  usata.  E benchéquesta  parte  piuttosto,  per  avventura,  sirichiederebbe  esser  posta  intra  le  coseestrinseche  ; nondimeno,  dependendo  dauno  ordine  de’  più  importanti  dellaRepubblica  di  Roma,  mi  è parso  dacommetterlo  in  questo  luogo,  per  nondividere  questa  materia,  cd  averci  aritornare  più  volte.Gap.  XVI.  — Un  popolo  uso  a vìveresotto  un  principe,  se  per  qualche  ac-cidente diventa  libero,  con  difficultàmantiene  la  libertà.Quanta  difficultà  sia  ad  uno  popolouso  a vivere  sotto  un  principe,  preser-vare dipoi  la  libertà,  se  per  alcuno  ac-cidente l’acquista,  come  l’acquistò  Ro-ma dopo  la  cacciala  de’Tarquini;  iodimostrano  infiniti  esempi  che  si  leggononelle  memorie  delle  antiche  istorie.  Etale  difficultà  è ragionevole;  perchè  quelpopolo  è non  altrimenti  che  uno  ani-male bruto,  il  quale,  ancora  che  di  fe-roce natura  e silvestre,  sia  stato  nu-drito  sempre  in  carcere  ed  in  servitù,che  dipoi  lasciato  a sorte  in  una  cam-pagna libero,  non  essendo  uso  a pa-scersi, nè  sappiendo  le  latebre  dove  siabbia  a rifuggire,  diventa  preda  delprimo  che  cerca  rincatenarlo.  Questo  me-desimo interviene  ad  uno  popolo,  il  qualesetido  uso  a vivere  sotto  i governi  d’al-tri, non  snppiendo  ragionare  nè  delledifese  o offese  pubbliche,  non  cogno-scendo  i principi  nè  essendo  conosciutoila  loro,  ritorna  presto  sotto  un  giogo,il  quale  il  più  delle  volte  è più  graveche  quello  che  per  poco  innanzi  si  avevalevato  d’ in  su  ’1  collo  : e trovasi  in  que-ste difficullà,  ancora  che  la  materia  nonsia  in  tutto  corrotta;  perchè  in  unopopolo  dove  in  lutto  è entrata  la  corru-zione, non  può,  non  che  picciol  tempo,ma  punto  vivere  libero,  come  di  sotto  sidiscorrerà:  e però  i ragionamenti  no-stri sono  di  quelli  popoli  dove  la  corru-zione non  sia  ampliata  assai,  c dove  siapiù  del  buono  che  del  guasto.  Aggiun-gesi  alla  soprascritta,  un’  altra  difficultò;la  quale  è,  che  lo  Stato  che  diventa  li-bero, si  fa  partigiani  nemici,  e nonpartigiani  amici.  Partigiani  nemici  glidiventano  tutti  coloro  che  dello  Stalo  ti-nodei  dìscorsi Tannico  si  prevalevano,  pascendosi  dellericchezze  del  principe;  a’ quali  sendotolta  la  facoltà  del  valersi,  non  possovivere  contenti,  e sono  forzati  ciascunodi  tentare  di  riassumere  la  tirannide,per  ritornare  nell’ autorità  loro.  Non  siacquista,  come  ho  detto,  partigiani  ami-ci ; perchè  il  vivere  libero  propone  onorie premii,  mediami  alcune  oneste  e de-. terminate  cagioni,  e fuori  di  quelle  nonpremia  nè  onora  alcuno;  e quando  unoha  quelli  onori  e quelli  utili  che  gli  paremeritare,  non  confessa  avere  obbligo  concoloro  che  lo  rimunerano.  Oltre  a que-sto, quella  comune  utilità  che  del  viverelibero  si  trae,  non  è da  alcuno,  mentreche  ella  si  possiede,  conosciuta:  la  qualeè di  potere  godere  liberamente  le  cosesue  senza  alcuno  sospetto,  non  dubitaredell’onore  delle  donne,  di  quel  de’ fi-gliuoli, non  temere  di  sè;  perchè  nis-suno  confesserà  mai  aver  obbligo  conuno  che  non  1’  offenda.  Però,  come  disopra  si  dice,  viene  ad  avere  lo  Statolibero  c che  «li  nuovo  surge,  partigianinon  partigiani  amici.  E vonemicilendo  rimediare  a questi  inconvenienti,c a quegli  disordini  che  le  soprascrittediflìculta  si  arrecherebbono  seco,  non  ciè più  potente  rimedio,  nè  più  valido,  nèpiù  sano,  nè  più  necessario,  che  am-mazzare i figliuoli  di  Bruto:  i quali,come  l’istoria  mostra,  non  furono  in-dotti, insieme  con  altri  gioveni  romani,n congiurare  contra  alla  patria  per  al-tro, se  non  perchè  non  si  potevano  va-lere straordinariamente  sotto  i Consoli,come  sotto  i Re;  in  modo  che  la  libertàdi  quel  popolo  pareva  che  fusse  diven-tata la  loro  servitù.  E chi  prende  a go-vernare una  moltitudine,  o per  via„dilibertà  o per  via  di  principato,  e non si  assicura  di  coloro  che  a quell’ ordine nuovo  sono  nemici,  fa  uno  Stato  di  poca vita.  Vero  è ch’io  giudico  infelici  quelli principi,  che  per  assicurare  lo  Stato  loro hanno  a tenere  vie  straordinarie,  avendo per.  nemici  la  moltitudine:  perchè  quello che  ha  per  nemici  i pochi,  facilmente e senza  molti  scandali,  si  assicura;  ma chi  ha  per  nemico  1’  universale,  non  si assicura  mai;  e quanta  più  crudeltà  usa, tanto  diventa  più  debole  il  suo  principalo.  Talché  il  maggior  rimedio  che  si abbia,  è cercare  di  farsi  il  popolo  amico. E benché  questo  discorso  sia  disformo dal  soprascritto,  parlando  qui  d’  un principe  e quivi  d’ una  repubblica  ; nondimeno, per  non  avere  a tornare  più  in su  questa  materia,  ne  voglio  parlare  bre-vemente. Volendo,  pertanto,  un  principe guadagnarsi  un  popolo  che  gli  fusse  nemico, parlando  di  quelli  principi  che sono  diventati  della  loro  patria  tiranni  ; dico  eh’ ci  debbe  esaminare  prima  quello che  il  popolo  desidera,  e troverà  sempre ch’ei  desidera  due  cose;  Y una  vendicarsi contro  a coloro  che  sono  cagione che  sia  servo;  l’altra  di  riavere  la  sua libertà.  Al  primo  desiderio  il  principe può  satisfare  in  tutto,  al  secondo  in parte.  Quanto  al  primo,  ce  n’  è lo  csempio  appunto.  Clearco,  tiranno  di  Eraelea,  scudo  in  esilio,  occorse  che,  per controversia  venuta  intra  il  popolo  e gli ottimati  di  Eraclea,  veggendosi  gli  ottimati inferiori,  si  volsono  a favorire Clearco,  c congiuratisi  seco  lo  missono, contea  alla  disposizione  popolare,  in Eraclea,  c toisono  la  libertà  al  popolo. In  modo  che,  trovandosi  Clearco  intra la  insolenzia  degli  ottimati,  i quali  non poteva  in  alcun  modo  nè  contentare  nè correggere,  c la  rabbia  de’  popolari,  che non  potevano  sopportare  lo  avere  perduta la  libertà,  deliberò  ad  un  tratto liberarsi  dal  fastidio  de’ grondi,  c guadagnarsi il  popolo.  E presa  sopra  questo conveniente  occasione,  tagliò  a pezzi tutti  gli  ottimali,  con  una  estrema  satisfazione  de’ popolari.  E così  egli  per  questa via  satisfece  ad  una  delle  voglie  che hanno  i popoli,  cioè  di  vendicarsi.  Ma quanto  all’altro  popolare  desiderio  di riavere  la  sua  libertà,  non  potendo  il principe  satisfargli,  debbe  esaminare quali  cagioni  sono  quelle  che  gli  fanno desiderare  d’essere  liberi;  e troverà  che una  piccola  parte  di  loro  desidera  d’essere libera  per  comandare;  ma  tutti  gli altri,  che  sono  infiniti,  desiderano  la  libertà per  vivere  securi.  Perchè  in  tutte le  repubbliche,  in  qualunque  modo  ordinate, ai  gradi  del  comandare  non  aggiungono mai  quaranta  o cinquanta  cittadini: e perchè  questo  è piccolo  numero, è facil  cosa  assicurarsene,  o con levargli  via*  o con  far  lor  parte  di  tanti onori,  che  secondo  le  condizioni  loro  essi abbino  in  buona  parte  a contentarsi. Quelli  altri,  ai  quali  basta  vivere  securi, si  satisfanno  facilmente,  facendo  ordini e leggi,  dove  insieme  con  la  potenza  sua si  comprenda  la  sicurtà  universale.  E quando  uno  principe  faccia  questo,  e che  il  popolo  vegga  che  per  accidente nessuno  ei  non  rompa  tali  leggi,  comincerà  in  breve  tempo  a vivere  sccuro  e contento.  In  esempio  ci  è il  regno  di Francia,  il  quale  non  vive  securo  per altro,  che  per  essersi  quelli  Re  obbligati ad  infinite  leggi,  nelle  quali  si  comprende la  securtn  di  tutti  i suoi  popoli. E chi  ordinò  quello  Stato,  volle  che  quelli Re,  dell’  arme  e del  danaio  facessino  a loro  modo,  ma  che  d’ogni  altra  cosa non  ne  potessino  altrimenti  disporre  che le  leggi  si  ordinassino.  Quello  principe, adunque,  o quella  repubblica  che  non si  assicura  nel  principio  dello  stato  suo, conviene  che  si  assicuri  nella  prima  occasione, come  fecero  i Romani.  Chi  lascia passare  quella,  si  pente  tardi  di  non aver  fatto  quello  che  doveva  fare.  Sendo, pertanto,  il  popolo  romano  ancora  non corrotto  quando  ci  recuperò  la  libertà, potette  mantenerla,  morti  i figliuoli  di BRUTO e spenti  i Tarquini,  con  tutti quelli  rimedi  ed  ordini  che  altra  volta si  sono  discorsi.  Ma  se  fussc  stato  quel popolo  corrotto,  nè  in  Roma  nè  altrove si  trovano  rimedi  validi  a mantenerla; come  nel  seguente  capitolo  mostreremo. XVII.  Uno  popolo  coitoIIo , venuto in  libertà,  si  può  con  difficullà ( grandissima  mantenere  libera. lo  giudico  che  gli  era  necessario,  o die  i Re  si  estinguessino  in  Roma,  o che Roma  in  brevissimo  tempo  divenissi  debole, e di  nessuno  valore:  perchè,  considerando a quanta  corruzione  erano venuti  quelli  Re,  se  l'ussero  seguitati così  due  o tre  successioni,  e che  quella corruzione  che  era  in  loro,  si  fossi  cominciata a distendere  per  le  membra; come  le  membra  fussino  state  corrotte, era  impossibile  mai  più  riformarla.  Ma perdendo  il  capo  quando  il  busto  era intero,  poterono  facilmente  ridursi  a vivere liberi  cd  ordinati.  E debbesi  presupporre per  cosa  verissima,  che  una città  corrotta  che  vive  sotto  un  principe, ancora  che  quel  principe  con  tutta la  sua  stirpe  si  spenga,  inai  non  si  può ridurre  libera;  anzi  conviene  che  Putì principe  spenga  l’ allro;  e senza  creazione d’un  nuovo  signore  non  si  posa mai,  se  già  la  bontà  d’  uno,  insieme  con la  virtù,  non  la  tenessi  libera  ; ma  durerà tanto  quella  libertà,  quanto  durerà la  vita  di  quello:  come  intervenne  a Siracusa di  Dione  e di  Timoleone,  la  virtù de’  quali  in  diversi  tempi,  mentre  vissero, tenne  libera  quella  città;  morti  clic furono,  si  ritornò  nell'antica  tirannide. Ma  non  si  vede  il  più  forte  esempio  che quello  di  Roma;  la  quale  cacciati  i Tarquini,  potette  subito  prendere  e mantenere quella  libertà:  ma  morto  Cesare, morto  Caligula,  morto  Nerone,  spenta tutta  la  stirpe  cesarea,  non  potette  inai, non  solamente  mantenere,  ma  pure  dare principio  alla  libertà.  Nè  tanta  diversità di  evento  in  una  medesima  città  nacqueda  altro,  se  non  da  non  essere  ne’ tempi de’Tarquini  il  popolo  romano  ancora corrotto;  ed  in  questi  ultimi  tempi  essere corrottissimo.  Perchè  allora,  a mantenerlo saldo  e disposto  a fuggire  i Re, bastò  solo  furio  giurare  che  non  eon sentirebbe  mai  che  a Roma  alcuno  regnasse; e negli  altri  tempi,  non  bastò T autorità  e severità  di  BRUTO,  con  tutte le  legioni  orientali,  a tenerlo  disposto  a volere  mantenersi  quella  libertà  che  esso, a similitudine  del  primo  BRUTO,  gli aveva  rendutu.  Il  che  nacque  da  quella corruzione  che  le  parli  mariane  avevano messa  nel  popolo;  delle  quali  essendo capo  Cesare  potette  accecare  quella  moltitudine, eh* ella  non  conobbe  il  giogo che  da  sè  medesima  si  metteva  in  sul collo.  E benché  questo  esempio  di  Roma sia  da  preporre  a qualunque  altro  esempio, nondimeno  voglio  a questo  proposito addurre  innanzi  popoli  conosciuti  ne*  nostri tempi.  Pertanto  dico,  che  nessuno  accidente, benché  grave  e violento,  potrebbe redurre  mai  Milano  o Napoli  libere,  per essere  quelle  membra  tutte  corrotte.  H che  si  vide  dopo  la  morte  di VISCONTI; che  volendosi  ridurre  Milano  alia libertà,  non  potette  e non  seppe  mantenerla.  Però,  fu  felicità  grande  quella di  Koma,  che  questi  Re  diventassero corrotti  presto,  acciò  ne  fussino  cacciati, cd  innanzi  che  la  loro  corruzione  fosse passata  nelle  viscere  di  quella  città:  la quale  incorruzione  fu  cagione  che  gl’ infiniti tumulti  che  furono  in  Roma,  avendo gli  uomini  il  fine  buono,  non  nocerouo, anzi  giovarono  alla  Repubblica.  E si  può fare  questa  conclusione,  che  dove  la materia  non  è corrotta,  i tumulti  cd altri  scandali  non  nuòcono:  dove  la  è corrotta,  le  leggi  bene  ordinate  non  giovano, se  già  le  non  son  mosse  da  uno che  con  una  estrema  forza  le  facci  osservare, tanto  che  la  materia  diventi buona.  Il  che  non  so  se  sie  mai  intervenuto, o se  fusse  possibile  ch’egli  intervenisse: perchè  c’  si  vede,  come  poco di  sopra  dissi,  che  una  città  venuta  in declinazione  per  corruzione  di  materia, se  mai  occorre  che  la  si  levi,  occorre per  la  virtù  d’ uno  uomo  eh’  è vivo  allora, non  per  la  virtù  dello  universale clic  sostengo  gli  ordini  buoni  ; c subito che  quei  tale  è morto,  la  si  ritorna  nei suo  pristino  abito;  come  intervenne  a Tebe,  la  quale  per  la  virtù  di  Epaminonda, mentre  lui  visse,  potette  tenere forma  di  repubblica  e di  imperio  ; ma morto  quello,  la  si  ritornò  ne’  primi  disordini suoi.  La  cagione  è,  che  non  può essere  un  uomo  di  tanta  vita,  che  ’l tempo  basti  ad  avvezzare  bene  una  città lungo  tempo  male  avvezza.  E se  unod’  una  lunghissima  vita,  o due  successioni virtuose  conlinove  non  la  dispongono; come  una  manca  di  loro,  come di  sopra  è detto,  subito  rovina,  se  già con  molti  pericoli  c molto  sangue  c’  non la  facesse  rinascere.  Perchè  tale  corruzione e poca  attitudine  olla  vita  libera, nasce  da  una  inequulità  che  è in  quella città:  e volendola  ridurre  equale,  è necessario usare  grandissimi  estraordinari; i quali  pochi  sanno  o vogliono usare,  come  in  altro  luogo  più  particolarmente si  dirà. XVIII.  — In  che  modo  «ci.c;  mi corrotte  si  potesse  mantenere  tino  stalo liòerOj  essendovi;  o non  essendovi , ordinartelo. Io  credo  clic  non  sia  fuori  di  proposito, nè  disformo  dal  soprascritto  discorso, considerare  se  in  una  città  corrotta si  può  mantenere  lo  stato  libero, scndovi  ; o quando  e’  non  vi  fosse,  se vi  si  può  ordinare.  Sopra  la  qual  cosa dico,  come  gli  è mollo  difficile  fare  o l’uno  o l' altro:  e benché  sia  quasi  impossibile darne  regola,  perchè  sarebbe necessario  procedere  secondo  i gradi della  corruzione;  nondimnneo,  essendo bene  ragionare  d’ogni  cosa,  non  voglio lasciare  questa  indietro.  E presuppongo una  città  corrottissima,  donde  verrò  ad accrescere  più  tale  difficoltà;  perché  non si  trovano  nè  leggi  nè  ordini  che  bastino a frenare  una  universale  corruzione. Perchè,  così  come  gli  buoni  costumf,  per  mantenersi,  hanno  bisogno delle  leggi;  cosi  le  leggi,  per  osservarsi, hanno  bisogno  de’  buoni  costumi.  Oltre di  questo,  gli  ordini  e le  leggi  fatte  in una  repubblica  nel  nascimento  suo, quando  erano  gli  uomini  buoni,  non  sono dipoi  più  a proposito,  divenuti  che  sono tristi.  E se  le  leggi  secondo  gli  accidenti in  una  città  variano,  non  variano  mai, 0 rade  volte,  gli  ordini  suoi:  il  che  fa che  le  nuove  leggi  non  bastano,  perchè gli  ordini,  che  stanno  saldi,  le  corrompono. E per  dare  ad  intendere  meglio questa  parte,  dico  come  in  Roma  era l’ordine  del  governo,  o vero  dello  Stato; c le  leggi  dipoi,  che  con  i magistrati frenavano  i cittadini.  L’ordine  dello Stato  era  l’ autorità  del  Popolo,  del  Senato, dei  Tribuni,  dei  Consoli,  il  modo di  chiedere  e del  creare  i magistrati, ed  il  modo  di  fare  le  leggi.  Questi  ordini poco  o nulla  variarono  nelii  accidenti. Variarono  le  leggi  che  frenavano 1 cittadini;  come  fu  la  legge  degli  adulferi!,  la  suntuaria,  quella  della  ambizione, e molte  altre  ; secondo  clic  di mano  in  mano  i cittadini  diventavano corrotti.  Ma  lenendo  fermi  gli  ordini dello  Stato,  che  nella  corruzione  non erano  più  buoni,  quelle  leggi  che  si  rinnovavano, non  bastavano  a mantenere gli  uomini  buoni;  ma  sarebbonn  bene giovate,  se  con  la  innovazione  delle  leggi si  fussero  rimutati  gli  ordini.  G che  sia il  vero  che  tali  ordini  nella-  città  corrotta non  fossero  buoni,  e’ si  vede espresso  in  due  capi  principali.  Quanto al  creare  i magistrati  e le  leggi,  non dava  il  Popolo  romano  il  consolato,  e gli altri  primi  gradi  della  città,  se  non  a quelli  che  lo  dimandavano.  Questo  ordine fu  nel  principio  buono,  perchè e’ non  gli  domandavano  se  non  quelli cittadini  che  se  ne  giudicavano  degni, ed  averne  la  repulsa  era  ignominioso; si  che,  per  esserne  giudicati  degni,  ciascuno operava  bene.  Diventò  questo modo,  poi,  nella  città  corrotta  perniziosissiiuo  ; perchè  non  quelli  che  avevano più  virtù,  ma  quelli  che  avevano  più potenza,  domandavano  i magistrali;  e gl’ impotenti,  comecché  virtuosi,  se  ne astenevano  di  domandargli  per  paura. Vcnnesi  a questo  inconveniente,  non  ad un  tratto,  ma  per  i mezzi,  come  si  cade in  tutti  gli  altri  iuconveiiienti  : perchè avendo  i Romani  domata  l’Affrica  e l’Asia, e ridotta  quasi  tutta  la  Grecia  a sua  ohidienza,  erano  divenuti  sicuri  della  libertà loro,  nè  pareva  loro  avere  più nimici  che  dovessero  fare  loro  paura. Questa  securtà  e questa  debolezza  de’  nemici fece  che  il  Popolo  romano,  nel  dare il  consolato,  non  riguardava  più  la  virtù, ma  la  grazia  ; tirando  a quel  grado quelli  che  meglio  sapevano  iutrattenere gli  uomini,  non  quelli  che  sapevano  meglio vincere  i nemici:  di  poi,  da  quelli che  avevano  più  grazia,  discesero  a dargli a quelli  che  avevano  più  potenza;talché  i buoni,  per  difetto  di  tale  ordine, ne  rimasero  al  tutto  esclusi.  Poteva uno  Tribuno,  e qualunque  altro  cittadino, proporre  al  Popolo  una  legge;  sopra la  quale  ogni  cittadino  poteva  parlare, o in  favore  o incontro,  innanzi  che la  si  deliberasse.  Era  questo  ordine  buono, quando  i cittadini  erano  buoni  ; per-
che sempre  fu  bene,  che  ciascuno  clic intende  uno  bene  per  il  pubblico,  lo possa  proporre;  ed  è bene  che  ciascuno sopra  quello  possa  dire  l’oppinione  sua, acciocché  il  Popolo,  inteso  ciascuno, possa  poi  eleggere  il  meglio.  Ma  diventati i cittadini  cattivi,  diventò  tale  ordine pessimo,  perchè  solo  i potenti  proponevano leggi,  non  per  la  comune  libertà, ina  perla  potenza  loro;ccontra a quelle  non  poteva  parlare  alcuno  per paura  di  quelli  : talché  il  Popolo  veniva o ingannato  o sforzato  a deliberare  la sua  rovina.  Ero  necessario,  pertanto,  a volere  che  Roma  nella  corruzione  si mantenesse  libera,  che,  cosi  come  aveva nel  processo  del  vivere  suo  fatte  nuove leggi,  l’avesse  fatti  nuovi  ordini:  per-«thè  altri  ordini  e modi  di  vivere  si debbe  ordinare  in  un  soggetto  cattivo, che  in  un  buono  ; nè  può  essere  la  forma simile  in  una  materia  al  tutto  contraria. Ma  perchè  questi  ordini,  o e’ si hanno  a rinnovare  tutti  ad  un  tratto, scoperti  che  sono  non  esser  più  buoni, o a poco  a poco,  in  prima  che  si  conoschiuo  per  ciascuno  ; dico  che  1*  una e l’altra  di  queste  due  cose  è quasi  impossibile. Perchè,  a volergli  rinnovare a poco  a poco,  conviene  che  ne  sia  cagione uno  prudente,  che  veggio  questo inconveniente  assai  discosto,  e quando e’ nasce.  Di  questi  tali  è facilissima  cosa che  in  una  città  non  ne  surga  mai  nessuno : e quando  pure  ve  ne  surgesse, non  potrebbe  persuadere  mai  ad  altrui quello  che  egli  proprio  intendesse;  perchè gli  uomini  usi  a vivere  in  un  modo, non  lo  vogliono  variare;  e tanto  più non  veggiendo  il  male  in  viso,  ma  avendo ad  essere  loro  mostro  per  con  letture. Quando  ad  innovare  questi  ordini  ad  un (ratio,  quando  ciascuno  conosce  clic  non sono  buoni,  dico  che  questa  inutilità, clic  facilmente  si  conosce,  è diffìcile  a ricorreggerla:  perchè  a fare  questo,  non basta  usare  termini  ordinari,  essendo  i modi  ordinari  cattivi;  ma  è necessario venire  allo  istraordinario,  come  è alla violenza  ed  all’ armi,  e diventare  innanzi  ad  ogni  cosa  principe  di  quella città,  e poterne  disporre  a suo  modo.  E perchè  il  riordinare  una  città  al  vivere politico  presuppone  uno  uomo  buono, ed  il  diventare  per  violenza  principe  di una  repubblica  presuppone  un  uomo cattivo;  per  questo  si  troverà  che  radis- sime volte  accaggia,  che  uno  uomo  buono voglia  diventare  principe  per  vie  cattive, ancoraché  il  fine  suo  fusse  buono;  e che uno  reo  divenuto  principe,  voglia  operare bene,  e che  gli  caggia  mai  nell’animo usare  quella  autorità  bene,  che  egli ha  male  acquistata.  Da  tutte  le  soprascritte  cose  nasce  la  diffìcultà,  o impossibilità, che  è nelle  città  corrotte,  a mantenervi  una  repubblica,  o a crearvela  di  nuovo.  E quando  pure  la  vi  si avesse  a creare  o a mantenere,  sarebbe necessario  ridurla  più  verso  lo  stato  regio, che  verso  lo  stato  popolare;  acciocché quelli  uomini  i quali  dalle  leggi,  per la  loro  insolenzia,  non  possono  essere corretti,  lusserò  da  una  podestà  quasi regia  in  qualche  modo  frenati.  Ed  a volergli fare  per  altra  via  diventare  buoni, sarebbe  o crudelissima  impresa,  o al  tutto  impossibile;  come  io  dissi  di  sopra che  fece  Cleomene;  il  quale  se,  per essere  solo,  ammazzò  gli  Efori;  e se  ROMOLO, per  le  medesime  cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono  bene  quella  loro  autorità  ; nondimeno si  debbe  avvertire  che  V uno  e T altro  di  costoro  non  avevano  il  soggetto di  quella  corruzione  macchiato della  quale  in  questo  capitolo  ragioniamo, e però  poterono  volere  e,  volendo, colorire  il  disegno  loro. XIX. Dopo  uno  eccellente  principio si  può  mantenere  un  principe debole ; ma  dopo  un  debole,  non  si può  con  un  (diro  debole  mantenere alcun  regno. Considerato  la  virtù  ed  il  modo  del procedere  di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI,  si  vede  come Roma  sortì  una  FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E BELLICOSO, 1’  altro  quieto  e religioso,  il  terzo simile  di  ferocia  a Romolo,  e più  amatore della  guerra  che  della  pace.  Perchè in  Roma  era  necessario  che  surgesse ne’  primi  principii  suoi  un  ordinatore «lei  vivere  civile,  ina  era  bene  poi necessario  che  gli  altri  Re  ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO;  ALTRIMENTI QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda  de’  suoi  vicini.  Donde  si  può notare,  che  uno  successore  non  di  tanta virtù  quanto  il  primo,  può  mantenere uno  Stato  per  la  virtù  di  colui  che  PImretto  innanzi,  e si  può  godere  te  sue fatiche:  ma  s’ egli  avviene  o che  sia  di lunga  vita,  o che  dopo  lui  non  surga
un  altro  che  ripigli  la  virtù  di  quel  primo, è necessitato  quel  regno  a rovinare. Cosi,  per  il  contrario,  se  due,  1*  uno  dopo P altro,  sono  di  gran  virtù,  si  vede  spess che  fanno  cose  grandissime,  e che  ne vanno  con  la  fama  in  fino  al  cielo.  Davit,  senza  dubbio,  fu  un  uomo  per  arme, per  dottrina,  per  giudizio  eccellentissimo; e fu  tanta  la  sua  virtù,  che,  avendo vinti  ed  abbattuti  tutti  i suoi  vicini,  lasciò a Salomone  suo  figliuolo  un  regno pacifico:  quale  egli  si  potette  con  le  arti «Iella  pace,  e non  della  guerra,  conservare; e si  potette  godere  felicemente  la virtù  di  suo  padre.  Ma  non  potette  già lasciarlo  a Roboan  suo  figliuolo;  il  quale non  essendo  per  virtù  simile  allo  avolo, nè  per  fortuna  simile  al  padre,  rimase con  fatica  erede  della  sesta  parte  del rt'guo.  Baisit,  sultan  de’ Turchi,  ancora die  fusse  più  amatore  della  pace  che della  guerra,  potette  godersi  le  fatiche di  Maumelto  suo  padre;  il  quale  avendo, come  Davit,  battuti  i suoi  vicini,  gli  lasciò un  regno  fermo,  e da  poterlo  con F arte  della  pace  facilmente  conservare. Ma  se  il  figliuolo  suo  Salì,  presente  signore, fusse  stalo  simile  al  padre,  c non all’avolo,  quel  regno  rovinava  : ma  e’ si vede  costui  essere  per  superare  la  gloria dell'avolo.  Dico  pertanto  con  questi esempi,  clic  dopo  uno  eccellente  principe si  può  mantenere  un  principe  debole; ma  dopo  un  debole  non  si  può  con  un altro  debole  mantenere  alcun  regno,  se già  e’  non  fusse  come  quello  di  Francia, che  gli  ordini  suoi  antichi  lo  mantenessero: e quelli  principi  sono  deboli,  che non  stanno  in  su  la  guerra.  Couchiudo pertanto  con  questo  discorso,  clic  LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che  la  potette dare  spazio  a Numa  Pompilio  di potere  molti  anni  con  1’  arte  della  pace reggere  Roma  : ma  dopo  lui  successe
Tulio,  il  quale  pei*  la  sua  ferocia  riprese la  reputazione  di  ROMOLO:  dopo il  quale  venne  Anco,  in  modo  dalla  natura dotato,  che  poteva  usare  la  pace, e sopportare  la  guerra.  E prima  si  dirizzò a volere  tenere  la  via  della  pace: ma  subito  conobbe  come  i vicini,  giudicandolo effeminato,  lo  stimavano  poco: talmente  che  pensò  che,  a voler  mantenere Roma,  bisognava  volgersi  alla  guerra, e somigliare  Romolo,  e non  Numa. Da  questo  piglino  esempio  tutti  i principi che  tengono  stato,  che  chi  somiglierà Numa,  lo  terrà  o non  terrà,  secondo ehe  i tempi  o la  fortuna  gli  girerà sotto:  ma  chi  somiglierà  Romolo,  e lui come  esso  armato  di  prudenza  e d’armi, lo  terrà  in  ogni  modo,  se  da  una  ostinata ed  eccessiva  forza  non  gli  è tolto. K certamente  si  può  stimare,  che  se Roma  sortiva  per  terzo  suo  Re  un  uomo che  non  sapesse  con  le  armi  renderle la  sua  reputazione,  non  arebbe  mai  poi, o con  grandissima  dilTìcultà,  potuto  pigliare  piede,  nè  fare  quelli  effetti  ch’ella fece.  E così,  in  mentre  eh’ ella  visse  sotto i Re,  la  portò  questi  pericoli  di  rovinare sotto  un  Re  o debole  o tristo.  Due  continove  successioni  di principi  virtuosi  fanno  grandi  effetti: c come  le  repubbliche  bene  ordinate hanno  di  necessità  virtuose  successioni: c però  gli  acquisti  ctl  auQumcnli loro  sono  grandi. Poi  che  Roma  ebbe  cacciati  i Re,  mancò di  quelli  pericoli  i quali  di  sopradetti  che  la  portava,  succedendo  in  lei uno  Re  o debole  o tristo.  Perchè  la somma  dello  imperio  si  ridusse  nc’  Consoli, i quali  non  per  eredità  o per  inganni o per  ambizione  violenta,  ma  per suffragi  liberi  venivano  a quello  imperio, ed  erano  sempre  uomini  eccellentissimi: de’quali  godendosi  Roma  la  virtù e la  fortuna  di  tempo  in  tempo,  potette venire  a quella  sua  ultima  grandezza  in
altrettanti  unni,  che  la  era  stata  sotto  i Re.  Perchè  si  vede,  come  due  coutinove successioni  di  principi  virtuosi  sono  suffìzienti  ad  acquistare  il  mondo:  come  furono Filippo  di  Macedonia  ed  Alessandro Magno,  il  clic  tanto  più  debbe  fare  una repubblica,  avendo  il  modo  dello  eleggere non  solamente  due  successioni,  ma infiniti  principi  virtuosissimi,  che  sono l’uno  dell'altro  successori:  la  quale  virtuosa successione  fia  sempre  in  ogni  repubblica bene  ordinata. Quanto  biasimo  meriti  quel principe  e quella  repubblica  che  manca d'armi  proprie. Debbono  i presenti  principi  c le  moderne repubbliche,  le  quali  circa  le  difese ed  offese  mancano  di  soldati  propri, vergognarsi  di  loro  medesime  j e pensare,  con  lo  esempio  di  Tulio,  tale difetto  essere  non  per  mancamento  d’uomini alti  alla  milizia,  ma  per  colpa  loro, che  non  hanno  saputo  fare  i loro  uomini militari.  Perchè  Tulio,  scudo  stata Roma  in  pace  quaranta  anni,  non  trovò, succedendo  lui  nel  regno,  uomo  che  fussc stato  mai  alla  guerra  : nondimeno,  disegnando lui  fare  guerra,  non  pensò  di valersi  nè  di  Sanniti,  nè  di  Toscani,  nè di  altri  che  fussero  consueti  stare  nell'armi;  ma  deliberò,  come  uomo  prudentissimo, di  valersi  de’ suoi.  E fu  tanta la  sua  virtù,  che  in  un  tratto  il  suo  governo gli  potè  fare  soldati  eccellentissimi. Ed  è più  vero  che  alcuna  altra  verità, che  se  dove  sono  uomini  non  sono soldati,  nasce  per  difetto  del  principe, e non  per  altro  difetto  o di  sito  o di natura  : di  che  ce  n’*è  uno  esempio  freschissimo. Perchè  ognuno  sa,  come ne’ prossimi  tempi  il  re  d’Inghilterra  assaltò il  regno  di  Francia,  nè  prese  altri soldati  clic  i popoli  suoi  ; e per  essere stato  quel  regno  più  clic  trenta  anni senza  far  guerra,  non  aveva  nè  soldato nè  capitano  che  avesse  mai  militato: nondimeno,  ei  non  dubitò  con  quelli  assaltare uno  regno  pieno  di  capitani  e di  buoni  eserciti,  i quali  erano  stati continovamcnte  sotto  l'armi  nelle  guerre d’Italia.  Tutto  nacque  da  essere  quel  re prudente  uomo,  e quel  regno  bene  ordinato; il  quale  nel  tempo  della  pace  non intermette  gli  ordini  della  guerra.  Pelopida  ed  Epaminonda  tebani,  poiché  gli ebbero  libera  Tebe,  e trattola  dalla  servitù dello  imperio  spartano;  trovandosi in  una  città  usa  a servire,  ed  in  mezzo di  popoli  effeminati  ; non  dubitarono, tanta  era  la  virtù  loro  ! di  ridurgli  sotto Parrai,  e con  quelli  andare  a trovare alla  campagna  gli  eserciti  spartani,  e vincergli  : e chi  he  scrive,  dice  come questi  due  in  breve  tempo  mostrarono, che  non  solamente  in  bacedemonia  nascevano gli  uomini  di  guerra,  ma  in  ogni altra  parte  dove  nascessino  uomini, pur  che  si  trovasse  chi  li  sapesse  indirizzare alla  milizia,  come  si  vede  che Tulio  seppe  indirizzare  i Romani.  E VIRGILIO non  potrebbe  meglio  esprimere questa  oppinione,  nè  con  altre  parole mostrare  di  aderirsi  a quella,  dove  dice: u ...  . Desidesque  movebit Tullus  in  arma  viros. Quello  che  sia  da  notare nel  caso  dei  tre  Orazi  romani , e dei Tulio,  re  di  Roma,  e Mezio,  re  di  Alba, convennero  che  quel  popolo  fusse  signore dell’ altro,  di  cui  i soprascritti  tre uomini  vincessero.  Furono  MORTI TUTTI I CURIAZI albani,  restò  vivo  uno  degli Orazi  romani;  e per  questo,  restò  Mezio, re  albaiio,  con  il  suo  popolo,  suggello ai  Romani.  E tornando  quello ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando  una sua  sorella,  che  era  ad  uno  de’ tre  Curiazi morti  maritata,  clic  PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello  Orazio  per  questo  fallo  fu  messo' in  giudizio,  e dopo  molte  dispute  fu  libero,  più  per  li  prìeglii  del  padre,  clic per  li  suoi  meriti.  Dove  sono  da  notare Ire  cose:  una,  che  mai  non  si  debbe con  parte  delle  sue  forze  arrischiare tutta  la  sua  fortuna  ; l’ altra,  che  non mai  in  una  città  bene  ordinata  li  devmeriti  con  li  ineriti  si  ricompensano;  la terza,  che  non  mai  sono  i partiti  savi, dove  si  debba  o possa  dubitare  della inosservanza.  Perchè,  gl’  importa  tanto a una  città  lo  essere  serva,  che  mai  non si  doveva  credere  che  alcuno  di  quelli Re  o di  quelli  Popoli  stessero  contenti che  tre  loro  cittadini  gli  avessino  sotto* messi  ; come  si  vide  che  volle  fare  Mezio:  il  quale,  benché  subito  dopo  la  vittoria de’ Romani  si  confessassi  vinto,  e promettessi  la  obedienza  a Tulio;  nondimeno nella  prima  espedizione  che  egli ebbono  a convenire  contra  i Veienli,  si vide  come  ci  cercò  d’ ingannarlo  ; come quello  che  tardi  s’era  avveduto  della temerità  del  partito  preso  da  lui.  E perchè di  questo  terzo  notabile  se  n’’è  pnr luto  assai,  parleremo  solo  degli  altri  due ne’ seguenti  duoi  capitoli. Che  non  si  debbe  mettere a pericolo  tutta  la  fortuna  e non tutte  le  forze  ; c per  questo j spesso  il
guardare  i passi  è dannoso. Non  fu  mai  giudicato  partito  savio mettere  a pericolo  tutta  la  fortuna  tua, e non  tutte  le  forze.  Questo  si  fu  in  più modi.  L’uno  è facendo  come  Tulio  e Mezio,  quando  e’  commissouo  la  fortuna tutta  della  patria  loro,  e la  virtù  di tanti  uomini  quanti  avea  l’uno  e l’altro di  costoro  negli  eserciti  suoi,  alla  virtù  e fortuna  di  tre  de’loro  cittadini,  clic  veniva ad  essere  una  minima  parte  delle  forze di  ciascuno  di  loro.  Nè  si  avvidono,  come per  questo  partito  tutta  la  fatica  che avevano  durata  i loro  antecessori  nell’ ordinare  la  repubblica,  per  farla  vivere lungamente  libera  e per  fare  i suoi  cittadini difensori  della  loro  libertà,  era quasi  che  suta  vana,  stando  nella  potenza di  sì  pochi  a perderla.  La  qual  cosa da  quelli  Re  non  potè  esser  peggio  considerata. Cadesi  ancora  in  questo  incon-
veniente quasi  sempre  per  coloro,  che, venendo  il  nemico,  disegnano  di  tenere i luoghi  diffìcili,  e guardare  i passi:  perchè quasi  sempre  questa  deliberazione sarà  dannosa,  se  giù  in  quello  luogo diffìcile  comodamente  tu  non  potessi  tenere tutte  le  forze  tue.  In  questo  casotuie  partito  è da  prendere;  ma  scndo  il luogo  aspro,  e non  vi  potendo  tenere tutte  le  forze  tue,  il  partito  è dannoso. Questo  mi  fa  giudicare  cosi  lo  esempio di  coloro  che,  essendo  assaltati  da  un nemico  potente,  ed  essendo  il  paese  loro circondato  da’  monti  e luoghi  alpestri, noti  hanno  mai  tentato  di  combattere  il nemico  in  su’  passi  e in  su’  monti,  ma sono  iti  ad  incontrarlo  di  là  da  essi:  o, quando  non  hanno  voluto  far  questo,  lo hanno  aspettato  dentro  a essi  monti,  in luoghi  benigni  e non  alpestri.  E la  cugioite  ne  è suta  la  preallegata  : perchè, non  si  polendo  condurre  alla  guardia de’ luoghi  alpestri  molli  uomini,  sì  per non  vi  potere  vivere  lungo  tempo,  si per  essere  i luoghi  stretti  e capaci  di pochi;  non  è possibile  sostenere  un  nemico clic  venga  grosso  ad  urtarti:  ed  al nemico  è facile  il  venire  grosso,  perchè la  intenzione  sua  è passare,  e non  fermarsi; ed  a chi  l’ aspetta  è impossibile aspettarlo  grosso,  avendo  ad  alloggiarsi per  più  tempo,  non  sapendo  quando  il nemico  voglia  passare  in  luoghi,  com’  io ho  detto,  stretti  e sterili.  Perdendo, adunque,  quel  passo  che  tu  ti  avevi presupposto  tenere,  e nel  quale  i tuoi popoli  e lo  esercito  tuo  confidava,  entra il  più  delle  volte  ne’ popoli  e nel  residuo delle  genti  tue  tanto  terrore,  che  senza potere  esperimentare  la  virtù  di  esse, rimani  perdente;  c così  vieni  ad  avere perduta  tutta  la  tua  fortuna  con  parte delle  tue  forze.  Ciascuno  sa  con  quanta diftìcultà  Annibaie  passasse  r Alpi  che dividono  la  Lombardia  dalia  Francia,  e con  quanta  difficoltà  passasse  quelle  che dividono  la  Lombardia  dalla  Toscana  : nondimeno  i Romani  l’aspettarono  prima in  sul  Tesino,  e dipoi  uel  piano  d’Arezzo;  e vollon  più  tosto,  che  il  loro  esercito fusse  consumato  dal  nemico  nelli luoghi  dove  poteva  vincere,  che  condurlo su  per  l’Alpi  ad  esser  destrutto dalla  malignità  del  sito.  E chi  leggerà sensatamente  tutte  le  istorie,  troverà  pochissimi virtuosi  capitani  over  tentato di  tenere  simili  passi,  e per  le  ragioni dette,  e perchè  e'  non  si  possono  chiudere tutti;  sendo  i monti  come  campagne, ed  avendo  non  solamente  le  vie consuete  e frequentate,  ma  molte  altre, le  quali  se  non  sono  note  a’ forestieri, sono  note  a’ paesani  ; con  l’aiuto  de’quali sempre  sarai  condotto  in  qualunque  luogo, contra  alla  voglia  di  citi  ti  si  oppone. Di  che  se  ne  può  addurre  uno freschissimo  esempio,  nel  T 51 5 . Quando Francesco  re  di  Francia  disegnava  passare  in  Italia  per  lu  recuperatone  dello Stalo  di  Lombardia,  il  maggiore  fondamento clic  facevano  coloro  eli’ erano  alla sua  impresa  contrari,  era  che  gli  Svizzeri lo  terrebbono  a’ passi  in  su’ monti.  E, come  per  esperienza  poi  si  vide,  quel  loro fondamento  restò  vano:  perché,  lasciato quel  re  da  parte  due  o tre  luoghi  guardati da  loro,  se  ne  venne  per  un’  altra  via incognita  ; e fu  prima  in  Italia,  e loro  appresso, che  lo  avessino  presentilo.  Talché loro  isbigottiti  si  ritirarono  in  Milano,  e tutti  i popoli  di  Lombardia  si  aderiron alle  genti  franciose;  sendo  mancali  di quella  oppinione  avevano,  che  i Franciosi dovessino  essere  tenuti  su’ monti. Le  repubbliche  bene  ordinate costituiscono  premii  c pene aJ  loro  cittadini;  ne  compensano  mai r uno  con  l*  altro. Erano  stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI, avendo  con  la  sua  virtù  VINTI I CURIAZIl. Era  stato  il  fallo  suo  atroce,
avendo  MORTO LA SORELLA: nondimeno  dispiacque tanto  tale  omicidio  ai  Romani, che  io  condussero  a disputare  della  vita, non  ostante  che  gli  meriti  suoi  fossero tanto  grandi  c sì  freschi.  La  qual  cosa a chi  superficialmente  la  considerasse, parrebbe  uno  esempio  d’ ingratitudine popolare:  nondimeno  chi  la  esaminerà meglio,  e con  migliore  considerazione ricercherà  quali  debbono  essere  gli  ordini delle  repubbliche,  biasimerà  quel popolo  più  tosto  per  averlo  assoluto, che  per  averlo  voluto  condeunare.  E la ragione  è questa,  che  nessuna  repubblica bene  ordinata,  non  mai  cancellò  i demeriti  con  gli  meriti  de’ suoi  cittadini; ma  avendo  ordinati  i preraii  ad una  buona  opera  e le  pene  ad  una  cattiva,  ed  avendo  premiato  uno  per  aver bene  operato,  se  quel  medesimo  opera
dipoi  male,  lo  gastica,  senza  avere  riguardo alcuno  alle  sue  buone  opere.  E quando  questi  ordini  sono  bene  osservati,  una  città  vive  libera  molto  tempo; altrimenti,  sempre  rovinerà  presto.  Perchè, se  ad  un  cittadino  che  abbia  fatto qualche  egregia  opera  per  la  città,  si aggiugne,  oltre  alla  riputazione  che quella  cosa  gli  arreca,  una  audacia  e confidenza  di  potere,  senza  temer  pena, fare  qualche  opera  non  buona  ; diventerà in  brievc  tempo  tanto  insolente,  che si  risolverà  ogni  civilità.  È ben  necessario, volendo  clic  sia  temuta  la  pena per  le  triste  opere,  osservare  i premii per  le  buone;  come  si  vede  che  fece Roma.  C benché  una  repubblica  sia  povera, e possa  dare  poco,  debbe  di  quel poco  non  astenersi;  perchè  sempre  ogni piccolo  dono,  dato  ad  alcuno  per  ricompenso di  bene  ancora  che  grande,  sarà stimato,  da  chi  lo  riceve,  onorevole  e grandissimo.  È notissima  la  istoria  di ORAZIO CODE e quella  di  MUZIO SCEVOLA: come  V uno  sostenne  i nemici  sopra  un ponte,  tanto  che  si  tagliasse:  l’altro  si arse  la  mano,  avendo  errato,  volendo
ammazzare  Porscna,  re  delli  Toscani.  A costoro  per  queste  due  opere  tanto  egregie, fu  donato  dal  pubblico  due  staiora di  terra  per  ciascuno.  È nota  ancora  la istoria  di  MANLIO  Capitolino.  A costui, per  aver  salvato  il  Campidoglio  da' Galli che  vi  erano  a campo,  fu  dato  da  quelli che  insieme  eon  lui  vi  erano  assediati dentro,  una  piccola  misura  di  farina,  il quale  premio,  secondo  la  fortuna  che  allora correva  in  Roma,  fu  grande;  e di qualità  che,  mosso  poi  Manlio,  o da  invidia o dalla  sua  cattiva  natura,  a far nascere  sedizione  in  Roma,  e cercando guadagnarsi  il  popolo,  fu,  senza  rispetto alcuno  de’ suoi  meriti,  gittato  precipite da  quello  Campidoglio  ch’egli  prima,  cou tanta  sua  gloria,  aveva  salvo.
Chi  vuole  riformare  uno stalo  antico  in  una  città  libera,  ritenga almeno  l’ombra  desmodi  antichi. Colui  che  desidera  o clic  vuole  riformare uno  stato  d’una  città,  a volere  elle sia  accetto,  e poterlo  con  satisfazione  di ciascuno  mantenere,  è necessitato  a ritenere l’ombra  almanco  de’ modi  antichi, acciò  che  a’ popoli  non  paia  avere mutato  ordine,  ancora  che  in  fatto  gli ordini  nuovi  fussero  al  tutto  alieni  dai passati;  perchè  lo  universale  degli  uomini si  pasce  così  di  quel  che  pare,  come di  quello  che  è;  anzi  molte  volte  si muovono  più  per  le  cose  che  paiono, che  per  quelle  clic  sono.  Per  questa  cagione i Romani,  conoscendo  nel  principio del  loro  vivere  libero  questa  necessità, avendo  in  cambio  d’ un  Re  creali duoi  Consoli,  non  vollono  ch’egli  avessino più  clic  dodici  littori,  per  non  passare  il  numero  di  quelli  che  ministravano ai  Re.  Olirà  di  questo,  facendosi in  Roma  uno  sacrifizio  anniversario,  il quale  non  poteva  esser  fatto  se  non dalla  persona  del  Re;  e volendo  i Romani che  quel  popolo  non  avesse  a desiderare per  la  assenzia  degli  Re  alcuna cosa  dell’  antiche j,  creorono  un  capo  di detto  sacrifìcio,  il  quale  loro  chiamorono  Re  Sacrifìcolo,  e lo  sottomessono  al sommo  Sacerdote  : talmentechè  quel  popolo per  questa  via  venne  a satisfarsi di  quel  sacrifizio,  e non  avere  mai  cagione, per  mancamento  di  esso,  di  desiderare la  tornata  dei  Re.  E questo  si debbe  osservare  da  tutti  coloro  che  vogliono scancellare  uno  antico  vivere  in una  città,  e ridurla  ad  uno  vivere  nuovo c libero.  Perchè  alterando  le  cose  nuove le  menti  degli  uomini,  ti  debbi  ingegnare che  quelle  alterazioni  ritenghino  più  del-r antico  sia  possibile;  e se  i magistrati variano  e di  numero  e d'autorità  e di tempo  dagli  antichi,  che  almeno  ritengliino  il  nome.  E questo,  come  ho  detto, debbe  osservare  colui  che  vuole  ordinare  una  potenza  assoluta,  o per  via  di repubblica  o di  regno:  ma  quello  che  vuol fare  una  potestà  assoluta,  quale  dagli autori  è chiamala  tirannide,  debbe  rinnovare ogni  cosa,  come  nel  seguente  capitolo si  dirò. Un  principe  nuovo , in
i ima  città  o provincia  presa  da  lui , 1 debbe  fare  ogni  cosa  nuova. Qualunque  diventa  principe  o d’  unacittà  o d’uno  Stato,  e tanto  più  quando i fondamenti  suoi  lussino  deboli,  c non si  volga  o per  via  di  regno  o di  repubblica alla  vita  civile;  il  mcgliore  rimedio che  egli  abbia  a tenere  quel  principato, è,  sendo  egli  nuovo  principe, fare  ogni  cosa  di  nuovo  in  quello  Stalo: come  è,  nelle  città  fare  nuovi  governi con  nuovi  nomi,  con  nuove  autorità,  con nuovi  uomini;  fare  i poveri  ricchi, fece  Davil  quando  ei  diventò  Re:  qui csuricnles  implevil  bonis,  et  divites  dimirti  inanes  ; edificare  oltra  di  questo nuove  città,  disfare  delie  fatte,  cambiare gli  abitatori  da  un  luogo  ad  un  altro;
ed  in  somma,  non  lasciare  cosa  niuna intatta  in  quella  provincia,  e che  non vi  sia  nè  grado,  nè  ordine,  nè  stato,  uè ricchezza,  che  chi  la  tiene  non  la  riconosca da  te;  c pigliare  per  sua  mira Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Alessandro, il  quale  con  questi  modi,  di  piccolo Re,  diventò  principe  di  Grecia.  E chi  scrive  di  lui,  dice  che  tramutava  gl uomini  di  provincia  in  provincia,  come i mandriani  tramutano  le  mandrie  loro. Sono  questi  modi  crudelissimi,  e nemici d’ogni  vivere,  non  solamente  cristiano, ma  umano;  e debbegli  qualunche  uomo fuggire,  c volere  piuttosto  vivere  privato, che  Re  con  tanta  rovina  degli  uomini : nondimeno,  colui  che  non  vuole pigliare  quella  prima  via  del  bene, quando  si  voglia  mantenere,  convien die  entri  in  questo  male.  >la  gli  uomini pigliano  certe  vie  del  mezzo,  clic  sono dannosissime;  perchè  non  sanno  essere nè  tutti  buoni  nè  tutti  cattivi:  come  ne seguente  capitolo,  per  esempio,  si  mostrerà. Sanno  rarissime  volle gli  uomini  essere  al  lutto  tristi  o al fulto  buoni. Papa  Giulio  secondo,  andando  na Bologna  per  cacciare  di  quello  Stato la  casa  de’Bentivogli,  la  quale  aveva  tenuto il  principato  di  quella  città  cento anni,  voleva  ancora  trarre  Giovampagoto  Buglioni  di  Perugia,  della  quale  era tiranno,  come  quello  che  aveva  congiurato contro  a tutti  gli  tiranni  che  occupavano le  terre  della  Chiesa.  E pervenuto presso  a Perugia  con  questo  animo e deliberazione  nota  a ciascuno,  non
aspettò  di  entrare  in  quella  città  con  lo esercito  suo  che  lo  guardasse,  mn  % entrò  disarmato,  non  ostante  vi  fusse dentro  Giovampagolo  con  genti  assai, quali  per  difesa  di  sè  aveva  ragunate. Sicché,  portato  da  quel  furore  con  il quale  governava  tutte  le  cose,  con  la semplice  sua  guardia  si  rimesse  nelle mani  del  nemico  ; il  quale  dipoi  ne  menò seco,  lasciando  un  governadore  in  quella citta,  che  rendesse  ragione  per  la  Chiesa. Fu  notala  dagli  uomini  prudenti  che col  papa  erano,  la  temerità  del  papa  e la  viltà  di  Giovampagolo  ; uè  potevano stimare  donde  si  venisse  che  quello  noti avesse,  con  sua  perpetua  fama,  oppresso ad  un  tratto  il  nemico  suo,  e sè  arricchito di  preda,  sendo  col  papa  tutti  li cardinali,  con  tutte  le  lor  delizie.  Nè  si poteva  credere  si  fusse  astenuto  o per bontà,  o per  conscienza  che  lo  ritenesse; perchè  in  un  petto  d’ un  uomo  facinoroso, che  si  teneva  la  sorella,  che  aveva  morti i cugini  cd  i nepoti  per  regnare,  non poteva  scendere  alcuno  pietoso  rispetto: ina  si  conchiuse,  che  gli  uomini  no sanno  essere  onorevolmente  tristi,  o perfettamente buoni;  e come  una  tristizia ha  in  sè  grandezza,  o è in  alcuna  parte generosa,  eglino  non  vi  sanno  entrare. Cosi  Giovampagolo,  il  quale  non  stimava essere  incesto  e pubblico  parricida,  non seppe,  o,  a dir  meglio,  non  ardì,  avendon giusta  occasione,  fare  una  impresa, dove  ciascuno  avesse  ammirato  l’animo suo,  e avesse  di  sè  lasciato  memoria eterna;  sendo  il  primo  che  avesse  dimostro ai  prelati,  quanto  sia  da  stimar poco  chi  vive  c regna  come  loro;  ed avesse  fatto  una  cosa,  la  cui  grandezza avesse  superato  ogni  infamia,  ogni  pericolo, clic  da  quella  potesse  depeudere. Per  qual  cagione  i Romani furono  meno  ingrati  agli  loro cittadini  che  gli  Ateniesi. Qualunque  legge  le  cose  fatte  dalle repubbliche,  troverà  in  tutte  qualche spezie  di  ingratitudine  contro  a’  suoi  citladini;  ma  ne  troverà  meno  in  Roma che  in  Atene>  e per  avventura  in  qualunque altra  repubblica.  E ricercando  la cagione  di  questo,  parlando  di  Roma  c di  Atene,  credo  accadesse  perchè  i Romani avevano  meno  cagione  di  sospettare de’ suoi  cittadini,  che  gli  Ateniesi. Perchè  a Roma,  ragionando  di  lei  dalla cacciata  dei  Re  intino  a Siila  e Mario, non  fu  mai  tolta  la  libertà  da  alcuno .suo  cittadino:  in  modo  che  in  lei  non era  grande  cagione  di  sospettare  di  loro, e,  per  conseguente,  di  offendergli  inconsideratamente. intervenne  bene  ad  Atene il  contrario:  perché,  sendole  tolta  la  libertà da  Pisistrato  nel  suo  più  florido tempo,  e sotto  uno  inganno  di  bontà  ; come  prima  la  diventò  poi  libera,  ricordandosi delle  ingiurie  ricevute  e della passata  servitù,  diventò  acerrima  vendicatrice non  solamente  degli  errori,  ma delP  ombra  degli  errori  de' suoi  cittadini. Di  qui  nacque  l’esilio  e la  morte di  tanti  eccellenti  uomini;  di  qui  Pordine  dello  ostracismo,  ed  ogni  altra  violenza che  contra  i suoi  ottimati  in  vari tempi  da  quella  città  fu  fatta.  Ed  è verissimo quello  che  dicono  questi  scrit-
tori della  civiltà:  che  i popoli  mordono più  fieramente  poi  ch’egli  hanno  recuperala la  libertà,  che  poi  che  l’hanno conservala.  Chi  considerrà  adunque, quanto  è detto,  non  biasimerà  in  questo Atene,  nè  lauderà  Roma;  ma  ne  accuserà solo  la  necessità,  per  la  diversità degli  accidenti  che  in  queste  città  nacquero. Perchè  si  vedrà,  chi  considererà  le cose  sottilmente,  che  se  a Roma  fusse siila  tolta  la  libertà  come  a Atene,  non sarebbe  stata  Roma  più  pia  verso  i suoi cittadini,  che  si  fusse  quella.  Di  che  si può  fare  verissima  conieltura  per  quello che  occorse,  dopo  la  cacciata  dei  Re, contra  a Collatino  ed  a Publio  Valerio: de’ quali  il  primo,  ancora  elicsi  trovasse a liberare  Roma,  E MANDATO IN ESILIO NON PER ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro,  avendo  sol «lato  di  sè  sospetto  per  edificare  una casa  in  sul  monte  Celio,  fu  ancora  per essere  fatto  esule.  Talché  si  può  stimare, veduto  quanto  Roma  fu  in  questi due  sospettosa  e severa,  che  Farebbe usata  la  ingratitudine  come  Atene,  se da’suoi  cittadini,  come  quella  ne’ primi tempi  ed  innanzi  allo  augumento  suo, fosse  stata  ingiuriata.  G per  non  avere a tornare  più  sopra  questa  materia  della ingratitudine,  ne  dirò  quello  ne  occorrerà nel  seguente  capitolo. Quale  sia  più  ingrato , o un  popolo j o un  principe. Egli  mi  pare,  a proposito  della  soprascritta materia,  da  discorrere  quale usi  con  maggiori  esempi  questa  ingratitudine, 0 un  popolo,  o un  principe.  E per  disputare  meglio  questa  parte,  dico, come  questo  vizio  della  ingratitudine nasce  o dalla  avarizia,  o dal  sospetto. Perchè,  quando  o un  popolo  o un  priacipe  ha  mandato  fuori  un  suo  capitano in  una  cspedizione  importante,  dove quel  capitano,  vincendola,  ne  abbia acquistata  assai  gloria  ; quel  principe  o quel  popolo  è tenuto  allo  incontro  a premiarlo: e se,  in  cambio  di  premio,  o ei lo  disonora  o ei  T offende,  mosso  dalla avarizia,  non  volendo,  ritenuto  da  questa cupidità,  satisfarli;  fa  uno  errore che  non  ha  scusa,  anzi  si  tira  dietro una  infamia  eterna.  Pure  si  trovano  molti principi  che  ci  peccano.  E Cornelio TACITO  dice,  con  questa  sentenzia,  la  cagione: Proclivius  est  inj ur ite,  quarti  beneficio vicem  cxsolvcre,  quia  grafia  oneri, ultio  in  questu  fiabe  tur.  Ma  quando ei  non  lo  premia,  o,  a dir  meglio,  l’offende, non  mosso  da  avarizia,  ma  da  sospetto; allora  merita,  e il  popolo  e il principe,  qualche  scusa.  E di  queste  ingratitudini usate  per  tal  cagione,  se  ne legge  assai  : perchè  quello  capitano  il quale  virtuosamente  ha  acquistato  uno imperio  al  suo  signore,  superando  i ne-mici,  e riempiendo  sè  di  gloria  e gli suoi  soldati  di  ricchezze;  di  necessità,  e con  i soldati  suoi,  e con  i nemici,  e coi sudditi  propri  di  quel  principe  acquista tanta  reputazione,  che  quella  vittoria non  può  sapere  di  buono  a quel  signore che  lo  ha  mandato.  G perchè  la  natura degli  uomini  è ambiziosa  e sospettosa, e non  sa  porre  modo  a ntssuna  sua  fortuna, è impossibile  che  quel  sospetto  che subito  nasce  nel  principe  dopo  la  vittoria di  quel  suo  capitano,  non  sia  da quel  medesimo  accresciuto  per  qualche suo  modo  o termine  usato  insolentemente.  Talché  il  principe  non  può  peusare  ad  altro  che  assicurarsene;  e per fare  questo,  pensa  o di  farlo  morire,  o di  torgli  la  reputazione  che  egli  si  ha guadagnala  nel  suo  esercito  e ne’ suoi popoli:  e con  ogni  industria  mostrare che  quella  vittoria  è nata  non  per  la virtù  di  quello,  ma  per  fortuna,  o per viltà  dei  nemici,  o per  prudenza  degli altri  capitani  clic  sono  stati  seco  in  tale l’azione.  Poiché  Vespasiano,  sendo  in  Giudea fu  dichiarato  dal  suo  esercito  imperadore  ; Antonio  Primo,  che  si  trovava con  un  altro  esercito  in  llliria,  prese  le parti  sue,  e ne  venne  in  Italia  contea  a Vitellio  il  quale  regnava  a Roma,  e virluosissimamente  ruppe  due  eserciti  Vitelliani,  c occupò  Roma  ; talché  Muziano, mandato  da  Vespasiano,  trovò  per  la virtù  d’Antonio  acquistato  • il  tutto,  e vinta  ogni  di ffìcultà.  11  premio  che  Autonio  ne  riportò,  fu  che  Muziano  gli tolse  subito  la  ubidienza  dello  esercito, e a poco  a poco  io  ridusse  in  Roma senza  alcuna  autorità:  talché  Antonio  ne andò  a trovare  Vespasiano,  il  quale  era ancora  in  Asia;  dal  quale  fu  in  modo ricevuto,  che,  in  breve  tempo,  ridotto  in nessun  grado,  quasi  disperato  morì.  E di  questi  esempi  ne  sono  piene  le  istorie.  Ne’  nostri  tempi,  ciascuno  che  al presente  vive,  sa  con  quanta  industria e virtù  Consalvo  Ferrante,  militando  nel regno  di  Napoli  contra  a’ Franciosi  per Ferrando  Re  di  Ragona,  conquistasse  e vincesse  quel  regno;  e come,  per  pre-
mio di  vittoria,  ne  riportò  che  Ferrando si  parti  da  Ragona,  e,  venuto  a Napoli, in  prima  gli  levò  la  obedienza  delle genti  d’ arme,  c dipoi  gli  tolse  le  fortezze, ed  appresso  lo  menò  seco  in  Spagna; dove  poco  tempo  poi,  inonorato,  mori. È tanto,  dunque,  naturale  questo  sospetto ne’ principi,  che  non  se  ne  possono difendere;  ed  è impossibile  ch’egli usino  gratitudine  a quelli  che  con  vittoria hanno  fatto  sotto  le  insegne  loro grandi  acquisti.  E da  quello  che  non  si difende  un  principe,  non  è miracolo,  nè cosa  degna  di  maggior  considerazione, s.e  un  popolo  non  se  ne  difende.  Perchè, avendo  una  città  che  vive  libera,  duoi fini,  V uno  lo  acquistare,  l’altro  il  mantenersi libera  ; conviene  che  nell’  una cosa  e nell’  altra  per  troppo  amore  erri. Quanto  agli  errori  nello  acquistare,  se ne  dirà  nel  luogo  suo.  Quanto  agli  errori per  mantenersi  libera,  sono,  intra
gli  altri,  questi:  di  offendere  quei  cittadini elicla  doverrebbe  premiare;  aver sospetto  di  quelli  in  cui  si  doverrebbe confidare.  E benché  questi  modi  in  una repubblica  venuta  alla  corruzione  siano cagione  di  grandi  mali,  c che  molle volte  piuttosto  la  viene  alla  tirannide, come  intervenne  a Roma  di  Cesare,  che per  forza  si  tolse  quello  che  la  ingratitudine gli  negava;  nondimeno  in  una repubblica  non  corrotta  sono  cagione  di gran  beni,  e fanno  che  la  ne  vi\e  libera più,  mantenendosi  per  paura  ili punizione  gli  uomini  migliori,  e meno ambiziosi.  Vero  è che  infra  tutti  i popoli che  mai  ebbero  imperio,  per  le  cagioni di  sopra  discorse,  Roma  fu  la  meno ingrata  : perchè  della  sua  ingratitudine si  può  dire  che  non  ci  sia  altro  esempio che  quello  di  Scipione;  perchè  Coriolano  c Cammillo  fumo  fatti  esuli per  ingiuria  che  l’uno  e l’altro  aveva fatto  alla  Plebe.  Ma  all’  uno  non  fu  perdonato,  per  aversi  sempre  riserbato
contea  al  Popolo  l’animo  nemico;  Paiteo  non  solamente  fu  richiamato,  ma per  tutto  il  tempo  della  sua  vita  adorato  come  principe.  Ma  la  ingratitudine usata  a Scipione,  nacque  da  un  sospetto che  i cittadini  cominciorno  avere  di  lui, che  degli  altri  non  s’era  avuto:  il  quale nacque  dalla  grandezza  del  nemico  che Scipione  aveva  vinto;  dalla  reputazione che  gli  aveva  data  la  vittoria  di  sì  lunga e pericolosa  guerra;  dalla  celerità  di essa  ; dai  favori  che  la  gioventù,  la  prudenza,  e le  altre  sue  memorabili  virtuti gli  acquistavano.  Le  quali  cose  furono tante,  che,  non  che  altro,  i magistrati  di Roma  temevano  della  sua  autorità:  la qual  cosa  spiaceva  agli  uomini  savi, come  cosa  inconsueta  in  Roma.  E parve tanto  straordinario  il  vivere  suo,  che CATONE PRISCO, riputato  santo,  fu  IL PRIMO a fargli  contra  ; e a dire  che  una  città non  si  poteva  chiamare  libera,  dove  era un  cittadino  che  fusse  temuto  dai  magistrati. Talché,  se  il  popolo  di  Roma 1 seguì  in  questo  caso  L’OPINIONE DI CATONE, merita  quella  scusa  che  di  sopra ho  detto  meritare  quelli  popoli  e quelli principi  che  per  sospetto  sono  ingrati. Conchiudendo  adunque  questo  discorso, dico,  che  usandosi  questo  vizio  della  ingratitudine o per  avarizia  o per  sospetto, si  vedrà  come  i popoli  non  mai  per T avarizia  la  usorno,  e per  sospetto  assai i manco  che  i principi,  avendo  meno  cagione di  sospettare:  come  di  sotto  si dirà. Quali  modi  debbo  usare un  principe  o una  repubblica  per  fuggire questo  vizio  della  ingratitudine  : c quali  quel  capitano  o quel  cittadino per  non  essere  oppresso  da  quella. Un  principe,  per  fuggire  questa  necessità di  avere  a vivere  con  sospetto, o esser  ingrato,  debbe  personalmente andare  nelle  espedizioni;  come  facevano nel  principio  quelli  imperadori  romani, come  fu  ne’ tempi  nostri  il  Turco,  c come hanno  fatto  e fanno  quelli  che  sono virtuosi.  Perchè,  vincendo,  la  gloria  e lo acquisto  è tutto  loro;  e quando  non  vi sono,  sendo  la  gloria  d’altrui,  non  pare loro  potere  usare  quello  acquisto,  s’ ei non  spengono  in  altrui  quella  gloria  che loro  non  hanno  saputo  guadagnarsi,  e diventare  ingrati  ed  ingiusti  : e senza dubbio,  è maggiore  la  loro  perdita,  che il  guadagno.  Ma  quando,  o per  negligenza o per  poca  prudenza,  e’ si  rimangono a casa  oziosi,  c mandano  un  capitano; io  non  ho  che  precetto  dar  loro altro,  che  quello  che  per  lor  medesimi si  sanno.  .Ma  dico  bene  a quel  capitano, giudicando  io  che  non  possa  fuggire  i morsi  della  ingratitudine,  che  faccia  una delle  due  cose:  o subito  dopo  la  vittoria lasci  lo  esercito  c rimettasi  nelle  mani del  suo  principe,  guardandosi  da  ogni atto  insolente  o ambizioso;  acciocché quello,  spogliato  d’ogni  sospetto,  abbia cagione  o di  premiarlo  o di  non  lo  offendere  : o,  quando  questo  non  gli  paia di  fare,  prenda  animosamente  la  parte contraria,  e tenga  tutti  quelli  modi  per li  quali  creda  che  quello  acquisto  sia suo  proprio  e non  del  principe  suo,  facendosi benivoli  i soldati  ed  i sudditi; e faccia  nuove  amicizie  coi  vicini,  occupi con  li  suoi  uomini  le  fortezze,  corrompa i principi  del  suo  esercito,  e di quelli  che  non  può  corrompere  si.  assicuri; e per  questi  modi  cerchi  di  punire il  suo  signore  di  quella  ingratitudine che  esso  gli  userebbe.  Altre  vie non  ci  sono:  ma,  come  di  sopra  si  disse, gli  uomini  non  sanno  essere  nè  al  tutto tristi,  nè  al  tutto  buoni:  e sempre  interviene che,  subito  dopo  la  vittoria, lasciare  lo  esercito  non  vogliono,  portarsi modestamente  non  possono,  usare termini  violenti  e che  abbino  in  sè  Tonorevole,  non  sanno;  talché,  stando  ambigui, intra  quella  loro  dimora  ed  ambiguità, sono  oppressi.  Quanto  ad  una repubblica,  volendo  fuggire  questo  vizi dello  ingrato,  non  si  può  dare  il  medesimo rimedio  che  al  principe;  cioè  che vadia,  e non  mandi,  nelle  cspedizioni sue,  sendo  necessitate  a mandare  un  suo cittadino.  Conviene,  pertanto,  che  pei*rimedio  io  le  dia,  che  la  tenga  i medesimi modi  che  tenne  la  repubblica  romana, ad  esser  meno  ingrata  che  l’altre: il  che  nacque  dai  modi  del  suo  governo. Perchè,  adoperandosi  tutta  la  città,  e gli nobili  e gli  ignobili,  nella  guerra,  surgeva sempre  in  Roma  in  ogni  età  tanti uomini  virtuosi,  ed  ornati  di  varie  vittorie, che  il  popolo  non  avea  cagione  di dubitare  di  alcuno  di  loro,  sendo  assai, c guardando  P uuo  Patirò.  E in  tanto si  mantenevano  interi,  e respettivi  di non  dare,  ombra  di  alcuna  ambizione, uè  cagione  al  popolo,  come  ambiziosi, d*  offendergli  ; che  venendo  alla  dittatura, quello  maggior  gloria  ne  riportava, che  più  tosto  la  deponeva.  E cosi,  non potendo  simili  modi  generare  sospetto, non  generavano  ingratitudine.  In  modo che,  una  repubblica  che  nott  voglia avere  cagione  d’essere  ingrata,  si  debbo governare  come  Roma  ; c uno  cittadino che  voglia  fuggire  quelli  suoi  morsi, debbc  osservare  i termini  osservati  dai cittadini  romani. Che  » capitani  romani per  errore  commesso  ?io«  furono  mai istraordinariamcnlc  puniti;  nè  furono mai  ancora  puniti  quando,  per  la ignoranza  loro  o tristi  partiti  presi da  loro,  ne  fissino  seguiti  danni  alla repubblica. 1 Romani,  non  solamente,  come  di  sopra avemo  discorso,  furono  manco  ingrati die  V altre  repubbliche,  ma  furono ancora  più  pii  e più  respctlivi  nella  punizione de’ loro  capitani  degli  eserciti, che  alcune  altre.  Perchè,  se  il  loro  errore fussc  stato  per  malizia,  e’  lo  gastigavano  umanamente;  se  gli  era  per ignoranza,  non  che  lo  punissino,  e’ lo premiavano  ed  onoravauo.  Questo  modo del  procedere  era  bene  considerato  da -loro:  perchè  e' giudicavano  che  fusse  di tanta  importanza  a quelli  che  governavano  gli  eserciti  loro,  lo  avere  l’animo libero  ed  espedito,  e senza  altri  estrinsechi rispetti  nel  pigliare  i parliti,  che non  volevano  aggiugnere  ad  una  cosa per  sè  stessa  difficile  e pericolosa,  nuove difficultà  c pericoli  ; pensando  che  aggiugttendovcli,  nessuno  potesse  essere che  operasse  mai  virtuosamente.  Verbigrazia,  e’ mandavano  uno  esercito  in Grecia  contra  a Filippo  di  Macedonia,  o in  Italia  contra  ad  Annibale,  o contro  a quelli  popoli  che  vinsono  prima.  Era questo  cupitano  clic  era  preposto  a tale espedizione,  angustiato  da  tutte  quelle cure  che  si  arrecavano  dietro  quelle faccende,  le  quali  sono  gravi  e importantissime. Ora,  se  a tali  cure  si  fus»sino  aggiunti  più  esempi  di  Romani ch’eglino  avessino  crucifissi  o altrimenti morti  quelli  che  avessino  perdute  le giornale,  egli  era  impossibile  che  quello capitano  intra  tanti  sospetti  potesse  deliberare strenuamente.  Però,  giudicando essi  che  a questi  tali  fusse  assai  pena la  ignominia  dello  avere  perduto,  non gli  vollono  con  altra  maggior  pena  sbigottire. Uno  esempio  ci  è,  quanto  allo errore  commesso  non  per  ignoranza. Erono  Sergio  e Virginio  a campo  a Veio, ciascuno  preposti  ad  una  parte  dello esercito;  de’ quali  Sergio  era  all’incontro donde  potevano  venire  i Toscani,  c Virginio  dall’  altra  parte.  Occorse  che sendo  assaltato  Sergio  dai  Falisci  e da altri  popoli,  sopportò  d’  essere  rotto  c fugato  prima  che  mandare  per  aiuto  a Virginio.  E dall’altra  parte,  Virginio aspettando  che  si  umiliasse,  volle  piuttosto vedere,  il  disonore  della  patria  sua,
e la  rovina  di  quello  esercito,  clic  soccorrerlo. Caso  veramente  esemplare  e tristo,  c da  fare  non  buona  coniettura della  Repubblica  romana,  se  1’  uno  c l’altro non  fusscro  stati  gasligali.  Vero  è che,  dove  un’altra  repubblica  gli  a r ebbe puniti  di  pena  capitale,  quella  gli  punì in  danari.  II  che  nacque  non  perchè  i peccali  loro  non  meritassino  maggior punizione,  ma  perchè  -gli  Romani  voiiono  in  questo  caso,  per  le  ragioni  già dette,  mantenere  gli  antichi  costumi  loro. E quanto  agii  errori  per  ignoranza,  non ci  è il  più  bello  esempio  che  quello  di VARRRONE (si veda):  per  la  temerità  del  quale  sendo rotti  i Romani  a Canne  da  Annibaie, dove  quella  Repubblica  portò  pericolo della  sua  libertà;  nondimeno,  perchè  vi fu  ignoranza  e non  malizia,  non  solamente  non  lo  gastigorno  ma  lo  onororno,  e gli  andò  incontro  nella  tornata sua  in  Roma  tutto  l’Ordine  senatorio; e non  lo  potendo  ringraziare  della  zuffa, Io  ringraziarono  eh’  egli  era  tornato  in Roma,  c non  si  era  disperato  delle  cose romane.  Quando  Papirio  Cursore  volevu fare  morire  Fabio,  per  avere  contea  al suo  comandamento  combattuto  coi  Sanniti; intra  le  altre  ragioni  che  dal  patire  di  Fabio  erano  assegnale  conira  alla ostinazione  del  Dittatore,  era  che  il  Popolo romano  in  alcuna  perdita  de’ suoi Capitani  non  aveva  fatto  mai  quello  che Papirio  nella  vittoria  voleva  fare. XXXII. Una  repubblica  o uno principe  non  < lebbe  differire  a beneficare gli  uomini  nelle  sue  necessitati. Ancora  che  ai  Romani  succedesse  felicemente essere  liberali  al  Popolo,  sopravvenendo il  pericolo,  quando  Porsena  venne  ad  assaltare  Roma  per rimettere  i Tarquini  ; dove  il  Senato  dubitando della  Plebe,  che  non  volesse  piuttosto accettare  i Re  che  sostenere  la guerra,  per  assicurarsene  la  sgravò  delle gabelle  del  sale,  e d’ogni  gravezza  ; dicendo come  i poveri  assai  operavano  in benefizio  pubblico  se  ci  nutrivano  i lorofigliuoli  ; e che  per  questo  benefizio  quel Popolo  si  esponesse  a sopportare  ossidione,  fame  e guerra:  non  sia  alcuno
che,  confidatosi  in  questo  esempio,  differisca ne’tempi  de’  pericoli  a guadagnarsi il  Popolo;  perchè  mai  gli  riuscirà  quello che  riuscì  ni  Romani.  Perchè  lo  universale giudicherà  non  avere  quel  bene  date,  ma  dogli  avversari  tuoi;  e dovendo temere  che,  passata  la  necessità,  tu  ritolga loro  quello  che  hai  forzatamente loro  dato,  non  arà  tcco  obbligo  alcuno. E la  cagione  perchè  ai  Romani  tornò bene  questo  partilo,  fu  perchè  lo  Stato era  nuovo,  e non  per  ancora  fermo;  ed aveva  veduto  quel  Popolo,  come  innanzi si  erano  fatte  leggi  in  benefizio  suo, come  quella  delia  appellagione  alla  Plebe; in  modo  che  ei  potette  persuadersi  che quel  bene  gli  era  fatto,  non  era  tanto causato  dalla  venuta  dei  nemici,  quanto dalla  disposizione  del  Senato  in  beneficarli. Olirà  di  questo,  la  memoria  dei Re  era  fresca;  dai  quali  erano  stati  in molti  modi  vilipesi  ed  ingiuriati.  E per-chè simili  cagioni  accaggiono  rade  volte, occorrerà  ancora  rade  volte  che  simil remedi  giovino.  Però,  debbe  qualunque tiene  stato,  cosi  repubblica  come  principe, considerare  inuanzi,  quali  tempi gli  possono  venire  addosso  contrari,  c di  quali  uomini  ne’ tempi  avversi  si  può avere  di  bisogno;  e dipoi  vivere  con loro  in  quel  modo  che  giudica,  sopravvegnente  qualunque  caso,  essere  necessitato vivere.  E quello  che  altrimenti  si governa,  o principe  o repubblica,  e massime un  principe;  e poi  in  sul  fatto crede,  quando  il  pericolo  sopravviene, coi  benefìzii  riguadagnarsi  gli  uomini; se  ne  inganna  : perchè  non  solamente non  se  ne  assicura,  ma  accelera  la  sua rovina. Quando  uno  inconveniente è cresciuto  o in  uno  Stalo  o con  tra  ad  uno  Stato  , è più  salutifero partito  temporeggiarlo  che  urtarlo. Crescendo  In  Repubblica  romana  in reputazione,  forze  ed  imperio,  i vicini,  i quali  prima  non  avevano  pensato  quanto quella  nuova  Repubblica  potesse  arrecare loro  di  danno,  coniinciorno,  ma tardi,  a conoscere  lo  errore  loro  ; e volendo rimediare  a quello  che  prima  non avevano  rimediato,  conspirorno  ben  quaranta popoli  contra  a Roma  : donde  i Romani,  intra  gli  altri  rimedi  soliti  farsi da  loro  negli  urgenti  pericoli,  si  volsono a creare  il  Dittatore  ; cioè  dare  potestà ad  uno  uomo  che  senza  alcuna  consulta potesse  deliberare,  e senza  alcuna  appellagione  potesse  eseguire  le  sue  deliberazioni. Il  quale  rimedio  come  allora fu  utile,  e fu  cagione  che  vincessero gl*  imminenti  pericoli,  cosi  fu  sempre utilissimo  in  tutti  quelli  accidenti  che,
nello  augumento  dello  imperio,  in  qualunque tempo  surgessino  contra  alla  Repubblica. Sopra  il  qual  accidente  è da discorrere  prima,  come  quando  uno  inconveniente che  surga,  o in  una  repubblica o contra  ad  una  repubblica,  causato  da  cagione  intrinseca  o estrinseca, è diventalo  lauto  grande  clic  e’ comincia far  paura  a ciascuno;  è mollo  più  sicuro partilo  temporeggiarsi  con  quello, che  tentare  di  estinguerlo.  Perchè,  quasi sempre  coloro  che  tentano  di  ammorzarlo, fanno  le  sue  forze  maggiori,  e fanno  accelerare  quel  male  che  da  quello si  suspettava.  E di  questi  simili  accidenti ne  nasce  nella  repubblica  più spesso  per  cagione  intrinseca,  che  estrinseca : dove  molte  volte,  o e’ si  lascia  pigliare ad  uno  cittadino  più  forze  che non  è ragionevole,  o e’  si  comincia  a corrompere  uua  legge,  la  quale  è il  nervo e la  vita  del  vivere  libero;  e lasciasi trascorrere  questo  errore  in  tanto,  che gli  è più  dannoso  partito  il  volervi  rimediare, che  lasciarlo  seguire.  E tanto più  è difficile  il  conoscere  questi  inconvenienti quando  e’ nascono,  quanto  e’pare  più  naturale  agli  uomini  favorire sempre  i principii  delle  cose.  E tali  favori possono,  più  che  in  alcuna  altra cosa,  nelle  opere  che  paiono  che  abbino in  sè  qualche  virtù,  e siano  operale da’ giovani:  perchè,  se  in  una  rcpubblica  si  vede  surgere  un  giovane  nobile, quale  abbia  in  sè  virtù  istraordinaria, lutti  gli  occhi  de’  cittadini  si  cominciano a voltare  verso  di  lui,  e concorrono senza  alcuno  rispetto  ad  onorarlo  ; in modo  che,  se  in  quello  è punto  d*  ambizione, accozzati  i favori  che  gli  dà  la natura  e questo  accidente,  viene  subito in  luogo,  che  quando  i cittadini  si  avveggono dell'errore  loro,  hanno  pochi rimedi  ad  ovviarvi;  e volendo  quelli tauti  ch’egli  hanno,  operarli,  non  fanno altro  che  accelerare  la  potenza  sua.  Di questo  se  ne  potrebbe  addurre  assai esempi,  ma  io  ne  voglio  dare  solamente uno  della  citta  nostra.  Cosimo  de’ MEDICI, dal  quale  la  casa  de’  Medici  in  la  nostra città  ebbe  il  principio  della  sua  grandezza, venne  in  tanta  reputazione  col favore  che  gli  dette  la  sua  prudenza  e la  ignoranza  degli  altri  cittadini,  che  ei cominciò  a fare  paura  allo  Stato;  in modo  clic  gli  altri  cittadini  giudicavano l’offenderlo  pericoloso,  ed  il  lasciarlo stare  cosa  pericolosissima.  Ma  vivendo in  quei  tempi  Niccolò  da  Uzzano,'  il quale  nelle  cose  civili  era  tenuto  uomo espertissimo,  ed  avendo  fatto  il  primo errore  di  non  conoscere  i pericoli  clic dalla  reputazione  di  Cosimo  potevano nascere;  mentre  che  visse,  non  permesse mai  clic  si  facesse  il  secondo,  cioè  che si  tentasse  di  volerlo  spegnere,  giudicando tale  tentazione  essere  al  tutto  la rovina  dello  Stato  loro;  come  si  vide  in fatto  clic  fu,  dopo  la  sua  morte  : perchè, non  osservando  quelli  cittadini  che  rimasono,  questo  suo  consiglio,  si  feciono forti  contra  a Cosimo,  e lo  cacciorno  da Firenze.  Donde  ne  nacque  che  la  sua parte,  per  questa  ingiuria  risentitasi, poco  dipoi  lo  chiamò,  e lo  fece  principe della  repubblica:  al  quale  grado  senza quella  manifesta  opposizione  non  sarebbe mai  potuto  ascendere.  Questo  medesimo intervenne  a Roma  con  Cesare;  chè  favorita  da  Pompeio  e dagli  altri  quella sua  virtù,  si  convertì  poco  dipoi  quel favore  in  paura:  di  che  fa  testimonio CICERONE,  dicendo  che  Pompeio  aveva tardi  cominciato  a temer  Cesare.  La qual  paura  fece  che  pensorono  ai  rimedi ; e gli  rimedi  che  feciono,  accelerorno  la  rovina  della  loro  Repubblica. Dico  adunque,  che  dipoi  che  gii  è difficile conoscere  questi  mali  quando  e’surgono,  causata  questa  difficultà  da  uno inganno  che  ti  fanno  le  cose  in  principio ; è più  savio  partito  il  temporeggiarle poiché  le  si  conoscono,  che  l’oppugnarle : perchè  temporeggiaudole,  o per  lor  medesime  si  spengono,  o almeno il  male  si  differisce  in  più  lungo tempo.  E in  tutte  le  cose  debbono  aprir gli  occhi  i principi  che  disegnano  cancellarle, o alle  forze  ed  impeto  loro  opporsi; di  non  dare  loro,  in  cambio  di detrimento,  augumento  ; e credendo  sospingere una  cosa,  tirarsela  dietro,  ovvero soffocare  una  pianta  con  anuaffiarla.  Ma  si  debbe  considerare  bene  le forze  del  malore,  c quando  ti  vedi  suffizientc  a sanarlo,  mettervili  senza  rispetto: altrimenti,  lasciarlo  stare,  nò  in alcun  modo  tentarlo.  Perchè  interverrebbe, come  di  sopra  si  discorre,  e come  intervenne  a’ vicini  di  Roma:  ai quali,  poiché  Roma  era  cresciuta  in tanta  potenza,  era  più  salutifero  con gli  modi  della  pace  cercare  di  placarla c ritenerla  addietro,  che  coi  modi della  guerra  farla  pensare  a nuovi  ordini e nuove  difese.  Perchè  quella  loro congiura  non  fece  altro  che  farli  più uniti,  più  gagliardi,  e pensare  a modi nuovi,  medinoti  i quali  in  più  breve tempo  ampliorono  la  potenza  loro.  Intra’quali  fu  la  creazione  del  Dittatore; per  lo  quale  nuovo  ordine  non  solamente superorono  gli  imminenti  pericoli, ma  fu  cagione  di  ovviare  a infiniti mali , ne’  quali  senza  quello  rimedio quella  repubblica  sarebbe  incorsa, v-.j.  ;•  vk'u Urlimi*  llìl  tòt* XXXIV.  — l/autorità  dittatoria  fece bene , c non  danno , alla  repubblica romana:  c come  le  autorità  che  i cittadini si  tolgono s non  quelle  che  sono loro  dai  suffragi  liberi  date , sono  alla vita  civile  perniciose. E’  sono  stati  dannati  da  alcuno  scrittore quelli  Romani  che  trovorono  in quella  città  il  modo  di  creare  il  Dittatore, come  cosa  che  fusse  cagione,  col tempo,  della  tirannide  di  Roma;  allegando, come  il  primo  tiranno  che  fusse in  quella  città,  la  comandò  sotto  questo titolo  dittatorio;  dicendo  che  se  non  vi fusse  stato  questo,  Cesare  non  arebbe potuto  sotto  alcuno  titolo  pubblico  adonestare la  sua  tirannide.  La  qual  cosa  non fu  bene  da  colui  che  tenne  questa  oppinione  esaminala,  e fu  fuori  d’ogni  ragione creduta.  Perchè,  e’  non  fu  il  nome nè  il  grado  del  Dittatore  che  facesse serva  Roma,  ma  fu  l’ autorità  presa  dai cittadini  per  ia  diuturnità  dello  imperio: c se  in  Roma  fusse  mancato  il  nome dittatorio,  ne  arebbon  preso  un  altro; perchè  e’  sono  le  forze  che  facilmente s’acquistano  i nomi,  non  i nomi  le  forze. si  vedde  che  ’1  Dittatore,  mentre che  fu  dato  secondo  gli  ordini  pubblici, c non  per  autorità  propria,  fece  sempre bene  alla  città.  Perchè  e’  nuocono  alle repubbliche  i magistrati  che  si  fanno  e l’autoritati  che  si  danno  per  vie  istraor-dinarie;  non  quelle  che  vengono  per  vieordinarie:  come  si  vede  che  segui  inRoma  in  tanto  progresso  di  tempo,  chemai  alcuno  Dittatore  fece  se  non  benealla  Repubblica.  Di  che  ce  ne  sono  ra-gioni evidentissime.  Prima,  perchè  a vo-lere che  un  cittadino  possa  offendere  epigliarsi  autorità  istraordinaria,  convienech’egli  abbia  molte  qualità  le  quali  inuna  repubblica  non  corrotta  non  puòmai  avere:  perchè  gli  bisogna  esserericchissimo,  ed  avere  assai  aderenti  epartigiani,  i quali  non  può  avere  dovele  leggi  si  osservano;  e quando  pure  vgli  avesse,  simili  uomini  sono  in  modoformidabili,  che  i suffragi  liberi  nonconcorrono  in  quelli.  Oltra  di  questo,il  Dittatore  era  fatto  a tempo,  e nonin  perpetuo,  e per  ovviare  solamente  quella  cagione  mediante  la  quale  eracreato  ; e la  sua  autorità  si  estendevain  potere  deliberare  per  sè  stesso  circai modi  di  quello  urgente  pericolo,  e fareogni  cosa  senza  consulta,  e punire  cia-scuno senza  appellagione:  ma  non  po-teva far  cosa  che  fusse  in  diminuzionedello  Stato;  come  sarebbe  stato  torreautorità  al  Senato  o al  Popolo,  disfaregli  ordini  vecchi  della  città,  e farnede’  nuovi.  In  modo  che,  raccozzato  ilbreve  tempo  della  sua  dittatura,  c l’ autorità limitata  che  egli  aveva,  ed  il  po-polo romano  non  corrotto;  era  impos-sibile ch’egli  uscisse  de’ termini  suoi,  enoccsse  alla  città:  e per  esperienza  sivede  che  sempre  mai  giovò.  E veramen-te, infra  gli  altri  ordini  romani,  questoè uno  che  merita  esser  consideralo,  econnumerato  infra  quelli  che  furono  ca-gione della  grandezza  di  tanto  imperio;perchè  senza  un  simile  ordine  le  cittàcon  difficoltà  usciranno  degli  accidentiistra ordinari  : perchè  gli  ordini  consuetinelle  repubbliche  hanno  il  moto  tardo(non  potendo  alcuno  consiglio  nè  alcunomagistrato  per  sè  stesso  operare  ognicosa,  ma  avendo  in  molle  cose  bisognol’uno  dell’altro),  e perchè  nel  raccozzareinsieme  questi  voleri  va  tempo,  sono  irimedi  loro  pericolosissimi,  quando  eglihanno  a rimediare  a una  cosa  che  nonaspetti  tempo.  E però  le  repubblichedebbono  intra’  loro  ordini  avere  un  sl-mile modo  : e la  Repubblica  veneziana,la  quale  intra  le  moderne  repubblicheè eccellente,  ha  riservato  autorità  a pa-chi  cittadini,  che  ne’  bisogni  urgenti,senza  maggiore  consulta,  tutti  d’accordopossino  deliberare.  Perchè  quando  inuna  repubblica  manca  un  simil  modo
è necessario,  o servando  gli  ordini  ro-vinate,  o per  non  rovinare  rompergli.Ed  in  una  repubblica  non  vorrebbe  maiaccader  cosa,  che  coi  modi  estraordinaris’ avesse  a governare.  Perchè,  ancorache  il  modo  istraordinario  per  allorafacesse  bene,  nondimeno  lo  esempio  famale  ; perchè  si  mette  una  usanza  dirompere  gli  ordini  per  bene  che  poisotto  quel  colore  si  rompono  per  male.Talché  mai  Ha  perfetta  una  repubblica,se  con  le  leggi  sue  non  ha  provvisto  atutto,  e ad  ogni  accidente  posto  ti  ri*medio,  e dato  il  modo  a governarlo.  Eperò,  conchiudendo,  dico  che  quelle  re-pubbliche le  quali  negli  urgenti  pericolinon  hanno  rifugio  o al  Dittatore  o asimili  autoritati,  sempre  ne’  gravi  acci-denti rovineranno.  È da  notare  in  que-sto nuovo  ordine,  il  modo  dello  elegger-lo, quanto  dai  Romani  fu  saviamenteprovvisto.  Perchè,  sendo  la  creazionedel  Dittatore  con  qualche  vergogna  deiConsoli,  avendo,  di  capi  della  città,  avenire  sotto  una  ubidienza  come  gli  al-  tri  ; e presupponendo  che  di  questoavesse  a nascere  isdegno  fra  i cittadini; vollono  che  l' autorità  dello  eleggerlo fusse  nei  Consoli:  pensando  che  quando V accidente  venisse,  che  Roma  avesse bisogno  di  questa  regia  potestà,  e’  lo avessino  a fare  volentieri;  e facendolo loro,  che  dolessi  lor  meno.  Perchè  le ferite  ed  ogni  altro  male  che  Y uomo  si fa  da  sè  spontaneamente  e per  elezione, dolgono  di  gran  lunga  tneuo,  che  quelle che  ti  sono  fatte  da  altri.  Ancora  che poi  negli  ultimi  tempi  i Romani  usassino,  in  cambio  del  Dittatore,  di  dare tale  autorità  al  Cousole,  con  queste  parole: Videat  Constila  ne  Respublica  quiddetrimenti  captai . E per  tornare  alla materia  nostra,  conchiudo,  come  i vicini di  Roma  cercando  opprimergli,  gli  fcciono  ordinare,  non  solamente  a potersi difendere,  ma  a potere,  con  più  forza, più  consiglio  e più  autorità,  offender loro. La  cagione  perchè  in Roma  la  creazione  del  decemvirato  fa nociva  alla  libertà  di  quella  repubblicaj  non  ostante  che  fosse  creato po'  suffragi  pubblichi  e liberi. E’ pare  contrario  a quel  clic  di  sopra è discorso;  che  quella  autorità  che  si occupa  con  violenza,  non  quella  eh’ è data  con  gli  suffragi,  nuoce  alle  repubbliche; la  elezione  dei  dicci  cittadini  creati dal  Popolo  romano  per  fare  le  leggi  in Roma:  i quali  ne  diventorno  col  tempo tiranni,  e senza  alcun  rispetto  occuporno  la  libertà  di  quella.  Dove  si  debbe considerare  i modi  del  dare  {'autorità, ed  il  tempo  perchè  la  si  dà.  E quando e’ si  dia  autorità  libera,  col  tempo  lungo, chiamando  il  tempo  lungo  un  anno,  o più;  sempre  fia  pericolosa;  e farà  gli effetti  o buoni  o tristi,  secondo  che  fieno tristi  o buoni  coloro  a chi  la  sarà  data. E se  si  considera  l’autorità  che  ebber i Dicci,  e quella  che  avevano  i Dittalori,  si  vedrò  senza  comparazione  quella de’ Dieci  maggiore.  Perchè,  creato  il  Dittatore, rimanevano  i Tribuni,  i Consoli, il  Senato,  con  la  loro  autorità  ; nò  il Dittatore  la  poteva  torre  loro:  e s* egli avesse  potuto  privare  uno  del  consolato, uno  del  senato,  ei  non  poteva  annullare l’ordine  senatorio,  e fare  nuove leggi.  In  modo  che  il  Senato,  i Consoli ed  i Tribuni,  restando  con  l’autorità loro,  venivano  ad  essere  come  sua  guardia, a farlo  non  uscire  della  via  diritta. Ma  nella  creazione  dei  Dieci  occorse tutto  il  contrario  ; perchè  gli  annullorno i Consoli  cd  i Tribuni,  dettono  loro  autorità di  fare  leggi,  ed  ogni  altra  cosa, come  il  Popolo  romano.  Talché,  trovandosi soli,  senza  Consoli,  senza  Tribuni, senza  appcllagionc  al  Popolo  ; e per questo  non  venendo  ad  avere  chi  osscrvassegli,  ei  poterono,  il  secondo  anno, mossi  dall’  ambizione  di  Appio,  diventare insolenti.  E per  questo  si  debbo  notare, che  quando  e’ si  è detto  che  una  autorità  data  da’  suffragi  liberi,  non  offese mai  alcuna  repubblica;  si  presuppone che  un  popolo  non  si  conduca inai  a darla,  se  non  con  le  debite  circonstanzie,  e ne’ debiti  tempi:  ma quando,  o per  essere  ingannato,  o per qualche  altra  cagione  che  lo  accecasse, e’ si  conducesse  a darla  imprudentemente, e nel  modo  che  ’l  Popolo  romano  la dette  a’  Dieci,  gl’  interverria  sempre  come a quello.  Questo  si  prova  facilmente, considerando  quali  cagioni  mantenessero i Dittatori  buoni,  e quali  facessero  i Dieci  cattivi;  e considerando  ancora, come  hanno  fatto  quelle  repubbliche  che sono  state  tenute  bene  ordinate,  nel  dare 1*  autorità  per  lungo  tempo;  come  davano gli  Spartani  agli  loro  Re,  e come  danno i Veniziani  ai  loro  Duci:  perchè  si  vedrà, all*  uno  ed  all’  altro  modo  di  costoro esser  poste  guardie,  che  facevano  che  i Re  non  potevano  usare  male  quella  autorità. Nè  giova  in  questo  caso,  che  la materia  non  sia  corrotta;  perchè  una autorità  assoluta,  in  brevissimo  tempo corrompe  la  materia,  c si  fa  amici  c partigiani.  Nè  gli  nuoce  o esser  povero, o non  avere  parenti;  perché  le  ricchezze cd  ogni  altro  favore  subito  gli  corre dietro:  come  particolarmente  nella  creazione de’ detti  Dieci  discorreremo. Pioti  debbono  i cittadini che  hanno  avuti  » maggiori  onori, sdegnarsi  de*  minori. Avevano  i Romani  fatti  Marco  Fabio e G.  Manilio  consoli,  e vinta  una  gloriosissima giornata  contea  a’  Veicnti  e gli Etruschi;  nella  quale  fu  morto  Quinto Fabio,  fratello  del  consolo,  quale  Io  anno davanti  era  stato  consolo.  Dove  si  debbe  considerare,  quanto  gli  ordini  di quella  città  erano  atti  a farla  grande; c quanto  le  altre  repubbliche  che  si  discostano dai  modi  suoi,  s’ingannano. Perchè,  ancora  che  i Romani  fussino amatori  grandi  della  gloria,  nondimeno
non  stimavano  cosa  disonorevole  ubbidire ora  a chi  altra  volta  essi  avevano comandato,  e trovarsi  a servire  in  quello esercito  del  quale  erano  stati  principi. 11  qual  costume  è contrario  alla  oppinione,  ordini  e modi  de’  cittadini  de’tempi nostri:  ed  in  Vinegia  è ancora  questo errore,  che  uno  cittadino  avendo  avuto un  grado  grande,  si  vergogni  di  accettare uno  minore;  e la  citta  gli  consente che  se  ne  possa  discostare.  La  qual  cosa, quando  fusse  onorevole  per  il  privato, è al  tutto  inutile  per  il  pubblico.  Perchè più  speranza  debbe  avere  una  repubblica, e più  confidare  in  uno  cittadino che  da  un  grado  grande  scenda  a governare  uno  minore,  che  in  quello clic  da  uno  minore  salga  a governare  un maggiore.  Perchè  a costui  non  può  ragionevolmente credere,  se  non  li  vede uomini  intorno,  i qiiali  siano  di  tanta riverenza  o di  tanta  virtù,  che  la  novità di  colui  possa  essere  con  il  consiglio  ed autorità  loro  moderata.  E quando  in Roma  fosse  stata  la  consuetudine  quale in  Vinegia,  e nell'  altre  repubbliche  c regni  moderni,  che  chi  era  stato  una volta  Consolo,  non  volesse  mai  più  andare negli  eserciti  se  non  consolo;  ne sarebbono  nate  infinite  cose  in  disfavore del  viver  libero;  e per  gli  errori  che arebbono  fatti  gli  uomini  nuovi,  e per P ambizione  che  loro  arebbono  potuto usare  meglio,  non  avendo  uomini  intorno, nel  conspetto  de’ quali  ei  temessino errare;  e cosi  sarebbero  venuti  ad  essere più  sciolti  : il  che  sarebbe  tornato tutto  in  detrimento  pubblico. Quali  scandali  partorì in  Roma  la  legge  agraria  : e come fare  una  logge  in  una  repubblica  che risguardi  assai  indietro > e sia  conira ad  una  consuetudine  antica  della  città , è scandalosissimo. Egli  è sentenza  degli  antichi  scrittori, come  gli  uomini  sogliono  affliggersi  nel male  c stuccarsi  nel  benej  e come  dul1’  una  e dall*  altra  di  queste  due  passioni nascono  i medesimi  effetti.  Perchè,  qualunque volta  è tolto  agli  uomini  il  combattere per  necessità,  combattono  per ambizione:  la  quale  è tanto  potente  ne’ petti  umani,  che  mai,  a qualunque  grado si  salgano,  gli  abbandona.  La  cagione  è, perchè  la  natura  ha  creati  gli  uomini in  modo,  che  possono  desiderare  ogni cosa,  e non  possono  conseguire  ogni cosa  : talché,  essendo  sempre  maggiore il  desiderio  che  la  potenza  dello  acquistare, ne  risulta  la  mala  contentezza  di quello  che  si  possiede,  e la  poca  satisfazionc  di  esso.  Da  questo  nasce  il  variare della  fortuna  loro:  perchè  desiderando gli  uomini,  parte  di  avere  più, parte  temendo  di  non  perdere  lo  acquistato, si  viene  alle  inimicizie  ed  alla guerra  ; dalla  quale  nasce  la  rovina  di quella  provincia,  e la  esaltazione  di  quel1’  altra.  Questo  discorso  ho  fatto  perchè alla  Plebe  romana  non  bastò  assicurarsi de’  Nobili  per  la  creazione  de’  Tribuni, al  quale  desiderio  fu  constretta  per  necessità ; che  lei  subito,  ottenuto  quello, cominciò  a combattere  per  ambizione, e volere  con  la  Nobiltà  dividere  gli  onori e le  sustanze,  come  cosa  stimata  più dagli  uomini.  Da  questo  nacque  il  morbo che  partorì  la  contenzione  della  legge agraria,  ed  in  (ine  fu  causa  della  distruzione della  Repubblica  romana.  E perchè le  repubbliche  bene  ordinate  hanno a tenere  ricco  il  pubblico,  e li  loro  cittadini poveri  ; convenne  che  fusse  nella città  di  Roma  difetto  in  questa  legge: la  quale  o non  fusse  fatta  nel  principio in  modo  che  la  non  si  avesse  ogni  di  a ritrattare;  o che  la  si  differisse  tanto in  farla,  che  fusse  scandotoso  il  riguardarsi indietro;  o sendo  ordinata  bene da  prima,  era  stata  poi  dall’  uso  corrotta; talché,  in  qualunque  modo  si  fusse, mai  non  si  parlò  di  questa  legge  in Roma,  che  quella  città  non  andasse  sottosopra. Aveva  questa  legge  duoi  capi principali.  Ter  l’ uno  si  disponeva  clic non  si  potesse  possedere  per  alcun  cittadino più  che  tanti  iugeri  di  terra; per  V altro,  che  i campi  di  che  si  privavano i nimici,  si  dividessino  intra  il popolo  romano.  Veniva  pertanto  a fare di  duoi  sorte  offese  ai  Nobili:  perchè quelli  che  possedevano  più  beni  non permetteva  la  legge  (quali  erano  la  maggior  parte  de’  Nobili),  ne  avevano  ad  esser privi  ; e dividendosi  intra  la  Plebe i beni  de’  nimici,  si  toglieva  a quelli  la via  dello  arricchire.  Sicché,  venendo  ad essere  queste  offese  contra  ad  uomini potenti,  e che  pareva  loro,  contrastandola, difendere  il  pubblico;  qualunque volta,  com’ è detto,  si  ricordava,  andava sottosopra  quella  città  : ed  i Nobili  con pazienza  ed  industria  la  temporeggiavano, o con  trac  fuora  un  esercito,  o che a quel  Tribuno  che  la  proponeva  si  opponesse uno  altro  Tribuno;  o talvolta cederne  parte;  ovvero  mandare  una  colonia in  quel  luogo  che  si  avesse  a distribuire:  come  intervenne  del  contado di  Anzio,  per  il  quale  surgendo  questa disputa  della  legge,  si  mandò  in  quel luogo  una  colonia  traila  di  Roma,  alla quale  si  consegnasse  detto  contado.  Dove L.  usa  un  termine  notabile, dicendo  clic  con  ditTìcultà  si  trovò  in Roma  eli i desse  il  nome  per  ire  in  detta colonia:  tanto  era  quella  Plebe  più  pronta a volere  desiderare  le  cose  in  Homa, che  a possederle  in  Anzio  ! Andò  questo umore  di  questa  legge  così  travagliandosi un  tempo,  tanto  che  i Romani  cominciarono a condurre  le  loro  armi  nelle estreme  parti  di  Italia,  o fuori  di  Italia; dopo  al  qual  tempo  parve  che  la  restasse. Il  che  nacque  perchè  i campi  che  possedevano i nimici  di  Roma  essendo  discosti dagli  occhi  della  Plebe,  cd  in  luogo dove  non  gli  era  facile  il  coltivargli, veniva  meno  ad  esserne  desiderosa:  ed ancora  i Romani  erano  meno  punitori tic’ loro  nemici  in  siinil  modo;  e quando pure  spogliavano  alcuna  terra  del  suo contado,  vi  distribuivano  colonia.  Tanto che  per  tali  cagioni  questa  legge  stette come  addormentata  inOno  a’  Gracchi: da’  quali  essendo  poi  svegliata,  rovinò al  tutto  la  libertà  romana;  perchè  la trovò  raddoppiata  la  potenza  de’  suoi avversari,  e si  accese  per  questo  tante odio  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che  si venne  all’  armi  ed  al  sangue,  fuor  d’ogni modo  e costume  civile.  Talché,  non  potendo i pubblici  magistrati  rimediarvi, nè  sperando  più  alcuna  delle  fazioni  in quelli,  si  ricorse  a’ rimedi  privati,  e ciascuna delle  parti  pensò  di  farsi  uno  capo che  la  difendesse.  Pervenne  in  questo scandalo  e disordine  la  Plebe,  e volse  la sua  riputazione  a Mario,  tanto  che  la  lo fece  quattro  volte  Consolo;  ed  in  tanto continuò  con  pochi  intervalli  il  suo  consolato, che  si  potette  per  sè  stesso  far Consolo  tre  altre  volte.  Contra  alla  qual peste  non  avendo  la  Nobiltà  alcuno  rimedio, si  volse  a favorir  Siila;  e fatto quello  capo  della  parte  sua,  vennero  alle guerre  civili  * e dopo  molto  sangue  e variar  di  fortuna,  rimase  superiore  la Nobiltà.  Risuscitorono  poi  questi  umori a tempo  di  Cesare  c di  Pompeo;  perchè, fattosi  Cesare  capo  della  parte  di  Mario, c Pompeo  di  quella  di  Siila,  venendo alle  mani  rimase  supcriore  GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale,  adunque, principio  e fine  ebbe  la  legge  agraria. E benché  noi  mostrassimo  altrove, come  le  inimicizie  di  Roma  intra  il  Senato c la  Plebe  mantenessero  libera  Roma, per  nascerne  da  quelle  leggi  in  favore della  libertà  ; e per  questo  paia disforme  a tale  conclusione  il  fine  di questa  legge  agraria  ; dico  come,  per questo,  io  non  mi  rimuovo  da  tale  oppinionc:  perchè  egli  è tanta  P ambizione de’  grandi,  che  se  per  varie  vie  ed in  vari  modi  la  non  ò in  una  città  sbattuta, tosto  riduce  quella  città  alla  rovina sua.  In  modo  che,  se  la  contenzione  della legge  agraria  penò  trecento  anni  a fare Roma  serva,  si  sarebbe  condotta,  per avventura,  molto  più  tosto  iti  servitù, quando  la  Plebe,  e con  questa  legge  c con  altri  suoi  appetiti,  non  avesse  sempre frenato  la  ambizione  de’  Nobili.  Vedasi per  questo  ancora,  quanto  gli  uomini stimano  più  la  roba  che  gli  onori. Perchè  la  Nobiltà  romana  sempre  negli onori  eedè  senza  scandali  istraordinari alla  Plebe;  ma  come  si  venne  alla  roba, fu  tanta  la  ostinazione  sua  nel  difenderla, che  la  Plebe  ricorse,  per  Sfo-gare 1’  appetito  suo,  a quelli  istraordinari che  di  sopra  si  discorrono.  Del  quale disordine  furono  motori  i Gracchi; de’  quali  si  dcbbe  laudare  più  la  intenzione che  la  prudenza.  Perchè,  a voler
levar  via  uno  disordine  cresciuto  in  una repubblica,  e per  questo  fare  una  legge che  riguardi  assai  indietro,  è partito male  considerato;  e,  come  di  sopra  largamente si  discorse,  non  si  fa  altro  che accelerare  quel  male  a che  quel  disordine ti  conduce  : ma  temporeggiandolo, o il  male  viene  più  tardo,  o per  sè  medesimo col  tempo,  avanti  che  venga  al fine  suo,  si  spegne. XXXVIII.  — Le  repubbliche  deboli sono  male  risolute , e non  si  sanno deliberare  ; c se  le  pigliano  mai  alcuno partito j nasce  più  da  necessità che  da  elezione. Essendo  in  Roma  una  gravissima  pestilenza, e parendo  per  questo  agli  Volaci ed  agli  Equi  che  fusse  venuto  il tempo  di  potere  oppressar  Roma;  fatti questi  due  popoli  uno  grossissimo  esercito, assalirono  gli  Latini  e gli  Ernici, e guastando  il  loro  paese,  furono  constretti gli  Latini  c gli  Ernici  farlo  intendere a Roma,  c pregare  che  fussero difesi  da' Romani:  ai  quali,  sendo  i Romani gravati  dal  morbo,  risposero  che pigliassero  partito  di  difendersi  da  loro medesimi  e con  le  loro  armi,  perchè essi  non  li  potevano  difendere.  Dove  si conosce  la  generosità  e prudenza  di quel  Senato,  e come  sempre  in  ogni  fortuna volle  essere  quello  che  fusse  principe delle  deliberazioni  che  avessero  a pigliare  i suoi;  nè  si  vergognò  mai  deliberare una  cosa  che  fusse  contraria al  suo  modo  di  vivere  o ad  altre  deliberazioni fatte  da  lui,  quando  la  necessità gliene  comandava.  Questo  dico  perchè altre  volte  il  medesimo  Senato  aveva vietato  ai  detti  popoli  l’armarsi  e difendersi ; talché  ad  uno  Senato  meno prudente  di  questo,  sarebbe  parso  cadere del  grado  suo  a concedere  loro tale  difensione.  Ma  quello  sempre  giudicò le  cose  come  si  debbono  giudicare, e sempre  prese  il  meno  reo  partilo  per migliore;  perchè  male  gli  sapeva  non potere  difendere  i suoi  sudditi;  male gli  sapeva  che  si  armassino  senza  loro, per  le  ragioni  dette,  e per  molte  altre che  si  intendono:  nondimeno,  conoscendo che  si  sarebbono  armati,  per  necessità, a ogni  modo,  avendo  il  nimico  addosso;  prese  la  parte  onorevole,  e volle che  quello  clic  gli  avevano  a fare,  lo facessino  con  licenzia  sua,  acciocché avendo  disubbidito  per  necessità,  non si  avvezzassino  a disubbidire  per  elezione. E benché  questo  paia  partito  che da  ciascuna  repubblica  dovesse  esser preso;  nientedimeno  le  repubbliche  deboli e male  consigliate  non  gli  sanno pigliare,  nè  si  sanno  onorare  di  simili necessità.  Aveva  il  duca  Valentino  presa Faenza,  e fatto  calare  Bologna  agli  accordi suoi.  Dipoi,  volendosene  tornare  a Roma  per  la  Toscana,  mandò  in  Firenze uno  suo  uomo  a domandare  il passo  per  sé  e per  il  suo  esercito.  Consultossi  in  Firenze  come  si  avesse  a governare questa  cosa,  nè  fu  mai  consigliato per  alcuno  di  concedergliene.  In che  non  si  seguì  il  modo  romano:  perchè, sendo  il  Duca  armatissimo,  ed  i Fiorentini  in  modo  disarmati  che  non gli  potevano  vietare  il  passare,  era  molto piu  onore  loro,  che  paresse  che  passasse con  permissione  di  quelli,  che  a forza; perchè,  dove  vi  fu  al  tutto  il  loro  vituperio, sarebbe  stato  in  parie  minore quando  I*  avessero  governata  altrimenti. Ma  la  più  cattiva  parte  che  abbino  le repubbliche  deboli,  è essere  irresolute; in  modo  che  lutti  i partili  che  le  pigliano, gli  pigliano  per  forza;  e se  vieti loro  fatto  alcuno  bene,  lo  fanno  forzato, c non  per  prudenza  loro.  Io  voglio  dare di  questo  duoi  altri  esempi,  occorsi ne*  tempi  nostri  nello  stato  della  nostra città,  nel  mille  cinquecento.  Ripreso  che il  re  Luigi  XII  di  Francia  ebbe  Milauo, desideroso  di  rendergli  Pisa,  per  aver cinquanta  mila  ducati  che  gli  erano  stati promessi  da’  Fiorentini  dopo  tale  restituzione, mandò  gli  suoi  eserciti  verso Pisa,  capitanati  da  monsignor  Beaumonte;  benché  francese,  nondiraanco uomo  in  cui  i Fiorentini  assai  confidavano. Condussesi  questo  esercito  e questo capitano  intra  Cascina  e Pisa,  per andare  a combattere  le  mura;  dove  dimorando  alcuno  giorno  per  ordinarsi alla  espugnazione,  vennero  oratori  Pisani a Beaumonte,  e gli  offerirono  di dare  la  città  allo  esercito  francese  con questi  patti:  che,  sotto  la  fede  del  re, promettesse  non  la  mettere  in  mano de’  Fiorentini,  prima  che  dopo  quattro mesi.  Il  qual  partito  fu  dai  Fiorentini al  tutto  rifiutato,  in  modo  che  si  seguì nello  andarvi  a campo,  e partissene  con vergogna.  Nè  fu  rifiutato  il  partito  per altra  cagione,  che  per  diffidare  dellafede  del  re;  come  quelli  che  per  debolezza di  consiglio  si  erano  per  forza messi  nelle  mani  sue:  e dall’altra  parte, non  se  ne  fidavano,  nè  vedevano quanto  era  meglio  che  il  re  potesse  rendere loro  Pisa  sendovi  dentro,  e non  la rendendo  scoprire  P animo  suo,  che  non la  avendo,  poterla  loro  promettere,  e loro  essere  forzati  comperare  quelle promesse.  Talché  molto  più  utilmente arebbono  fatto  a consentire  che  Beaumonlc  V avesse,  sotto  qualunque  pròmessa,  presa:  come  se  ne  vide  la  espcrienza  dipoi,  die  essendosi ribellato  Arezzo,  venne  a’  soccorsi  de*  Fiorentini mandato  dal  re  di  Francia  monsignor Imbalt  con  gente  francese;  il qual  giunto  propinquo  ad  Arezzo,  dopo poco  tempo  cominciò  a praticare  accordo con  gli  Aretini,  i quali  sotto  certa fede  volevano  dare  la  terra,  a similitudine de’ Pisani.  Fu  rifiutato  in  Firenze tale  partito  ; il  che  veggendo  monsignor Imbalt,  e parendogli  come  i Fiorentini se  ne  inlendessino  poco,  cominciò  a tenere le  pratiche  dello  accordo  da  se, senza  participazione  de’  Commessaci  : tanto  che  e’  io  conchiuse  a suo  modo,  e sotto  quello  con  le  sue  genti  se  ne  entrò in  Arezzo,  facendo  intendere  a’  Fiorentini come  egli  erano  matti,  e non  si intendevano  delle  cose  del  mondo:  che se  volevano  Arezzo,  lo  fucessino  intendere al  re,  il  quale  lo  poteva  dar  loro molto  meglio,  avendo  le  sue  genti  in quella  città,  che  fuori.  Non  si  restava  in  Firenze  di  lacerare  e biasimare  detto Imbalt;  nè  si  restò  mai,  infino  a tanto che  si  conobbe  che  se  Beaumonte  fusse stato  simile  a Imbalt,  si  sarebbe  avuto Pisa  come  Arezzo.  E cosi,  per  tornare a proposito,  le  repubbliche  irresolute non  pigliano  mai  partiti  buoni,  se  non per  forza,  perchè  la  debolezza  loro  non le  lascia  mai  deliberare  dove  è alcuno dubbio;  e se  quel  dubbio  non  è cancellalo da  una  violenza,  che  le  sospinga, stanno  sempre  mai  sospese. XXXIX.  — In  diversi  popoli si  veggono  spesso  i medesimi  accidenti. E’  si  conosce  facilmente  per  chi  considera le  cose  presenti  e le  antiche,  come in  tutte  le  città  ed  in  tutti  i popoli sono  quelli  medesimi  desiderii  e quelli medesimi  umori,  e come  vi  furono  sempre : in  modo  che  gli  è facil  cosa  a chi esamina  con  diligenza  le  cose  passate, prevedere  in  ogni  repubblica  le  future, c farvi  quelli  rimedi  che  dagli  antichi sono  stati  usati  ; o non  ne  trovando  degli usati,  pensarne  de’ nuovi,  per  la  similitudine degli  accidenti.  Ma  perchè queste  considerazioni  sono  neglette,  o non  intese  da  chi  legge  ; o se  le  sono intese,  non  sono  conosciute  da  chi  governa ; ne  seguita  che  sempre  sono  i medesimi  scandali  in  ogni  tempo.  Avendo la  città  di  Firenze perduto parte  dello  imperio  suo,  come  Pisa  ed altre  terre,  fu  necessitata  a fare  guerra* a coloro  che  le  occupavano.  E perchè chi  le  occupava  era  potente,  ne  seguiva che  si  spendeva  assai  nella  guerra,  senza alcun  frutto  ; dallo  spendere  assai  ne risultava  assai  gravezze  ; dalle  gravezze, infinite  querele  del  popolo  ; e perchè questa  guerra  era  amministrata  da  uno magistrato  di  dieci  cittadini  che  si  chiamavano i Dieci  della  guerra,  1*  universale cominciò  a recarselo  in  dispetto, come  quello  che  fusse  cagione  della guerra  e delle  spese  di  essa;  e corniliciò  a persuadersi  che  tolto  via  detto magistrato,  fusse  tolto  via  la  guerra  : tanto  che  avendosi  a rifare,  non  se  gli fecero  gli  scambi  ; e lasciatosi  spirare, si  commisero  le  azioni  sue  alla  Signoria. La  qual  deliberazione  fu  tanto  perniziosa,  che  non  solamente  non  levò  la  guerra, come  lo  universale  si  persuadeva  ; ma  tolto  via  quelli  uomini  che  con  prudenza la  amministravano,  ne  seguì  tanto disordine,  die,  oltre  a Pisa,  si  perde Arezzo  e molti  altri  luoghi:  in  modo che,  ravvedutosi  il  popolo  dello  errore suo,  e come  la  cagione  del  male  era  la febbre  e non  il  medico,  rifece  il  magistrato de’  Dieci.  Questo  medesimo  umore si  levò  in  Roma  conira  al  nome  de’ Consoli : perchè,  veggendo  quello  Popolo  nascere 1’  una  guerra  dall'  altra,  e non  poter mai  riposarsi  ; dove  e'  dovevano pensare  che  la  nascesse  dalla  ambizione de’ vicini  che  gli  volevano  opprimere; pensavano  nascesse  dall’  ambizione  dei Nobili,  che  non  potendo  dentro  in  Roma gastigar  la  Plebe  difesa  dalla  potestà  tribunizia, la  volevano  condurre  fuori  di Roma  sotto  i Consoli,  per  opprimerla dove  non  aveva  aiuto  alcuno.  E pensarono per  questo,  che  fusse  necessario  o levar  via  i Consoli,  o regolare  in  modo la  loro  potestà,  che  e*  non  avessino  autorità sopra  il  popolo,  nè  fuori  nè  in casa.  11  primo  che  tentò  questa  legge,  fu uno  Terentillo  tribuno  ; il  quale  proponeva che  si  dovessero  creare  cinque uomini  che  dovessino  considerare  la  potenza de*  Consoli,  e limitarla.  II  che  alterò assai  la  Nobiltà,  parendoli  che  la maiestà  dell’  imperio  fusse  al  tutto  declinata, talché  alla  Nobiltà  non  restasse più  alcuno  grado  in  quella  Repubblica. Fu  nondimeno  tanta  la  ostinazione  dei Tribuni,  che  il  nome  consolare  si  spense ; e furono  in  fine  contenti,  dopo qualche  altro  ordine,  piuttosto  creare Tribuni  con  potestà  consolare,  che  i Consoli : tanto  avevano  più  in  odio  il  nome che  le  autorità  loro.  E cosi  seguitorno lungo  tempo,  infino  che  conosciuto  io errore  loro,  còme  i Fiorentini  ritornorno ai  Dieci,  così  loro  ricreorno  i Consoli. XL. La  creazione  del DECEMVIRATO in  Roma,  e quello  che  in  essa  è da notare:  dove  si  considera , intra  molte altre  cose,  come  si  può  salvare  per simile  accidente,  o oppressore  una  repubblica. Volendo  discorrere  particolarmente sopra  gli  accidenti  che  nacquero  in  Roma per  la  creazione  del  decemvirato, non  mi  pare  soperchio  narrare  prima tutto  quello  che  segui  per  simile  creazione, e dipoi  disputare  quelle  porti  che sono  in  esse  azioni  notabili  : le  quali  sono molte,  e di  grande  considerazione,  cosi per  coloro  che  vogliono  mantenere  una repubblica  libera,  come  per  quelli  che disegnassino  sommetterla.  Perchè  in  tale discorso  si  vedranno  molti  errori  fatti dal  Senato  e dalla  Plebe  in  disfavore della  libertà;  e molli  errori  fatti  da  APPIO,  capo  del  decemvirato;  in  disfavore di  quella  tirannide  che  egli  si  aveva  pre-supposto stabilire  in  Roma.  Dopo  molte deputazioni  c contenzioni  seguite  intra il  Popolo  e la  Nobiltà  per  fermare  nuove leggi  in  Roma,  per  le  quali  e’  si  stabilisse più  la  libertà  di  quello  stato;  mandarono, d’  accordo,  Spurio  Postumio  con duoi  altri  cittadini  ad  Atene  per  gli  essenti di  quelle  leggi  che  Solone  dette  a quella  città,  acciocché  sopra  quelle  potessero fondare  le  leggi  romane.  Andati e tornati  costoro,  si  venne  alla  creazione degli  uomini  eh’  avessino  ad  esaminare e fermare  de.tte  leggi;  e ercorno  dieci cittadini  per  un  anno,  tra  i quali  fu creato  APPIO CLAUDIO,  il primo filosofo romano, uomo  sagace  ed inquieto.  E perchè  e'  potessimo  senza  alcuno rispetto  creare  tali  leggi,  si  levarono di  Roma  tutti  gli  altri  magistrati, ed  in  particolare  i Tribuni  e i Consoli, e levossi  lo  appello  al  Popolo  ; in  modo che  tale  magistrato  veniva  ad  essere  al tulio  principe  di  Roma.  Appresso  ad APPIO  si  ridusse  tutta  1’  autorità  degli altri  suoi  compagni,  per  gli  favori  clic gli  faceva  la  Plebe  : perché  egli  s’ era fatto  in  modo  popolare  con  le  dimostrazioni, che  pareva  meraviglia  eh’  egli  avesse preso  sì  presto  una  nuova  natura  c uno  nuovo  ingegno,  essendo  stato  tenuto innanzi  a questo  tempo  un  crudele persecutore  della  Plebe.  Governaronsi  questi  Dieci  assai  civilmente,  non tenendo  più  che  dodici  littori,  i quali andavano  davanti  a quello  ch’era  infra loro  preposto.  E bench’egli  avessino 1’ autorità  assoluta,  nondimeno  avendosi a punire  un  cittadino  romano  per  omicidio, lo  citorno  nel  conspelto  del  Popolo, e da  quello  lo  fecero  giudicare. Scrissero  le  loro  leggi  in  dicci  tavole, ed  avanti  che  le  confirmassero,  le  messono  in  pubblico,  acciocché  ciascuno  le potesse  leggere  c disputarle;  acciocché si  conoscesse  se  vi  era  alcuno  difetto, per  poterle  binanti  alla  confirmazionc loro  emendare.  Fece,  in  su  questo,  Appio nascere  un  rornorc  per  Bomn,  che se  a queste  dieci  tavole  se  n’  aggiungcssiuo  due  altre,  si  darebbe  a quelle  la loro  perfezione  ; talché  questa  oppinionc dette  occasione  al  Popolo  di  rifare  i Dieci per  uno  altro  anno:  a che  il  Popolo  si  accordò volentieri;  si  perchè i Consoli  non  si rifacessino;  sì  perchè  speravano  loro  potere stare  senza  Tribuni,  sendo  loro  giudici delle  cause,  come  di  sopra  si  disse. Preso,  adunque,  partito  di  rifargli,  tutta la  Nobiltà  si  mosse  a cercare  questi  onori, ed  intra  i primi  era  Appio;  ed  usava tanta  umanità  verso  la  Plebe  nel  domandarla, che  la  cominciò  ad  essere  sospetta a suoi  compagni  : credebant  cnim  liaud gratuitam  in  lanla  superbia  comilatcmfore.  E dubitando  di  opporsegli  apertamente, diliberarono  farlo  con  arte;  e benché  e’  fusse  minore  di  tempo  di  tutti, dettono  a lui  autorità  di  proporre  i futuri Dieci  al  popolo,  credendo  eh*  egli osservasse  i termini  degli  altri  di  non
proporre  sè  medesimo,  sendo  cosa  inusitata e ignominiosa  in  Roma,  Me  vero imprdimentum  prò  occasione  arripuit ; e nominò  sè  intra  i primi,  con meraviglia  e dispiacere  di  tutti  i Nobili: nominò  poi  nove  altri  al  suo  proposito. La  qual  nuova  creazione  fatta  per  uu altro  anno,  cominciò  a mostrare  al  Popolo cd  alla  Nobiltà  lo  error  suo.  Perchè subito  Appio:  finem  fedi  ferenda aliena  persona  ; e cominciò  a mostrare la  innata  sua  superbia,  ed  in  pochi  dì riempiè  di  suoi  costumi  i suoi  compagni. E per  Sbigottire  il  Popolo  ed  il  Senato, in  scambio  di  dodici  littori,  ne  feciono  cento  venti.  Stette  la  paura  eguale qualche  giorno  ; ma  cominciarono  poi ad  intrattenere  il  Senato,  e battere  la Plebe:  e s’ alcuno  battuto  dall*  uno,  appellava ali’  altro,  era  peggio  trattalo  nelP appeltagione  che  nella  prima  causa.  In modo  che  la  Plebe,  conosciuto  lo  errore suo,  cominciò  piena  di  afflizione  a riguardare in  viso  i Nobili;  et  inde  libcrtatis captare  a urani , linde  servitutem  tiinendoj in  cum  s taluni  rempublicam  adduxerant. E alla  Nobiltà  era  grata  questa  loro  afflizione, ut  ipsij  teedio  prcesenliunij  Consules  desiderar ent.  Vennero  i di  clic terminavano  l’anno:  le  due  tavole  delle leggi  erano  fatte,  ma  non  pubblicate.  Da questo  i Dicci  presono  occasione  di  continovare  nel  magistrato,  c cominciorono a tenere  con  violenza  lo  Stato,  e farsi satelliti  della  gioventù  nobile,  alla  quale davano  i beni  di  quelli  che  loro  condannavano.
Quibus  donis  Juventus  coirumpebatur , et  malebat  liccnliam  suoni , i quatn  omnium  liberlatcm.  Nacque  in  questo tempo,  che  i Sabini  ed  i Volsci  mossero guerra  a’ Romani:  in  su  la  qual paura  cominciarono  i Dieci  a vedere  la debolezza  dello  Stato  loro;  perchè  senza il  Senato  non  potevano  ordinare  la  guerra, e ragunando  il  Senato  pareva  loro perdere  lo  Stato.  Pure,  necessitati,  presono questo  ultimo  partito:  e ragunali i Senatori  insieme,  molti  de’ Senatori parlorono  contro  alla  superbia  de’Dieci, ed  in  particolare  Valerio  ed  Orazio  : e la  autorità  loro  si  sarebbe  al  tutto  spenta, se  non  che  il  Senato,  per  invidia della  Plebe,  non  volle  mostrare  l’autorità sua,  pensando  che  se  i Dieci  deponevano  il  magistrato  voluntarii,  che  potesse essere  che  i Tribuni  della  plebe non  si  rifacessero.  Dcliberossi  adunque la  guerra;  uscissi  fuori  con  due  eserciti guidati  da  parte  di  detti  Dieci;  APPIO rimase  a governare  la  città.  Donde nacque  che  si  innamorò  di  Virginia,  e che  volendola  torre  per  forza,  il  padre VIRGINIO, PER LIBERARLA, L’AMMAZZO:  donde seguirono  i tumulti  di  Roma  e degli eserciti  ; i quali  ridottisi  insieme  con  il rimanente  della  Plebe  romana,  se  ne  andarono nel  Monte  Sacro,  dove  stettero tanto  clic  i Dieci  deposono  il  magistrato, e che  furono  creali  i Tribuni  ed  i Consolide ridotta  Roma  nella  forma  della antica  sua  libertà.  Notasi,  adunque,  per questo  testo,  in  prima  esser  nato  in  Roma  questo  inconveniente  di  creare  questa tirannide,  per  quelle  medesime  cagioni che  nascono  la  maggiore  parte delie  tirannidi  nelle  città:  e questo  è da  troppo  desiderio  del  popolo  d* esser libero,  e da  troppo  desiderio  de’  nobili di  comandare.  E quando  c’  non  convengono a fare  una  legge  in  favore  della libertà,  ma  gettasi  qualcuna  delle  parti a favorire  uno,  allora  è che  subito  la tirannide  surge.  Convennono  il  Popolo ed  i Nobili  di  Poma  a creare  i Dieci,  e crearli  con  tanta  autorità,  per  desiderio che  ciascuna  delle  parti  aveva,  1’  una  di spegnere  il  nome  consolare,  l’altra  il tribunizio.  Creati  che  furono,  parendo alla  Plebe  che  Appio  fusse  diventato popolare  c battesse  la  Nobiltà,  si  volse il  Popolo  a favorirlo.  E quando  un  popolo si  conduce  a far  questo  errore  di dare  riputazione  ad  uno  perchè  balta quelli  che  egli  ha  in  odio,  e che  quello uno  sia  savio,  sempre  interverrà  che  diventerà tiranno  di  quella  città.  Perchè egli  attenderà,  insieme  con  il  favore  del popolo,  a spegnere  la  nobiltà  ; e non  si volterà  inai  alla  oppressione  del  popolo, se  non  quando  ei  V arà  spenta;  nel  qual tempo  conosciutosi  il  popolo  essere  servo, non  abbi  dove  rifuggire.  Questo  modo hanno  tenuto  tutti  coloro  che  hanno  fondato tirannidi  in  le  repubbliche:  c se questo  modo  avesse  tenuto  APPIO,  quella sua  tironnide  arebbe  preso  più  vita,  e non  sarebbe  mancata  si  presto.  Ma  ei fece  tutto  il  contrario,  nè  si  potette  governare più  imprudentemente;  cliè  per tenere  la  tirannide,  c’si  fece  inimico  di coloro  che  glie  T avevano  data  c che gliene  potevano  mantenere,  ed  amico  di quelli  che  non  erano  concorsi  a dargliene e che  non  gliene  arebbono  potuta mantenere;  e perdèssi  coloro  che  gli erano  amici,  e cercò  di  avere  amici  quelli che  non  gli  potevano  essere  amici.  Perchè, ancora  che  i nobili  desiderino  tiranneggiare, quella  parte  della  nobiltà che  si  truova  fuori  della  tirannide,  è
sempre  inimica  al  tiranno;  nè  quello  se la  può  mai  guadagnare  tutta,  per  l’ambizione grande  e grande  avarizia  che  .è in  lei,  non  polendo  il  tiranno  avere  nè tante  ricchezze  nè  tanti  onori,  che  a tutta
satisfaccia.  E così  Appio,  lasciando  il Popolo  ed  accostandosi  a’ Nobili,  fece  uno errore  evidentissimo,  e per  le  ragioni dette  di  sopra,  e perchè  a volere  con violenza  tenere  una  cosa,  bisogna  che sia  più  potente  chi  sforza,  che  chi  è sforzato.  Donde  nasce  che  quelli  tiranni che  hanno  amico  lo  universale  ed  mimici i grandi,  sono  più  sicuri;  per  essere la  loro  violenza  sostenuta  da  maggior forze,  che  quella  di  coloro  che  hanno per  inimico  il  popolo  ed  amica  la  nobiltà. Perchè  con  quello  favore  bastano a conservarsi  le  forze  intrinseche;  come bastorno  a Nabide  tiranno  di  Sparta, quando  tutta  Grecia  ed  il  popolo  romano lo  assaltò  : il  quale  assicuratosi  di  pochi nobili,  avendo  amico  il  popolo,  con  quello si  difese;  il  che  non  arebbe  potuto  fare
avendolo  inimico.  In  quello  nitro  grado per  aver  pochi  amici  dentro,  non  bastano le  forze  intrinseche,  ma  gli  conviene  cercare di  fuora.  Ed  hanno  ad  essere  di tre  sorti:  1’ una  satelliti  forestieri,  die li  guardino  la  persona;  l’altra  armare il  contado,  che  faccia  quell’  oflìzio  che arebbe  a fare  la  plebe;  la  terza  aderirsi co’  vicini  potenti,  che  li  difendino*  Chi tiene  questi  modi  e gli  osserva  bene, ancora  ch’egli  avesse  per  inimico  il  popolo, potrebbe  in  qualche  modo  salvarsi. Ma  APPIO non  poteva  far  questo  di  guadagnarsi il  contado,  scudo  una  medesima cosa  il  contado  e Roma;  c quel  che  poteva fare,  non  seppe:  talmente  che  rovinò nc’  primi  principii  suoi.  Fecero  il Senato  ed  il  Popolo  in  questa  creazione del  decemvirato  errori  grandissimi  : perchè ancora  che  di  sopra  si  dica,  in  quel discorso  che  si  fa  del  Dittatore,  che quelli  magistrati  che  si  fanno  da  per loro,  non  quelli  che  fa  il  popolo,  sono nocivi  alla  libertà;  nondimeno  il  popolo debbe,  quando  egli  ordina  i magistrali, fargli  in  modo  che  gli  abbino  avere  qualche rispetto  a diventare  tristi.  E dove e’ si  debbe  proporre  loro  guardia  per mantenergli  buoni,  i Romani  lalevorono, facendolo  solo  magistrato  in  Roma,  ed annullando  tutti  gli  altri,  per  la  eccessiva voglia  (come  di  sopra  dicemmo)  che il  Senato  aveva  di  spegnere  i Tribuni, e la  Plebe  di  spegnere  i Consoli;  la  quale gli  accecò  in  modo,  che  concorsono  in tale  disordine.  Perchè  gli  uomini,  come diceva  il  re  Ferrando,  spesso  fanno  come certi  minori  uccelli  di  rapina  ; ne’ quali  è tanto  desiderio  di  conseguire la  loro  preda,  a che  la  natura  gli  incita, che  non  sentono  un  altro  maggior  uccello che  sia  loro  sopra,  per  ammazzargli. Conoscesi,  adunque,  per  questo  discorso, come  nel  principio  proposi,  lo errore  del  Popolo  romano,  volendo  salvare la  libertà  ; e gli  errori  di  APPIO, volendo  occupare  la  tirannide.  XLI.  — Sahare  dalla  Umilila  alla superbia j dalla  pietà  alta  crudeltà senza  debiti  mezzij  è cosa  imprudente ed  inutile. Oltre  agli  altri  termini  male  usati  da APPIO  per  mantenere  la  tirannide,  non fu  di  poco  momento  saltare  troppo  presto da  una  qualità  ad  un’altra.  Perchè la  astuzia  sua  nello  ingannare  la  Plebe, simulando  d’essere  uomo  popolare,  fu bene  usata;  furono  ancora  bene  usati  i termini  che  tenue  perchè  i Dieci  si avessino  a rifare;  fu  ancora  bene  usata quella  audacia  di  creare  sè  stesso  contra  alla  oppinione  della  Nobiltà;  fu bene  usato  creare  colleghi  a suo  proposito: ma  non  fu  già  bene  usato,  come egli  ebbe  fatto  questo,  secondo  che  di sopra  dico,  mutare  in  un  subito  natura; e di  amico,  mostrarsi  nimico  alla Plebe;  di  umano,  superbo;  di  facile, difficile;  e farlo  tanto  presto,  che  senza
scusa  veruna  ogni  uomo  avesse  a conoscer  la  fallacia  dello  animo  suo.  Perchè chi  è paruto  buono  un  tempo,  e vuole a suo  proposito  diventar  tristo,  io  debbe  fare  per  gli  debiti  mezzi  ; ed  in  modo condurvisi  con  le  occasioni,  che  innanzi che  la  diversa  natura  ti  tolga  de’ favori vecchi,  la  te  ne  ubbia  dati  tanti  degli nuovi,  che  tu  non  venga  a diminuire  la tua  autorità:  altrimenti,  trovandoti  scoperto e senza  amici,  rovini. XL1I.  — Quanto  gli  uomini facilmente  si  possono  corrompere. Notasi  ancora  in  questa  materia  del decemvirato,  quanto  facilmente  gli  uomini si  corrompono,  e fatinosi  diventare di  contraria  natura,  ancora  che  buoni e bene  educati;  considerando  quanto quella  gioventù  che  Appio  si  aveva eletta  intorno,  cominciò  ad  essere  amica della  tirannide  per  uno  poco  d’utilità che  gliene  conseguiva  ; e come Quinto  Fabio,  uno  del  numero  de’ secondi Dieci,  sendo  uomo  oliimo,  accecalo da  un  poco  di  ambizione,  e persuas dulia  malignità  di  APPIO,  mutò  i suoi  buoni  costumi  in  pessimi,  e diventò simile  a lui.  Il  che  esaminato  bene, farà  tanto  più  pronti  i legislatori  delle repubbliche  o de’ regni  a frenare  gli appetiti  umani,  c torre  loro  ogni  speranza di  potere  impune  errare. XLIII.  — Quelli  che  combattono  per la  gloria  propria,  sono  buoni  e fedeli soldati. Considerasi  ancora  per  il  soprascritto trattato,  quanta  differenza  è da  uno esercito  contento  e che  combatte  per  la gloria  sua,  a quello  che  è male  disposto e che  combatte  per  la  ambizione  d’  altri. Perchè,  dove  gli  eserciti  romani  solevano sempre  essere  vittoriosi  sotto  i Consoli, sotto  i Decemviri  sempre  perderono.  Da questo  essempio  si  può  conoscere  parte delle  cagioni  della  inutilità  de’ soldati mercenurii;  i quali  non  hanno  altra  cagione clic  li  tenga  fermi,  che  un  poco di  stipendio  che  tu  dai  loro.  La  qual cagione  non  è nè  può  essere  bastante  a fargli  fedeli,  nè  tanto  tuoi  amici,  che voglino  morire  per  le.  Perchè  in  quelli eserciti  che  non  è una  affezione  verso di  quello  per  chi  e’  combattono,  che  gli facci  diventare  suoi  partigiani,  non  mai vi  potrà  essere  tanta  virtù  che  basti  a resistere  ad  uno  nimico  un  poco  virtuoso. G perchè  questo  amore  non  può nascere,  nè  questa  gara,  da  altro  che da’ sudditi  tuoi;  è necessario  a volere tenere  uno  stato,  a volere  mantenere una  repubblica  o uno  regno,  armarsi de’  sudditi  suoi  : come  si  vede  che  hanno fatto  tutti  quelli  che  con  gli  eserciti hanno  fatti  grandi  progressi.  Avevano gli  eserciti  romani  sotto  i Dieci  quella medesima  virtù;  ma  perchè  in  loro  non era  quella  medesima  disposizione,  non facevano  gli  usilati  loro  effetti.  Ma  com prima  il  magistrato  de’  Dieci  fu  spento, e che  loro  come  liberi  cominciorno  amilitare,  ritornò  in  loro  il  medesimo animo;  e per  conscguente,  le  loro  imprese avevano  il  loro  fine  felice,  secondo la  antica  consuetudine  loro. XLIV.  — Una  moltitudine  senza capo,  è inutile:  e non  si  debbo  minacciare prima,  c poi  chiedere  l'autorità. Era  la  Plebe  romana  per  lo  accidente di  Virginia  ridotta  armata  nel  Monte Sacro.  Mandò  il  Senato  suoi  ambasciadori  a dimandare  con  quale  autorità egli  avevano  abbandonati  i loro  capitani, e ridottisi  nel  Monte.  E tanta  era stimata  l’autorità  del  Senato,  che  non avendo  la  Plebe  intra  loro  capi,  ninno si  ardiva  a rispondere.  E L. dice,  ohe  e’  non  mancava  loro  materia a rispondere,  ma  mancava  loro  chi  facesse la  risposta.  La  qual  cosa  dimonstra  appunto  la  inutilità  d’  una  moltitudine  senza  capo.  Il  qual  disordinefu conosciuto  da  Virginio,  e per  suo  ordine si  creò  venti  Tribuni  militari,  che fussero  loro  capo  a rispondere  e convenire col  Senato.  Ed  avendo  chiesto  che si  mandasse  loro  Valerio  ed  Orazio,  ai quali  loro  direbbono  la  voglia  loro,  non vi  volsono  andare  se  prima  i Dieci  non deponevano  il  magistrato:  ed  arrivati sopra  il  Monte  dove  era  la  Plebe,  fu domandato  loro  da  quella,  che  volevano che  si  creassero  i Tribuni  della  plebe, e che  si  avesse  ad  appellare  al  Popolo da  ogni  magistrato,  e che  si  dessino loro  tutti  i Dieci,  chè  gli  volevano  ardere vivi.  Laudarono  Valerio  cd  Orazio le  prime  loro  domande;  biasimorono P ultima  come  impia,  dicendo  : Crude - litatcm  dannatisj  in  crudclitaiem  ruitis ; e consigliamogli  che  dovessino  lasciare il  fare  menzione  de’ Dieci,  e ch’egli  attendessino  a pigliare  V autorità  e potestà loro:  dipoi  non  mancherebbe  loro modo  a satisfarsi.  Dove  apertamente  si conosce  quanta  stultizia  c poca  prudenza è domandare  una  cosa,  e dire prima:  io  voglio  far  male  con  essa; perchè  non  si  debbo  mostrare  l’animo suo,  ma  vuoisi  cercare  d’ottenere  quel suo  desiderio  in  ogni  modo.  Perchè e’  basta  a dimandare  a uno  le  armi, senza  dire:  io  ti  voglio  ammazzare  con esse;  potendo  poi  che  tu  bai  l’arme  in mano,  satisfare  allo  appetito  tuo. XLV.  — E cosa  di  malo  esempio | non  osservare  una  legge  falla , c massime  dallo  autore  d'essa:  e rinfre- scare  ogni  di  nuove  ingiurie  in  una t città,  è a chi  la  governa  dannosis-i simo. Seguito  lo  accordo,  e ridotta  Roma  in la  antica  sua  forma,  Virginio  citò  Appio innanzi  al  Popolo  a difendere  la  sua causa.  Quello  comparse  accompagnato da  molti  Nobili.  Virginio  comandò  che fussc  messo  in  prigione.  Cominciò  Appio a gridare,  ed  appellare  al  Popolo.  Virginio diceva  che  non  era  degno  di  avere quella  nppellagionc  che  egli  aveva distrutta,  ed  avere  per  difensore  quel Popolo  che  egli  aveva  offeso.  Appio  replicava, come  e’  non  aveano  a violare quella  appellagionc  ch'egli  avevano  con tanto  desiderio  ordinata.  Pertanto  egli fu  INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché  la scellerata  vita  di  Appio  meritasse  ogni supplicio,  nondimeno  fu  cosa  poco  civile violare  le  leggi,  e tanto  più  quella  che era  fatta  allora.  Perchè  io  non  credo che  sia  cosa  di  più  cattivo  esempio  in una  repubblica,  che  fare  una  legge  e non  la  osservare;  e tanto  più,  quanto la  non  è osservata  da  chi  l’ ha  falla. Essendo  Firenze stala riordinala  nel  suo  stato  con  l'aiuto  di frate  Girolamo  Savonarola,  gli  scritti
del  quale  mostrano  la  dottrina,  la  prudenza, la  virtù  dello  animo  suo  ; ed avendo  intra  P altre  conslituzioni  per assicurare  i cittadini,  fatto  fare  una legge,  che  si  potesse  appellare  al  popolo dalle  sentenze  che,  per  caso  di  Stato, gli  Otto  c la  Signoria  dessino;  la  qual legge  persuase  più  tempo,  e con  difficoltà grandissima  ottenne:  occorse  che, poco  dopo  la  confirmazicne  d’essa,  furono condcunati  a morte  dalla  Signoria per  conto  di  Stato  cinque  cittadini;  e volendo  quelli  appellare,  non  furono lasciati,  e non  fu  osservata  la  legge.  Il che  tolse  più  riputazione  a quel  frate, che  nessun  altro  accidente:  perchè,  se quella  appellagione  era  utile,  ei  doveva farla  osservare;  s’ ella  non  era  utile, non  doveva  farla  vincere.  E tanto  più fu  notato  questo  accidente,  quanto  che il  frate  in  tante  predicazioni  che  fece poi  clic  fu  rotta  questa  legge,  non  mai o dannò  chi  P aveva  rotta,  o lo  scusò  ; come  quello  che  dannare  non  voleva, come  cosa  che  gli  tornava  a proposito  ; e scusare  non  la  poteva.  Il  che  avendo scoperto  l’animo  suo  ambizioso  e paitigiano,  gii  tolse  riputazione,  e dettegli assai  carico.  Offende  ancora  uno  Stato assai,  rinfrescare  ogni  dì  nello  animo de’  tuoi  cittadini  nuovi  umori,  per  nuove ingiurie  ebe  a questo  e quello  si fucciano  : come  intervenne  a Roma  dopo il  decemvirato.  Perché  tutti  i Dieci,  ed altri  cittadini,  in  diversi  tempi  furono accusati  e condannati:  in  modo  che  gli era  uno  spavento  grandissimo  in  tutta la  Nobiltà,  giudicando  che  e’ non  si  avesse mai  a porre  fine  a simili  condennagioni,  fino  a tanto  che  tutta  la  Nobiltà non  fusse  distrutta.  Ed  arebbe  generato in  quella  città  grande  inconveniente,  se da  Marco  Duellio  tribuno  non  vi  fusse stato  provveduto;  il  qual  fece  uno  edit-to, che  per  uno  anno  non  fusse  lecito ad  alcuno  citare  o accusare  alcuno  cittadino contano  : il  che  rassicurò  tutta la  Nobiltà.  Dove  si  vede  quanto  sia  dannoso ad  una  repubblica  o ad  un  principe, tenere  con  le  continove  pene  ed offese  sospesi  e paurosi  gli  animi  dei sudditi.  E senza  dubbio,  non  si  può  tenere il  più  pernicioso  ordine:  perchè  gli uomini  che  cominciano  a dubitare  di avere  a capitar  male,  in  ogni  modo  si assicurano  ne’ pericoli,  e diventano  più audaci,  e meno  rispettivi  a tentare  cose nuove.  Però  è necessario,  o non  offendere mai  alcuno,  o fare  le  offese  ad  un tratto;  e dipoi  rassicurare  gli  uomini, e dare  loro  cagione  di  quietare  e fermare l’animo. XLVI.  — Gli  uomini  salgono  da una  ambizione  ad  unJ  altra  ; c prima si  cerca  non  essere  offeso t dipoi  di offendere  altrui. Avendo  il  Popolo  romano  ricuperala la  libertà,  ritornato  nel  suo  primo  grado, ed  in  tanto  maggiore,  quanto  si erano  fatte  dimolte  leggi  nuove  In  corroborazione della  sua  potenza  ; pareva ragionevole  che  Roma  qualche  volta  quictasse.  Nondimeno,  per  esperienza  si  vide il  contrario;  perchè  ogni  di  vi  surgeva nuovi  tumulti  e nuove  discordie.  E perchè Tito  Livio  prudentissimamente  rende la  ragione  donde  questo  nasceva,  non mi  pare  se  non  a proposito  riferire  appunto le  sue  parole,  dove  dice  che  sempre o il  Popolo  o la  Nobiltà  insuperbiva, quanto  V altro  si  umiliava  ; e stando la  Plebe  quieta  intra  i termini  suoi,  cominciarono i giovani  nobili  ad  ingiuriarla ; ed  i Tribuni  vi  potevano  farepochi  rimedi,  perchè  ancora  loro  erano
violati.  La  Nobiltà,  dalP  altra  parte,  ancora che  gli  paresse  che  la  sua  gioventù fusse  troppo  feroce,  nondimeno  aveva  a caro  che  avendosi  a trapassare  il  modo, lo  trapassassino  i suoi,  e non  la  Plebe. E cosi  il  desiderio  di  difendere  la  libertà faceva  che  ciascuno  tanto  si  prevaleva, eh’  egli  oppressava  l’ altro.  E V ordine di  questi  accidenti  è,  che  mentre clic  gli  uomini  cercano  di  non  temere, cominciano  a far  temere  altrui;  e quell ingiuria  ch’egli  scacciano  da  loro,  la pongono  sopra  un  altro:  come  se  fussc necessario  offendere,  o essere  offeso.  Vedesi,  per  questo,  in  quale  modo,  fra  gli altri,  le  repubbliche  si  risolvono;  e in che  modo  gli  uomini  salgono  da  una ambizione  ad  un’  altra  ; e come  quella sentenza  salustiaua  posta  in  bocca  di Cesare,  è verissima  : quod  omnia  mala exempla  bonis  mitiis  orla  sunt.  Cercano, come  di  sopra  è detto,  quelli  cittadini clie  ambiziosamente  vivono  in  una repubblica,  la  prima  cosa  di  non  potere essere  offesi,  non  solamente  dai  privati, ma  eziam  da’  magistrali  : cercano,  per potere  fare  questo,  amicizie  ; e quelle acquistano  per  vie  in  apparenza  oneste, o con  sovvenire  di  danari,  o con  difendergli da’  potenti  : e perchè  questo  pare virtuoso,  s’ inganna  facilmente  ciascuno, c per  questo  non  vi  si  pone  rimedio  ; intanto  che  egli  senza  ostacolo  perseverando, diventa  di  qualità,  che  i privati cittadini  ne  hanno  paura,  ed  i magistrati gli  hanno  rispetto.  E quando  egli  è saJito  a questo  grado,  c non  si  sia  prima ovvialo  alla  sua  grandezza,  viene  od  essere in  termine,  che  volerlo  urtare  è pericolosissimo,  per  le  ragioni  che  io dissi  di  sopra  del  pericolo  che  è nello urtare  uno  inconveniente  che  abbi  di  già fatto  augumento  in  una  città:  tanto  che la  cosa  si  riduce  in  termine,  che  bisogna  o cercare  di  spegnerlo  con  pericolo  di  una subita  rovina  j o lasciandolo  fare,  entrare in  una  servitù  manifesta,  se  morte  o qualche accidente  non  te  ne  libera.  Perchè, venuto  a’soprascrilti  termini,  che  i cittadini ed  i magistrati  abbino  paura  ad  offender lui  e gli  amici  suoi,  non  dura  dipoi molta  fatica  a fare  che  giudichino  ed  offendino  a suo  modo.  Donde  una  repubblica intra  gli  ordini  suoi  debbe  avere  questo, di  vegghiarc  che  i suoi  cittadini  sotto ombra  di  bene  non  possino  far  male  ; e di’  egli  abbino  quella  riputazione  che giovi,  e non  nuoca,  alla  libertà:  come nel  suo  luogo  da  noi  sarà  disputato.  XLVII.  — Gli  nomini j ancora  clic si  ingannino  ncJ  generali j nei  particolari non  si  ingannano. Essendosi  il  Popolo  romano,  come  di sopra  si  dice,  recato  a noia  il  nome consolare,  e volendo  che  potessiao  esser fatti  Consoli  uomini  plebei,  o che  fusse limitata  la  loro  autorità  ; la  Nobiltà,  per non  deonestare  l’ autorità  consolare  nè con  Tuna  nè  con  1’  altra  cosa,  prese  una via  di  mezzo,  e fu  contenta  che  si  creassino  quattro  Tribuni  con  potestà  consolare,  i quali  potcssino  essere  cosi  plebei come  nobili.  Fu  contenta  a questo  la Plebe,  parendogli  spegnere  il  consolato, ed  avere  in  questo  sommo  grado  la  parte sua.  Nacquene  di  questo  un  caso  notabile  : che  venendosi  alla  creazione  di questi  Tribuni,  e potendosi  creare  tutti plebei,  furono  dal  Popolo  romano  creati tutti  fiobiii.  Onde  L.  dice  queste parole:  Quorum  comitiorum  eoenlus  docuit,  alias  animo s in  contcntione  l ib erta ti  s et  honoris,  alios  secundum  deposita certamina  in  incorrupto  judicio esse.  Ed  esaminando  donde  possa  procedere questo,  credo  proceda  che  gii  uomini nelle  cose  generali  s’ ingannano assai,  nelle  particolari  non  tanto.  Pareva generalmente  alla  Plebe  romana  di  meritare il  consolato,  per  avere  più  parte in  la  città,  per  portare  più  pericolo  nelle guerre,  per  esser  quella  che  con  le  braccia sue  manteneva  Roma  libera,  e la  faceva potente.  E parendogli,  come  è detto, questo  suo  desiderio  ragionevole,  volse ottenere  questa  autorità  in  ogni  modo. Ma  come  la  ebbe  a fare  giudizio  degli uomini  suoi  particolarmente,  conobbe  la debolezza  di  quelli,  e giudicò  che  nessuno di  loro  meritasse  quello  che  tutta  insieme gli  pareva  meritare.  Talché  vergognatasi di  loro,  ricorse  a quelli  che  Io meritavano.  Della  quale  deliberazione meravigliandosi  meritamente  L., dice  queste  parole  : /lane  modestiam , aquila IcmquCj  et  allitudinem  animi,  ubi moie  in  uno  inveneris , qua:  lune  populi universi  fuit  ? In  corroborazione  di  questo, se  ne  può  addurre  un  altro  notabile essempio,  seguito  in  Capova  da  poi  che Annibaie  ebbe  rotti  i Romania  Canne; per  la  qual  rotta  sendo  tutta  sollevata Italia,  Capova  stava  ancora  per  tumultuare, per  P odio  eli’  era  intra  il  Popolo ed  il  Senato;  e trovandosi  in  quel  tempo nel  supremo  magistrato  Pacuvio  Calano, e conoscendo  il  pericolo  che  portava quella  città  di  tumultuare,  disegnò  con suo  grado  riconciliare  la  Plebe  con  la Nobiltà  ; e fatto  questo  pensiero,  fece ragunare  il  Senato,  c narrò  loro  Podio che  M popolo  aveva  contra  di  loro,  ed  i pericoli  che  portavano  di  essere  ammazzati da  quello,  e data  la  città  ad  Annibaie, sendo  le  cose  de’  Romani  afflitte  : dipoi  soggiunse,  che  se  volevano  lasciaregovernare  questa  cosa  a lui,  farebbe  in modo  che  si  unirebbono  insieme  ; ma  gli voleva  serrare  dentro  al  palazzo,  e co fare  potestà  al  popolo  di  potergli  gastigare,  salvargli.  Cederono  a questa  sua oppinione  i Senatori,  e quello  chiamò  il Popolo  a coocione,  avendo  rinchiuso  in palazzo  il  Senato  ; e disse  com’  egli  era venuto  il  tempo  di  potere  domare  la  superbia  della  Nobiltà,  e vendicarsi  delle ingiurie  ricevute  da  quella,  avendogli rinchiusi  tutti  sotto  la  sua  custodia  : ma perchè  credeva  che  loro  non  volessino che  la  loro  città  rimanesse  senza  gover-
no, era  necessario,  volendo  ammazzare i Senatori  vecchi,  crearne  de*  nuovi. E per  tanto  aveva  messo  tutti  gli  nomi degli  Senatori  in  una  borsa,  e comincierebbe a trargli  in  loro  presenza  j ed egli  farebbe  i tratti  di  mano  in  mano morire,  come  prima  loro  avessino  tro-
vato il  successore.  E cominciato  a trarne uno,  fu  al  nome  di  quello  levato  un  rumore grandissimo,  chiamandolo  uomo superbo,  crudele  ed  arrogante  : e chiedendo Paeuvio  che  facessino  lo  scambio, si  racchetò  tutta  la  conclone  ; c dopo alquanto  spazio,  fu  nominato  uno  della plebe  ; al  nome  del  quale  chi  cominciò a fischiare,  chi  a ridere,  chi  a dirne male  in  uno  modo,  e chi  in  un  altro: o così  seguitando  di  mano  in  mano,  tutti quelli  che  furono  nominati,  gli  giudicavano indegni  del  grado  senatorio.  In modo  che  Pacuvio,  presa  sopra  questo occasione,  disse:  Poiché  voi  giudicate  che qucslu  città  stia  male  senza  Senato,  ed a fare  gii  scambi  a’  Senatori  vecchi  non vi  accordate,  io  penso  che  sia  bene  che voi  vi  riconciliate  insieme  ; perchè  questa paura  in  la  quale  i Senatori  sono stati,  gli  arà  fatti  in  modo  raumiliare, che  quella  umanità  che  voi  cercavate  altrove, troverete  in  loro.  Ed  accordatisi a questo,  ne  segui  la  unione  di  questo ordine  ; e quello  inganno  in  che  egli erano  si  scoperse,  come  e’  furono  constretti venire  a’  particolari.  Ingannansi, olirà  di  questo,  i popoli  generalmente nel  giudicare  le  cose  e gli  accidenti  di esse  j le  quali  dipoi  si  conoscono  particolamento,  si  avveggono  di  tale  inganno. Sendo  stati  i principi della  città  cacciati  da  Firenze,  e non  vi essendo  alcuno  governo  ordinato,  ma piuttosto  una  certa  licenza  ambiziosa,  ed andando  le  cose  pubbliche  di  inale  in peggio  ; molti  popolari  veggiendo  la  rovina della  città,  e non  ne  intendendo  altra cagione,  ne  accusavano  la  ambizione di  qualche  potente  che  nutrisse  i disordini, per  poter  fare  uno  Stato  a suo  proposito, c torre  loro  la  libertà  : c stavano questi  tali  per  le  logge  c per  le  piazze, dicendo  male  di  molti  cittadini,  e minacciandoli che  se  mai  si  trovassero  de’ Signori, scoprirebbono  questo  loro  inganno, e gli  gastigarebbono.  Occorreva spesso  che  de’  simili  ne  ascendeva  al supremo  magistrato;  e come  egli  era salilo  in  quel  luogo,  e che  e*  vedeva  le  i cose  più  dappresso,  conosceva  i disordini donde  nascevano,  ed  i pericoli  che soprastavano,  e la  difficoltà  del  rimecitarvi.  C veduto  come  i tempi,  e no gli  uomini,  causavano  il  disordine,  diventava subito  d’ un  altro  animo,  c di un’  altra  fatta  ; perché  la  cognizione  delle cose  particolari  gli  toglieva  via  quello inganno  che  nel  considerare  generalmente si  aveva  presupposto.  Dimodoché,  quelli che  lo  avevano  prima,  quando  era  privato, sentito  parlare,  e vedutolo  poi  nel supremo  magistrato  stare  quieto,  credevano che  nascesse,  non  per  più  vera  cognizione delle  cose,  ma  perchè  fusse  stalo aggirato  e corrotto  dai  grandi.  Ed  accadendo questo  a molti  uomini  c molte volte,  ne  nacque  tra  loro  un  proverbio, che  diceva  : Costoro  hanno  uno  animo in  piazza,  cd  uno  in  palazzo.  Considerando, dunque,  tutto  quello  si  è discorso, si  vede  come  e’  si  può  fare  tosto aprire  gli  occhi  a’  popoli,  trovando  modo, veggendo  che  uno  generale  gl’  inganna, ch’egli  abbino  a descenderc  ai particolari  ; come  fece  Pacuvio  in  Capova,  ed  il  --Senato  in  Roma.  Credo  ancora, che  si  possa  conchiudere,  che  mai  un uomo  prudente  non  debbe  fuggire  il giudizio  popolare  nelle  eo9e  particolari, circa  le  distribuzioni  de' gradi  e delle dignità  : perchè  solo  in  questo  il  popolo non  si  inganna  ; e se  si  inganna  qualche volta,  Ha  sì  raro,  che  s’ inganneranno più  volte  i pochi  uomini  che  avessino  a fare  simili  distribuzioni.  Nè  mi  pare  superfluo mostrare  nel  seguente  capitolo, P ordine  che  teneva  il  Senato  per  isgannare  il  popolo  nelle  distribuzioni  sue. XLYIII.  — Chi  vuole  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad un  tristo j lo  facci  domandare  o ad un  troppo  vile  e troppo  tristo , o ad uno  troppo  nobile  c troppo  buono. Quando  il  Senato  dubitava  che  i Tribuni con  potestà  consolare  non  fussino fatti  d’  uomini  plebei,  teneva  uno  de’duoi modi:  o egli  faceva  domandare  ai  più riputati  uomini  di  Roma;o  veramente, per  i debiti  mezzi,  corrompeva  qualche plebcio  sordido  ed  ignobilissimo,  che  mescolati con  i plebei  che,  di  miglior  qualità, per  T ordinario  lo  domandavano, anche  loro  lo  domandassino.  Questo  ul-
timo modo  faceva  che  la  Plebe  si  vergognava a darlo  ; quel  primo  faceva  che la  si  vergognava  a torlo,  li  che  tutto  torna a proposito  del  precedente  discorso, dove  si  mostra  che  il  popolo  se  s’ inganna de’  generali,  de’particolari  non  s’inganna. XLIX.  — Se  quelle  città  che  hanno avuto  il  principio  libcrOj  come  Romaj hanno  diffìcultà  a trovare  leggi  che le  mantenghino ; quelle  che  lo  hanno immediate  servo , ne  hanno  quasi  una impossibilità. Quanto  sia  difficile,  nello  ordinare  una  repubblica,  provvedere  a tutte  quelle leggi  che  la  mantenghino  libera,  lo  dimostra assai  bene  il  processo  della  Repubblica romana:  dove  non  ostante  che fussino  ordinate  di  molte  leggi  da  ROMOLO  prima,  dipoi  da  Nuraa,  da  Tulio Ostilio  e Servio,  ed  ultimamente  dai dieci  cittadini  creali  a simile  opera  ; nondimeno sempre  nel  maneggiare  quella città  si  scoprivano  nuove  necessità,  ed era  necessario  creare  nuovi  ordini:  come intervenne  quando  crearono  i Censori, i quali  furono  uno  di  quelli  provvedimenti che  aiutarono  tenere  Roma libera,  quel  tempo  che  la  visse  in  libertà. Perchè,  diventati  arbitri  de’ costumi  di Roma,  furono  cagione  potissima  che  i Romani  diflerissino  più  a corrompersi. Feciono  bene  nel  principio  della  creazione di  tal  magistrato  uno  errore,  creando quello  per  cinque  anni;  ma,  dipoi non  molto  tempo,  fu  corretto  dalla  prudenza di  Mamereo  dittatore,  il  qual  per nuova  legge  ridusse  detto  magistrato  a diciolto  mesi.  Il  che  i Censori  che  vegghiavano,  ebbono  tanto  per  male,  che privorno  Mamcrco  del  senato:  la  qual cosa  e dalla  Plebe  c dai  Padri  fu  assai biasimata.   perchè  la  istoria  non  ino*stra  che  Mamerco  se  ne  potesse  difen-dere, conviene  o che  lo  istorico  sia  di-fettivo, o gli  ordini  di  Roma  in  questa parte  non  buoni  : perchè  non  è bene  che
una  repubblica  sia  in  modo  ordinata, ebe  un  cittadino  per  promulgare  una legge  conforme  al  vivere  libero,  ne  possa essere  senza  alcuno  rimedio  offeso.  Ma tornando  al  principio  di  questo  discorso, dico  che  si  dehbe,  per  la  creazione  di questo  nuovo  magistrato,  considerare, che  se  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  libero,  e che  per  se  medesimo si  è retto,  come  Roma,  hanno difHcultà  grande  a trovar  leggi  buone per  mantenerle  libere  ; non  è meraviglia che  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  immediate  servo,  abbino, non  che  dilfìcultà,  ma  impossibilità  ad. ordinarsi  mai  in  modo  che  le  possino vivere  civilmente  e quietamente.  Come si  vede  che  è intervenuto  alla  città  di Firenze;  la  quale,  per  avere  avuto  il principio  suo  sottoposto  allo  imperio  ro-
mano,  ed  essendo  vivuta  sempre  sotto governo  d* altri,  stette  un  tempo  soggetta, e senza  pensare  a sè  medesima: dipoi,  venuta  la  occasione  di  respirare, cominciò  a fare  suoi  ordini;  i quali  sendo
mescolati  con  gli  antichi,  che  erano  tristi, non  poterono  essere  buoni:  e così è ita  maneggiandosi  per  dugento  anni che  si  lia  di  vera  memoria,  senza  avere mai  avuto  stato  per  il  quale  ella  possa veramente  essere  chiamata  repubblica. E queste  diflicultà  che  sono  state  in  lei, sono  state  sempre  in  tutte  quelle  città che  hanno  avuto  i principii  simili  a lei. E benché  molte  volte,  per  suffragi  pubblici e liberi,  si  sia  dato  ampia  autorità a pochi  cittadini  di  potere  riformarla; non  pertanto  mai  l’ hanno  ordinata  a comune  utilità,  ma  sempre  a proposito della  parte  loro  : il  che  ha  fatto  non ordine,  ma  maggiore  disordine  in  quella città.  E per  venire  a qualche  essempio particolare,  dico  come  intra  le  altre  cose che  si  hanno  a considerare  da  uno  ordinatore  d’  una  repubblica,  è esaminare nelle  mani  di  quali  uomini  ci  ponga 1’  autorità  del  sangue  coutra  de’  suoi cittadini.  Questo  era  bene  ordinato  in Roma,  perchè  e’  si  poteva  appellare  al Popolo  ordinariamente  : e se  pure  fussc occorsa  cosa  importante,  dove  il  differire la  esecuzione  mediante  la  appellagione fusse  pericoloso,  avevano  il  refugio  del Dittatore,  il  quale  eseguiva  immediate; al  qual  rimedio  non  rifuggivano  mai,  se non  per  necessità.  Ma  Firenze,  c Y altre città  nate  nel  modo  di  lei,  sendo  serve, avevano  questa  autorità  collocata  in  un forestiero,  il  quale  mandato  dal  principe faceva  tale  uffizio.  Quando  dipoi  vennono  in  libertà,  mantennero  questa  autorità in  un  forestiero,  il  quale  chiamavano Capitano:  il  che,  per  potere  essere facilmente  corrotto  da’  cittadini  potenti, era  cosa  perniciosissima.  Ma  dipoi,  mu-
randosi per  la  mutazione  degli  Stati  questo ordine,  creorno  otto  cittadini  che  facessino  V uffizio  di  quel  Capitano.  Il  quale ordine,  di  cattivo,  diventò  pessimo,  per le  cagioni  che  altre  volte  sono  dette: che  i pochi  furono  sempre  ministri  dc’po-ehi,  e de*  più  potenti.  Da  che  si  è guardata la  città  di  Vinegia;  la  quale  ha dieci  cittadini,  che  senza  appello  possono punire  ogni  cittadino.  E perchè  e*  non basterebbono  a punire  i potenti,  ancora die  ne  nvessino  autorità,  vi  hanno  constituito  le  Quarnntie:  c di  più,  hanno voluto  che  il  Consiglio  de’ Pregai,  elicè il  Consiglio  maggiore,  possa  gastigargli; In  modo  che  non  vi  mancando  lo  accusatore, non  vi  manca  il  giudice  a tener gli  uomini  potenti  a freno.  Non  è dunque meraviglia,  reggendo  come  in  Roma, ordinata  da  sè  medesima  e da  tanti uomini  prudenti,  surgevano  ogni  di nuove  cagioni  per  le  quali  si  aveva  a fare  nuovi  ordini  in  favore  del  viver  libero j se  nelle  altre  città  che  hanno più  disordinalo  principio,  vi  surgono tuli  difficoltà,  che  le  non  si  possino  riordinar mai. L.  — iVon  dcbbc  uno  consiglio  o uno  magistrato  potere  fermare  le  azioni della  città. tirano  consoli  in  Roma  Tito  Quinzio Cincinnato  c Gneo  Giulio  Mento,  i quali sendo  disuniti,  avevano  ferme  tutte  le azioni  di  quella  Repubblica.  11  che  veggcndo  il  Senato,  gli  confortava  a creare il  Dittatore,  per  fare  quello  che  per  le discordie  loro  non  poteva  fare.  Ma  i Consoli discordando  in  ogni  altra  cosa,  solo in  questo  erano  d’accordo,  di  non  voler creare  il  Dittatore.  Tanto  che  il  Senato, non  avendo  altro  rimedio,  ricorse  allo aiuto  de’ Tribuni;  i quali,  con  l’autorità del  Senato,  sforzarono  i Consoli  ad  ubbidire. Dove  si  ba  a notare,  in  prima, la  utilità  del  tribunato;  il  quale  non  era solo  utile  a frenare  l’ ambizione  che  i potenti  usavano  contra  alla  Plebe,  ma quella  ancora  ch’egli  usavano  infra  loro: 1’  altra,  che  mai  si  debba  ordinare  in una  città,  che  i pochi  possino  tenere  alcuna deliberazione  di  quelle  che  ordinariamente sono  necessarie  a mantenere la  repubblica.  Yerbigrazia,  se  tu  dai  una autorità  nd  uno  consiglio  di  fare  una distribuzione  di  onori  c di  utile,  o ad uno  magistrato  di  amministrare  una  faccenda; conviene  o imporgli  una  necessità perchè  ei  l’ abbia  a fare  in  ogni modo;  o ordinare,  quando  non  la  voglia fare  egli,  che  la  possa  e debba  fare  un altro:  altrimenti,  questo  ordine  sarebbe difettivo  e pericoloso;  come  si  vedeva che  era  in  Roma,  se  alla  ostinazione  di quelli  Consoli  non  si  poteva  opporre P autorità  de’ Tribuni.  Nella  Repubblica veneziana  il  Consiglio  grande  distribuisce gli  onori  e gli  utili.  Occorreva  alle volte  che  P universalità,  per  isdegno  o per  qualche  falsa  suggestione,  non  creava i successori  ai  magistrati  della  città, ed  a quelli  che  fuori  amministravano  lo imperio  loro.  Il  che  era  disordine  grandissimo: perchè  in  un  tratto,  e le  terre suddite  e la  città  propria  mancavano de’ suoi  legittimi  giudici;  nè  si  poteva ottenere  cosa  alcuna,  se  quella  universalità  di  quel  Consiglio  non  si  satisfaceva, o non  s’ingannava.  Ed  avrebbe ridotta  questo  inconveniente  quella  città a mal  termine,  se  dagli  cittadini  prudenti non  vi  si  fusse  provveduto:  i quali, presa  occasione  conveniente,  fecero  una legge,  che  tutti  i magistrati  che  sono  o fussino  dentro  e fuori  della  città,  mai vacassero,  se  non  quando  fussino  fatti gli  scambi  e i successori  loro.  E cosi  si tolse  la  comodità  a quel  Consiglio  di  potere, con  pericolo  della  repubblica,  fermare le  azioni  pubbliche. LI.  Una  repubblica  o uno  principe debbe  mostrare  di  fare  per  liberalità quello  a che  la  necessità  lo  consiringe. Gli  uomini  prudenti  si  fanno  grado sempre  delle  cose,  in  ogni  loro  azione, ancora  che  la  necessità  gli  constringesse a farle  in  ogni  modo.  Questa  prudenza fu  usata  bene  dal  Senato  romano,  quando ei  deliberò  che  si  desse  lo  stipendio del  pubblico  agli  uomini  che  militavano, essendo  consueti  militare  del  loro  proprio. Ma  veggendo  il  Senato  come  in quel  modo  non  si  poteva  fare  lungamente guerra,  e per  questo  non  potendo nè  assediare  terre,  uè  condurre  gli  eserciti discosto;  e giudicando  essere  necessario potere  fare  1*  uno  e 1’  altro  ; deliberò che  si  dessino  detti  stipendi;  ina lo  feciono  in  modo,  che  si  fecero  grado di  quello  a che  la  necessità  gli  constringeva; e fu  tanto  accetto  alla  Plebe  questo presente,  che  Roma  andò  «sottosopra per  la  allegrezza,  parendole  uno  benefizio grande,  quale  mai  speravano  di avere,  e quale  mai  per  loro  medesimi arebbono  cerco.  E benché  i Tribuni  s*  ingegnassero di  cancellare  questo  grado, mostrando  come  ella  era  cosa  che  aggravava, non  alleggeriva,  la  Plebe,  scodo necessario  porre  i tributi  per  pagare questo  stipendio  ; nientedimeno  non  potevano fare  tanto  che  la  Plebe  non  lo avesse  accetto:  il  che  fu  ancora  augumentalo  dal  Senato  per  il  modo  che  distribuivano i tributi;  perchè  i più  gravi ed  i maggiori  furono  quelli  chVposono alla  Nobiltà,  e gli  primi  che  furono  pagati.  LII.  — A reprimere  la  insolenza  di uno  che  surga  in  una  repubblica  potente , non  vi  c più  securo  e meno  scandaloso modo , che  preoccuparli  quelle vie  per  le  quali  e*  viene  a quella  potenza. Yedesi  per  il  soprascritto  discorso, quanto  credito  acquistasse  la  Nobiltà  con la  Plebe  per  le  dimostrazioni  fatte  in benefizio  suo,  sì  del  stipendio  ordinato, si  ancora  del  modo  del  porre  i tributi. Nel  quale  ordine  se  la  Nobiltà  si  fosse mantenuta,  si  sarebbe  levato  via  ogni tumulto  in  quella  città,  e sarebbesi  tolto ai  Tribuni  quel  credito  che  egli  avevano con  la  Plebe,  e,  per  conseguente,  quella autorità.  E veramente,  non  si  può  in una  repubblica,  e massime  in  quelle  che sono  corrotte,  con  miglior  modo,  meno scandaloso  e più  facile,  opporsi  alla  ambizione di  alcuno  cittadino,  che  preoccuparli quelle  vie,  per  le  quali  si  vede che  esso  cammina  per  arrivare  al  grado che  disegna,  li  qual  modo  se  fusse  stalo usato  contra  Cosimo  de’ Medici,  sarebbe stato  miglior  partito  assai  per  gli  suoi avversari,  che  cacciarlo  da  Firenze:  perchè, se  quelli  cittadini  che  gareggiavano seco,  avessino  preso  lo  stile  suo  di  favorire il  popolo,  gli  venivano  senza  tumulto e senza  violenza  a trarre  di  mano quelle  arme  di  che  egli  si  valeva  più. SODERINI si  aveva  fatto  riputazione nella  città  di  Firenze  con  questo  solo,  di favorire  l’universale:  il  che  nello  universale gli  dava  riputazione,  come  amatore della  libertà  della  città.  E veramente, a quelli  cittadini  che  portavano  invidia alla  grandezza  sua,  era  molto  più  facile ed  era  cosa  molto  più  onesta,  meno  pericolosa, e meno  dannosa  per  la  repubblica, preoccupargli  quelle  vie  con  le quali  si  faceva  grande,  che  volere  contrapporsegli,  acciocché  con  la  rovina  sua rovinasse  tutto  il  resto  della  repubblica: perchè,  se  gli  avessero  levate  di  mano quelle  armi  con  le  quali  si  faceva  gagliardo (il  che  potevano  fare  facilmente), arebbono  potuto  in  lutti  i consigli,  e in tutte  le  deliberazioni  pubbliche,  opporsegli  senza  sospetto,  e senza  rispetto  alcuno. E se  alcuno  replicasse,  che  se  i cittadini  che  odiavano  Piero,  feciono  errore a non  gli  preoccupare  le  vie  con le  quali  ei  si  guadagnava  riputazione nel  popolo,  Piero  ancora  venne  a fare errore,  a non  preoccupare  quelle  vie  per le  quali  quelli  suoi  avversari  lo  facevano temere;  di’ che  Piero  merita  scusa,  si perchè  gli  era  difficile  il  farlo,  sì  perchè le  non  erano  oneste  a lui  : imperocché le  vie  con  le  quali  era  offeso, ciano  il  favorire  i Medici;  con  li  quali favori  essi  io  battevano,  e alla  fine  !o rovinorno.  Non  poteva,  pertanto,  Piero onestamente  pigliare  questa  parte,  per non  potere  distruggere  con  buona  fama quella  libertà  alla  quale  egli  era  stato preposto  a guardia  : dipoi,  non  potendo questi  favori  farsi  segreti  e ad  uno  tratto, erano  per  Piero  pericolosissimi;  perchè comunelle  ei  si  fusse  scoperto  amico de’ Medici,  sarebbe  diventato  sospetto  ed odioso  al  popolo;  donde  ai  nimici  suoi nasceva  molto  più  comodità  di  opprimerlo, che  non  avevano  prima.  Debbono, pertanto,  gli  uomini  in  ogni  partito  considerare i difetti  ed  i pericoli  di  quello, e non  gli  prendere,  quando  vi  sia  più del  pericoloso  che  dell’  utile  ; nonostante che  ne  fusse  stata  data  sentenza  conforme alla  deliberazion  loro.  Perchè,  facendo altrimenti,  in  questo  caso  interverrebbe a quelli  come  intervenne  a Tullio;  il  quale  volendo  torre  i favori  a Marc’  Antonio,  gliene  accrebbe.  Perchè, sondo  Marc’ Antonio  stato  giudicalo  inimico del  Senato,  ed  avendo  quello  grande esercito  insieme  adunato,  in  buona  parte, dei  soldati  che  avevano  seguitato  la  parte di  Cesare;  Tullio,  per  torgli  questi  soldati, confortò  il  Senato  a dare  riputazione ad  Ottaviano,  e mandarlo  con  lo esercito  e con  i Consoli  contra  a Marc' Antonio: allegando,  che  subito  che  i soldati che  seguitavano  Marc’  Antonio,  scntissino  il  nome  di  Ottaviano  nipote  di Cesare,  e che  si  faceva  chiamar  Cesare, lascerebbono  quello,  c si  aceosterebbono a costui  ; e così  restato  Marc’  Antouio ignudo  di  favori,  sarebbe  facile  lo  opprimerlo. La  qual  cosa  riuscì  tutta  al  contrario; perchè  Marc’ Antonio  si  guadagnò Ottaviano;  e lasciato  Tullio  ed  il  Senato, si  accostò  a lui.  La  qual  cosa  fu  al  tutto la  destruzione  della  parte  degli  Ottimati. 11  che  era  facile  a conietturare:  nè  si doveva  credere  quel  che  si  persuase  Tullio, ma  tener  sempre  conto  di  quel  nome che  con  tanto  gloria  aveva  spenti  i nimici  suoi,  ed  acquistatosi  il  principato in  Roma;  nè  si  dovea  credere  mai  potere, o da  suoi  eredi  o da  suoi  fautori,  avere cosa  che  fusse  conforme  al  nome  libero. LUI.  — Il  popolo  molte  volte  desidera la  rovina  sua j ingannato  da  una falsa  spezie  di  bene  : e come  le  grandi speranze  e gagliarde  promesse  facilmente lo  muovono. Espugnata  che  fu  la  città  de’  Veienti, entrò  nel  Popolo  romano  una  oppinione, che  fusse  cosa  utile  per  la  città  di  Roma,  che  la  metà  de’  Romani  andasse  ad abitare  a Veio  ; argomentando  che,  per essere  quella  città  ricca  di  contado, piena  di  edifizii  e propinqua  a Roma,  si poteva  arricchire  la  metà  de’  cittadini romani,  e non  turbare  per  la  propinquità del  sito  nessuna  azione  civile.  La qual  cosa  parve  al  Senato  ed  a’  più  savi Romani  tanto  inutile  e tanto  dannosa, che  liberamente  dicevano,  essere  piuttosto  per  patire  la  morte,  che  consentire ad  una  tale  deliberazione.  In  modo che,  venendo  questa  cosa  in  disputa,  si accese  tanto  la  Plebe  contra  al  Senato, che  si  sarebbe  venuto  alle  armi  cd  al sangue,  se  il  Senato  non  si  fusse  fatto scudo  di  alcuni  vecchi  e stimati  cittadini ; la  riverenza  dc’quali  frenò  la  Plebe, che  la  non  procede  più  avanti  con la  sua  insolenza.  Qui  si  hanno  a notare due  cose.  La  prima,  che  ’l  popolo  molte volte,  ingannato  da  una  falsa  immagine di  bene,  desidera  la  rovina  sua  ; e se non  gli  è fatto  capace,  come  quello  sia male,  e quale  sia  il  bene,  da  alcuno  in chi  esso  abbia  fede,  si  pone  in  le  repubbliche infiniti  pericoli  c danni.  E quando  la  sorte  fu  che  il  popolo  non abbi  fede  in  alcuno,  come  qualche  volta occorre,  sendo  stato  ingannato  per  lo addietro  o dalle  cose  o dagli  uomini; si  viene  alla  rovina  di  necessità.  Ed ALIGHIERI (si veda) dice  a questo  proposito,  nel  discorso  suo che  fa  De  Monarchia > che  il  popolo  molte  volte  grida  viva  la  sua  morie j C muoia la  sua  vita.  Da  questa  incredulità  nasce, che  qualche  volta  in  le  repubbliche  i buoni  partiti  non  si  pigliano  : come  di sopra  si  disse  de’  Veneziani,  quando  assaltati da  tanti  inimici  non  poterono prendere  partito  di  guadagnarsene  alcuno con  la  restituzione  delle  cose  tolte ad  altri  (per  le  quali  era  mosso  loro  la 'guerra,  e fatta  la  congiura  de’  principi loro  contro),  avanti  che  la  rovina  venisse. Pertanto,  considerando  quello  che è facile  o quello  che  è diffìcile  persuadere ad  un  popolo,  si  può  fare  questa distinzione:  o quel  che  tu  hai  a persuadere rappresenta  in  prima  fronte guadagno,  o perdita  ; o veramente  pare partito  animoso,  o vile:  e quando  nelle cose  che  si  mettono  innanzi  ai  popolo, si  vede  guadagno,  ancora  che  vi  sia  nascosto sotto  perdila;  e quando  e* paia animoso,  ancora  che  vi  sia  nascosto  sotto la  rovina  della  repubblica,  sempre  sarà facile  persuaderlo  alla  moltitudine:  e così  fia  sempre  difficile  persuadere  quelli partiti  dove  apparisce  o viltà  o perdita, ancoraché  vi  fusse  nascosto  sotto  salute e guadagno.  Questo  che  io  ho  detto,  si conferma  con  infiniti  esempi,  romani  e forestieri,  moderni  ed  antichi.  Perchè  da questo  nacque  la  malvagia  opinione  che surse  in  Roma  di  Fabio  Massimo,  il  quale non  poteva  persuadere  al  Popolo  romano, che  fusse  utile  a quella  Repubblica procedere  lentamente  in  quella  guerra, e sostenere  senza  azzuffarsi  V impeto  di Annibaie;  perchè  quel  Popolo  giudicava questo  partito  vile,  c non  vi  vedeva  dentro quella  utilità  vi  era  ; nè  Fabio  aveva ragioni  bastanti  a dimostrarla  loro:  c tanto  sono  i popoli  accecati  in  queste oppinioni  gagliarde,  che  benché  il  Popolo romano  avesse  fatto  quello  errore di  dare  autorità  al  Maestro  de’ cavalli  di Fabio  di  potersi  azzuffare,  ancora  che Fabio  non  volesse;  e che  per  tale  autorità il  campo  romano  fusse  per  esser rotto,  se  Fabio  con  la  sua  prudenza  non vi  rimediava;  non  gli  bastò  questa  esperienza, che  fece  dipoi  consolo  VARRONE (si veda), non  per  altri  suoi  meriti  che  per  avere, per  tutte  le  piazze  e tutti  i luoghi  pubblici di  Roma,  promesso  di  rompere  Annibaie, qualunque  volta  gliene  fusse  data autorità.  Di  che  ne  nacque  la  zuffa  e rotta  di  Canne,  e presso  che  la  rovina di  Roma.  Io  voglio  addurre  a questo proposito  ancora  uno  altro  essempio  romano. Era  stato  Annibaie  in  Italia  otto o dieci  anni,  aveva  ripieno  di  occhione de’  Romani  tutta  questa  provincia, quando  venne  in  Senato  Marco  Centenio Penula,  uomo  vilissimo  (nondimanco aveva  avuto  qualche  grado  nella  milizia), ed  offersegli,  che  se  gli  davano  autorità di  potere  fare  esercito  di  uomini  volutitari  in  qualunque  luogo  volesse  in  Italia, ei  darebbe  loro,  in  brevissimo  tempo, preso  o morto  Annibaie.  Al  Senato  parve la  domanda  di  costui  temeraria;  nondimeno ei  pensando  che  s’ ella  se  gli negasse,  e nel  popolo  si  fusse  dipoi  sapula  la  sua  chiesta,  che  non  ne  nascesse qualche  tumulto,  invidia  e mal  grado  contro all’ordine  senatorio,  gliene  concessono  : volendo  più  tosto  mettere  a pericolo tutti  coloro  che  lo  seguitassino,  che  fare surgere  nuovi  sdegni  nel  Popolo;  sappiendo  quanto  simile  partito  fusse  per essere  accetto,  e quanto  fusse  difficile il  dissuaderlo.  Andò,  adunque,  costui con  una  moltitudine  inordinata  ed  incomposita  a trovare  Annibaie;  e non gli  fu  prima  giunto  all*  incontro,  che  fu con  tutti  quelli  che  lo  seguitavano  rotto e morto.  In  Grecia,  nella  città  di  Atene, non  potette  mai  Nicia,  uomo  gravissimo e prudentissimo,  persuadere  a quel  popolo, che  non  fusse  bene  andare  ad  assaltare Sicilia:  talché,  presa  quella  deliberazione contra  alla  voglia  de’  savi, ne  seguì  al  tutto  la  rovina  di  Atene.  Scipione quando  fu  fatto  consolo,  e che desiderava  la  provincia  di  Affrica,  promettendo al  tutto  la  rovina  di  Cartagine; a che  non  si  accordando  il  Senato per  la  sentenza  di  Fabio  Massimo,  minacciò di  proporla  nel  Popolo,  come quello  clic  conosceva  benissimo  quanto simili  deliberazioni  piaccino  a’  popoli. Potrebbesi  a questo  proposito  dare  esempi della  nostra  città  : come  fu  quando messere  Ercole  Bentivogli,  governadore delle  genti  fiorentine,  insieme  con  Antonio Giacomini,  poiché  ebbono  rotto llartolommeo  d’  Alviano  a San  Vincenti, andarono  a campo  a Pisa  ; la  qual  impresa fu  deliberata  dal  popolo  in  su  le promesse  gagliarde  di  messcr  Ercole, ancora  che  molti  savi  cittadini  la  biasimassero: nondimeno  non  vi  ebbero rimedio,  spinti  da  quella  universale  volutila, la  qual  era  fondata  in  su  le  promesse gagliarde  del  governadore.  Dico, adunque,  come  non  è la  più  facile  via a fare  rovinare  una  repubblica  dove  il popolo  abbia  autorità,  che  metterla' in imprese  gagliarde  : perchè,  dove  il  popolo sia  di  alcuno  momento,  sempre  fieno accettale;  nè  vi  arà,  chi  sarà  d’  altra
oppinione,  alcuno  rimedio.  Ma  se  di  questo nasce  la  rovina  della  città,  ne  nasce ancora,  e più  spesso,  la  rovina  particolare de*  cittadini  che  sono  preposti  a simili  imprese  : perchè,  avendosi  il  popolo presupposto  la  vittoria,  eomee’vienc la  perdita,  non  ne  accusa  nè  la  fortuna, nè  la  impotenza  di  chi  ha  governato, ma  la  tristizia  e la  ignoranza  sua;  e quello  il  più  delle  volte  o ammazza,  o imprigiona,  o confina:  come  intervenne  a infiniti  capitani  Cartaginesi,  ed  a molti Ateniesi.  Nè  giova  loro  alcuna  vittoria che  per  lo  addietro  avessino  avuta,  perchè tutto  la  presente  perdita  cancella  : come  intervenne  ad  Antonio  Giacomini nostro,  il  quale  non  avendo  espugnata Pisa,  come  il  popolo  aveva  presupposto ed  egli  promesso,  venne  in  tanta  disgrazia popolare,  che  non  ostante  infinite sue  buone  opere  passate,  visse  più  per umanità  di  coloro  che  ne  avevano  autorità, che  per  alcun’  altra  cagione  che nel  popolo  lo  difendesse. liv#  — Quanta  autorità  abbia  uno uomo  grande  a frenare  una  moltitudine  concitata. Il  secondo  notabile  sopra  il  testo  nel superiore  capitolo  allegato,  è,  che  veruna cosa  è tanto  atta  a frenare  una moltitudine  concitata,  quanto  è la  riverenza di  qualche  uomo  grave  e di  autorità, che  se  le  faccia  incontro  j nè  senza cagione  dice  VIRGILIO (si veda): “Tutn  vietate  graverà  ac  meritis  si  forte  virum Conspexere , sileni , arrectisque  aur^®n^ci* Per  tanto,  quello  che  è proposto  a uno esercito,  o quello  che  si  trova  in  una città,  dove  nascesse  tumulto,  debbe  rappresentarsi in  su  quello  con  maggior grazia  e piu  onorevolmente  che  può,  mettendosi intorno  le  insegne  di  quel  grado che  tiene,  per  farsi  più  reverendo.  Era, pochi  anni  sono,  Firenze  diviso  in  due fazioni,  Fratesche  ed  Arrabbiate,  che  cosi si  chiamavano;  e venendo  ali’ arme,  ed essendo  superati  i Frateschi,  intra  i quali era  Pagolantonio  Soderini,  assai  in  quelli tempi  riputato  cittadino;  cd  andandogli
in  quelli  tumulti  il  popolo  armato  a casa per  saccheggiarla;  messer  Francesco  suo fratello,  allora  vescovo  di  Volterra,  ed oggi  cardinale,  si  trovava  a sorte  in  casa  : il  quale,  subito  sentito  il  romore  e veduta la  turba,  messosi  i più  onorevoli panni  indosso,  e di  sopra  il  rocchetto episcopale,  si  fece  incontro  a quelli  armati, e con  la  persona  e con  le  parole gli  fermò  ; la  qual  cosa  fu  per  tutta  la città  per  molti  giorni  notata  e celebrata. Conchiudo,  adunque,  come  e’ non  è il più  fermo  nè  il  più  necessario  rimedio a frenare  una  moltitudine  concitata,  che la  presenza  d’  uno  uomo  che  per  presenza paia  e sia  reverendo.  Vedesi,  adunque, per  tornare  al  preallegato  testo, con  quanta  ostinazione  la  Plebe  romana accettava  quel  partito  d’  andare  a Yeio, perchè  Io  giudicava  utile,  nè  vi  conosceva  sotto  il  danno  vi  era  ? e come  nascendone assai  tumulti,  ne  sarebbero nati  scandali,  se  il  Senato  con  uomini gravi  e pieni  di  riverenza  non  avesse frenato  il  loro  furore. lv.  — Quanto  facilmente  si  conduellino  le  cose  in  quella  città  dove la  moltitudine  non  è corrotta:  e che dove  è e qualità , non  si  può  fare principato  / e dove  la  non  èj  non  si può  far  repubblica. Ancora  clie  di  sopra  si  sia  discorso assai  quello  sia  da  temere  o sperare delle  città  corrotte;  nondimeno  non  mi pare  fuori  di  proposito  considerare  una deliberazione  del  Senato  circa  il  voto ehe  Cammillo  aveva  fatto  di  dare  la decima  parte  ad  Apolline  della  preda de’  Veienti  : la  qual  preda  sendo  venuta nelle  mani  della  Plebe  romana,  nè  se  ne potendo  altrimenti  riveder  conto,  fece il  Senato  uno  editto,  che  ciascuno  dovesse  rappresentare  al  pubblico  la  decima parte  di  quello  gli  aveva  predalo. E benché  tale  deliberazione  non  avesse luogo,  avendo  dipoi  il  Senato  preso  altro modo,  c per  altra  via  satisfatto  ad Àpolliue  in  satisfazione  della  Plebe;  nondimeno si  vede  per  tali  deliberazioni quanto  quel  Senato  confidasse  nella  bontà di  quella,  e come  e’  giudicava  che  nessuno fusse  per  non  rappresentare  appunto tutto  quello  che  per  tale  editto gli  era  comandato.  E dall’  altra  parte  si vede,  come  la  Plebe  non  pensò  di  fraudare in  alcuna  parte  lo  editto  con  il dare  meno  che  non  doveva,  ma  di  liberarsi da  quello  con  il  mostrarne  aperte indignazioni.  Questo  essempio,  con  molti altri  che  di  sopra  si  sono  addotti,  mostrano quanta  bontà  e quanta  religione fusse  in  quel  Popolo,  e quanto  bene fusse  da  sperare  di  lui.  E veramente, dove  non  è questa  bontà,  non  si  può sperare  nulla  di  bene;  come  non  si  può sperare  nelle  provincic  che  in  questitempi  si  veggono  corrotte:  come  è la Italia  sopra  tutte  le  altre;  ed  ancora  la Francia  di  tale  corruzione ritengono  parte.  E se  in  quelle  provincie  non  si  vede  tanti  disordini  quanti nascono  in  Italia  ogni  di,  deriva  non tanto  dalla  bontà  de'  popoli,  la  quale  ìh buona  parte  è mancata;  quanto  dallo avere  uno  re  che  gli  mantiene  uniti, non  solamente  per  la  virtù  sua,  ma  per l’ordine  di  quelli  regni,  che  ancora  non sono  guasti.  Vedesi  bene  nella  provincia della  Magna,  questa  bontà  e questa religione  ancora  in  quelli  popoli  esser grande;  la  qual  fa  che  molte  repubbliche vi  vivono  libere,  ed  in  modo  osservano le  loro  leggi,  che  nessuno  di  fuori nè  di  dentro  ardisce  occuparle.  E che sia  vero  che  in  loro  regni  buona  parte di  quella  antica  bontà,  io  nc  voglio  dare uno  essempio  simile  a questo  detto di  sopra  del  Senato  e della  Plebe  romana. Usano  quelle  repubbliche,  quando gli  occorre  loro  bisogno  di  avere  a spendere  alcuna  quantità  di  danari  per  conto pubblico,  che  quelli  magistrati  o consigli che  ne  hanno  autorità,  ponghino  a tutti  gli  abitanti  della  città  uno  per  cento, o dua,  di  quello  che  ciascuno  ha  di valsente.  E fatta  tale  deliberazione  secondo 1’  ordine  della  terra,  si  rappresenta ciascuno  dinanzi  agli  esecutori  di tale  imposta;  e,  preso  prima  il  giuramento di  pagare  la  conveniente  somma, getta  in  una  cassa  a ciò  deputata  quello clic  secondo  la  conscienza  sua  gli  pare dover  pagare:  del  qual  pagamento  non è testimonio  alcuno,  se  non  quello  che paga.  Donde  si  può  conictturare,  quanta bontà  e quanta  religione  sia  ancora  in quelli  uomini.  E debbesi  stimare  che ciascuno  paghi  la  vera  somma:  perchè, quando  la  non  si  pagasse,  non  pitterebbe la  imposizione  quella  quantità che  loro  disegnassero  secondo  le  antiche che  fussino  usitate  riscuotersi;  e non  gitlando,  si  conoscerebbe  la  fraude; e conoscendosi,  arebbon  preso  altro  modo che  questo.  La  quale  bontà  è tanto  più da  ammirare  in  questi  tempi,  quanto ella  è più  rara  : anzi  si  vede  essere  rimasa  sola  in  quella  provincia.  Il  che nasce  da  due  cose  : Y una,  non  avere avuti  commerzi  grandi  co’ vicini;  perchè nè  quelli  sono  ili  a casa  loro,  nè essi  sono  iti  a casa  altrui;  perchè  sono stati  eontenli  di  quelli  beni,  e vivere  di quelli  cibi,  vestire  di  quelle  lane  che  dà il  paese:  d’onde  è stata  tolta  via  la cagione  d’ogni  conversazione,  ed  il  principio di  ogni  corruttela;  perchè  non hanno  possuto  pigliare  i costumi  nè franciosi  nè  spagnuoli  nè  italiani,  le quali  nazioni  tutte  insieme  sono  la  corruttela del  mondo.  L’ altra  cagione  è, che  quelle  repubbliche  dove  si  è mantenuto il  vivere  politico  ed  incorrotto, non  sopportano  che  alcuno  loro  cittadino nè  sia  nè  viva  ad  uso  di  gentiluomo: anzi  mantengono  infra  loro  una pari  equalità,  ed  a quelli  signori  e gentiluomini che  sono  in  quella  provincia, sono  inimicissimi  ; c se  per  caso  alcuni pervengono  loro  nelle  mani,  come  priacipi  di  corruttela  e cagione  di  ogni  scandalo, gli  ammazzano.  E'  per  chiarire questo  nome  di  gentiluomini  quale  e’  sia. dico  che  gentiluomini  sono  chiamali quelli  che  ociosi  vivono  de’  proventi delle  loro  possessioni  abbondantemente, senza  avere  alcuna  cura  o di  coltivare, o di  alcuna  altra  necessaria  fatica  a vivere.  Questi  tali  sono  perniciosi  in ogni  repubblica  ed  in  ogni  provincia; ma  più  perniciosi  sono  quelli  che,  oltre alle  predette  fortune,  comandano  a ca- stella, ed  hanno  sudditi  che  ubbidiscono a loro.  Di  queste  due  sorti  di  uomini ne  sono  pieni  il  regno  di  Napoli,  terra di  Roma,  la  Romagna  e la  Lombardia. Di  qui  nasce  che  in  quelle  provincie non  è mai  stata  alcuna  repubblica,  nè alcuno  vivere  politico;  perchè  tali  generazioni di  uomini  sono  al  tutto  nemici di  ogni  civiltà.  Ed  a volere  in  provincie fatte  in  simil  modo  introdurre una  repubblica,  non  sarebbe  possibile: ma  a volerle  riordinare,  se  alcuno  ne fusse  arbitro,  non  arebbe  altra  via  che farvi  un  regno.  La  ragione  è questa, che  dove  è tanto  la  materia  corrotta che  le  leggi  non  bastino  a frenarla,  vi bisogna  ordinare  insieme  con  quelle maggior  forza  ; la  quale  è una  mano regia,  che  con  la  potenza  assoluta  ed eccessiva  ponga  freno  alla  eccessiva  ambizione e corruttela  de’  potenti.  Verificasi questa  ragione  cou  lo  esempio  di Toscana  : dove  si  vede  in  poco  spazio di  terreno  stale  longamente  tre  repubbliche, Firenze,  Siena  e Lucca  ; e le  altre città  di  quella  provincia  essere  in modo  serve,  che,  con  l’ animo  e con T ordine,  si  vede  o che  le  mantengono, o che  le  vorrebbono  mantenere  la  loro libertà.  Tutto  è nato  per  non  essere  in quella  provincia  alcun  signore  di  castella, c nessuno  o pochissimi  gentiluomini ; ma  esservi  tanta  equalità,  che facilmente  da  uno  uomo  prudente,  e che
delle  antiche  civilità  avesse  cognizione, vi  si  introdurrebbe  un  viver  civile.  Ma lo  infortunio  suo  è stato  tanto  grande, che  infino  a questi  tempi  non  ha  sortito alcuno  uomo  che  lo  abbia  potuto o saputo  fare.  Trassi  adunque  di  questo discorso  questa  conclusione:  che  colui che  vuole  fare  dove  sono  assai  gentiluomini una  repubblica,  non  la  può fare  se  prima  non  gli  spegne  tutti:  e che  colui  che  dove  è assai  equalità  vuole fare  uno  regno  o uno  principato,  non lo  potrà  mai  fare  se  non  trae  di  quella «qualità  molti  di  animo  ambizioso  ed inquieto,  e quelli  fa  gentiluomini  in  fatto, e non  in  nome,,  donando  loro  castella e possessioni,  c dando  loro  favore di  sustanze  e d’uomini  ; acciocché, posto  in  mezzo  di  loro,  mediante  quelli mantenga  la  sua  potenza  ; cd  essi, mediante  quello,  la  loro  ambizione;  e gli  altri  siano  constretti  n sopportare quel  giogo  che  la  forza,  e non  altro mai,  può  far  sopportare  loro.  Ed  essendo  per  questa  via  proporzione  da  chi sforza  a chi  è sforzato,  stanno  fermi gli  uomini  ciascuno  nello  ordine  loro. E perchè  il  fare  d’  una  provincia  atta ad  essere  regno  una  repubblica,  c d’ una atta  ad  essere  repubblica  farne  un  regno, è materia  da  uno  uomo  che  per cervello  e per  autorità  sia  raro;  sono stati  molti  che  Io  hanno  voluto  fare,  e pochi  che  lo  abbino  saputo  condurre. Perchè  la  grandezza  della  cosa  parte sbigottisce  gli  uomini,  parte  in  modo gli  ’mpedisce,  che  ne’ primi  principii mancano.  Credo  che  a questa  mia  oppiatone, che  dove  sono  gentiluomini  non si  possa  ordinare  repubblica,  parrà  contraria la  esperienza  della  Repubblica veneziana,  nella  quale  non  usano  avere alcuno  grado  se  non  coloro  che  sono gentiluomini.  A che  si  risponde,  come questo  essempio  non  ci  fa  alcuna  oppugnazione, perchè  i gentiluomini  in quella  Repubblica  sono  piu  in  nome  che in  fatto;  perchè  loro  non  hanno  grandi entrate  di  possessioni,  sendo  le  loro ricchezze  grandi  fondate  in  sulla  mercanzia e cose  mobili;  e di  più,  nessuno di  loro  tiene  castella,  o ha  alcuna  iurisdizione  sopra  gli  uomini:  ma  quel  nome di  gentiluomo  in  loro  è nome  di degnila  e di  riputazione,  senza  essere fondato  sopra  alcuna  di  quelle  cose  che fa  che  nell’  altre  città  si  chiamano  i gentiluomini.  E come  le  altre  repubbliche hanno  tutte  le  loro  divisioni  sotto vari  nomi,  così  Vinegia  si  divide  in gentiluomini  e popolari  ; e vogliono  che quelli  abbino,  ovvero  possino  avere,  tutti gli  onori;  quelli  altri  ne  sieno  al  tutto esclusi.  Il  che  non  fa  disordine  in  quella terra,  per  le  ragioni  altra  volta  dette. Gonstituisca,  adunque,  una  repubblica colui  dove  è,  o è fatta  una  grande  egualità; ed  alP  incontro  ordini  un  principato dove  è grande  inequalità  : altrimenti farà  cosa  senza  propprzione,  e poco  durabile.  LYI.  — Innanzi  che  segnino  i grandi  accidenti  in  una  città  o in  una provincia , vengono  segni  che  gli  pròìioslicanOj  o uomini  che  gli  predicono. Donde  e*  si  nasca  io  non  so,  ina  si vede  pei*  gli  antichi  e per  gli  moderni essempi,  che  mai  non  venne  alcuno  grave accidente  in  una  città  o in  una  provincia, che  non  sia  stato,  o da  indovini  o da  revelazioni  o da  prodigi,  o da  altri segni  celesti,  predetto.  E per  non  mi  discostare da  casa  nei  provare  questo,  saciascuno  quanto  da  frate  Girolamo  Savonarola fusse  predetta  innanzi  la  venuta del  re  Carlo  Vili  di  Francia  in  Italia; e come,  olirà  di  questo,  per  tutta  Toscana si  disse  esser  sentite  in  aria  e vedute genti  d’ arme,  sopra  Arezzo,  che  si azzuffavano  insieme.  Sa  ciascuno  olirà di  questo,  come  avanti  la  morte  di  Lorenzo de’  Medici  vecchio  fu  percosso  il duomo  nella  sua  più  alta  parte  con  una saetta  celeste,  con  l'ovina  grandissima di  quello  edilìzio.  Sa  ciascuno  ancora,, come  poco  innanzi  che  Soderini, quale  era  stato  fatto  gonfaloniere  a vita dal  popolo  fiorentino,  fosse  cacciato  e privo  del  suo  grado,  fu  il  palazzo  medesimamente da  un  fulgore  percosso.  Potrcbbesi,  olirà  di  questo,  addurre  più essempi,  i quali  per  fuggire  il  tedio  lascerò.  Narrerò  solo  quello  che  L.,  innanzi  alla  venuta  de’  Franciosi in  Roma  : cioè,  come  uno  Marco Cedizio  plebeio,  riferì  al  Senato  avere udito  di  mezza  notte,  passando  per  la Via  Nuova,  una  voce  maggiore  che  umana, la  quale  lo  ammoniva  che  riferisse ai  magistrati,  come  i Franciosi  venivano a Roma.  La  cagione  di  questo  credo  sia da  essere  discorsa  ed  interpretata  da uomo  che  abbia  notizia  delle  cose  naturali e soprannaturali:  il  che  non  abbiamo noi.  Pure,  potrebbe  essere  che,  sendo questo  aere,  come  vuole  alcuno  filosofo, pieno  d’ intelligenze  ; le  quali  per  naturale  virtù  prevedendo  le  cose  future, ed  avendo  compassione  agli  uomini,  acciò si  possino  preparare  alle  difese,  gli avvertiscono  con  simili  segni.  Pure,  comunelle si  sia,  si  vede  cosi  essere  la verità;  e che  sempre  dopo  tali  accidenti sopravvengono  cose  istraordinarie  e nuove alle  provincie.  L VII.  — La  plebe  insieme  è gagliarda; di  per  se  è debole. Erano  molti  Romani,  scudo  seguita per  la  passata  de*  Franciosi  la  rovina della  lor  patria,  andati  ad  abitare  a Yeio, contea  alla  constituzione  ed  ordine  del Senato:  il  quale,  per  rimediare  a questo disordine,  comandò  per  i suoi  editti pubblici  che  ciascuno,  infra  certo  tempo e sotto  certe  pene,  tornasse  ad  abitare a Roma.  De’quali  editti,  da  prima  per coloro  contea  a chi  e*  venivano,  si  fu fatto  beffe;  dipoi,  quando  si  appressò  il tempo  dello  ubbidire,  tutti  ubbidirono. E Tito  Livio  dice  queste  parole  : Ex  fcrocibus  universtSj  singtili  metti  suo  obedienfes  fuere.  E veramente,  non  si  può mostrare  meglio  la  natura  d’ una  moltitudine in  questa  parte,  che  si  dimostri in  questo  testo.  Perchè  la  moltitudine  è audace  nel  parlare  molte  volte  contra alle  deliberazioni  del  loro  principe;  dipoi, come  veggono  la  pena  in  viso,  non si  fidando  Y uno  dell’  altro,  corrono  ad ubbidire.  Talché  si  vede  certo,  che  di quel  che  si  dica  uno  popolo  circa  la mala  o buona  disposizion  sua,  si  debbe tenere  non  gran  conto,  quando  tu  sia ordinato  in  modo  da  poterlo  mantenere, s’ egli  è ben  disposto;  s’ egli  è mal  disposto, da  poter  provvedere  che  non  ti offenda.  Questo  s’intende  per  quelle  male disposizioni  che  hanno  i popoli,  nate  da qualunque  altra  cagione,  che  o per  avere perduto  la  libertà,  o il  loro  principe stato  amato  da  loro,  e che  ancora  sia vivo;  perchè  le  male  disposizioni  che nascono  da  queste  cagioni,  sono  sopra ogni  cosa  formidabili,  e che  hanno  bisogno di  grandi  rimedi  a frenarle  : 1'  altre sue  indisposizioni  fieno  facili,  quando ci  non  abbia  capi  a chi  rifuggire.  Perchè non  ci  è cosa,  dall’  un  canto,  più formidabile  che  una  moltitudine  sciolta e senza  capo;  e,  dall’  altra  parte,  non  è cosa  più  debole  : perchè,  quantunque  ella abbi  1’  armi  in  mano,  fia  facile  ridurla, purché  tu  abbi  ridotto  da  potere  fuggire il  primo  impeto;  perchè  quando  gli animi  sono  un  poco  raffreddi,  e che  ciascuno vede  di  aversi  a tornare  a casa sua,  cominciano  a dubitare  di  loro  medesimi, e pensare  alla  salute  loro,  o con fuggirsi  o con  l’accordarsi.  Però  una moltitudine  così  concitata,  volendo  fuggire questi  pericoli,  ha  subito  a fare  infra sè  medesima  un  capo  che  la  corregga, tenghila  unita  e pensi  alla  sua  difesa ; come  fece  la  Plebe  romana,  quando dopo  la  morte  di  Virginia  si  partì  da Roma,  e per  salvarsi  feciono  infra  loro venti  Tribuni:  e non  facendo  questo,  interviene  loro  scmj)re  quel  che  dice  L.  nelle  soprascritte  parole,  che  tutti insieme  sono  gagliardi;  e quando  ciascuno poi  comincia  a pensare  al  proprio pericolo,  diventa  vile  e debole. LVIIL  — ì.a  moltitudine  è più  savia e più  costante  che  un  principe. Nessuna  cosa  essere  più  vana  e più inconstante  che  la  moltitudine:  cosi  L.  nostro,  come  tutti  gli  altri  istorici affermano.  Perchè  spesso  occorre, nel  narrare  le  azioni  degli  uomini,  vedere la  moltitudine  avere  condannato alcuno  a morte,  e quel  medesimo  di  poi pianto  e sommamente  desiderato:  come si  vede  avere  fatto  il  Popolo  romano  di Manlio  Capitolino,  il  quale  avendo  CONDENNATO A MORTE,  sommamente  dipoi  desiderava. E le  parole  dell*  autore  son queste:  Populum  brevi,  posteaquam  ab co  periculum  nullum  eral , dcsidcrium rjus  tenuit.  Ed  altrove,  quando  mostra gli  accidenti  che  nacquero  in  Siracusa dopo  la  morte  di  Girolamo  nipote  di  Ierone,  dice:  Hcec  natura  mulliludinis  est : aut  umiliter  servii , aut  superbe  domi • natur.  Io  non  so  se  io  mi  prenderò  una provincia  dura,  e piena  di  tanta  difficoltà, che  mi  convenga  o abbandonarla con  vergogna,  o seguirla  con  carico; volendo  difendere  una  cosa,  la  quale, come  ho  detto,  da  tutti  gli  scrittori  è accusata.  Ma,  comunehc  si  sia,  io  non giudico  nè  giudicherò  mai  essere  difetto difendere  alcune  oppinioni  con  le  ragioni, senza  volervi  usare  o la  autorità  o la forza.  Dico  adunque,  come  di  quello  difetto di  che  accusano  gli  scrittori  la moltitudine,  se  ne  possono  accusare  tutti gli  uomini  particolarmente,  e massime i principi;  perchè  ciascuno  che  non  sia regolato  dalle  leggi,  farebbe  quelli  medesimi errori  che  la  moltitudine  sciolta. E questo  si  può  conoscere  facilmente, perchè  e’  sono  c sono  stati  assai  principi, e de’ buoni  e de’ savi  ne  sono  stati pochi;  io  dico  de’ principi  che  hanno potuto  rompere  quel  freno  che  gli  può correggere;  intra  i quali  non  sono  quegli re  che  nascevano  in  Egitto,  quando in  quella  antichissima  antichità  si  governava quella  provincia  con  le  leggi; nè  quelli  che  nascevano  in  Sparta;  nè quelli  che  a’  nostri  tempi  nascono  in Francia:  il  quale  regno  è moderato  più dalle  leggi,  che  alcuno  altro  regno  di che  ne’ nostri  tempi  si  abbi  notizia.  E questi  re  che  nascono  sotto  tali  constituzioni,  non  sono  da  mettere  in  quel numero,  donde  si  abbia  a considerare la  natura  di  ciascuno  uomo  per  sè,  e vedere  se  egli  è simile  alla  moltitudine: perchè  a rincontro  loro  si  debbe  porre una  moltitudine  medesimamente  regolata dalle  leggi  come  sono  loro;  e si  troverà in  lei  essere  quella  medesima  bontà  che noi  veggiamo  essere  in  quelli,  e vedrassi quella  nè  superbamente  dominare  nè umilmente  servire:  come  era  il  Popolo romano,  il  quale  mentre  durò  la  Repubblica  incorrotta,  non  servì  mai  umilmente nè  mai  dominò  superbamente; anzi  con  li  suoi  ordini  e magistrati  tenne il  grado  suo  onorevolmente.  E quando era  necessario  insurgerc  contra  a uno potente,  lo  faceva;  come  si  vede  in  Manlio, ne’  Dieci,  ed  in  altri  che  cercorno opprimerla  : e quando  era  necessario ubbidire  a’  Dittatori  ed  a’ Consoli  per  la salute  pubblica,  lo  faceva.  E se  il  Popolo romano  desiderava  Manlio  Capitolino morto,  non  è meraviglia;  perchè e*  desiderava  le  sue  virtù,  le  quali  erano state  tali,  che  la  memoria  di  esse  recava compassione  a ciascuno;  cd  arebbono avuto  forza  di  fare  quel  medesimo  effetto in  un  principe,  perchè  1*  è sentenza di  tutti  li  scrittori,  come  la  virtù  si lauda  e si  ammira  ancora  negli  inimici suoi:  e se  Manlio,  infra  tanto  desiderio, fusse  risuscitato,  il  Popolo  di  Roma  arebbe dato  di  lui  il  medesimo  giudizio,  come ei  fece,  tratto  che  lo  ebbe  di  prigione, che  poco  di  poi  lo  condennò  a morte; nonostante  die  si  vegga  di  principi  tenuti savi,  i quali  hanno  fatto  morire qualche  persona,  e poi  sommamente  desideratala : come  Alessandro,  Clito  ed altri  suoi  amici  ; ed  Erode,  Marianne.  Ma quello  che  lo  istorico  nostro  dice  della natura  della  moltitudine,  non  dice  di quella  che  è regolata  dalle  leggi,  come era  la  romana;  ma  della  sciolta,  come era  la  siracusana:  la  quale  fece  quelli errori  che  fanno  gli  uomini  infuriati  e sciolti,  come  fece  Alessandro  magno,  ed Erode,  ne’ casi  detti.  Però  non  è più  da incolpare  la  natura  della  moltitudine  che de’ principi,  perchè  tutti  egualmente  errano, quando  tutti  senza  rispetto  possono errare.  Di  che,  oltre  a quello  che ho  detto,  ci  sono  assai  essempi,  ed  intra gli  imperadori  romani,  ed  intra  gli altri  tiranni  e , principi;  dove  si  vede tanta  incostanza  e tanta  variazione  di vita,  quanta  mai  non  si  trovasse  in  alcuna moltitudine.  Conchiudo,  adunque, contea  olla  comune  oppimene,  la  qual dice  come  i popoli,  quando  sono  principi,  sono  vari,  mutabili,  ingrati;  affermando che  in  loro  non  sono  altrimente
questi  peccati  che  si  siano  ne’  principi particolari.  Ed  accusando  alcuni  i popoli ed  i principi  insieme,  potrebbe  dire  il vero;  ma  traendone  i principi,  s’inganna; perchè  un  popolo  che  comanda  e sia bene  ordinato,  sarà  stabile,  prudente  e grato  non  altrimenti  che  un  principe,  o meglio  che  un  principe,  eziandio  stimato savio:  e dall’altra  parte,  un  priucipe sciolto  dalle  leggi,  sarà  ingrato,  vario ed  imprudente  più  che  uno  popolo.  E che la  variazione  del  procedere  loro  nasce non  dalla  natura  diversa,  perchè  in  tutti è ad  un  modo:  e se  vi  è vantaggio  di bene,  è nei  popolo;  ma  dallo  avere  più o meno  rispetto  alle  leggi,  dentro  alle quali  l’uno  e l’altro  vive.  E chi  considerrà  il  Popolo  romano,  lo  vedrà  essere stato  per  quattrocento  anni  iuimico  del nome  regio,  ed  amatore  della  gloria  e del  bene  comune  della  sua  patria:  vedrà tanti  essempi  usati  da  lui,  clic  testiiuoniauo  1’  una  cosa  e V altra.  £ se  alcuno mi  allegasse  la  ingratitudine  eh7  egli  usò centra  a Scipione,  rispondo  quello  die di  sopra  lungamente  si  discorse  in  questa  materia,  dove  si  mostrò  i popoli  essere  meno  iugraii  de’ principi.  Ma  quanto alla  prudenza  ed  alla  stabilità,  dico,  come uno  popolo  è più  prudente,  più  stabile e di  miglior  giudicio  che  un  principe. E uon  senza  cagione  si  assomiglia la  voce  d7  un  popolo  a quella  di  Dio; perchè  si  vede  una  oppinioue  universale fare  effetti  meravigliosi  ne’ pronostichi suoi:  talché  pare  che  per  occulta virtù  e’ prevegga  il  suo  male  ed  il  suo bene.  Quanto  al  giudicare  le  cose,  si vede  rarissime  volte,  quando  egli  ode due  concionanti  che  tendino  in  diverse parti,  quando  e’ sono  di  egual  virtù,  che non  pigli  *ia  oppinione  migliore,  e che non  sia  capace  di  quella  verità  ch’egli  ode. £ se  nelle  cose  gagliarde,  o che  paiano utili,  come  di  sopra  si  dice, egli  erra  ; molte  volte  erra  ancora  uri  principe  nelle  sue proprie  passioni,  le  quali  sono  molle  più che  quelle  de’  popoli.  Yedesi  ancora,  nelle sue  elezioni  ai  magistrati,  fare  di lunga  migliore  elezione  che  uno  principe; nè  mai  si  persuaderà  ad  un  popolo, che  sia  bene  tirare  alla  degnila uno  uomo  infame  e di  corrotti  costumi: il  che  facilmente  e per  mille  vie  si  persuade ad  un  principe.  Yedesi  un  popolo cominciare  ad  avere  in  orrore  una  cosa, e molti  secoli  stare  in  quella  oppinione: il  che  non  si  vede  in  uno  principe.  E dell’  una  e dell’  altra  di  queste  due  cose voglio  mi  basti  per  testimone  il  Popolo romano:  il  quale,  in  tante  centinaia d’anni,  in  tante  elezioni  di  Consoli  e di Tribuni,  non  fece  quattro  elezioni  di  che quello  si  avesse  a pentire.  Ed  ebbe,  come ho  detto,  tanto  in  odio  il  nome  regio, che  nessuno  obbligo  di  alcuno  suo  cittadino, che  tentasse  quel  nome,  potette fargli  fuggire  le  debite  pene.  Yedesi, oltra  di  questo,  le  città  dove  i popoli sono  principi,  fare  in  brevissimo  tempo augumenti  eccessivi,  e molto  maggiori che  quelle  che  sempre  sono  state  sotto un  principe  ! come  fece  Roma  dopo  la cacciata  de’  re,  ed  Atene  da  poi  che  la si  liberò  da  Pisistrato.  11  che  non  può nascere  da  altro,  se  non  che  sono  migliori governi  quelli  de*  popoli  che  quelli de*  principi.  Nè  voglio  che  si  opponga  a questa  mia  oppinione  tutto  quello  che lo  istorico  nostro  ne  dice  nel  preallcgato testo,  ed  in  qualunque  altro;  perchè,  se si  discorreranno  tutti  i disordini  de’popoli,  tutti  i disordini  de*  principi,  tutte le  glorie  de*  popoli,  tutte  quelle  de’ principi, si  vedrà  il  popolo  di  bontà  e di gloria  essere  di  lunga  supcriore.  E se  i principi  sono  superiori  a*  popoli  nello ordinare  leggi,  formare  vite  civili, ordinare  statuti  ed  ordini  nuovi  ; i popoli  sono  tanto  superiori  nel  mantenere le  cose  ordinate,  eh’  egli  aggiungono senza  dubbio  alla  gloria  di  coloro che  l’ordinano.  Ed  in  somma,  per  epilegare  questa  materia,  dico  come  hanno durato  assai  gli  stati  de’ principi,  hanno durato  assai  gli  stati  delle  repubbliche, e l’uno  e l’  altro  ha  avuto  bisogno  d’essere regolato  dalle  leggi  : perchè  un  principe che  può  fare  ciò  che  vuole,  è pazzo; un  popolo  che  può  fare  ciò  che  vuole, non  è savio.  Se,  adunque,  si  ragionerà d' un  principe  obbligato  alle  leggi,  ed’  un  popolo  incatenalo  da  quelle,  si  vedrà più  virtù  nel  popolo  che  nel  principe: se  si  ragionerà  dell’ uno  e dell’altro sciolto,  si  vedrà  • meno  errori  nel popolo  che  nei  principe;  e quelli  minori, ed  aranno  maggiori  rimedi.  Perchè  ad un  popolo  licenzioso  e tumultuario,  gli può  da  un  uomo  buono  esser  parlato, e facilmente  può  essere  ridotto  nella  via buona  : ad  un  principe  cattivo  non  è alcuno che  possa  parlare,  nè  vi  è altro rimedio  che  il  ferro.  Da  che  si  può  far coniettura  della  importanza  della  malattia dell’uno  e dell’altro:  chè  se  a curare la  malattia  del  popolo  bastano  le parole,  ed  a quella  del  principe  bisogna il  ferro,  non  sarà  mai  alcuno  che  non giudichi,  che  dove  bisogna  maggior  cura, siano  maggiori  errori.  Quando  un  popolo è bene  sciolto,  non  si  temono  le  pazzie che  quello  fa,  nè  si  ha  paura  del  mal presente,  ma  di  quello  che  ne  può  nascere, potendo  nascere  infra  tanta  confusione un  tiranno.  Ma  ne’ principi  tristi interviene  il  contrario:  che  si  teme il  male  presente,  e nel  futuro  si  spera; persuadendosi  gli  uomini  che  la  sua  cattiva vita  possa  far  surgere  una  libertà. Sì  che  vedete  la  differenza  dell’  uno  e dell’  altro,  la  quale  è quanto  dalle  cose che  sono,  a quelle  che  hanno  ad  essere. Le  crudeltà  della  moltitudine  sono  contra  a chi  ei  temono  clic  occupi  il  ben comune  : quelle  d’  un  principe  sono  contro a chi  ci  temono  che  occupi  il  bene proprio.  Ma  la  oppiti  ione  contro  ai  popoli nasce  perchè  de’  popoli  ciascuno dice  male  senza  paura  e liberamente, ancora  mentre  che  regnano:  de’  principi si  parla  sempre  con  mille  paure  e mille rispetti.  Nè  mi  pare  fuor  di  proposito, poiché  questa  materia  mi  vi  tira,  disputare nel  seguente  capitolo  di  quali  confederazioni altri  si  possa  più  fidare,  o di  quelle  falle  con  una  repubblica,  o di quelle  fatte  con  ui>  principe. LIX.  — Di  quali  confederazioni , o lega,  altri  si  può  più  fidare  ; o di quella  fatta  con  una  repubblica , o di quella  fatta  con  uno  principe. Perchè  ciascuno  dì  occorre  che  P uno principe  con  l’altro,  o V una  repubblica con  l’altra,  fanno  lega  ed  amicizia  insieme ; ed  ancora  similmente  si  contrae confederazione  ed  accordo  intra  una  repubblica  ed  uno  principe  mi  pare  di esaminare  qual  fede  è più  stabile,  e di quale  si  debba  tenere  più  conto,  o di quella  d’  una  repubblica,  o di  quella d’ uno  principe,  lo,  esaminando  tutto, credo  che  in  molti  casi  e’ siano  simili. ed  in  alcuni  vi  sia  qualche  disformità. Credo  per  tanto,  che  gli  accordi  fatti  per forza  non  ti  saranno  nè  da  un  principe nè  da  una  repubblica  osservali;  credo che  quando  la  paura  dello  stato  venga, l'uno  e l'altro,  per  non  lo  perdere,  ti romperà  la  fede,  e ti  userà  ingratiludine.  Demetrio,  quel  che  fu  chiamato espugnatore  delle  cittadi,  aveva  fatto  agli Ateniesi  infiniti  benefici!  : occorse  dipoi, che  sendo  rotto  da’ suoi  inimici,  e rifuggendosi in  Atene,  come  in  città  amica ed  a lui  obbligata,  non  fu  ricevuto  da quella  : il  che  gli  dolse  assai  più  che non  aveva  fatto  la  perdita  delle  genti  e dello  esercito  suo.  Pompeio,  rotto  che fu  da  Cesare  in  Tessaglia,  si  rifuggì  in Egitto  a Tolomeo,  il  quale  era  per  lo addietro  da  lui  stato  rimesso  nel  regno; e fu  da  lui  morto.  Le  quali  cose  si  vede che  ebbero  le  medesime  cagioni;  nondimeno  fu  più  umanità  usata  e meno  •ingiuria  dalla  repubblica,  che  dal  principe. Dove  è,  pertanto,  la  paura,  si  troverà  in  fallo  la  medesima  fede.  E se  si troverà  o una  repubblica  o uno  principe, che  per  osservarti  la  fede  aspetti di  rovinare,  può  nascere  questo  ancora da  simili  cagioni.  E quanto  al  principe, può  molto  bene  occorrere  che  egli  sia amico  d’  un  principe  potente,  che  se bene  non  ha  occasione  allora  di  difenderlo, ei  può  sperare  che  col  tempo  e*  lo restituisca  nel  principato  suo;  o veramente che,  avendolo  seguito  come  partigiano, ei  non  creda  trovare  nè  fede nè  accordi  con  il  nimico  di  quello.  Di questa  sorte  sono  stati  quelli  principi del  reame  di  Napoli  che  hanno  seguite le  parti  franciose.  E quanto  alle  repubbliche, fu  di  questa  sorte  Sagunto  in Ispagna,  che  aspettò  la  rovina  per  seguire le  parti  romane;  e di  questa  Firenze, per  seguire  nel  4512  le  parti franciose.  E credo,  computata  ogni  cosa, che  in  questi  casi,  dove  è il  pericolo urgente,  si  troverà  qualche  stabilità  più nelle  repubbliche,  che  ne’  principi.  Perche,  sebbene  le  repubbliche  avessino quel  medesimo  animo  e quella  medesima voglia  che  un  principe,  lo  avere  il  moto loro  tardo,  farà  che  le  porranno  sempre  più  a risolversi  che  il  principe,  e per  questo  porranno  più  a rompere  la fede  di  lui.  Romponsi  le  confederazioni per  lo  utile.  In  questo  le  repubbliche sono  di  lunga  più  osservanti  degli  accordi, che  i principi.  E potrebbesi  addurre essempi,  dove  uno  miuinio  utile ha  fatto  rompere  la  fede  ad  uno  principe, e dove  una  grande  utilità  non  ha fatto  rompere  la  fede  ad  una  repubblica  : come  fu  quello  partito  che  propose  Temistocle agli  Ateniesi,  a’ quali  nella  conclone disse  che  aveva  uno  consiglio  da fare  alla  loro  patria  grande  utilità  ; ma non  lo  poteva  dire  per  non  lo  scoprire, perchè  scoprendolo  si  toglieva  la  occasione del  farlo.  Onde  il  popolo  di  Atene elesse  Aristide,  al  quale  si  comunicasse la  cosa,  e secondo  dipoi  che  paresse  a lui  se  ne  deliberasse:  al  quale  Temistode  mostrò  come  I*  armata  di  tutta  Grecia, ancora  che  stesse  sotto  la  fede  loro, era  in  lato  che  facilmente  si  poteva  guadagnare o distruggere;  il  che  faceva  gli Ateniesi  al  tutto  arbitri  di  quella  provincia. Donde  Aristide  riferì  ai  popolo, il  partito  di  Temistocle  essere  utilissimo, ma  disonestissimo  : per  la  qual  cosa il  popolo  al  tutto  lo  ricusò.  II  che  non arebbe  fatto  Filippo  Macedone,  e gli  altri principi  che  più  utile  hanno  cerco e più  guadagnato  con  il  rompere  la  fede, che  con  verun  altro  modo.  Quanto  a rompere  i patti  per  qualche  cagione  di inosservanza,  di  questo  io  non  parlo come  di  cosa  ordinaria;  ma  parlo  dì quelli  che  si  rompono  per  cagioni  istrasordinarie:  dove  io  credo,  per  le  cose (lette,  che  il  popolo  facci  minori  errori che  il  principe,  e per  questo  si  possa Fidar  più  di  lui  che  del  principe. LX.  — Come  il  consolato  e qualungue  altro  magistrato  in  Roma  si  (lava senza  rispetto  di  età. E’  si  vede  per  V ordine  della  istoria, come  la  Repubblica  romana,  poiché  ’i consolato  venne  nella  Plebe,  concesse quello  ai  suoi  cittadini  senza  rispetto  di età  o di  sangue;  ancora  cbe  il  rispetto della  età  mai  non  fusse  in  Roma,  ma sempre  si  andò  a trovare  la  virtù,  o in giovane  o in  vecchio  cbe  la  fusse.  Il  che si  vede  per  il  testimone  di  Valerio  Corvino, che  fu  fatto  Consolo  nell!  Ventitré anni:  e Valerio  detto,  parlando  ai  suoi soldati,  disse  come  il  consolato  crai  prcetnium  virfulisj,  non  sanguinis.  La  qual cosa  se  fu  bene  considerata,  o no,  sarebbe da  disputare  assai.  E quanto  al  sangue,  fu concesso  questo  per  necessità  ; e quella  necessità che  fu  in  Roma,  sarebbe  in  ogni città  che  volesse  fare  gli  effetti  che  fece Roma,  come  altra  volta  si  è detto:  per-  i! chè  e’  non  si  può  dare  agli  uomini  disagio senza  premio,  nè  si  può  torre  la SPERANZA di  conseguire  il  premio  senza pericolo.  E però  a buona  ora  convenne che  la  Plebe  avesse  speranza  di  avere il  consolato  ; e di  questa  SPERANZA  si nutrì  un  tempo  senza  averlo.  Dipoi  non bastò  la  speranza,  che  e’ convenne  che si  venisse  allo  effetto.  Ma  la  città  che non  adopera  la  sua  plebe  ad  alcuna  cosa gloriosa,  la  può  trattare  a suo  modo, come  altrove  si  disputò:  ma  quella  elle vuole  fare  quel  che  fe  Roma,  non  ha  a fare  questa  distinzione.  E dato  che  così sia,  quella  del  tempo  non  ha  replica  ; anzi  è necessaria  : perchè  nello  eleggere uno  giovane  in  uno  grado  che  abbi  bisogno d’ una  prudenza  di  vecchio,  conviene, avendovelo  ad  eleggere  la  moltitudine, che  a quel  grado  lo  facci  pervenire qualche  sua  nobilissima  azione. E quando  un  giovane  è di  tanta  virtù, che  si  sia  fatto  in  qualche  cosa  notabile conoscere  ; sarebbe  cosa  dannosissima che  la  città  non  se  «e  potesse  valere  allora, e che  la  avesse  ad  aspettare  che fusse  invecchiato  con  lui  quel  vigore deir  animo,  quella  prontezza,  della  quale in  quella  età  la  patria  sua  si  poteva  valere : come  si  valse  Roma  di  Valerio  Corvino, di  Scipione,  di  Pompeio  e di  molti altri  che  trionfarono  giovanissimi. Laudano  sempre  gli  uomini,  ma  noti sempre  ragionevolmente,  gli  antichi  tempi, e gli  presenti  accusano:  ed  in  modo sono  delle  cose  passate  partigiani,  che non  solamente  celebrano  quelle  etadi che  da  loro  sono  state,  per  la  memoria che  ne  hanno  lasciata  gli  scrittori,  conosciute ; ma  quelle  ancora  che,  sendo già  vecchi,  si  ricordano  nella  loro  giovanezza avere  vedute.  E quando  questa loro  oppinionc  sia  falsa,  come  il  più delle  volte  è,  mi  persuado  varie  essere le  cagioni  che  a questo  inganno  gli  conducono. E la  prima  credo  sia,  che  delle cose  antiche  non  s’intenda  al  tutto  lu verità;  e che  di  quelle  il  più  delle  vollesi  nasconda  quelle  cose  che  recherebbono  a quelli  tempi  infamia;  e quelle altre  che  possono  partorire  loro  gloria, si  remlino  magnifiche  ed  amplissime. Però  che  i più  degli  scrittori  in  modo  * alla  fortuna  de’  vincitori  ubbidiscono, che  per  fare  le  loro  vittorie  gloriose, non  solamente  accrescono  quello  che  da loro  è virtuosamente  operato,  ma  ancora le  azioni  de’  nimici  in  modo  illustrano, che  qualunque  nasce  dipoi  in qualunque  delle  due  provincie,  o nella vittoriosa  o nella  vinta,  ha  cagione  di maravigliarsi  di  quelli  uomini  e di  quelli tempi,  ed  è forzato  sommamente  laudargli ed  amargli.  Olirà  di  questo, odiando  gli  uomini  le  cose  o per  timore o per  invidia,  vengono  ad  essere spente  due  potentissime  cagioni  delP odio  nelle  cose  passate,  non  ti  potendo quelle  offendere,  e non  ti  dando cagione  d’  invidiarle.  Ma  al  contrario interviene  di  quelle  cose  che  si  maneggiano e veggono  ; le  quali,  pei*  la  intera cognizione  di  esse,  non  ti  essendo  in alcuna  parte  nascoste*  e conoscendo  in quelle  insieme  con  il  bene  molte  altre cose  che  ti  dispiacciono,  sei  forzato  giudicarle alle  antiche  molto  inferiori,  ancora  che  in  verità  le  presenti  molto  più di  quelle  di  gloria  e di  fama  meritassero: ragionando  non  delie  cose  pertinenti alle  arti,  le  quali  hanno  tanta chiarezza  in  sè,  che  i tempi  possono torre  o dar  loro  poco  più  gloria  che per  loro  medesime  si  meritino  ; ma  parlando di  quelle  pertinenti  alla  vita  e costumi  degli  uomini,  delle  quali  non se  ne  veggono  sì  chiari  testimoni.  Replico, pertanto,  essere  vera  quella  consuetudine del  laudare  e biasimare  soprascritta ; ma  non  essere  già  sempre vero  che  si  erri  nel  farlo.  Perchè  qualche volta  è necessario  che  giudichino la  verità  ; perchè  essendo  le  cose  umane sempre  in  molo,  o le  salgono,  o lescendono.  E vedesi  una  città  o una  provincia essere  ordinata  al  vivere  politico da  qualche  uomo  eccellente;  ed,  un  tempo, per  la  virtù  di  quello  ordinatore, andare  sempre  in  augumento  verso  il meglio.  Chi  nasce  allora  in  tale  stato, ed  ei  laudi  più  li  antichi  tempi  che  i moderni,  s’ inganna  ; ed  è causato  il  suo inganno  da  quelle  cose  che  di  sopra  si sono  dette.  Ma  coloro  che  nascono  dipoi, in  quella  città  o provincia,  che  gli  è venuto  il  tempo  che  la  scende  verso  la parte  più  rea,  allora  non  s’  ingannano. E pensando  io  come  queste  cose  procedino,  giudico  il  mondo  sempre  essere stalo  ad  un  medesimo  modo,  ed  in  quello esser  stato  tanto  di  buono  quanto  di tristo  ; ma  variare  questo  tristo  e questo buono  di  provincia  in  provincia: come  si  vede  per  quello  si  ha  notizia  di quelli  regni  antichi  che  variavano  dall’uno all’altro  per  la  variazione  de’ costumi; ma  il  mondo  restava  quel  medesimo. Solo  vi  era  questa  differenza, che  dove  quello  aveva  prima  collocata la  sua  virtù  in  Assiria,  la  collocò  in Media,  dipoi  in  Persia,  tanto  che  la  ne venne  in  Italia  ed  a Roma:  e se  dopo 10  imperio  romano  non  è seguito  imperio che  sia  durato,  nè  dove  il  mondo abbia  ritenuta  la  sua  virtù  insieme;  si vede  nondimeno  essere  sparsa  in  di molte  nazioni  dove  si  viveva  virtuosamente; come  era  il  regno  de’  Franchi, 11  regno  de’ Turchi,  quel  del  Soldano; ed  oggi  i popoli  della  Magna  ; e prima quella  setta  Saracina  che  fece  tante  gran cose,  ed  occupò  tanto  mondo,  poiché  la distrusse  lo  imperio  romano  orientale. In  tutte  queste  provincie,  adunque,  poiché i Romani  rovinorono,  ed  in  tutte queste  sètte  è stata  quella  virtù,  ed  è ancora  in  alcuna  parte  di  esse,  che  si desidera,  e che  con  vera  laude  si  lauda. E chi  nasce  in  quelle,  e lauda  i tempi passati  più  che  i presenti,  si  potrebbe ingannare;  ma  chi  nasce  in  Italia  ed  in Grecia,  e non  sia  divenuto  o in  Italia oltramontano  o in  Grecia  turco,  ha  ragione di  biasimare  i tempi  suoi,  e laudare gli  altri  : perchè  in  quelli  vi  sono assai  cose,  che  gli  fanno  meravigliosi  ; in  questi  non  è cosa  alcuna  che  gli  ricomperi da  ogni  estrema  miseria,  infamia e vituperio:  dove  non  è osservanza di  religione,  non  di  leggi,  non  di  milizia; ma  sono  maculati  d’ ogni  ragione bruttura.  E tanto  sono  questi  vizi  più detestabili,  quanto  ei  sono  più  in  coloro che  seggono  prò  tribunali,  comandano a ciascuno,  e vogliono  essere  adorati. .Ha  tornando  al  ragionamento  nostro, dico  che  se  il  giudicio  degli  uomini  è corrotto  in  giudicare  quale  sia  migliore, o il  secolo  presente  o l’antico,  in  quelle cose  dove  per  l’antichità  ei  non  ha  possuto  avere  perfetta  cognizione  come  egli ha  de’  suoi  tempi  ; non  doverrebbe  corrompersi ne’  vecchi  nel  giudicare  i lempi  della  gioventù  e vecchiezza  loro,  avendo quelli  e questi  egualmente  conosciuti e visti.  La  qual  cosa  sarebbe  vera,  se gli  uomini  per  tutti  i tempi  della  lor vita  l'ussero  del  medesimo  giudizio,  ed avessero  quelli  medesimi  appetiti  : ma variando  quelli,  ancora  che  i tempi  nou variino,  non  possono  parere  agli  uomini quelli  medesimi,  avendo  altri  appetiti, altri  diletti,  altre  considerazioni  nella vecchiezza,  che  nella  gioventù.  Perchè, mancando  gli  uomini  quando  li  invecchiano di  forze,  e crescendo  di  giudizio e di  prudenza;  è necessario  che  quelle cose  che  in  gioventù  parevano  loro  sopportabili e buone,  ineschino  poi  invecchiando insopportabili  e cattive  ; e dove quelli  ne  doverrebbono  accusare  il  giudicio  loro,  ne  accusano  i tempi.  Sendo. ultra  di  questo,  gli  appetiti  umani  insaziabili, perchè  hanno  dalla  natura  di potere  e voler  desiderare  ogni  cosa,  e dalla  fortuna  di  potere  conseguirne  poche; ne  risulta  continuamente  una  mala contentezza  nelle  menti  umane,  ed  un fastidio  delle  cose  che  si  posseggono:  il che  fa  biasimare  i presenti  tempi,  laudare  i passati,  e desiderare  i futuri  ; ancora  che  a fare  questo  non  fussino mossi  da  alcuna  ragionevole  cagione.  Non so,  adunque,  se  io  meriterò  d’ essere numerato  tra  quelli  che  si  ingannano, se  in  questi  mia  discorsi  io  lauderò troppo  i tempi  degli  antichi  Romani,  e biasimerò  i nostri.  E veramente,  se  la virtù  che  allora  regnava,  ed  il  vizio  che ora  regna,  non  fussino  più  chiari  che il  sole,  andrei  col  parlare  più  rattenuto, dubitando  non  incorrere  in  quello inganno  di  che  io  accuso  alcuni.  Ma  essendo la  cosa  si  manifesta  che  ciascuno la  vede,  sarò  animoso  in  dire  manifestamente quello  che  intenderò  di  quelli e di  questi  tempi;  acciocché  gli  animi de’  giovani  che  questi  mia  scritti  leggeranno, possino  fuggire  questi,  e prepararsi ad  imitar  quegli,  qualunque  volta la  fortuna  ne  dessi  loro  occasione.  Perchè gli  è offizio  di  uomo  buono,  quel bene  che  per  la  malignità  de’  tempi  e della  fortuna  tu  non  hai  potuto  operare. insegnarlo  nd  altri,  acciocché  sendone molti  capaci,  alcuno  di  quelli,  più  amato dal  Cielo,  possa  operarlo.  Ed  avendo ne’  discorsi  del  superior  libro  parlato delle  deliberazioni  fatte  da*  Romani  pertinenti al  di  dentro  della  città,  in  questo parleremo  di  quelle,  che  ’\  Popolo romano  fece  pertinenti  allo  augumento dello  imperio  suo. I.  — Quale  fu  più  cagione  dello imperio  che  acquistarono  i Romani , o la  virtùj  o la  fortuna. Molti  hanno  avuta  oppinione,  intra  i quali  è Plutarco,  gravissimo  scrittore, che  ’1  Popolo  romano  nello  acquistare lo  imperio  fusse  più  favorito  dalla  fortuna che  dalla  virtù.  Ed  intra  le  altre ragioni  che  ne  adduce,  dice  che  per  confessione di  quel  popolo  si  dimostra, quello  avere  riconosciute  dalla  fortuna tutte  le  sue  vittorie,  avendo  quello  edificati più  templi  alla  Fortuna,  che  ad alcun  altro  Dio.  E pare  che  a questa oppinione  si  accosti  Livio;  perchè  rade volte  è che  facci  parlare  ad  alcuno  Romano, dove  ei  racconti  della  virtù,  che non  vi  aggiunga  la  fortuna.  La  qual cosa  io  non  voglio  confessare  in  alcun modo,  nè  credo  ancora  si  possa  sostenere. Perchè,  se  non  si  è trovato  mai repubblica  che  abbi  fatti  i progressi  che Roma,  è nato  che  non  si  è trovata  mai repubblica  che  sia  stata  ordinata  a potere acquistare  come  Roma.  Perchè  la virtù  degli  eserciti  gli  feciono  acquistare Io  imperio;  e l’ordine  del  procedere, ed  il  modo  suo  proprio,  e trovato dal  suo  primo  legislatore,  gli  fece mantenere  lo  acquistato:  come  di  sotto largamente  in  più  discorsi  si  narrerà. Dicono  costoro,  che  non  avere  mai  ac*» cozzate  due  potentissime  guerre  in  uno medesimo  tempo,  fu  fortuna  e non  virtù del  Popolo  romano  ; perchè  e’  non ebbero  guerra  con  i Latini,  se  non quando  egli  ebbero  non  tanto  battuti i Sanniti,  quanto  che  la  guerra  fu  da*  Romani fatta  in  difensione  di  quelli  ; non combatterono  con  i Toscani,  se  prima non  ebbero  soggiogati  i Latini,  ed  enervati con  le  spesse  rotte  quasi  in  tutto i Sanniti:  che  se  due  di  queste  potenze intere  si  fussero,  quando  erano  fresche, accozzate  insieme,  senza  dubbio  si  può facilmente  conietturare  che  ne  sarebbe seguito  la  rovina  della  romana  Repubblica. Ma,  comunelle  questa  cosa  nascesse, mai  non  intervenne  che  eglino  avessino due  potentissime  guerre  in  un medesimo  tempo:  anzi  parve  sempre, o nel  nascere  dell’ una,  l’altra  si  spegnesse; o nel  spegnersi  dell’ una,  l’altra nascesse.  11  che  si  può  facilmente  vedere per  T ordine  delle  guerre  fatte  da loro:  perchè,  lasciando  stare  quelle  che feciono  prima  che  Roma  fusse  presa dai  Franciosi,  si  vede  che,  mentre  che combatterno  con  gli  Equi  e con  i Volsci,  mai,  mentre  questi  popoli  furono potenti,  non  si  levarono  contro  di  lor uitre  genti.  Domi  costoro,  nacque  la guerra  contea  ai  Sanniti;  e benché  innanzi che  finisse  tal  guerra  i popoli latini  si  ribellassero  da’  Romani,  nondimeno quando  tale  ribellione  segui,  i Sanniti  erano  in  lega  con  Roma,  e con il  loro  esercito  aiutorono  i Romani  domare la  insolenza  latina.  I quali  domi, risurse  la  guerra  di  Sannio.  Battute  per molte  rotte  date  a’  Sanniti  le  loro  forze, nacque  la  guerra  de’ Toscani;  la  qual composta,  si  rilevarono  di  nuovo  i Sanniti per  la  passata  di  Pirro  in  Italia. Il  quale  come  fu  ribattuto,  e rimandato in  Grecia,  appiccarono  la  prima  guerra con  i Cartaginesi:  nè  {ìrima  fu  tal  guerra finita,  che  tutti  i Franciosi,  e di  là e di  qua  dall’ Alpi,  congiurarono  conti  a i Romani;  tanto  che  intra  Popolonia  e Pisa,  dove  è oggi  la  torre  a San  Vincenti, furono  con  massima  strage  superati. Finita  questa  guerra,  per  ispazio di  venti  anni  ebbero  guerra  di  non molta  importanza;  perchè  non  eombatterono  con  altri  che  con  i Liguri,  c con quel  rimanente  de’  Franciosi  che  era  in Lombardia.  E così  stettero  tanto  che nacque  la  seconda  guerra  cartaginese, la  qual  per  sedici  anni  tenne  occupata Italia.  Finita  questa  con  massima  gloria, nacque  la  guerra  macedonica  ; la  quale tìnita,  venne  quella  d’ Antioco  e d’ Asia. Dopo  la  qual  vittoria,  non  restò  in  tutto il  mondo  nè  principe  nè  repubblica  che, di  per  sè,  o tutti  insieme,  si  potessero opporre  alle  forze  romane.  Ma  innanzi a quella  ultima  vittoria,  chi  considerrà l’ ordine  di  queste  guerre,  ed  il  modo del  . procedere  loro,  vedrà  dentro  mescolate con  la  fortuna  una  virtù  e prudenza  grandissima.  Talché,  chi  esaminasse la  cagione  di  tale  fortuna,  la  ritroverebbe facilmente:  perchè  gli  è cosa certissima,  che  come  un  principe  e un popolo  viene  in  tanta  riputazione,  che ciascuno  principe  e popolo  vicino  abbia di  per  sè  paura  ad  assaltarlo,  e ne  tema, sempre  interverrà  che  ciascuno  d essi  mai  lo  assalterà,  se  non  necessitato ; in  modo  che  e’  sarà  quasi  come nella  elezione  di  quel  polente,  far  guerra con  quale  di  quelli  suoi  vicini  gli parrà,  e gii  altri  con  la  sua  industria quietare.  I quali,  parte  rispetto  alla  potenza suo,  parte  ingannati  da  quei  modi che  egli  terrà  per  nddormentargli,  si quietano  facilmente;  e gli  altri  potenti che  sono  discosto,  e che  non  hanno coinmerzio  seco,  curano  la  cosa  come cosa  longinqua,  e che  non  appartenga loro.  Nel  quale  errore  stanno  tanto  che questo  incendio  venga  loro  presso  : il quale  venuto,  non  hanno  rimedio  a spegnerlo se  non  con  le  forze  proprie;  le quali  dipoi  non  bastano,  sendo  colui diventato  potentissimo.  Io  voglio  lasciare andare,  come  i Sanniti  stettero  a vedere vincere  dal  Popolo  romano  i Yolsci  e gli  Equi;  e per  non  essere  troppo  prolisso, mi  farò  da’  Cartaginesi  : i quali erano  di  gran  potenza  c di  grande  estimazione quando  i Romani  combattevano con  i Sanniti  e con  i Toscani  ; perchè tii  già  tenevano  tutta  1’  Affrica,  tenevano ia  Stintigna  e la  Sicilia,  avevano  dominio in  parte  della  Spagna.  La  quale  polenza  loro,  insieme  con  V esser  discosto ne’ confini  dal  Popolo  romano,  fece  che non  pensarono  mai  di  assaltare  quello, nè  di  soccorrere  i Sanniti  e Toscani: anzi  fecero  come  si  fa  nelle  cose  che crescono,  più  tosto  in  lor  favore  collegandosi con  quelli,  e cercando  l’amicizia loro.  Nè  si  avviddono  prima  del1’  errore  fatto,  che  i Romani,  domi  tutti i popoli  mezzi  infra  loro  ed  i Cartaginesi, cominciarono  a combattere  insieme dello  imperio  di  Sicilia  e di  Spagna. Intervenne  questo  medesimo  a’  Franciosi che  a’ Cartaginesi,  e cosi  a Filippo  re de’ Macedoni,  e ad  Antioco;  e ciascuno di  loro  credea,  mentre  che  il  Popolo  romano era  occupato  con  l’altro,  che quell’  altro  lo  superasse,  ed  essere  a tempo,  o con  pace  o con  guerra,  difendersi da  lui.  In  modo  che  io  credo  che la  fortuna  che  ebbono  in  questa  parte i Romani,  1’  arebbono  tutti  quelli  principl  che  procedessero  come  i Romani,  c fussero  di  quella  medesima  virtù  che loro.  Sarebbeci  da  mostrare  a questo proposito  il  modo  tenuto  dal  Popolo romano  nello  entrare  nelle  provincie d’  altri,  se  nei  nostro  trattato  de’  principati  non  ne  avessimo  parlato  a lungo  ; perchè  in  quello  questa  materia  è diffusamente disputata.  Dirò  solo  questo  brevemente, come  sempre  s’ingegnarono avere  nelle  provincie  nuove  qualche  amico che  fusse  scala  o porta  a salirvi  o entrarvi,  o mezzo  a tenerla  : come  si vede  che  per.  il  mezzo  de’ Capovani  entrarono in  Sannio,  de’ Camertini  in  Toscana, de’  Mamertini  in  Sicilia,  de’  Saguntini  in  Spagna,  di  Massinissa  iti Affrica,  degli  Eloli  in  Grecia,  di  Eumene ed  altri  principi  in  Asia,  de’ Massiliensi e deili  Edui  in  Francia.  E così  non  mancarono mai  di  simili  appoggi,  per  potere facilitare  le  imprese  loro,  e nello acquistare  le  provincie  e nel  tenerle.  Il che  quelli  popoli  che  osserveranno,  vedranno avere  meno  bisogno  della  fortuna, che  quelli  che  ne  saranno  non buoni  osservatori.  E perchè  ciascuno possa  meglio  conoscere,  quanto  potè  più la  virtù  che  la  fortuna  loro  ad  acquistare quello  imperio  ; noi  discorreremo nel  seguente  capitolo  di  che  qualità  furono quelli  popoli  con  i quali  egli  ebbero a combattere,  e quanto  erano  ostinati a difendere  la  loro  libertà. 11.  — Con  quali  popoli  i Romani  ebbero a combattere , e come  ostinatamente quelli  difendevano  la  loro  libertà. Nessuna  cosa  fece  più  faticoso  a*  Romani superare  i popoli  d*  intorno,  c parte  delle  provincie  discosto,  quanto  lo amore  che  in  quelli  tempi  molti  popoli avevano  alla  libertà;  la  quale  tanto  ostinatamente difendevano,  che  mai  se  non da  una  eccessiva  virtù  sarebbono  stati * soggiogati.  Perchè,  per  molti  essempi  si conosce  a quali  pericoli  si  mettessino per  mantenere  o ricuperare  quella  ; quali  vendette  e’  facessino  contra  a coloro che  V avessino  loro  occupata.  Conoscesi  ancora  nelle  lezioni  delle  istorie, quali  danni  i popoli  e le  città  riccvino per  la  servitù.  E dove  in  questi  tempi ci  è solo  una  provincia  la  quale  si  possa dire  che  abbia  in  sè  città  libere,  ne*  tempi antichi  in  tutte  le  provincie  erano  assai popoli  liberissimi.  Vedesi  come  in  quelli tempi  de’  quali  noi  parliamo  al  presente, in  Italia,  dall’  Alpi  che  dividono  ora  la Toscana  dalla  Lombardia,  insino  alla punta  d’Italia,  erano  molti  popoli  liberi; com’erano  i Toscani,  i Romani,  i Sanniti, e molti  altri  popoli  che  in  quel  resto d’ Italia  abitavano.  Nè  si  ragiona  mai che  vi  fusse  alcuno  re,  fuora  di  quelli che  regnarono  in  Roma,  e Porsena  re di  Toscaua;  la  stirpe  del  quale  come  si estinguesse,  non  ne  parla  la  istoria.  Ma si  vede  bene,  come  in  quelli  tempi  che  i . Romani  andarono  a campo  a Veio,  la Toscana  era  libera  : e tanto  si  godea della  sua  libertà,  e tanto  odiava  il  nome del  principe,  che  avendo  fatto  i Veienti per  loro  difensione  un  re  in  Veio,  e domandando  aiuto  a' Toscani  contra  ai Romani  ; quelli,  dopo  molte  consulte  fatte, deliberarono  di  non  dare  aiuto  a’Veienti, infino  a tanto  che  vivessino  sotto  ’1  re; giudicando  non  esser  bene  difendere  la patria  di  coloro  che  V avevano  di  già sottomessa  ad  altrui.  E facil  cosa  è conoscere donde  nasca  ne’  popoli  questa affezione  del  vivere  libero;  perchè  si  vede per  esperienza,  le  cittadi  non  avere  mai ampliato  nè  di  domiuio  nè  di  ricchezza, se  non  mentre  sono  state  in  libertà.  E veramente  meravigliosa  cosa  è a considerare, a quanta  grandezza  venne  Atene per  ispazio  di  cento  anni,  poiché  la  si liberò  dalla  tirannide  di  Pisistrato.  Ma sopra  tutto  meravigliosissima  cosa  è a considerare,  a quanta  grandezza  venne Roma,  poiché  la  si  liberò  da’  suoi  Re. La  cagione  è facile  ad  intendere;  perchè  non  il  bene  particolare,  ma  il  bene comune  è quello  che  fa  grandi  le  città.
E senza  dubbio,  questo  bene  comune  non è osservato  se  non  nelle  repubbliche; perchè  lutto  quello  che  fa  a proposito suo,  si  eseguisce;  e quantunque  e’ torni in  danno  di  questo  o di  quello  privato, e’  sono  tanti  quelli  per  chi  detto  bene fa,  che  lo  possono  tirare  innanzi  contra alla  disposizione  di  quelli  pochi  che  ne fussino  oppressi.  Al  contrario  interviene quando  vi  è uno  principe;  dove  il  più delle  volte  quello  che  fa  per  lui,  offende la  città;  e quello  che  fa  per  la  città, offende  lui.  Dimodoché,  subito  che  nasce una  tirannide  sopra  un  viver  libero,  il manco  male  che  ne  resulti  a quelle  città, è non  andare  più  innanzi,  nè  crescere più  in  potenza  o in  ricchezze  ; ma  il  più delle  volte,  anzi  sempre,  interviene  loro, che  le  tornano  indietro.  E se  la  sorte facesse  che  vi  surgesse  un  tiranno  virtuoso, il  quale  , per  animo  e per  virtù d’  arme  ampliasse  il  dominio  suo,  non ne  risulterebbe  alcuna  utilità  a quella repubblica,  ma  a lui  proprio:  perchè e’  non  può  onorare  nessuno  di  quelli cittadini  che  siano  valenti  c buoni,  che egli  tiranneggia,  non  volendo  avere  ad avere  sospetto  di  loro.  Non  può  ancora le  città  che  egli  acquista,  sottometterle o farle  tributarie  a quella  città  di  che egli  è tiranno:  perchè  il  farla  potente non  fa  per  lui;  ma  per  lui  fa  tenere  lo Stato  disgiunto,  e che  ciascuna  terra  e ciascuna  provincia  riconosca  lui.  Talché di  suoi  acquisti,  solo  egli  ne  profitta,  e non  la  sua  patria.  E chi  volesse  confermare questa  oppinione  con  infinite  altre ragioni,  legga  Senofonte  nel  suo  trattato che  fa  De  Tirannide.  Non  è meraviglia adunque,  che  gli  antichi  popoli con  tanto  odio  perseguitassino  i tiranni, ed  nmassiiio  il  vivere  libero,  e che  il nome  della  libertà  fusse  tanto  stimato da  loro:  come  intervenne  quando  Girolamo nipote  di  lerone  siracusano  fu morto  in  Siracusa,  che  venendo  le  novelle della  sua  morte  in  nel  suo  esercito, che  non  era  molto  lontano  da  Siracusa,  cominciò  prima  a tumultuare,  e pigliare  1’  armi  contro  agli  ucciditori  di quello;  ma  come  ei  sentì  che  in  Siracusa si  gridava  libertà,  allettato  da  quel nome,  si  quietò  tutto,  pose  giti  V ira contra  a’  tirannicidi,  e pensò  come  iti quella  città  si  potesse  ordinare  un  viver libero.  Non  è meraviglia  ancora,  che  i popoli  faccino  vendette  istraordinaric contra  a quelli  che  gli  hanno  occupata la  libertà.  Di  che  ci  sono  stali  assai esempi,  de’ quali  ne  intendo  referire  solo uno,  seguilo  in  Coreica,  città  di  Grecia, ne’ tempi  della  guerra  peloponnesiaca; «love  sendo  divisa  quella  provincia  in due  fazioni,  delle  quali  1’  una  seguitava gli  Ateniesi,  V altra  gli  Spartani,  ne  nasceva che  di  molte  città,  che  erano  infra loro  divise,  T una  parte  seguiva  F amicizia di  Sparta,  l’altra  di  Atene:  ed  essendo occorso  clic  nella  detta  città  prcvalessino  i nobili,  e togliessino  la  libertà al  popolo,  i popolari  per  mezzo  degli Ateniesi  ripresero  le  forze,  e posto  le mani  addosso  a tutta  la  nobiltà,  gli  rinchiusero in  una  prigione  capace  di  tutti loro;  donde  gli  traevano  ad  otto  o dieci per  volta,  sotto  titolo  di  mandargli  in esilio  iti  diverse  parli,  e quelli  con  molti crudeli  essempi  facevauo  morire.  Di  che sendosi  quelli  che  restavano  accorti,  deliberarono, in  quanto  era  a loro  possibile, fuggire  quella  morte  ignominiosa  ; ed  armatisi  di  quello  potevano,  combattendo con  quelli  vi  volevano  entrare,  la entrata  della  prigione  difendevano;  di modo  che  il  popolo,  a questo  romore fatto  concorso,  scoperse  la  parte  superiore di  quel  luogo,  e quelli  con  quelle rovine  sufìbeorno.  Seguirono  ancora  in delta  provincia  molti  altri  simili  casi orrendi  e notabili  : talché  si  vede  esser vero,  che  con  maggiore  impeto  si  vendica una  libertà  che  ti  è suta  tolta,  che quella  che  li  è voluta  torre.  Pensando dunque  donde  possa  nascere,  che  in  quelli tempi  antichi,  i popoli  fussero  più  amatori della  libertà  che  in  questi;  credo nasca  da  quella  medesima  cagione  che fa  ora  gli  uomini  manco  forti  : la  quale credo  sia  la  diversità  della  educazione nostra  dalla  antica,  fondata  nella  diversità della  religione  nostra  dalla  antica. Perchè  avendoci  la  nostra  religione mostra  la  verità  e la  vera  via, ci  fa  stimare  meno  l’onore  del  mondo: onde  i Gentili  stimandolo  assai, ed  avendo  posto  in  quello  il  sommo  bene, erano  nelle  azioni  loro  più  feroci. Il  che  si  può  considerare  da  molte  loro constituzioni,  cominciandosi  dalla  magnificenza de’  sacrificii  loro,  alla  umilila de’  nostri  ; dove  è qualche  pompa  più dilicata  che  magnifica,  ma  nessuna  azione feroce  o gagliarda.  Quivi  non  mancava la  pompa  nè  la  magnificenza  delle  cerimonie, ma  vi  si  aggiungeva  1*  azione del  sacrificio  pieno  di  sangue  e di  ferocia, ammazzandovisi  moltitudine  di  animali  :
il  quale  aspetto  sendo  terribile,  rendeva gli  uomini  simili  a lui.  La  religione  antica, oltre  di  questo,  non  beatificava  se non  gli  uomini  pieni  di  mondana  gloria: come  erano  capitani  di  eserciti,  e principi di  repubbliche.  La  nostra  religione ha  glorificato  più  gli  uomini  umili  e contemplativi,  che  gli  attivi.  Ha  dipoi posto  il  sommo  bene  nella  umilila,  abiezione, nello  dispregio  delle  cose  umane: quell’  altra  lo  poneva  nella  grandezza dello  animo,  nella  fortezza  del  corpo,  ed in  tutte  le  altre  cose  atte  a fare  gli  uomini fortissimi.  E se  la  religione  nostra richiede  che  abbi  in  te  fortezza,  vuole che  tu  sia  atto  a patire  più  che  a fare una  cosa  forte.  Questo  modo  di  vivere, adunque,  pare  che  abbi  rendutoil  mondo debole,  e datolo  in  preda  agli  uomini scellerati;  i quali  sicuramente  lo  possono maneggiare,  veggendo  come  la  università degli  uomini,  per  andare  in  paradiso, pensa  più  a sopportare  le  sue battiture,  che  a vendicarle.  E benché  paia che  si  sia  effeminato  il  mondo,  e disarmato il  cielo,  nasce  più  senza  dubbio dalla  viltà  degli  uomini,  che  hanno  interpretato la  nostra  religione  secondo l’  ozio,  e non  secondo  la  virtù.  Perchè, se  considerassino  come  la  permette  la esultazione  e la  difesa  della  patria,  vedrebbono  come  la  vuole  che  noi  l’amiaino  ed  onoriamo,  e prepariamoci  ad  esser tali  che  noi  la  possiamo  difendere. Fanno  adunque  queste  educazioni,  e si false  interpretazioni,  che  nel  mondo  non si  vede  tante  repubbliche  quante  si  vedeva aulicamente;  nè,  per  conscguente, si  vede  ne’  popoli  tanto  amore  alla  libertà quanto  allora  : ancora  che  io  creda  piuttosto essere  cagione  di  questo,  che  lo imperio  romano  con  le  sue  arme  e sua grandezza  spense  tutte  le  repubbliche  e lutti  i viveri  civili  E benché  poi  tal  imperio si  sia  risoluto,  non  si  sono  potute le  città  ancora  rimettere  insieme  nè  riordinare alla  vita  civile,  se  non  in  pochissimi luoghi  di  quello  imperio.  Pure, comunelle  si  fusse,  i Romani  in  ogni minima  parte  del  mondo  trovarono  una congiura  di  repubbliche  armatissime,  ed ostinatissime  atia  difesa  della  libertà  loro. Il  che  mostra  che  '1  Popolo  romano  senza una  rara  ed  estrema  virtù  mai  non  le arebbe  potute  superare.  E per  darne esseinpio  di  qualche  membro,  voglio  mi basti  lo  essempio  de’  Sanniti  : i quali pare  cosa  mirabile,  e Tito  Livio  lo  confessa, che  fussero  sì  potenti,  e 1’  arme loro  si  valide,  che  potessero  infino  al tempo  di  Papirio  Cursore  consolo,  figliuolo del  primo  Papirio,  resistere  a’  Romani (che  fu  uno  spazio  di  XLVI  anni),  dopo tante  rotte,  rovine  di  terre,  e tante  stragi ricevute  nel  paese  loro;  massime  veduto ora  quel  paese  dove  erano  tante  cittadi e tanti  uomini,  esser  quasi  che  disabitato : ed  allora  vi  era  tanto  ordine,  e tanta  forza,  eh’  egli  era  insuperabile, se  da  una-  virtù  romana  non  fusse  stato assaltato.  E facil  cosa  è considerare  donde nasceva  quello  ordine,  c donde  proceda questo  disordine;  perchè  tutto  viene  dal viver  libero  allora,  ed  ora  dal  viver  servo. Perchè  tutte  le  terre  e le  provincie  che vivono  libere  in  ogni  parte,  come  di  sopra dissi,  fanno  i progressi  grandissimi. Perchè  quivi  si  vede  maggiori  popoli, per  essere  i matrimoni  più  liberi,  e più desiderabili  dagli  uomini  : perchè  ciascuno procrea  volentieri  quelli  figliuoli che  crede  potere  nutrire,  non  dubitando che  il  patrimonio  gli  sia  tolto;  thè  eT conosce non  solamente  che  nascono  liberi e non  schiavi,  ma  che  possono  mediante la  virtù  loro  diventare  principi.  Veggonvisi  le  ricchezze  multiplicare  in  maggiore numero,  e quelle  che  vengono  dalla cultura,  e quelle  che  vengono  dalle  arti. Perchè  ciascuno  volentieri  multiplica  in quella  cosa,  e cerca  di  acquistare  quei beni,  che  crede  acquistati  potersi  godere. Onde  ne  nasce  che  gli  uomini  a gara  pensano ai  privati  ed  a’ pubblici  comodi;  e l’ uno  e l’altro  viene  meravigliosamente  a crescere.  II  contrario  di  tutte  queste  cosesegue  in  quelli  paesi  che  vivono  scivi; c tanto  più  mancano  del  consueto  bene, quanto  è più  dura  la  servitù.  E di  tutte" le  servitù  dure,  quella  è durissima  che li  sottomette  ad  una  repubblica  : E una, perchè  la  è più  durabile,  e manco  si  può sperare  d’  uscirne;  Y altra,  perchè  il  fine della  repubblica  è enervare  ed  indebolire. per  accrescere  il  corpo  suo,  tutti gli  altri  corpi.  11  che  non  la  un  principe che  ti  sottometta,  quando  quel principe  non  sia  qualche  principe  barbaro, destruttore  de’  paesi,  e dissipatore di  tutte  le  civilità  degli  uomini,  come sono  i principi  orientali.  Ma  s’ egli  ha in  sè  ordini  umani  ed  ordinari,  il  più delle  volte  ama  le  città  sue  soggette egualmente,  ed  a loro  lascia  T arti  tutte, e quasi  lutti  gli  ordini  antichi.  Talché, se  le  non  possono  crescere  come  libere, elle  non  rovinano  anche  come  serve;  intendendosi della  servitù  in  quale  vengono le  città  servendo  ad  un  forestiero, perchè  di  quella  d’ uno  loro  cittadino
ne  parlai  di  sopra.  Chi  considerrù,  adunque, tutto  quello  che  si  è detto,  non  si meraviglierà  della  potenza  che  i Sanniti avevano  sendo  liberi,  e della  debolezza in  che  e’ vennero  poi  servendo:  e L.  ne  fa  fede  in  più  luoghi,  e massime nella  guerra  d’ Annibaie,  dove  ei mostra  che  essendo  i Sanniti  oppressi da  una  legione  d’  uomini  che  era  in  Nola, mandorono  oratori  ad  Annibale,  a pregarlo che  gli  soccorresse;  i quali  nel parlar  loro  dissono,  che  avevano  per cento  anni  combattuto  con  i Romani  con i propri  loro  soldati  e propri  loro  capitani, e molte  volte  avevano  sostenuto duoi  eserciti  consolari  e duoi  consoli;  e che  allora  a tanta  bassezza  erano  venuti, che  non  si  potevano  a pena  difendere da  una  piccola  legione  romana  che  era. III.  — Roma  divenne  grande  città  rovinando le  città  circonvicine , e ricevendo i forestieri  facilmente  aJ  suoi  onori. Crescit  inlerea  Roma  Albce  ruinis. Quelli  che  disegnano  che  una  città  faccia grande  imperio,  si  debbono  con  ogni industria  ingegnare  di  farla  piena  di abitatori  ; perchè  senza  questa  abbondanza di  uomini,  mai  non  riuscirà  di fare  grande  una  città.  Questo  si  fa  in duoi  modi;  per  amore,  e per  forza. Per  amore,  tenendo  le  vie  aperte  e secure  a’  forestieri  che  disegnassero  venire ad  abitare  in  quella,  acciocché  ciascuno vi  abiti  volentieri  : per  forza,  disfacendo le  città  vicine,  e mandando  gli abitatori  di  quelle  ad  abitare  nella  tua città.  Il  che  fu  tanto  osservato  in  Roma, che  nel  tempo  del  sesto  Re  in  Roma abitavano  ottantamila  uomini  da  portare armi.  Perchè  i Romani  vollono  fare  ad uso  del  buono  cultivatore;  il  quale,  perche  una  pianta  ingrossi,  e possa  pròdurre  e maturare  i fruiti  suoi,  gli  taglia i primi  rami  che  la  mette,  acciocché, rimasa  quella  virtù  nel  piede  di  quella pianta,  possino  col  tempo  nascervi  più verdi  e più  fruttiferi.  E che  questo  modo tenuto  per  ampliare  e fare  imperio, fusse  necessario  e buono,  lo  dimostra Io  essempio  di  Sparta  e di  Atene  : le quali  essendo  due  repubbliche  armatissime, ed  ordinate  di  ottime  leggi,  nondimeno non  si  condussono  alla  grandezza dello  imperio  romano;  e Roma pareva  più  tumultuaria,  e non  tanto bene  ordinata  quanto  quelle.  Di  che non  se  ne  può  addurre  altra  cagione, che  la  preallegata:  perchè  Roma,  per avere  ingrossato  per  quelle  due  vie  il corpo  della  sua  città,  potette  di  già mettere  in  arme  dugentottantamila  uomini; e Sparta  ed  Atene  non  passarono mai  ventimila  per  ciascuna.  Il  che  nacque, non  da  essere  il  sito  di  Roma  più benigno  che  quello  di  coloro,  ma  solamente  da  diverso  modo  di  procedere. Perché  Licurgo,  fondatore  della  repubblica spartana , considerando  nessuna cosa  potere  più  facilmente  risolvere  le sue  leggi  che  la  commistione  di  nuovi abitatori,  fece  ogni  cosa  perchè  i forestieri non  avessino  a conversarvi:  ed, oltre  al  non  gli  ricevere  ne’ matrimoni, alla  civiltà,  ed  alle  altre  conversazioni che  fanno  convenire  gli  uomini  insieme, ordinò  che  in  quella  sua  repubblica  si spendesse  monete  di  cuoio,  per  tor  via a ciascuno  il  desiderio  di  venirvi  per portarvi  mercanzie,  o portarvi  alcuna arte;  di  qualità  che  quella  città  non potette  mai  ingrossare  di  abitatori.  E perchè  tutte  le  azioni  nostre  imitano  la natura,  non  è possibile  nè  naturale  che uno  pedale  sottile  sostenga  un  ramo grosso.  Però  una  repubblica  piccola  non può  occupare  città  nè  regni  che  siano più  validi  nè  più  grossi  di  lei;  e se  pure gli  occupa,  gP  interviene  come  a quello albero  che  avesse  più. grosso  il  ramo
che  ’l  piede,"  che  sostenendolo  con  fatica, ogni  piccolo  vento  lo  fiacca:  come si  vede  che  intervenne  a Sparla,  la  quale avendo  occupate  tutte  le  città  di  Grecia, non  prima  se  gli  ribellò  Tebe,  che  tutte P altre  cittadi  se  gli  ribellarono,  e rimase i!  pedale  solo  senza  rami.  Il  che non  potette  intervenire  a Roma,  avendo il  piè  si  grosso,  che  qualunque  ramo poteva  facilmente  sostenere.  Questo  modo adunque  di  procedere,  insieme  con gli  altri  che  di  sotto  si  diranno,  fece Roma  grande  e potentissima.  Il  che  dimostra L.  in  due  parole,  quando disse:  Crcscit  intcrea  Roma  Albce  ruinis. IV.  — Le  repubbliche  hanno  tentili tre  modi  circa  lo  ampliare. Chi  ha  osservato  le  antiche  istorie, Iruova  come  le  repubbliche  hanno  tre modi  circa  lo  ampliare.  L*  uno  è stato quello  che  osservorono  i Toscani  antichi, di  essere  una  lega  di  più  repubbliche  insieme,  dove  non  sia  alcuna  che avanzi  l’ altra  nè  di  autorità  nè  di  grado; e nello  acquistare,  farsi  1’ altre  città compagne,  in  simil  modo  come  in  questo tempo  fanno  i Svizzeri,  e come  nei tempi  antichi  feciono  in  Grecia  gli  Achei e gli  Etoli.  E perchè  gli  Romani  feciono assai  guerra  con  i Toscani,  per  mostrar meglio  la  qualità  di  questo  primo  modo, ini  distenderò  in  dare  notizia  di  loro particolarmente.  In  Italia,  innanzi  allo imperio  romano,  furono  i Toscani  per mare  e per  terra  potentissimi:  e benché delle  cose  loro  non  ce  ne  sia  particolare istoria,  pure  c’è  qualche  poco di  memoria,  e qualche  segno  della  grandezza  loro;  e si  sa  come  e*  mandarono una  colonia  in  su  ’l  mare  di  sopra,  la quale  chiamarono  Adria,  che  fu  si  nobile, che  la  dette  nome  a quel  mare  che ancora  i Latini  chiamano  Adriatico.  Intendesi  ancora,  come  le  loro  arme  furono ubbidite  dal  Tevere  per  infìno  ai piè  dell’  Alpi,  che  ora  cingono  il  grosso di  Italia;  non  ostante  che  dugento  anni innanzi  che  i Romani  crescessino  in molte  forze,  detti  Toscani  perderono  lo imperio  di  quel  paese  che  oggi  si  chiama la  Lombardia;  la  quale  provincia  fu occupata  da’ Franciosi  : i quali  mossi  o da  necessità,  o dalla  dolcezza  dei  frutti, e massime  del  viuo,  vennono  in  Italia sotto  Bellovcso  loro  duce;  e rotti  e cacciati i provinciali,  si  posono  in  quel luogo,  dove  edificarono  di  molte  cittadi, e quella  provincia  chiamarono  Gallia, dal  nome  che  tenevano  allora  ; la  quale tennono  fino  che  da’  Romani  fussero domi.  Vivevano,  adunque,  i Toscani  con quella  equalità , e procedevano  nello ampliare  in  quel  primo  modo  che  di sopra  si  dice:  e furono  dodici  città,  tra le  quali  era  Chiusi,  Yeio,  Fiesole,  Arezzo, Volterra,  e simili:  i quali  per  via di  lega  governavano  lo  imperio  loro; nè  poterono  uscir  d’Italia  con  gli  acquisti ; e di  quella  ancora  rimase  intatta gran  parte,  per  le  cagioni  che  di  sotto
si  diranno.  V altro  modo  è farsi  compagni j non  tanto  però  che  non  ti  rimanga il  grado  del  comandare,  la  sedia dello  imperio  ed  il  titolo  delle  imprese  : il  quale  modo  fu  osservato  da’  Romani. 11  terzo  modo  è farsi  immediate  sudditi, e non  compagni;  come  fecero  gli Spartani  e gli  Ateniesi.  De'  quali  tre modi,  questo  ultimo  è al  tutto  inutile; come  c’  si  vide  che  fu  nelle  sopraddette due  repubbliche:  le  quali  non  rovinarono per  altro,  se  non  per  avere  acquistato quel  dominio  che  le  non  potevano tenere.  Perchè,  pigliar  cura  di  avere  a governare  città  con  violenza,  massime quelle  che  tassino  consuete  a viver  libere, è una  cosa  diffìcile  e faticosa.  E se  tu  non  sei  armato  e grosso  d’  armi, non  le  puoi  nè  comandare  nè  reggere. Ed  a voler  esser  così  fatto,  è necessario farsi  compagni  che  ti  aiutino  ingrossare la  tua  città  di  popolo.  E perchè queste  due  città  non  feciono  nè1’  uno  nè  I’  altro,  il  modo  del  procedere loro  fu  inutile.  E perché  Roma,  la  quale è nello  esempio  del  secondo  modo,  fece l’uno  e T altro;  però  salse  a tanta  eccessiva potenza.  E perchè  la  è stata  sola a vivere  cosi,  è stata  ancora  sola  a diventar tanto  potente  : perchè,  avendosi ella  fatti  di  molti  compagni  per  tutta Italia,  i quali  in  di  molte  cose  con  eguali leggi  vivevano  seco;  e dall’ altro  canto» come  di  sopra  è detto,  sendosi  riservato sempre  la  sedia  dello  imperio  ed il  titolo  del  comandare;  questi  suoi  com-pagni venivano,  che  non  se  ne  avvedevano, con  le  fatiche  e con  il  sangue loro  a soggiogar  sè  stessi.  Perchè,  come cominciorono  a uscire  con  gli  eserciti di  Italia,  e ridurre  i regni  in  provincie,  e farsi  soggetti  coloro  che  per esser  consueti  a vivere  sotto  i Re,  non si  curavano  d*  esser  soggetti;  ed  avendo governadori  romani,  ed  essendo  stati vinti  da  eserciti  con  ii  titolo  romano  ; non  riconoscevano  per  superiore  altro che  Roma.  Di  modo  che  quelli  compagni  di  Roma  che  erano  in  Italia,  si  trovarono in  un  tratto  cinti  da’  sudditi romani,  cd  oppressi  da  una  grossissima città  come  era  Roma  ; e quando  e’  si avviddono  dello  inganno  sotto  i!  quale erano  vissuti,  non  furono  a tempo  a rimediarvi:  tanta  autorità  aveva  presa Roma  con  le  provincie  esterne,  e tanta forza  si  trovava  in  seno,  avendo  la  sua città  grossissima  ed  armatissima.  E benché quelli  suoi  compagni,  per  vendicarsi delle  ingiurie,  gli  congiurassino  contea, furono  in  poco  tempo  perditori  della guerra,  peggiorando  le  loro  condizioni; perchè  di  compagni,  diventarono  ancora loro  sudditi.  Questo  modo  di  procedere, come  è detto,  è stato  solo  osservato da’  Romani:  nè  può  tenere  altro modo  una  repubblica  che  voglia  ampliare; perchè  la  esperienza  non  te  ne ha  mostro  nessuno  più  certo  o più vero.  11  modo  preallegato  delle  leghe, come  viverono  i Toscani,  gii  Achei  e gli  Etoli,  e come  oggi  vivono  i Svizzeri,  è dopo  a quello  de’  Romani  il miglior  modo;  perchè  non  si  potendo con  quello  ampliare  assai,  ne  seguitano duoi  beni:  l’  uno,  che  facilmente  non  ti tiri  guerra  addosso;  l’altro,  che  quel tanto  che  tu  pigli,  lo  tieni  facilmente. La  cagione  del  non  potere  ampliare,  è lo  essere  una  repubblica  disgiunta,  e posta  in  varie  sedi:  il  che  fa  che  difficilmente possono  consultare  e deliberare. Fa  ancora  che  non  sono  desiderosi  di dominare:  perchè  essendo  molte  comunità a*  participarc  di  quel  dominio,  non istimano  tanto  tale  acquisto,  quanto  fa una  repubblica  sola,  che  spera  di  goderselo tutto.  Governansi,  oltra  di  questo, per  concilio,  c conviene  che  siano più  tardi  ad  ogni  deliberazione,  che quelli  che  abitano  dentro  ad  un  medesimo cerchio.  Vedesi  ancora  per  esperienza, che  simile  modo  di  procedere  ha un  termine  fisso,  il  quale  non  ci  è esempio che  mostri  che  si  sia  trapassato:  e questo  è di  aggiugnere  a dodici  o quattordici  comunità  ; dipoi  non  cercare di  andare  più  avanti  : percliè  sendo giunti  al  grado  che  par  loro  potersi  difendere da  ciascuno,  non  cercano  maggiore dominio  ; sì  perchè  la  necessità non  gli  stringe  di  avere  piò  potenza; si  per  non  conoscere  utile  negli  acquisti, per  le  cagioni  dette  di  sopra.  Perchè gli  arebbono  a fare  una  delle  due cose;  o seguitare  di  farsi  compagni,  e questa  moltitudine  farebbe  confusione; o gli  arebbono  a farsi  sudditi  : e perchè e’  veggono  in  questo  difficultà,  e non  molto  utile  nel  tenergli,  non  lo  stimano. Pertanto,  quando  e’  sono  venuti a tanto  numero  che  paia  loro  vivere sicuri,  si  voltano  a due  cose:  P una  a ricevere  raccomandati,  e pigliare  protezioni ; c per  questi  mezzi  trarre  da ogni  parte  danari,  i quali  facilmente intra  loro  si  possono  distribuire:  1*  altra è militare  per  altrui,  e pigliar  stipendio da  questo  e da  quello  principe che  per  sue  imprese  gli  soldo  ; come  si vede  che  fanno  oggi  i Svizzeri,  e come si  legge  che  facevano  i preallegati.  Di che  il*  è testimone  Tito  Livio,  dove  dice che,  venendo  a parlamento  Filippo  re di  Macedonia  con  Tito  Quinzio  Flamminio,  e ragionando  d'accordo  alla  presenza d’  un  pretore  degli  Etoli  ; in  venendo a parole  detto  pretore  con  Filippo, gli  fu  da  quello  rimproverato  la avarizia  e la  infidelità,  dicendo  che  gli Etoli  non  si  vergognavano  militare  con uno,  e poi  mandare  loro  uomini  ancora al  servigio  del  nimico  ; talché  molte volte  intra  dnoi  contrari  eserciti  si  vedevano le  insegne  di  Etolia.  Conoscesi, pertanto,  come  questo  modo  di  procedere per  leghe,  è stato  sempre  simile, ed  ha  fatto  simili  effetti.  Vedesi  ancora, che  quel  modo  di  fare  sudditi  è stato sempre  debole,  ed  avere  fatto  piccoli profitti;  e quando  pure  egli  hanno  passato il  modo,  essere  rovinati  tosto.  E se questo  modo  di  fare  sudditi  è inutile nelle  repubbliche  armate,  in  quelle  che sono  disarmate  è inutilissimo:  come  sono state  ne’  nostri  tempi  le  repubbliche  di Italia.  Conoseesi,  pertanto,  essere  vero modo  quello  che  tennono  i Romani  5 il quale  è tanto  più  mirabile,  quanto  e’  non ee  il’  era  innanzi  a Roma  essempio,  e dopo Roma  non  è stalo  alcuno  elio  gli abbi  imitati.  E quanto  alle  leghe,  si trovano  solo  i Svizzeri  e la  lega  di  Svevia  che  gli  imita.  E,  come  nel  fine  di questa  materia  si  dirà,  tanti  ordini  osservati da  Roma,  così  pertinenti  alle cose  di  dentro  come  a quelle  di  fuora, non  sono  ne*  presenti  nostri  tempi  non solamente  imitati,  ma  non  n’è  tenuto alcuno  conto  ; giudicandoli  alcuni  non veri,  alcuni  impossibili,  alcuni  non  a proposito  ed  inutili  : tanto  che  standoci con  questa  ignoranza,  siamo  preda  di qualunque  ha  voluto  correre  questa  provincia. E quando  la  imitazione  de’  Romani paresse  difficile,  non  doverrebhe parere  cosi  quella  degli  antichi  Toscani, massime  a’  presenti  Toscani.  Perchè,  se quelli  non  poterono,  per  le  cagioni  dette, fare  uno  imperio  simile  a quel  di  Roma, poterono  acquistare  in  Italia  quella  potenza che  quel  modo  del  procedere  concesse loro.  11  che  fu  per  un  gran  tempo securo,  con  somma  gloria  d’ imperio  e d’arme,  e massima  laude  di  costumi  e di  religione.  La  qual  potenza  e gloria fu  prima  diminuita  da’  Franciosi,  dipoi spenta  da’ Romani;  e fu  tanto  spenta, che,  ancora  che  duemila  anni  fa  la  potenza de’  Toscani  fusse  grande,  al  presente non  ce  n’  è quasi  memoria.  La qual  cosa  mi  ha  fatto  pensare  donde nasca  questa  oblivione  delle  cose:  come  '
nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. V.  — Che  la  variazione  delle  sèlle e delle  lingue insieme  con  l'accidente de'  diluvi  o delle  pesti  j spegno  la  memoria  delle  cose. A quelli FILOSOFI che  hanno  voluto  che’l mondo  sia  stato  eterno,  credo  che  si potesse  reificare,  che  se  tanta  antichità fusse  vera,  e’ sarebbe  ragionevole  che ci  fusse  memoria  di  più  che  cinque mila  anni;  quando  e’  non  si  vedesse  come queste  memorie  de*  tempi  per  diverse cagioni  si  spengano:  delle  quali parte  vengono  dagli  nomini,  parte  dal cielo.  Quelle  che  vengono  dagli  uomini, sono  LE VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè  quando  surge  una  setta nuova,  cioè  una  religione  nuova,  il  primo studio  suo  è,  per  darsi  reputazione, estinguere  la  vecchia;  e quando  egli  occorre che  gli  ordinatori  delia  nuova setta  siano  di  lingua  diversa,  la  spengono facilmente.  La  qual  cosa  si  conosce considerando  i modi  che  ha  tenuti la  religione  cristiana  contra  alla  SETTA GENTILE;  la  quale  ha  cancellati  tutti  gli ordini,  tutte  le  ceremonie  di  quella,  e spenta  ogni  memoria  di  quella  antica teologia.  Vero  è che  non  gli  è riuscito spegnere  in  tutto  la  notizia  delle  cose fatte  dagli  uomini  eccellenti  di  quella  : il  die  è nato  per  AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il  che  fecero forzatamente,  avendo  a scrivere  questa legge  nuova  con  essa.  Perchè,  se  V avessino potuta  scrivere  con  nuova  lingua, considerato  le  altre  persecuzioni  gli  feciono,  non  ci  sarebbe  ricordo  alcuno delle  cose  passate.  E chi  legge  i modi tenuti  da  san  Gregorio  e dagli  altri capi  della  religione  cristiana,  vedrà  con quanta  ostinazione  e’  perseguitarono tutte  le  memorie  antiche,  ardendo  P opere  de*  poeti  e delli  istorici,  minando le  immagini,  e guastando  ogni  altra  cosa che  rendesse  alcun  segno  della  antichità. Talché,  se  a questa  persecuzione  egli avessino  aggiunto  una  nuova  lingua,  si sarebbe  veduto  in  brevissimo  tempo ogni  cosa  dimenticare.  È da  credere, pertanto,  che  quello  che  ha  voluto  fare la  religione  cristiana  contra  alla  setta gentile,  la  gentile  abbi  fatto  contra  u quella  che  era  innanzi  a lei.  E perchè queste  sètte  in  cinque  o in  seimila  anni variarono  due  o tre  volle,  si  perdè  in memoria  delle  cose  fatte  innanzi  a quel tempo.  E se  pure  ne  resta  alcun  segno, si  considera  come  cosa  favolosa,  e non è prestato  loro  fede  : come  interviene alla  istoria  di  Diodoro  Siculo,  che  benché e’  renda  ragione  di  quaranta  o cinquanta mila  anni,  nondimeno  è riputata, come  io  credo  che  sia,  cosa  mendace. Quanto  alle  cause  che  vengono  dal  cielo, sono  quelle  che  spengono  la  umana generazione,  e riducono  a pochi  gli  abitatori di  parte  del  mondo.  E questo viene  o per  peste  o per  fame  o per  una inondazione  d*  acque  : e la  più  importante è questa  ultima,  sì  perchè  la  è più  universale,  sì  perchè  quelli  che  si salvano  sono  uomini  tutti  montanari  e rozzi,  i quali  non  avendo  notizia  di  alcuna antichità,  non  la  possono  lasciare a’  posteri.  E se  infra  loro  si  salvasse alcuno  che  ne  avesse  notizia,  per  farsi riputazione  e nome,  la  nasconde,  e la perverte  a suo  modo  ; talché  ne  resta solo  a*  successori  quanto  ei  ne  ha  voluto scrivere,  e non  altro.  E che  queste inondazioni,  pesti  e fami  venghino,  non credo  sia  da  dubitarne;  sì  perchè  ne sono  piene  tutte  le  istorie,  sì  perchè  si vede  questo  effetto  della  oblivione  delle cose,  sì  perchè  e’  pare  ragionevole  che sia:  perchè  la  natura,  come  ne’ corpi semplici,  quando  vi  è ragunato  assai materia  superflua,  muove  per  sè  medesima molte  volte,  e fa  una  purgazione, la  quale  è salute  di  quel  corpo  ; così interviene  in  questo  corpo  misto  della umana  generazione,  che  quando  tutte  le provincie  sono  ripiene  di  abitatori,  in modo  che  non  possono  vivere,  nè  possono andare  altrove,  per  esser  occupati e pieni  tutti  i luoghi;  e quando  la  astuzia e malignità  umana  è venuta  dove la  può  venire,  conviene  di  necessità  che il  mondo  si  purghi  per  uno  de’  tre  modi ; acciocché  gli  uomini  essendo  divenuti pochi  e battuti,  vivano  più  comodamente, e diventino  migliori.  Era adunque,  come  di  sopra  è detto,  già  tu Toscana  potente,  piena  di  religione  e di  virtù  ; aveva  i suoi  costumi  e la  sua LINGUA PATRIA:  il  che  tutto  è stato  spento dalla  potenza  romana.  Talché,  come  si è detto,  di  lei  ne  rimane  solo  la  memoria del  nome. Vi.  — Come  i Romani  procedevano nel  fare  la  guerra. Avendo  discorso  come  i Romani  procedevano nello  ampliare,  discorreremo ora  come  e’  procedevano  nel  fare  la guerra  ; ed  in  ogni  loro  azione  si  vedrà con  quanta  prudenza  ei  diviarono dal  modo  universale  degli  altri,  per  fa-
cilitarsi la  via  a venire  a una  suprema grandezza.  La  intenzione  di  chi  fa guerra  per  elezione,  o vero  per  ambizione, è acquistare  e mantenere  lo  acquistato; e procedere  in  modo  con  esso, che  I’  arricchisca  c non  impoverisca  il paese  e la  patria  sua.  È necessario  dunquc,  e nello  acquistare  e nel  mantenere,  pensare  di  non  spendere;  anzi  far ogni  cosa  con  utilità  del  pubblico  suo. Chi  vuol  fare  tutte  queste  cose,  conviene che  tenga  lo  stile  e modo  romano: il  quale  fu  in  prima  di  fare  le  guerre, come  dicono  i Franciosi,  corte  e grosse; perchè,  venendo  in  campagna  con eserciti  grossi,  tutte  le  guerre  eh’  egli ebbono  co’  Latini,  Sanniti  e Toscani  le espedirono  in  brevissimo  tempo.  E se si  noteranno  tutte  quelle  che  feciono  dal principio  di  Roma  infino  alla  ossidione de’  Yeienti,  tutte  si  vedranno  espedite, quale  in  sei,  quale  in  dieci,  quale  inventi  di.  Perchè  l’uso  loro  era  questo: subito  che  era  scoperta  la  guerra,  egli uscivano  fuori  con  gli  eserciti  all’  incontro del  nimico,  e subito  facevano  la giornata.  La  quale  vinta,  i nimici,  perchè non  fussc  guasto  loro  il  contado affatto,  venivano  alle  condizioni;  ed  i Romani  gli  condennavano  in  terreni:  i quali  terreni  gli  convertivano  in  privati comodi,  o gli  consegnavano  ad  una  colonia; la  quale  posta  in  su  le  frontiere di  coloro,  veniva  ad  esser  guardia  de’  confini romani,  con  utile  di  essi  coloni,  che avevano  quelli  campi,  e con  utile  del pubblico  di  Roma,  che  senza  spesa  teneva quella  guardia.  Nè  poteva  questo modo  esser  più  seeuro,  o più  forte,  o piu  utile:  perchè  mentre  che  i nimici non  erano  in  su  i campi,  quella  guardia bastava  : come  e’ fussino  usciti  fuori grossi  per  opprimere  quella  colonia, ancora  i Romani  uscivano  fuori  grossi, e venivano  a giornata  con  quelli;  e fatta e vinta  la  giornata,  imponendo  loro  più gravi  condizioni,  si  tornavano  in  casa. Così  venivano  ad  acquistare  di  mano in  mano  riputazione  sopra  di  loro,  e forze  in  sè  medesimi.  E questo  modo vennono  tenendo  infino  che  mutorno modo  di  procedere  in  guerra:  il  che  fu dopo  la  ossidione  de’  Veienti  ; dove,  pei*potere  fare  guerra  lungamente,  gli  ordinarono di  pagare  i soldati,  che  prima,  per  non  essere  necessario,  essendo le  guerre  brevi,  non  gli  pagavano.  E benché  i Rotflani  dessino  il  soldo,  e che per  virtù  di  questo  ei  potessino  fare  le guerre  più  lunghe,  e per  farle  più  discosto la  necessità  gli  tenesse  più  in su’  campi  ; nondimeno  non  variarono mai  dal  primo  ordine  di  finirle  presto, secondo  il  luogo  ed  il  tempo;  nè  variarono mai  dal  mandare  le  colonie.  Perchè nel  primo  ordine  gli  tenne,  circa il  fare  le  guerre  brevi,  olirà  il  loro  naturale uso,  T ambizione  de’  Consoli  ; i quali  avendo  a stare  un  anno,  e di quello  anno  sei  mesi  alle  stanze,  volevano finire  la  guerra  per  trionfare.  Nel mandare  le  colonie,  gli  tenne  1’  utile  e la  comodità  grande  che  ne  risultava. Variarono  bene  alquanto  circa  le  prede, delie  quali  non  erano  cosi  liberali  come erano  stati  prima  ; sì  perchè  e*  non  pareva loro  tanto  necessario,  avendo  i soldati lo  stipendio;  sì  perchè  essendo  le prede  maggiori,  disegnavano  d*  ingrassaie  di  quelle  in  modo  il  pubblico,  che non  lussino  constretti  a fare  le  imprese con  tributi  della  città.  li  * quale  ordine in  poco  tempo  fece  il  loro  erario  ricchissimo. Questi  duoi  modi,  adunque,  e circa  il  distribuire  la  preda,  e circa  il mandar  le  colonie,  feciono  che  Roma  arricchiva della  guerra  j dove  gli  altri principi  e repubbliche  non  savie  ne impoveriscono.  E ridusse  la  cosa  in  termine, che  ad  un  Consolo  non  pareva poter  trionfare,  se  non  portava  col  suo trionfo  assai  oro  ed  argento,  e d’ ogni altra  sorte  preda,  nello  erario.  Cosi  i Romani  con  i soprascritti  termini,  e coti il  finire  le  guerre  presto,  sendo  contenti con  lunghezza  straccare  i nemici, e con  rotte  e con  le  scorrerie  e con accordi  a loro  avvantaggi,  diventarono sempre  più  ricchi  e più  potenti. VII  — Quanto  terreno  i Romani davano  per  colono. Quanto  terreno  i Romani  distribuiisino  per  colono,  credo  sia  molto  diffìcile trovarne  la  verità.  Perchè  io  credo  ne dessino  più  o manco,  secondo  i luoghi dove  e*  mandavano  le  colonie.  E giudicasi che  ad  ogni  modo  ed  in  ogni  luogo la  distribuzione  fusse  parca  : prima,  per poter  mandare  più  uomini,  sendo  quelli diputati  per  guardia  di  quel  paese;  dipoi perchè  vivendo  loro  poveri  a caso, non  era  ragionevole  che  volessino  che  I loro  uomini  abbondassino  troppo  fuora.  E Tito  Livio  dice,  come  preso  Veio e’  vi  mandorno  una  colonia,  e distribuirono a ciascuno  tre  iugeri  e sette  once di  terra;  che  sono  al  modo  nostro. Perchè,  oltre  alle  cose soprascritte,  e’  giudicavano  che  non  lo assai  terreno,  ma  il  bene  coltivato  bastasse. È necessario  bene,  che  tutta  la colonia  abbi  campi  pubblici  dove  ciascuno possa  pascere  il  suo  bestiame,  e selve  dove  prendere  del  legname  per  ardere ; senza  le  quali  cose  non  può  una colonia  ordinarsi. Vili.  — La  cagione  perchè  i popoli si  partono  da * luoghi  patriij  cd inondano  il  paese  altrui. Poiché  di  sopra  si  è ragionato  del modo  nel  procedere  della  guerra  osservato da’  Romani,  c come  i Toscani  furono assaltati  da*  Franciosi  ; non  mi  pare alieno  dalla  materia  discorrere,  come  e’  si fanno  di  due  generazioni  guerre.  L’una è fatta  per  ambizione  de*  principi  o delle repubbliche,  che  cercano  di  propagare lo  imperio;  come  furono  le  guerre  che fece  Alessandro  Magno,  e quelle  che  feciono  i Romani,  e quelle  che  fanno  ciascuno di,  1*  una  potenza  con  F altra.  Le quali  guerre  sono  pericolose,  ma  non cacciano  al  tutto  gli  abitatori  d*  una  provincia  ; perchè  e’  basta  al  vincitore  solo la  ubbidienza  de’  popoli,  e il  più  delle volte  gli  lascia  vivere  con  le  loro  leggi, e sempre  con  le  loro  case,  e ne’  loro beni.  L’altra  generazione  di  guerra  è, quando  un  popolo  intero  con  tutte  le sue  famiglie  si  beva  d’  uno  luogo,  necessitato o dalla  fame  o dalla  guerra,  e va  a cercare  nuova  sede  e nuova  provincia; non  per  comandarla,  come  quelli di  sopra,  ma  per  possederla  tutta  particolarmente, e cacciarne  o ammazzare gli  abitatori  antichi  di  quella.  Questa guerra  è crudelissima  e paventosissima. E di  queste  guerre  ragiona  Salustio  nel fine  dell’  Iugurtiuo,  quando  dice  che  vinto lugurta,  si  senti  il  moto  de’  Franciosi  che venivano  in  Italia  : dove  e’  dice  che  ’l Popolo  romano  con  tutte  le  altre  genti combattè  solamente  per  chi  dovesse  comandare, ma  con  i Franciosi  si  combattè sempre  per  la  salute  di  ciascuno. Perchè  ad  un  principe  o una  repub-
spegnere  solo  coloro  che  comandano  ; ma a queste  popolazioni  conviene  spegnere ciascuno,  perchè  vogliono  vivere  di  quello che  altri  viveva.  I Romani  ebbero  tre di  queste  guerre  pericolosissime.  La  prima fu  quella  quando  Roma  fu  presa,  la  quale fu  occupata  da  quei  Franciosi  che  avevano tolto,  come  di  sopra  si  disse,  la Lombardia  a’ Toscani,  e fattone  loro  sedia; della  quale  L.  ne  allega  due cagioni:  la  prima,  come  di  sopra  si  disse, che  furono  allettati  dalla  dolcezza delle  frutte,  c del  vino  di  Italia,  delle quali  mancavano  in  Francia;  la  seconda che,  essendo  quel  regno  francioso moltiplicato  in  tanto  di  uomini,  che  non vi  si  potevano  più  nutrire,  giudicarono i principi  di  quelli  luoghi,  che  fusse  necessario che  una  parte  di  loro  andasse a cercare  nuova  terra;  e fatta  tale  deliberazione, elcssono  per  capitani  di quelli  che  si  avevano  a partire,  Belloveso  e Sicoveso,  duoi  re  de’  Franciosi  : de’  quali  Belloveso  venne  in  Italia,  e Si» coveso  passò  in  Ispagna.  Dalla  passata del  quale  Belloveso,  nacque  la  occupazione di  Lombardia,  c quindi  la  guerra che  prima  i Franciosi  fecero  a Roma. Dopo  questa,  fu  quella  che  fecero  dopo la  prima  guerra  cartaginese,  quando  tra Piombino  e Pisa  ammazzarono  più  che dugentomila  Franciosi.  La  terza  fu  quando i Todeschi  e Cimbri  vennero  in  Italia  : i quali  avendo  vinti  più  eserciti  romani, furono  vinti  da  Mario.  Vinsero  adunque i Romani  queste  tre  guerre  pericolosissime. Ne  era  necessario  minore  virtù  a vincerle;  perchè  si  vede  poi,  come  la virtù  romana  mancò,  e che  quelle  arme perderono  il  loro  antico  valore,  fu  quello imperio  distrutto  da  simili  popoli  : i quali furono  Goti,  Vandali  c simili,  che  occuparono tutto  lo  imperio  occidentale. Escono  tali  popoli  de*  paesi  loro,  rome di  sopra  si  disse,  cacciati  dalla  necessitò: e la  necessitò  nasce  o dalla  fame, o da  una  guerra  ed  oppressione  clic ne’ paesi  propri  è loro  fatta;  talché  e’ sono  constretti  cercare  nuove  terre.  E questi  tali,  o e’  sono  grande  numero  ; ed  allora  con  violenza  entrano  ne'  paesi altrui,  ammazzano  gli  abitatori,  posseggono i loro  beni,  fanno  uno  nuovo  regno, mutano  il  nome  della  provincia: come  fece  Moisè,  e quelli  popoli  che  occuparono lo  imperio  romano.  Perchè  questi nomi  nuovi  che  sono  nella  Italia  e nelle altre  provincie,  non  nascono  da  altro  che da  essere  state  nomate  così  da’  nuovi occupatoci  : come  è la  Lombardia,  che si  chiamava  Gallia  Cisalpina:  la  Francia si  chiamava  Gallia  Transalpina,  ed  ora è nominata  da’  Franchi,  chè  cosi  si  chiamavano quelli  popoli  che  la  occuparono: la  Schiavoniu  si  chiamava  Illiria,  l’Ungheria Pannonia;  l’Inghilterra  Britannia:  c molte  altre  provincie  che  hanno mutato  nome,  le  quali  sarebbe  tedioso raccontare.  Moisè  ancora  chiamò  Giudea quella  parte  di  Soria  occupata  da  lui. E perchè  io  ho  detto  di  sopra,  che  qualche volta  tali  popoli  sono  cacciati  della propria  sede  per  guerra,  donde  -sono constretti  cercare  nuove  terre;  ne  voglio addurre  lo  essempio  de’  Maurusii, popoli  anticamente  in  Soria  : i quali,  sentendo  venire  i popoli  ebraici,  e giudicando non  poter  loro  resistere,  pensarono essere  meglio  salvare  loro  medesimi,  t* lasciare  il  paese  proprio,  che  per  volere salvare  quello,  perdere  ancora  loro;  e levatisi  con  loro  famiglie,  se  ne  andarono in  Affrica,  dove  posero  la  loro  sedia, cacciando  via  quelli  abitatori  che  in quelli  luoghi  trovarono.  G così  quelli  che non  avevano  potuto  difendere  il  loro paese,  poterono  occupare  quello  d’  altrui. E Procopio,  che  scrive  la  guerra  che fece  Bellisario  co’ Vandali  occupatori  della Affrica,  riferisce  aver  letto  lettere  scritte in  certe  colonne  ne’  luoghi  dove  questi Maurusii  abitavano,  le  quali  dicevano  : S os  Maurusii , qui  fugimus  a facie  Jesu latronis  filii  flava.  Dove  apparisce  In cagione  della  partita  loro  di  Soria.  Sono, pertanto,  questi  popoli  formidolosissimi, sendo  cacciati  da  una  ultima  necessità  ; e s’  egli  non  riscontrano  buone  armi,  non saranno  mai  sostenuti.  Ula  quando  quelli che  sono  constretti  abbandonare  la  loro patria  non  sono  molti,  non  sono  sì  pericolosi come  quelli  popoli  di  chi  si  è ragionato;  perchè  non  possono  usare tanta  violenza,  ma  conviene  loro  con arte  occupare  qualche  luogo,  e,  occupatolo, mantenervisi  per  via  di  amici  e di confederali  : come  si  vede  che  fece  ENEA, Didone,  i Massiliesi  e simili  ; i quali  lutti, per  consentimento  de’  vicini,  dove  e’ posorno,  poterono  mantenervisi.  Escono  i popoli  grossi,  e sono  usciti  quasi  tutti de’  paesi  di  Scizia  ; luoghi  freddi  e poveri: dove,  per  essere  assai  uomini,  cd il  paese  di  qualità  da  non  gli  potere  nutrire, sono  forzati  uscire,  avendo  molte cose  che  gli  cacciano,  e nessuna  che  gli ritenga.  E se  da  cinquecento  anni  in  qua, non  è occorso  che  alcuni  di  questi  popoli abbino  inondato  alcuno  paese,  è nato per  più  cagioni.  La  prima,  la  grande evacuazione  che  fece  quel  paese  nella declinazione  dello  imperio;  donde  uscirono più  di  trenta  popolazioni.  La  seconda è che  la  Magna  e 1’  Ungheria,  donde ancora  uscivano  di  queste  genti,  hanno ora  il  loro  paese  bonificato  in  modo,  che vi  possono  vivere  agiatamente;  talché non  sono  necessitati  di  mutare  luogo. Dall’  altra  parte,  sendo  loro  uomini  bellicosissimi, sono  come  uno  bastione  a tenere  che  gli  Sciti,  i quali  con  loro  confinano, non  presumino  di  potere  vincergli o passargli.  E spesse  volte  occorrono movimenti  grandissimi  da’ Tartari,  che sono  dipoi  dagli  Ungheri  e da  quelli  di Polonia  sostenuti;  e spesso  si  gloriano, che  se  non  fussino  1’  arme  loro,  la  Italia e la  Chiesa  arebbe  molle  volle  sentito  il peso  degli  eserciti  tartari.  E questo  voglio basti  quanto  a’  prefati  popoli. IX.  Quali  cagioni  comunemente faccino  nascere  le  guerre  intra  i polenti. La  cagione  che  fece  nascere  guerra intra  i Romani  ed  i Sanniti,  che  erano stati  in  lega  gran  tempo,  è una  cagione comune  che  nasce  infra  tutti  i principati potenti.  La  qual  cagione  o la  viene a caso,  o la  è fatta  nascere  da  colui  che desidera  muovere  la  guerra.  Quella  che nacque  intra  i Romani  ed  i Sanniti,  fu a caso;  perchè  la  intenzione  de’ Sanniti non  fu,  muovendo  guerra  a’Sidicini,  e dipoi  a’  Campani,  muoverla  ai  Romani. .\Ia  sendo  i Campani  oppressati,  e ricorrendo a Roma  fuora  della  oppinione de’  Romani  e de’  Sanniti,  furono  forzati, dandosi  i Campani  ai  Romani,  come  cosa loro  difendergli,  e pigliare  quella  guerra che  a loro  parve  non  potere  con  loro onore  fuggire.  Perchè  e’pareva  benea’Romani  ragionevole  non  potere  difendere i Campani  come  amici,  eontra  ai  Sanuiti  amici,  ma  pareva  ben  loro  vergogna non  gli  difendere  come  sudditi,  ovvero raccomandali;  giudicando,  quando e’  non  avessino  presa  tal  difesa,  torre la  via  a tutti  quelli  che  disegnassino  venire sotto  la  potestà  loro.  Ed  avendo Roma  per  fine  lo  imperio  e la  gloria,  e non  la  quiete,  non  poteva  ricusare  questa impresa.  Questa  medesima  cagione dette  principio  alla  prima  guerra  conira a’  Cartaginesi,  per  la  difensione  che  i Romani  presono  de*  Messinesi  in  Sicilia: la  quale  fu  ancora  a caso.  Ma  non  fu
già  a caso  di  poi  la  seconda  guerra  che nacque  infra  loro;  perchè  Annibaie  capitano Cartaginese  assaltò  i Saguntini amici  de’  Romani  in  Ispagna,  non  per offendere  quelli,  ma  per  muovere  l’arme romane,  ed  avere  occasione  di  combatterli, c passare  in  Italia.  Questo  modo nello  appiccare  nuove  guerre  è stato sempre  consueto  intra  i potenti,  e che si  hanno  e della  fede,  e d’altro,  qualche rispetto.  Perchè,  se  io  voglio  fare guerra  con  uno  principe,  ed  infra  noi siano  fermi  capitoli  per  un  gran  tempo oservati,  con  altra  giustificazione  e con altro  colore  assalterò  io  un  suo  amico che  lui  proprio  5 sappiendo  massime,  che nello  assaltare  lo  amico,  o ci  si  risentirà, ed  io  arò  V intento  mio  di  fargli guerra  ; o non  si  risentendo,  si  scuoprirà  la  debolezza  o la  infidelità  sua  di non  difendere  un  suo  raccomandato.  E 1’  una  e I'  altra  di  queste  due  cose  è per torgli  riputazione,  e per  fare  più  facili i disegni  miei.  Debbesi  notare,  adunque, e per  la  dedizione  de' Campani,  circa  il muovere  guerra,  quanto  di  sopra  si  è detto;  e di  più,  qual  rimedio  abbia  una città  che  non  si  possa  per  sè  stessa  difendere, e voglisi  difendere  in  ogni  modo da  quel  clic  l'assalta:  il  quale  è darsi Uberamente  a quello  che  tu  disegni  che ti  difenda;  come  feciono  i Capovani  ai Romani,  ed  i Fiorentini  al  ré  Roberto di  Napoli  : il  quale  non  gli  volendo  difendere come  amici,  gli  difese  poi  come sudditi  contra  alle  forze  di  Castruceio da  Lucca,  die  gli  opprimeva. X.  — I danari  non  sono  il  nervo della  guerra j secondo  che  è la  comune oppi  ninne. Perchè  ciascuno  può  cominciare  una guerra  a sua  posta,  ma  non  finirla,  debbe uno  principe,  avanti  che  prenda  una  impresa, misurare  le  forze  sue,  e secondo quelle  governarsi.  Ma  debbe  avere  tanta prudenza,  che  delle  sue  forze  ei  non s’inganni;  ed  ogni  volta  s’ingannerà, quando  le  misuri  o dai  danari,  o dal sito,  o dalla  benivoienza  degli  uomini, mancando  dall’  altra  parte  d’  arme  proprie. Perchè  le  cose  predette  ti  accrescono bene  le  forze,  ma  le  non  te  ne danno  ; e per  sè  medesime  sono  nulla  ; e non  giovano  alcuna  cosa  senza  l’arme fedeli.  Perchè  i danari  assai,  non  ti  bastano senza  quelle;  non  ti  giova  la  fortezza de!  paese;  e la  fede ‘e  benivoienza
degli  uomini  non  dura,  perchè  questi non  ti  possono  essere  fedeli,  non  gli  potendo difendere.  Ogni  monte,  ogni  lago, ogni  luogo  inaccessibile  diventa  piano, dove  i forti  difensori  mancano.  I danari ancora  non  solo  non  ti  difendono,  ina ti  fanno  predare  più  presto.  Nè  può  essere più  falsa  quella  comune  oppinione che  dice  che  i danari  sono  il  nervo  della guerra.  La  quale  sentenza  è detta  da Quinto  Curzio  nella  guerra  che  fu  intra A'ntipatro  macedone  c il  re  spartano: dove  narra,  che  per  difetto  di  danari  il re  di  Sparta  fu  necessitato  azzuffarsi, e fu  rotto;  che  se  ei  differiva  la  zuffa pochi  giorni,  veniva  la  nuova  in  Grecia della  morte  di  Alessandro,  donde  e*  sarebbe rimaso  vincitore  senza  combattere. Ma  mancandogli  i danari,  e dubitando che  lo  esercito  suo  per  difetto  di  quelli non  Io  abbandonasse,  fu  constretto  tentare la  fortuna  della  zuffa:  talché  Quinto Curzio  per  questa  cagione  afferma,  i danari essere  il  nervo  della  guerra.  La qual  sentenza  è allegata  ogni  giorno,  v da’  principi  non  tanto  prudenti  che  basti, seguitata.  Perchè,  fondatisi  sopra quella,  credono  che  basti  loro  a difendersi avere  tesori  assai,  e non  pensano che  se  ’1  tesoro  bastasse  a vincere,  che Dario  arebbe  vinto  Alessandro,  i Greci nrebbon  vinti  i Romani;  ne’ nostri  tempi il  duca  Carlo  arebbe  vinti  i Svizzeri; e pochi  giorni  sono,  il  Papa  ed  i Fiorentini insieme  non  arebbono  avuta  difficultà  in  vincere  Francesco  Maria,  nipote di  papa  Giulio  II,  nella  guerra  di Urbino.  Ma  tutti  i soprannominali  furono vinti  da  coloro  che  non  il  danaro, ma  i buoni  soldati  stimano  essere  il  nervo della  guerra.  Intra  le  altre  cose  che Creso  re  di  Lidia  mostrò  a Solone  ateniese, fu  un  tesoro  innumerabile  ; c domandando quel  che  gli  pareva  della  potenza sua,  gli  rispose  Solone,  che  per quello  non  lo  giudicava  più  potente;  perchè la  guerra  si  faceva  col  ferro  e non con  P oro,  e che  poteva  venire  uno  che avesse  piu  ferro  di  lui,  e torgliene.  Olir’ a questo,  quando,  dopo  la  morte  di Alessandro  Magno,  una  moltitudine  di Franciosi  passò  in  Grecia,  e poi  in  Asia; e mandando  i Franciosi  oratori  al  re  di Macedonia  per  trattare  certo  accordo  ; quel  re,  per  mostrare  la  potenza  sua  e per  {sbigottirli,  mostrò  loro  oro  ed  argento assai:  donde  quelli  Franciosi  che di  già  avevano  come  ferma  la  pace,  la j uppono  ; tanto  desiderio  in  loro  crebbe di  torgli  quell’oro:  e cosi  fu  quel  re spogliato  per  quella  cosa  che  egli  aveva per  sua  difesa  accumulata.  1 Yeniziani, pochi  anni  sono,  avendo  ancora  lo  erario loro  pieno  di  tesoro,  perderono  tutto lo  Stato,  senza  potere  essere  difesi  da quello.  Dico  pertanto,  non  l’ oro,  come grida  la  comune  oppinione,  essere  il nervo  della  guerra,  ma  i buoni  soldati  : perchè  1’  oro  non  è suflìzienle  a trovare i buoni  soldati,  ma  i buoni  soldati  son ben  sutlìzienti  a trovare  l’ oro.  Ai  Romani, s’egli  avessero  voluto  fare  la  guerra più  con  i danari  che  con  ii  ferro,  non sarebbe  bastato  avere  tutto  il  tesoro  del  mondo,  considerato  le  grandi  imprese che  fcciono,  e le  difficoltà  che  vi  ebbono dentro.  Ma  facendo  le  loro  guerre  con il  ferro,  non  patirono  mai  carestia  dell' oro;  perchè  da  quelli  cheli  temevano era  portato  Toro  infino  ne’ campi.  E se quel  re  spartano  per  carestia  di  danari ebbe  a tentare  la  fortuna  della  /uffa, intervenne  a lui  quello,  per  conto  de’danari,  che  molte  volte  è intervenuto  per altre  cagioni;  perchè  si  è veduto  che, mancando  ad  uno  esercito  le  vettovaglie, ed  essendo  necessitati  o a morire  di fame  o azzuffarsi,  si  piglia  il  partito sempre  di  azzuffarsi,  per  essere  più  ono*revole,  e dove  la  fortuna  ti  può  in  qualche modo  favorire.  Ancora  è intervenuto molte  volte,  che  veggendo  uno capitano  al  suo  esercito  nimico  venire soccorso,  gli  conviene  o azzuffarsi  con quello  e tentare  la  fortuna  della  zuffa  ; o aspettando  eh’  egli  ingrossi,  avere  a combattere  in  ogni  modo,  con  mille  suoi disavvantaggi.  Ancora  si  è visto  (come intervenne  ad  Asdrubale  quando  nella Marca  fu  assaltato  da  Claudio  Verone, insieme  con  l’altro  Consolo  romano), che un  capitano  che  è necessitato  o a fuggirsi o a combattere,  come  sempre  elegge il  combattere  ; parendogli  in  questo  partito, ancora  che  dubbiosissimo,  potere vincere;  ed  in  quello  altro,  avere  a perdere in  ogni  modo.  Sono,  adunque,  molte necessitati  che  fanno  a uno  capitano  fuor della  sua  intenzione  pigliare  partito  di azzuffarsi;  intra  le  quali  qualche  volta può  essere  la  carestia  de’  danari  : nè  per questo  si  debbono  i danari  giudicare essere  il  nervo  della  guerra,  più  che  le altre  cose  che  inducono  gli  uomini  n simile  necessità.  Non  è,  adunque,  replicandolo di  nuovo.  1’  oro  il  nervo  della guerra;  ma  i buoni  soldati.  Son  bene necessari  i danari  in  secondo  luogo,  ina è una  necessità  che  i soldati  buoni  per sè  medesimi  la  vincono;  perchè  è inipossibile  che  a’  buoni  soldati  manchino i danari,  come  che  i denari  pei*  loro medesimi  truovino  i buoni  soldati.  Mostra questo  che  noi  diciamo  essere  vero, ogni  istoria  in  mille  luoghi;  non  ostante che  Pericle  consigliasse  gli  Ateniesi  a fare  guerra  con  tutto  il  Peloponneso, mostrando  che  e*  potevano  vincere  quella guerra  con  la  industria  e con  la  forza del  danaio.  E benché  in  tale  guerra  gli Ateniesi  prosperassino  qualche  volta,  in ultimo  la  perderono;  e valsoti  più  il  consiglio e gli  buoni  soldati  di  Sparta,  che la  industria  ed  il  danaio  di  Atene.  Ma L.  è di  questa  oppinione  più  vero testimone  che  alcuno  altro,  dove  discorrendo se  Alessandro  Magno  fusse  venuto in  Italia,  s’ egli  avesse  vinto  i Romani, mostra  esser  tre  cose  necessarie  nella guerra  ; assai  soldati  e buoni,  capitani prudenti,  e buona  fortuna  : dove  esaminando quali  o i Romani  o Alessandro prevalessino  in  queste  cose,  fa  dipoi  la sua  conclusione  senza  ricordare  mai  i danari.  Doverono  i Capovani,  quando furono  ricfiiesti  da’  Sidicini  che  prendessino  T arme  per  loro  contea  ai  Sanniti, misurare  la  potenza  loro  dai  danari,  c non  dai  soldati:  perchè,  preso  ch’egli ebbero  partito  di  aiutarli,  dopo  due  rotte furono  constretti  farsi  tributari  de’  Romani, se  si  vollono  salvare. Non  è partito  prudente  fare amicizia  con  un  principe  che  abbia più  oppinionc  che  forze. Volendo  Tito  Livio  mostrare  lo  errore de’  Sidicini  a fidarsi  dello  aiuto de’  Campani,  e lo  errore  de’  Campani  a credere  potergli  difendere,  non  lo  potrebbe dire  con  più  vive  parole,  dicendo: Campani  magie  nomen  in  auxilium Sidicinorunij  quam  vires  ad  prcesidium atlulcrunl.  Dove  si  debbe  notare,  che  le leghe  si  fanno  co’ principi  che  non  abbino o comodità  di  aiutarti  per  la  distanzia del  sito,  o forze  di  farlo  per  suo
disordine  o altra  sua  cagione,  arrecano più  fama  che  aiuto  a coloro  ehe  se  ne fidano:  come  intervenne  ne’ dì  nostri a*  Fiorentini,  quando,  nel  147£t,  il  papa ed  il  re  di  Napoli  gli  assaltarono;  che essendo  amici  del  re  di  Francia,  trassono di  quella  amicizia  magis  nomcn , r/nam  praesidium  : come  interverrebbe ancora  a quel  principe,  che  confidatosi di  Massimiliano  imperatore,  facesse  qualche impresa;  perchè  questa  è una  di quelle  amicizie  che  arrecherebbe  a chi la  facesse  magis  nomcn 9 quam  prassi -ditinij  come  si  dice  in  questo  testo,  che arrecò  quella  de’ Capovani  ai  Sidicini. Errarono,  adunque,  in  questa  parte  i Capovani,  per  parere  loro  avere  più forze  che  non  avevano.  E così  fa  la poca  prudenza  delti  uomini  qualche  volta, che  non  sappiendo  nè  potendo  difendere sè  medesimi,  vogliono  prendere imprese  di  difendere  altrui  : come  fecero ancoro  i Tarentini,  i quali,  sendo  gli eserciti  romani  allo  Incontro  dello  esercito  de’ Sanniti,  mandorono  ambasciadori al  Consolo  romano,  a fargli  intendere come  ci  volevano  pace  intra  quelli  duoi popoli,  e come  erano  per  fare  guerra centra  a quello  che  dalla  pace  si  discostasse*, talché  il  Consolo,  ridendosi di  questa  proposta,  alla  presenza  di detti  ambasciadori  fece  sonare  a battaglia, ed  al  suo  esercito  comandò  che andasse  a trovare  il  nimico,  mostrando ai  Tarentini  con  1’  opera,  e non  con  le parole,  di  che  risposta  essi  erano  degni. Ed  avendo  nel  presente  capitolo ragionato  dei  parliti  che  pigliano  i principi al  contrario  per  la  difesa  d’  altrui, voglio  nel  seguente  parlare  di  quelli  che si  pigliano  per  la  difesa  propria.  XII.  — Scegli  è meglio , temendo di  essere  assaltalo > inferire , o aspettare la  guerra. lo  lio  sentito  da  uomini  assai  pratichi nelle  cose  della  guerra  qualche  volta disputare,  se  sono  duoi  principi  quasi di  eguali  forze,  se  quello  più  gagliardo abbi  bandito  la  guerra  contra  a quello altro,  quale  sia  miglior  partito  per  Poltro; o aspettare  il  nimico  dentro  ai  confini suoi,  o andarlo  a trovare  in  casa, ed  assaltare  lui:  e ne  fio  sentito  addurre ragioni  da  ogni  parte.  E chi  difende lo  andare  assaltare  altrui,  nc  allega il  consiglio  che  Creso  dette  a Ciro, quando  arrivato  in  su*  confini  de’  Massageli  per  fare  lor  guerra,  la  lor  regina Tarniri  gli  mandò  a dire,  che  eleggesse quale  de'  duoi  partiti  volesse;  o entrare  nel  regno  suo,  dovè  essa  Ip aspetterebbe;  o volesse  che  ella  venisse a trovar  lui.  E venuta  la  cosa  in  disputazionc,  Creso,  contra  alla  oppinione degli  altri,  disse  che  si  andasse  a trovar lei  ; allegando  che  se  egli  la  vincesse discosto  al  suo  regno,  che  non  gli torrebbe  il  regno,  perchè  ella  arebbe tempo  a rifarsi;  pia  se  la  vincesse  dentro a’ suoi  confini,  potrebbe  seguirla  in su  la  fuga,  e non  le  dando  spazio  a rifarsi,  torli  io  Stato.  Allegane  ancora  il consiglio  che  dette  Annibaie  ad  Antioco, quando  quel  re  disegnava  fare  guerra ai  Romani:  dove  ei  mostrò  come  i Romani non  si  potevano  vincere  se  non in  Italia,  perchè  quivi  altri  si  poteva valere  delle  arme  e delle  ricchezze  e degli  amici  loro  ; chi  gli  combatteva fuora  d’ Italia,  e lasciava  loro  la  Italia libera,  lasciava  loro  quella  fonte,  che mai  li  mancava  vita  a somministrare forze  dove  bisogna  ; e conchiuse  che  ai Romani  si  poteva  prima  torre  Roma che  lo  imperio;  prima  la  Italia  che  le altre  provincie.  Allega  ancora  Agatocle. che  non  potendo  sostenere  la  guerra  di casa,  assaltò  i Cartaginesi  clic  glieuc facevano,  e gli  ridusse  a domandare pace.  Allega  Scipione,  che  per  levare  la guerra  d’  Italia,  assaltò  la  Affrica.  Chi parla  al  contrario  dice,  che  chi  vuole fare  capitare  male  uno  nimico,  lo  discosti da  casa.  Allegane  gli  Ateniesi, che  mentre  che  feciono  la  guerra  comoda alla  casa  loro,  restarono  superiori; e come  si  discostarono,  ed  andarono con  gli  eserciti  in  Sicilia,  perderono la  libertà.  Allega  le  favole  poetiche,  dove si  mostra  che  Anteo,  re  di  Libia,  assaltato da  Ercole  Egizio,  fu  insuperabile mentre  che  Io  aspettò  dentro  a*  confini del  suo  regno;  ma  come  e’ se  ne  discosto per  astuzia  di  Ercole,  perdè  lo  Stalo e la  vita.  Onde  è dato  luogo  alla  favola di  Anteo,  che  sendo  in  terra  ripigliava le  forze  da  sua  madre,  che  era  la  Terra; e che  Ercole  avvedutosi  di  questo, lo  levò  in  alto,  e discostollo  dalla  terra. Allegane  ancora  i giudizi  moderni.  Ciascuno sa  come  Ferrando  re  di  .Napoli fu  ne’  suoi  tempi  tenuto  uno  savissimo principe:  e venendo  la  fama,  duoi  anni avanti  la  sua  morte,  come  il  re  di  Francia Carlo  Vili  voleva  venire  ad  assaltarlo, avendo  fatte  assai  preparazioni, ammalò;  e venendo  a morte,  intra  gli altri  ricordi  che  lasciò  ad  Alfonso  suo figliuolo,  fu  che  egli  aspettasse  il  nimico dentro  al  regno;  e per  cose  del mondo  non  traesse  forze  fuori  dello Stato  suo,  ma  lo  aspettasse  dentro  aisuoi  confini  tutto  intero;  il  che  non  fuosservato  da  quello;  ma  mandato  uno esercito  in  Romagna,  senza  combattere perdè  quello  c lo  Stato.  Le  ragioni  che, oltre  alle  cose  dette,  da  ogni  parte  si adducono,  sono  : che  chi  assalta  viene con  maggiore  animo  che  chi  aspetta,  il che  fa  più  confidente  lo  esercito;  toglie, oltra  di  questo,  molte  comodità  al  nimico di  potersi  valere  delle  sue  cose, non  si  potendo  valere  di  quei  sudditi che  sieno  saccheggiati;  e per  avere  il nimico  in  casa,  è constretto  il  signore avere  più  rispetto  a trarre  da  loro  danari ed  affaticargli  : sicché  e’  viene  a seccare  quella  fonte,  come  dice  Annibaie, che  fa  che  colui  può  sostenere  la guerra.  Oltre  di  questo,  i suoi  soldati, per  trovarsi  ne*  paesi  d’  altrui,  sono  più necessitati  a combattere;  e quella  nccessila  fa  virtù,  come  più  volte  abbiamo detto.  Dall’  altra  parte  si  dice  ; come aspettando  il  nimico,  si  aspetta  con  assai vantaggio,  perchè  senza  disagio alcuno  tu  puoi  dare  a quello  molti  disagi di  vettovaglia,  e d’  ogni  altra  cosa che  abbia  bisogno  uno  esercito  : puoi meglio  impedirli  i disegni  suoi,  per  la notizia  del  paese  cheta  hai  più  di  lui: puoi  con  più  forze  incontrarlo,  per  poterle facilmente  tutte  unire,  ma  non  potere già  tutte  discostarle  da  casa:  puoi sendo  rotto  rifarti  facilmente;  sì  perchè del  tuo  esercito  se  ne  salverà  assai, per  avere  i rifugi  propinqui;  si  perchè il  supplemento  non  ha  a venire  discosto: tanto  che  tu  vieni  arrischiare  tutte le  forze,  e non  tutta  la  fortuna  ; e discostandoti, arrischi  tutta  la  fortuna,  e non  tutte  le  forze.  Ed  alcuni  sono  stati che  per  indebolire  meglio  il  suo  nimico, Io  lasciano  entrare  parecchie  giornate in  su  il  paese  loro,  e pigliare  assai terre;  acciò  che  lasciando  i presidii  in tutte,  indebolisca  il  suo  esercito,  e possiulo  dipoi  combattere  più  facilmente. Ma,  per  dire  ora  io  quello  che  io  ne intendo,  io  credo  che  si  abbia  a fare  questa distinzione:  o io  ho  il  mio  paese armato,  come  i Romani,  o come  hanno i Svizzeri;  o io  l’ho  disarmato,  come avevano  i Cartaginesi,  o come  Y hanno  i re  di  Francia  e gli  Italiani.  In  questo caso,  si  debbe  tenere  il  nimico  discosto a casa;  perchè  scudo  la  tua  virtù  nel danaio  e non  negli  uomini,  qualunque volta  ti  è impedita  la  via  di  quello,  tu sei  spacciato;  nè  cosa  veruna  te  lo  impedisce quanto  la  guerra  di  casa.  In  essempi  ci  sono  i Cartaginesi;  i quali mentre  che  ebbero  la  casa  loro  libera, poterono  con  le  rendite  fare  guerra  con i Romani;  e quando  la  avevano  assaltata, non  potevano  resistere  ad  Agatoeie.  I Fiorentini  non  avevano  rimedio ulcuuo  con  Castruccio  signore  di  Lucca, perchè  ci  faceva  loro  la  guerra  in  casa; tanto  che  gli  ebbero  a darsi,  per  essere difesi,  al  re  Roberto  di  Napoli.  Ma  morto Castruccio,  quelli  medesimi  Fiorentini ebbero  animo  di  assaltare  il  duca  di Milano  in  casa,  ed  operare  di  torgli  il regno:  tanta  virtù  monstrarono  nelle guerre  louginque,  e tanta  viltà  nelle propinque.  Ma  quando  i regni  sono  armati, come  era  armata  Roma  e come sono  i Svizzeri,  sono  più  difficili  a vincere quanto  più  ti  appressi  loro:  perchè questi  corpi  possono  unire  più  forze  a resistere  ad  uno  impeto,  che  non  possono ad  assaltare  altrui.  Nè  mi  muove in  questo  caso  I’  autorità  di  Annibaie, perchè  la  passione  e Y utile  suo  gli  faceva cosi  dire  ad  Antioco.  Perchè,  se  i Romani  avessino  avute  in  tanto  spazio di  tempo  quelle  tre  rotte  in  Francia* ch’egli  ebbero  in  .Italia  da  Annibaie, senza  dubbio  erano  spacciati:  perchè non  si  sarebbono  valuti  de’ .residui  degli eserciti,  come  si  valsono  in  Italia; non  arebbono  avuto  a rifarsi  quelle  comodità; nè  potevano  con  quelle  forze resistere  ai  nimico,  che  poterono.  Non si  trova  che,  per  assaltare  una  provincia, loro  mandassino  mai  fuora  eserciti clic  passassino  cinquantamila  persone; ma  per  difendere  la  casa  ne  misono  in arme  conira  ai  Franciosi,  dopo  la  prima guerra  punica,  diciotto  centinaia  di  migliaia. Nè  arebbono  potuto  poi  romper quelli  in  Lombardia,  come  gli  ruppono in  Toscana;  perchè  contro  a tanto  numero  di  ninnici  non  arebbono  potuto condurre  tante  forze  sì  discosto,  nè  combattergli con  quella  comodità.  I Cimbri ruppono  uno  esercito  romano  in  la  Magna, nè  vi  ebbono  i Romani  rimedio. Ma  come  egli  arrivorono  in  Italia,  e che poterono  mettere  tutte  le  loro  forze  insieme, gli  spacciarono.  I Svizzeri  è facile vincergli  fuori  di  casa,  dove  e’  non possono  mandare  più  che  un  trenta  o quarantamila  uomini;  ma  vincergli  in casa,  dove  e’  ne  possono  raccozzare  centomila, è difficilissimo.  Conchiuggo  adunque di  nuovo,  che  quel  principe  che  ha i suoi  popoli  armati  ed  ordinali  alla guerra,  aspetti  sempre  in  casa  una guerra  potente  e pericolosa,  e non  la vadia  a rincontrare:  ma  quello  che  ha i suoi  sudditi  disarmati,  ed  il  paese inusitato  della  guerra,  se  la  discosti
sempre  da  casa  il  più  che  può.  E così r uno  e l*  altro,  ciascuno  nel  suo  grado, si  difenderà  meglio. XIII.  — Che  si  viene  di  bassa  a gran  fortuna  più  con  la  fraude,  che con  la  forza. Io  stimo  essere  cosa  verissima,  che rado,  o non  mai,  intervenga  che  gli uomini  di  piccola  fortuna  venghino  a gradi  grandi,  senza  la  forza  e senza  la fraude;  purché  quel  grado  al  quale  altri è pervenuto,  non  ti  sia  o donalo,  o lasciato  per  eredità.  Xè  credo  si  truovi mai  che  la  forza  sola  basti,  ma  si  troverà bene  che  la  fraude  sola  basterà: còme  chiaro  vedrà  colui  che  leggerà  la vita  di  Filippo  di  Macedonia,  quella  di Agatocle  siciliano,  e di  molti  altri  simili, che  d’ infima  ovvero  di  bassa  fortuna, sono  pervenuti  o a regno  o ad  imperi grandissimi.  Mostra  Senofonte,  nella  sua vita  di  Ciro,  questa  necessità  delio  ingannare; consideralo  che  la  prima  ispedizione  che  fa  fare  a Ciro  contea  il  re di  Armenia,  è piena  di  fraude,  e come con  inganno,  e non  con  forza,  gli  fa  occupare il  suo  regno;  e non  conchiude altro  per  tale  azione,  se  non  che  ad  un principe  che  voglia  fare  gran  cose,  è necessario  imparare  a ingannare.  Fagli, olirà  di  questo,  ingannare  Ciassare,  re de’  .Medi,  suo  zio  materno,  in  più  modi; senza  la  quale  fraude  mostra  che  Ciro non  poteva  pervenire  a quella  grandezza che  venne.  Nè  credo  che  si  truovi mai  alcuno  constiluito  in  bassa  fortuna, pervenuto  a grande  imperio  solo  con la  forza  aperta  ed  ingenuamente,  ma  sì bene  solo  con  la  fraude  : come  fece  Giovanni Galeazzo  per  tor  lo  Stato  e lo imperio  di  Lombardia  a messer  Bernabò suo  zio.  E quei  che  sono  necessitati  fare i principi  ne’  principi!  degli  augumenti loro,  sono  ancora  necessitate  a fare  le repubbliche,  infimo  che  le  sieno  diventate potenti,  e che  basti  la  forza  sola. E perchè  Roma  tenne  in  ogni  parte,  o per  sorte  o per  elezione,  tutti  i modi necessari  a venire  a grandezza,  non mancò  ancora  di  questo.  Nè  potè  usare, nel  principio,  il  maggiore  inganno,  che pigliare  il  modo  di  sopra  discorso  da noi,  di  farsi  compagni  ; perchè  sotto questo  nome  se  li  fece  servi:  come  furono i Latini,  ed  altri  popoli  all’  intorno. Perchè  prima  si  valse  dell*  arme  loro in  domare  i popoli  convicini,  e pigliare la  riputazione  dello  Stato:  dipoi,  domatogli, venne  in  tanto  augumento,  che  la poteva  battere  ciascuno.  Ed  i Latini  non si  avviddono  mai  di  essere  al  tutto  servi, se  non  poi  che  viddono  dare  due  rotte ni  Sanniti,  e costrettigli  ad  accordo.  La (piale  vittoria,  come  ella  accrebbe  gran riputazione  ai  Romani  eoi  principi  longinqui,  clic  mediante  quella  sentirono  il nome  romano  e non  l’armi;  così  generò invidia  e sospetto  in  quelli  che vedevano  e sentivano  l’armi,  intra  i quali  furono  i Latini.  E tanto  potè  questa invidia  e questo  timore,  che  non solo  i Latini,  ma  le  colonie  che  essi  avevano in  Lazio,  insieme  con  i Campani, stati  poco  innanti  difesi,  congiurarono contra  al  nome  romano.  E mossono  questa guerra  i Latini  nel  modo  che  si  dice di  sopra,  che  si  muovono  la  maggior parte  delle  guerre,  assaltando  non  i Romani, ma  difendendo  i Sidicini  contra ai  Sanniti;  a’ quali  i Sanniti  facevano guerra  con  licenza  de’  Romani.  E che  sia vero  che  i Latini  si  movessino  per  avere conosciuto  questo  inganno,  lo  dimostra L.  nello  bocca  di  Annio  Setiuo pretore  latino,  il  quale  nel  consiglio  loro disse  queste  parole  : Nam,  si  ctìam  mine sub  umbra  feederis  cequi  servilutem  pati possumus  ctc.  Yedesi  pertanto  i Romani ne’ primi  augumenti  loro  non  essere mancati  eziam  della  fraude;  la  quale fu  sempre  necessaria  ad  usare  a coloro che  di  piccoli  principii  vogliono  a sublimi gradi  salire  : la  quale  è meno  vituperabile quanto  è più  coperta,  come fu  questa  de’  Romani. XIV.  — Ingannatisi  molte  volle  gli uomini j credendo  con  la  umilila  vincere la  superbia. Vedesi  molle  volte  come  la  umilila  non solamente* non  giova,  ma  nuoce,  massimamente usandola  con  gli  uomini  insolenti, che,  o per  invidia  o per  altra cagione,  hanno  concetto  odio  teco.  Di che  ne  fa  fede  lo  istorico  nostro  in  questa cagione  di  guerra  intra  i Romani ed  i Latini.  Perchè,  dolendosi  i Sanniti con  i Romani,  che  i Latini  gli  avevano assaltati,  i Romani  non  vollono  proibire ai  Latini  tal  guerra,  desiderando  non gli  irritare:  il  che  non  solamente  non gli  irritò,  ma  gli  fece  diventare  più  animosi contro  a loro,  e si  scopersono  più presto  inimici.  Di  che  ne  fanno  fede  le parole  usate  da!  prefato  Annio  pretore
latino  nel  medesimo  concilio,  dove  dice: Tentaslis  patientiam  negando  mililem: (jais  dubitai  cxarsisse  eos ?
Pcrtulerunt (amen  hunc  dolorem.  Excrcitus  nos  parare adversus  Snmnilcs  feederatos  suos audierunl,  ncc  mnverunt  se  ab  urbe. I Inde  hcec  illis  tanta  modestia j,  ni  si  a eonscienlia  virium , et  n os trarum , et suarum?  Conoscesi,  pertanto,  chiarissimo per  questo  testo,  quanto  la  pazienza de’ Romani  accrebbe  P arroganza de’  Latini.  E però,  mai  uno  principe debbe  volere  mancare  del  grado  suo,  e non  debbe  mai  lasciare  alcuna  cosa  d’accordo, volendola  lasciare  onorevolmente, se  non  quando  e’  la  può,  o e’  si  crede che  la  possa  tenere  : perchè  gli  è meglio quasi  sempre,  sendosi  condotta  la cosa  in  termine  che  tu  non  la  possa  lasciare nel  modo  detto,  lasciarsela  torre con  le  forze,  che  con  la  paura  delle forze.  Perchè  se  tu  la  lasci  con  In  paura, lo  fai  per  levarli  la  guerra,  ed  il  più delle  volte  non  te  la  lievi:  perche  colui a chi  tu  arai  con  una  viltà  scoperta concesso  quella,  non  starà  saldo,  rao  ti vorrà  torre  delle  altre  cose,  e si  accenderà più  contra  di  te,  stimandoti  meno; e dall'altra  parte,  in  tuo  favore  troverai i difensori  più  freddi,  parendo  loro che  tu  sia  o debole,  o vile:  ma  se  tu, subito  scoperta  la  voglia  dello  avversario, prepari  le  forze,  ancoraché  le  siano inferiori  a lui.  quello  ti  comincia  a stimare; stimanti  più  gli  altri  principi allo  intorno;  ed  a tale  viene  voglia  di aiutarti,  sendo  in  su  P arme,  che  abbandonandoti non  ti  aiuterebbe  mai. Questo  si  intende  quando  tu  abbia  uno inimico;  ma  quando  ne  avessi  più,  rendere delle  cose  che  tu  possedessi  ad  al  •euno  di  loro  per  riguadagnarselo,  ancoraché fusse  di  già  scoperta  la  guerra, e per  smembrarlo  dagli  altri  confederati  tuoi  inimici,  fia  sempre  partito  prudente. XV.  — Gli  Stati  deboli  sempre fieno  ambigui  nel  risolversi : e sempre le  deliberazioni  lente  sono  nocive.
in  questa  medesima  materia,  ed  in questi  medesimi  principi!  di  guerra  intra i Latini  ed  i Romani,  si  può  notare come  in  ogni  consulta  è bene  venire  allo individuo  di  quello  die  si  ha  a deliberare, e non  stare  sempre  in  ambiguo, nè  in  su  lo  incerto  della  cosa.  Il  che  si vede  manifesto  nella  consulta  che  feciono  i Latini,  quando  c’pensavano  alienarsi da’  Romani.  Perchè  avendo  presentito questo  cattivo  umore  che  ne’  popoli latini  era  entrato,  i Romani,  per  eertificarsi  della  cosa,  c per  vedere  se  potevano senza  mettere  mano  all’arme  riguadagnarsi quelli  popoli,  fecero  loro intendere,  come  e’  mandassero  a Roma otto  cittadini,  perchè  avevano  a consullare  con  loro.  I Latini,  inteso  questo  ed avendo  conscienza  di  molte  cose  fatte centra  alla  voglia  de’  Romani,  fcciono consiglio  per  ordinare  chi  dovesse  ire a Roma,  e dargli  commissione  di  quello ch’egli  avesse  a dire.  E stando  nel  consiglio in  questa  disputa,  Annio  loro  pretore disse  queste  parole:  Ad  sumiuam veruni  nostrarum  pertinerc  arbitrar , ut vogilctis  magis , quid  agendum  nobis, quam  quid  loqucndum  sii.  Facile  crii, cxphcatis  consiliis j accommodarc  rebus nerba.  Sono,  senza  dubbio,  queste  parole verissime,  e debbono  essere  da  ogni principe  e da  ogni  repubblica  gustate  : perchè  nella  ambiguità  e nella  incertit udine  di  quello  che  altri  voglia  fare, non  si  sanno  accomodare  le  parole;  ma fermo  una  volta  1’  animo,  e deliberalo quello  sia  da  eseguire,  è facil  cosa  trovarvi le  parole,  lo  ho  notato  questa parte  più  volentieri,  quanto  io  ho  molte volte  conosciuto  tale  ambiguità  avere nociuto  alle  pubbliche  azioni,  con  danno i*  con  vergogna  della  repubblica  nostra. E sempre  mai  avverrà,  che  ne*  partiti ilubbii,  e dove  bisogni  animo  a deliberargli, sarà  questa  ambiguità,  quando abbino  ad  esser  consigliati  e deliberati da  uomini  deboli.  Non  sono  meno  nocive ancora  le  deliberazioni  lente  e tarde, che  ambigue  ; massime  quelle  che  si hanno  a deliberare  in  favore  di  alcuno amico  : perchè  con  la  lentezza  loro  non si  aiuta  persona,  e nuocesi  a sè  mede- simo. Queste  deliberazioni  così  fatte  procedono o da  debolezza  di  animo  e ili forze,  o da  malignità  di  coloro  che  hanno a deliberare;  i quali,  mossi  dalla  passimi propria  di  volere  rovinare  lo  Stato o adempire  qualche  suo  desiderio,  non lasciano  seguire  la  deliberazione,  ma  la impediscono  e la  attraversano.  Perchè  i buoni  cittadini,  ancora  che  vegghino  una foga  popolare  voltarsi  alla  parte  perniciosa, mai  impediranno  il  deliberare, massime  di  quelle  cose  che  non  aspettano tempo.  Morto  che  fu  Girolamo  liranno  in  Siracusa,  essendo  la  guerra grande  intra  i Cartaginesi  ed  i Romani, vennono  i Siracusani  in  disputa  se  dovevano seguire  V amicizia  romana  o la cartaginese.  E tanto  era  lo  ardore  delle parti,  che  la  cosa  stava  ambigua,  uè  se ne  prendeva  alcuno  partito;  insino  a tanto  che  Apollonide,  uno  de’  primi  in Siracusa,  con  una  sua  orazione  piena di  prudenza,  mostrò  come  non  era  da biasmare  chi  teneva  E oppinione  ili  aderirsi ai  Romani,  nè  quelli  che  volevano seguire  la  parte  cartaginese;  ma  era bene  da  detestare  quella  ambiguità  e tardità  di  pigliare  il  partito,  perchè  vedeva al  tutto  in  tale  ambiguità  la  rovina della  repubblica;  ma  preso  che  si fusse  il  partito,  qualunque  e’  si  fosse,  si poteva  sperare  qualche  bene.  Nè  potrebbe mostrare  più  Tito  Livio  che  si faccia  in  questa  parte,  il  danno  che  si tira  dietro  lo  stare  sospeso.  Dimostralo ancora  in  questo  caso  de’  Latini  : perchè, sendo  i Latini  ricerchi  da  loro gli  stessine  neutrali,  e che  il  re  venendo in  Italia  gli  avesse  a mantenere nello  Stato  e ricevere  in  proiezione:  e dette  tempo  un  mese  alla  città  a ratificarlo. Fu  differita  tale  ratificazione  da chi  per  poca  prudenza  favoriva  le  cose di  Lodovico:  intantoehè,  il  re  già  sendo in  su  la  vittoria,  e volendo  poi  i Fiorentini ratificare , non  fu  la  ratificazione accettata  ; come  quello  che  conobbe i Fiorentini  essere  venuti  forzati,  e non voluntari  nella  amicizia  sua.  Il  che  costò alla  città  di  Firenze  assai  danari,  e fu per  perdere  lo  Stato  : come  poi  altra volta  per  simile  causa  li  intervenne.  E tanto  più  fu  dannabile  quel  partito,  perchè non  si  servi  ancora  il  duca  Lodovico;  il  quale  se  avesse  vinto,  arebbe mostri  molti  più  segni  di  inimicizia  conira ai  Fiorentini,  che  non  fece  il  re.  E benché  del  male  che  nasce  alle  repubbliche di  questa  debolezza  se  ne  sia  di sopra  in  uno  altro  capitolo  discorso; nondimeno,  avendone  di  nuovo  occasione per  un  nuovo  accidente,  ho  voluto  replicarne', parendomi,  massime,  materia che  debba  esser  dalie  repubbliche  simili alla  nostra  notala. XVI.  — Quanto  i soldati  ne’  nostri tempi  si  disformino  dalli  anttcht  ordini. ha  più  importante  giornata  che  fu  mai fatta  in  alcuna  guerra  con  alcuna  nazione dal  Popolo  romano,  fu  questa  che ei  fece  con  i popoli  latini,  nel  consolato di  Torquato  e di  Decio.  Perchè  ogni  ragione vuole,  che  cosi  come  i Latini  per averla  perduta  diventarono  servi,  così sarebbono  stati  servi  i Romani,  quando non  la  avessino  vinta.  E di  questa  oppinone è L.;  perchè  in  ogni parte  fa  gli  eserciti  pari  di  ordine,  di virtù,  di  ostinazione  c di  numero  : solo vi  fa  differenza,  che  i capi  dello  esercito romano  furono  più  virtuosi  che  quelli dello  esercito  latino.  Yedesi  ancora  come nel  maneggio  di  questa  giornata  nacquero duoi  accidenti  non  prima  nati,  e che dipoi  hanno  rari  esempi:  che  de’ duoi Consoli,  per  tenere  fermi  gli  animi de’ soldati,  ed  ubbidienti  al  comandamento loro,  e diliberati  al  combattere, 1’  uno  ammazzò  sè  stesso,  e I’  altro  il figliuolo.  La  parità,  che L.  dice essere  in  questi  eserciti,  era  che,  per avere  militato  gran  tempo  insieme,  erano pari  di  lingua,  d’  ordine  e d’  arme:  perchè nello  ordinare  la  zuffa  tenevano  uno modo  medesimo  $ e gli  ordini  ed  i capi degli  ordini  avevano  medesimi  nomi. Era  dunque  necessario,  sondo  di  pari forze  e di  pari  virtù,  che  nascesse  qualche cosa  istraordinaria,  che  fermasse  e facesse  più  ostinati  gli  animi  dell’  uno che  dell’altro:  nella  quale  ostinazione consiste,  come  altre  volte  si  è detto,  la vittoria;  perchè,  mentre  che  la  dura ne’  petti  di  quelli  che  combattono,  mai non  danno  volta  gli  eserciti.  E perchè la  durasse  più  ne’  petti  de’  Romani  che de’  Latini,  parte  la  sorte,  parte  la  virtù de’  Consoli  fece  nascere,  che  Torquato ebbe  ad  ammazzare  il  figliuolo,  e Decio sè  stesso.  Mostra  Tito  Livio,  nel  mostrare questa  purililà  di  forze,  tutto l’ ordine  che  tenevano  i Romani  nelli eserciti  e nelle  zuffe.  Il  quale  esplicando egli  largamente,  non  replicherò  altrimenti; ma  solo  discorrerò  quello  che  io vi  giudico  notabile,  e quello  che  per  essere negletto  da  tutti  i capitani  di  questi tempi,  ha  fatto  negli  eserciti  e nelle zuffe  di  molti  disordini.  Dico,  adunque, che  per  il  testo  di  Livio  si  raccoglie, come  lo  esercito  romano  aveva  tre  divisioni principali,  le  quali  toscanamente si  possono  chiamare  tre  schiere;  e nominavano la  prima  astati,  la  seconda principi,  la  terza  triarii:  e ciascuna  di queste  aveva  i suoi  cavalli.  Nello  ordinare una  zuffa,  ei  mettevano  gli  astatiinnanzi  ; nel  secondo  luogo,  per  diritto,
dietro  alle  spalle  di  quelli,  ponevano  i principi  ; nel  terzo,  pure  nel  mede»imo filo,  collocavano  i triadi.  I cavalli  di tulli  questi  ordini  gli  ponevano  a destra ed  a sinistra  di  queste  tre  battaglie;  le schiere  de’  quali  cavalli,  dalla  forma  loro e dal  luogo,  si  chiamavano  alce , perchè parevano  come  due  alie  di  quel  corpo. Ordinavano  la  prima  schiera  delli  astati, che  era  nella  fronte,  serrata  in  modo insieme  che  la  potesse  spignere  e sostenere il  nimico.  La  seconda  schiera de’  principi,  perchè  non  era  la  prima a combattere,  ma  bene  le  conveniva  soccorrere alla  prima  quando  fusse  battuta o urtata,  non  la  facevano  stretta,  ma mantenevano  i suoi  ordini  radi,  e di qualità  che  la  potesse  ricevere  in  sè senza  disordinarsi  la  prima,  qualunque volta,  spinta  dal  nimico,  fusse  necessitata ritirarsi.  La  terza  schiera  de*  triadi aveva  ancora  gli  ordini  più  radi  che  la seconda,  per  potere  ricevere  in  sè,  bisognando, le  due  prime  schiere  de’  principi e degli  astati.  Collocate,  dunque, queste  schiere  in  questa  forma,  appiccavano  la  zuffa  : e se  gli  astati  erano sforzati  o vinti,  si  ritiravano  nella  ra-dila degli  ordini  de’  principi  ; e tuttiinsieme  uniti,  fatto  di  due  schiere  un J corpo,  rappiccavano  la  zuffa:  se  questi ancora  erano  ributtati  e sforzati,  si  ritiravano tutti  nella  radila  degli  ordini de*  trioni;  e tutte  tre  le  schiere  diventate un  corpo,  rinnovavano  la  zuffa  : dove  essendo  superati,  per  non  avere più  da  rifarsi,  perdevano  la  giornata. E perchè  ogni  volta  che  questa  ultima schiera  de’  triarii  si  adoperava,  lo  esercito era  in  pericolo,  ne  nacque  quel  proverbio: Res  redacta  est  ad  triarios  ; che ad  uso  toscano  vuol  dire:  Noi  abbiamo messo  I’  ultima  posta.  I capitani  dei  nostri tempi,  come  egli  hanno  abbandonato tutti  gli  altri  ordini,  e della  antica disciplina  ei  non  ne  osservano  parte  alcuna, cosi  hanno  abbandonata  questa parte,  la  quale  non  è di  poca  importanza: perchè  chi  si  ordina  da  potersi nelle  giornate  rifare  tre  volte,  ha  ad avere  tre  volte  inimica  la  fortuna  a volere perdere,  ed  ha  ad  avere  per  riscontro una  virtù  che  sia  atta  tre  volte  a vincerlo.  Ma  chi  non  sta  se  non  in  su  M primo  urto,  come  stanno  oggi  gli  eserciti cristiani,  può  facilmente  perdere  ; perchè  ogni  disordine,  ogni  mezzana virtù  gli  può  torre  la  vittoria.  Quello che  fa  agli  eserciti  nostri  mancare  di potersi  rifare  tre  volte,  è lo  avere  perduto il  modo  di  ricevere  I*  una  schiera uelP  altra.  Il  che  nasce  perchè  al  presente sf  ordinano  le  giornate  con  uno di  questi  duoi  disordini:  o ei  mettono le  loro  schiere  a spalle  P una  delP  altra, e fanno  la  loro  battaglia  larga  per traverso,  e sottile  per  diritto;  il  che  la fa  più  debole,  per  aver  poco  dal  petto alle  schiene.  E quando  pure,  per  farla più  forte,  ei  riducono  le  schiere  per  il verso  de’  Romani,  se  la  prima  fronte  è rotta,  non  avendo  ordine  di  essere  ricevuta dalla  seconda,  s’ ingarbugliano insieme  tutte,  e rompono  sè  medesime: perché  se  quella  dinanzi  è spinta,  ella urta  la  seconda;  se  la  seconda  si  vuol far  innanzi,  ella  è impedita  dalla  prima  : donde  che  urlando  la  prima  la  seconda, e la  seconda  la  terza,  ne  nasce  tanta confusione,  che  spesso  uno  minimo  accidente rovina  uno  esercito.  Gli  eserciti spagnuoli  e franciosi  nella  zuffa  di  Ravenna, dove  mori  monsignor  de  Pois, capitano  delle  genti  di  Prandi  (la  quale fu,  secondo  i nostri  tempi,  assai  bene combattuta  giornata)  s’  ordinarono  con uno  de’ soprascritti  modi;  cioè  clic  l’uno e 1’ altro  esercito  venne  con  tutte  le  sue genti  ordinate  a spalle  : in  modo  che non  venivano’  avere  nè  1’  uno  nè  1’  altro se  non  una  fronte,  ed  erano  assai  più per  il  traverso  cìie  per  il  diritto.  E questo avviene  loro  sempre  dove  egli  hanno la  campagna  grande,  come  gli  avevano a Ravenna  : perché,  conoscendo  il  disordine che  fanno  nel  ritirarsi,  mettendosi per  un  filo,  lo  fuggouo  quando  e’  possono col  fare  la  fronte  larga,  coni’  t detto  ; ma  quando  il  paese  gli  ristringe, si  stanno  nel  disordine  soprascritto, senza  pensare  il  rimedio.  Con  questo medesimo  disordine  cavalcano  per  il paese  inimico,  o se  e’  predano,  o se e’  fanno  altro  maneggio  di  guerra.  Ed a santo  Regolo  in  quel  di  Pisa,  ed  altrove, dove  i Fiorentini  furono  rotti da' Pisani  ne’ tempi  della  guerra  che  fu tra  i Fiorentini  e quella  città,  per  la  sua ribellione  dopo  la  passata  di  Carlo  re di  Francia  in  Italia,  non  nacque  tal  rovina d’ altronde,  clic  dalla  cavalleria amica;  la  quale  sendo  davanti  e ributtata da’  nimici,  percosse  nella  fanteria
fiorentina,  e quella  ruppe  : donde  tutto il  restante  delle  genti  dierono  volta  : e messcr  Ciriaco  dal  Borgo,  capo  antico delle  fanterie  fiorentine,  ha  affermato alla  presenza  mia  molte  volle,  non  essere mai  stato  rotto  se  non  dalla  cavalleria degli  amici.  1 Svizzeri,  che  sono  i maestri  delle  moderne  guerre,  quando ei  militano  coi  Franciosi,  sopra  tulle  le cose  hanno  cura  di  mettersi  in  lato,  che la  cavalleria  amica,  se  fusse  ributtata, non  gli  urti.  E benché  queste  cose paiano  facili  ad  intendere,  e facilissime a farsi;  nondimeno  non  si  è trovato  ancora alcuuo  de’  nostri  contemporanei  capitani, che  gli  antichi  ordini  imiti,  e gli  moderni  corregga.  E benché  gli  abbino ancora  loro  tripartito  lo  esercito, chiamando  1’  una  parte  antiguardo,  l’altra battaglia  e l’altra  retroguardo;  non se  ne  servono  ad  altro  che  a comandargli nelli  alloggiamenti:  ma  nello  adoperargli, rade  volte  è,  come  di  sopra  è detto,  che  a tutti  questi  corpi  non  faccino correre  una  medesima  fortuna.  E perchè  molti,  per  scusare  la  ignoranza loro,  allegano  che  la  violenza  delle  artiglierie non  patisce  che  in  questi  tempi si  usino  molti  ordini  degli  antichi,  vo-glio disputare  nel  seguente  capitolo  que-sta materia,  ed  esaminare  se  le  artiglierie impediscono  che  non  si  possa usare  l’ antica  virtù. XVII.  — Quanto  si  debbino  sii inave  dagli  eserciti  ne'  presenti  tempi le  artiglierie;  e se  quella  oppiatone che  se  ne  ha  in  universale j è vera. Considerando  io,  oltre  alle  cose  soprascritte, quante  zuffe  campali  (chiamate ne’  nostri  tempi,  con  vocabolo francioso,  giornate,  e dagl’  Italiani  fatti d’arme)  furono  fatte  dai  Romani  in  diversi tempi  ; mi  è venuto  in  considerazione la  oppinione  universale  di  molti,  che vuole  che  se  in  quelli  tempi  fussino state  le  artiglierie,  non  sarebbe  stato lecito  a’  Romani,  nè  sì  facile,  pigliare le  provincie;  farsi  tributari  i popoli, come  e’  feciono  ; nè  arebbono  in  alcuno modo  fatti  si  gagliardi  acquisti.  Dicono aiTcora,  che  mediante  questi  instrumenti de’  fuochi,  gli  uomini  non  possono  usare nè  mostrare  la  virtù  loro,  come  e’ potevano anticamente.  E soggiungono  una terza  cosa  : che  si  viene  con  piu  diflìeultà  alle  giornale  che  non  si  veniva allora,  nè  vi  si  può  tenere  dentro  quegli ordini  di  quelli  tempi  ; talché  la guerra  si  ridurrà  col  tempo  in  su  le artiglierie.  E giudicando  non  fuora  di proposito  disputare  se  tali  oppiuioui sono  vere,  e quanto  le  artiglierie  abbino cresciuto  o diminuito  di  forze  agli eserciti,  e se  le  tolgano  o danno  occasione ai  buoni  capitani  di  operare  virtuosamente ; comiucerò  a parlare  quanto alla  prima  loro  oppinione  : che  gli  eserciti antichi  romani  non  arebbono  fatto gli  acquisti  che  feciono,  se  le  artiglierie lussino  state.  Sopra  che,  rispondendo, dico:  come  e’si  fa  guerra  o per  difendersi, o per  offendere;  donde  si  ha  prima ad  esaminare  a quale  di  questi  duoi modi  di  guerra  le  faccino  più  utile,  o più  danno.  E benché  sia  che  dire  fla ogni  parte,  nondimeno  io  credo  che senza  comparazione  faccino  più  danno a chi  si  difende,  che  a chi  offende.  La ragione  che  io  ne  dico  è,  che  quel  che si  difende,  o egli  è dentro  a una  terra, o egli  è in  su’  campi  dentro  ad  uno  steccato. S*  egli  è dentro  ad  una  terra,  o questa  terra  è piccola,  come  sono  la maggior  parte  delle  fortezze,  o la  è grande:  nel  primo  caso,  chi  si  difende è al  tutto  perduto,  perchè  P impeto  delle artiglierie  è tale,  che  non  trova  muro, ancoraché  grossissimo,  che  in  pochi giorni  ei  non  abbatta;  e se  chi  è dentro non  ha  buoni  spazi  da  ritirarsi  c con fossi  e con  ripari,  si  perde;  nè  può  sostenere 1*  impeto  del  nimico  che  volesse dipoi  entrare  per  la  rottura  del  muro, nè  a questo  gli  giova  artiglieria  che avesse:  perchè  questa  è una  massima, che  dove  gli  uomini  in  frotta  e con  impeto possono  andare,  le  artiglierie  non gli  sostengono.  Però  i furori  oltramontani nella  difesa  delle  terre  non  sono sostenuti:  sou  bene  sostenuti  gli  assalti italiani,  i quali  non  in  frolla,  ma  spicciolati si  conducono  alle  battaglie,  le quali  loro,  per  nome  mollo  proprio,
chiamano  scaramuccio.  E qucsli  che vanno  con  questo  disordine  e questa freddezza  ad  una  rottura  d’  un  muro dove  sia  artiglierie,  vanno  ad  una  manifesta morte,  c conira  a loro  le  artiglierie vogliono:  ma  quelli  clic  in  frotta condensati,  e che  runo  spinge  l’altro, vengono  ad  una  rottura,  se  non  sono sostenuti  o da  fossi  o da  ripari,  entrano in  ogni  luogo,  c le  artiglierie  non gli  tengono;  e se  ne  muore  qualcuno, non  possono  essere  tanti  che  gl’  impedischino  la  vittoria.  Questo  esser  vero, si  è conosciuto  in  molte  espugnazioni fatte  dagli  oltramontani  in  Italia,  e mas-
sime in  quella  di  Brescia  : perchè,  sendosi  quella  terra  ribellata  da’  Franciosi, e tenendosi  ancora  per  il  re  di  Francia la  fortezza,  avevano  i Veneziani,  per  sostenere V impeto  che  ila  quella  potesse venire  nella  terra,  munita  tutta  la  strada di  artiglierie  che  dalla  fortezza  alla  città scendeva,  e postane  a fronte  e ne’  fianchi, ed  in  ogni  altro  luogo  opportuno. Delle  quali  monsignor  di  Fois  non  fece alcuno  conto  ; anzi  quello  con  il  suo squadrone,  disceso  a piede,  passando  per il  mezzo  di  quelle,  occupò  la  città,  nè per  quelle  si  sentì  eli’  egli  avesse  ricevuto alcuno  memorabile  danno.  Talché, chi  si  difende  in  una  terra  piccola,  conte è detto,  c trovisi  le  mura  in  terra,  e non  abbia  spazio  di  ritirarsi  con  r ripari e con  fossi,  ed  abbiasi  a fidare  in su  le  artiglierie,  si  perde  subito.  Se  tu difendi  tuta  terra  gronde,  e che  tu  abbia comodità  di  ritirarti,  sono  nondiinanco  senza  comparazione  più  utili  le artiglierie  a chi  è di  fuori,  che  a chi  è dentro.  Prima,  perchè  a volere  che  una artiglieria  nuoca  a quelli  che  sono  di fuora,  tu  sei  necessitato  levarti  con  essa dal  piano  della  terra;  perchè,  stando in  sul  piano,  ogni  poco  di  argine  e di riparo  che  il  nimico  faccia,  rimane  sicuro, e tu  non  gli  puoi  nuocere.  Tanto che  avendoti  ad  alzare,  e tirarti  sul  corridoio delle  mura,  o in  qualunque  modo levarti  da  terra,  tu  ti  tiri  dietro  due difficoltà:  la  prima,  che  non  puoi  condurvi artiglieria  della  grossezza  e della potenza  che  può  trarre  colui  di  fuora, non  si  potendo  ne’  piccoli  spazi  maneggiare le  cose  grandi  ; I’  altra,  che  quando bene  tu  ve  la  potessi  condurre,  tu  non puoi  fare  quelli  ripari  fedeli  e sicuri, per  salvare  detta  artiglieria,  che  possono fare  quelli  di  fuora,  essendo  in  su  M terreno,  ed  avendo  quelle  comodità  e quello  spazio  che  loro  medesimi  vogliono: talmentechè,  gli  è impossibile  a chi difende  una  terra,  tenere  le  artiglierie ne’  luoghi  alti,  quando  quelli  che  soli  di fuora  abbino  assai  artiglierie  e polenti; e se  egli  hanno  a venire  con  essa  ne’ luoghi bassi,  ella  diventa  in  buona  parte inutile,  come  è detto.  Talché  la  difesa della  città  si  ha  a ridurre  a difenderla con  le  braccia,  come  anticamente  si  faceva, e con  la  artiglieria  minuta  : di che  se  si  trae  un  poco  di  utilità  rispetto a quella  artiglieria  minuta,  se  ne  cava incomodità  che  contrappesa  alia  comodità della  artiglieria  ; perchè,  rispetto a quella,. si  riducono  le  mura  delle  terre, basse  e quasi  sotterrate  ne’ fossi:  talché, com’e’  si  viene  alle  battaglie  di mano,  o per  essere  battute  le  mura  o per  essere  ripieni  i fossi,  ha  chi  è dentro molti  più  disavvantaggi  che  non aveva  allora,  E però,  come  di  sopra  si disse,  giovano  questi  instrumenti  molto più  a chi  campeggia  le  terre,  che  a chi è campeggiato.  Quanto  alla  terza  cosa, di  ridursi  in  uno  campo  dentro  ad  uno steccato  per  non  fare  giornata,  se  non a tua  comodità  o vantaggio;  dico  che in  questa  parte  tu  non  hai  più  rimedio ordinariamente  a difenderti  di  non  combattere, che  si  avessino  gli  antichi;  e qualche  volta,  per  conto  delle  artiglierie, hai  maggiore  disavvantaggio.  Per- chè, se  il  nimico  ti  giunge  addosso,  ed abbia  un  poco  di  vantaggio  del  paese, come  può  facilmente  intervenire;  e truovìsi  più  alto  di  te;  oche  nello  arrivare alio  tu  non  abbi  ancora  fatti  i gini,  e copertoli  bene  con  que luto,  e senza  che  tu  abbi  alcun ti  disalloggia,  e sei  forzato  usci fortezze  tue,  e venire  alla  zuffa intervenne  agli  Spagnuoli  nel nata  di  Ravenna*  i quali  essent nili  tra  il  fiume  del  Ronco  ed gine,  per  non  lo  avere  tirato  U che  bastasse,  e per  avere  i Frai poco  il  vantaggio  del  terreno, constretti  dalle  artiglierie  usci fortezze  loro,  e venire  alla  zi dato,  come  il  più  delle  volte  de sere,  che  il  luogo  che  tu  avess con  il  campo  fusse  più  eminenti altri  all’  incontro,  c che  gli  ar; sino  buoni  e sicuri,  tale  che,  r il  sito  e 1’  altre  tue  preparazio miro  non  ardisse  di  assaltarti; in  questo  caso  a quelli  modi  c cainente  si  veniva,  quando  uno il  suo  esercito  in  lato  da  non  pi sere  offeso:  i quali  sono,  co paese,  pigliare  o campeggiare  le  terre tue  amiche,  impedirti  le  vettovaglie; tanto  che  tu  sarai  forzato  da  qualche necessità  a disalloggiare,  e venire  a giornata ; dove  le  artiglierie,  come  di  sotto si  dirà,  non  operano  molto.  Considerato, adunque,  di  quali  ragioni  guerre  feciono i Romani,  e reggendo  come  ei  feciono quasi  tutte  le  lor  guerre  per  offendere altrui,  e non  per  difender  loro;  si  vedrà, quando  sieno  vere  le  cose  dette  di sopra,  come  quelli  arebbono  avuto  più
vantaggio,  e piu  presto  arebbono  fatto i loro  acquisti,  se  le  fussino  state  in quelli  tempi.  Quanto  alla  seconda  cosa, che  gli  uomini  non  possono  mostrare la  virtù  loro,  come  ei  potevano  anticamente, mediante  la  artiglieria  ; dico eh’  egli  è vero,  che  dove  gli  uomini spicciolati  si  hanno  a mostrare,  eh’  e’ portano  più  pericoli  che  allora,  quandoavessino  a scalare  una  terra,  o fare  simili assalti,  dove  gli  uomini  non  ristretti insieme,  ma  di  per  sè  1’  uno  dall’  altro avessiuo  a comparire.  E vero die  gli  capitoni  e capi  degli stanno  sottoposti  più  al  perii! morte  che  allora,  potendo  esser con  le  artiglierie  in  ogni  lu giova  loro  lo  essere  nelle  ultii «Ire,  e muniti  di  uomini  fortissi dimeno  si  vede  che  P uno  c P questi  duoi  pericoli  fanno  ra danni  istraordinari  : perchè munite  bene  non  si  scalano,  i con  assalti  deboli  ad  assaltarh volerle  espugnare,  si  riduce  la una  ossidionc,  come  anticamen ceva.  Ed  in  quelle  clic  pure  pe si  espugnano,  non  sono  molto i pericoli  che  allora:  perchè  n cavano  anche  in  quel  tempo  a fendeva  le  terre,  cose  da  trarre se  non  erano  si  furiose,  facevam all’ ammazzare  gli  uomini,  *il  s fello.  Quanto  alla  morte  de’ci de’  condottieri,  ce  ne  sono,  in  v tro  anni  che  sono  state  le  guerre simi  tempi  in  Italia,  meno  esempi,  che non  era  in  dieci  anni  di  tempo  appresso agii  antichi.  Perchè,  dal  conte  Lodovico della  Mirandola,  che  morì  a Ferrara quando  i Veniziani  pochi  anni  sono  as- saltarono quello  Stato,  ed  il  Duca  di Nemors,  che  morì  alla  Ciriguuola,  in fuori;  non  è occorso  che  d’artiglierie ne  sia  morto  alcuno;  percdiè  monsignor di  Pois  a Ravenna  mori  di  ferro,  e non di  fuoco.  Tanto  che,  se  gli  uomini  non dimostrano  particolarmente  la  loro  virtù, nasce  non  dalle  artiglierie,  ma  dai  cattivi ordini,  e dalla  debolezza  degli  eserciti; i quali,  mancando  di  virtù  nel tutto,  non  la  possono  dimostrare  nella parte.  Quanto  alla  terza  cosa  detta  da costoro,  che  non  si  possa  venire  alle mani,  fc  che  la  guerra  si  condurrà  tutta in  su  P artiglierie,  dico  questa  oppinione essere  al  tutto  falsa;  e così  ila  sempre tenuta  da  coloro  che  secondo  P antica virtù  vorranno  adoperare  gli  eserciti loro.  Perchè,  chi  vuole  fare  uno  esercito buono,  gli  conviene,  con  eser<o veri,  assuefare  gli  uomini  scostarsi  al  nimico,  e venire  cmenare  della  spada,  e al  pig
il  petto;  e si  debbe  fondare  ile  fanterie  clic  in  su’  cavagli, gioni  che  di  sotto  si  diranno, si  fondi  in  su  i fanti  ed  in  i predetti,  diventano  al  tutto  le inutili;  perchè  con  più  facilit terie  nello  accostarsi  al  nimict fuggire  il  colpo  delle  artiglieri) potevano  anticamente  fuggire degli  elefanti,  de’ carri  falcati riscontri  inusitati,  clic  le  farmane  riscontrarono  ; contra sempre  trovarono  il  rimedio: più  facilmente  lo  arebbono  tr<tra  a queste,  quanto  egli  è pi tempo  nel  quale  le  artiglierie  i nuocere,  che  non  era  quello potevano  nuocere  gli  elefanti  < Perchè  quelli  nel  mezzo  delb disordinavano;  queste  solo  in zuffa  (i  Spediscono:  il  quale  impedìmento  facilmente  le  fanterie  fuggono,  o con  andare  coperte  dalla  natura  del  sito, o con  abbassarsi  in  su  la  terra  quando le  tirano.  11  che  unclie  per  esperienza si  è visto  non  essere  necessario,  massime per  difendersi  dalle  artiglierie grosse  ; le  quali  non  si  possono  in  modo bilanciare,  o che  se  le  vanno  alte  le  non ti  truovino,  o che  se  le  vanno  basse  le non  ti  arrivino.  Venuti  poi  gli  eserciti alle  mani,  questo  è più  chiaro  che  la luce,  che  nè  le  grosse  nè  le  piccole  ti possono  poi- offendere:  perchè,  se  quello che  ha  1’  artiglierie  è davanti,  diventa tuo  prigione;  s’ egli  è dietro,  egli  offende prima  1’  amico  che  te;  a spalle ancora  non  ti  può  ferire  in  modo  che tu  non  lo  possa  ire  a trovare,  e ne  viene a seguitare  l’effetto  detto.  Nè  questo ha  molta  disputa  ; perchè  se  ne  è visto l’essempio  de’ Svizzeri,  i quali  a Novara, nel  4513,  senza  artiglierie  e senza cavagli,  andarono  a trovare  lo  esercito francioso  munito  di  artiglierie alle  fortezze  sue,  e Io  ruppon aver  alcuno  impedimento  da  q la  ragione  è,  oltre  alle  cose sopra,  clic  l’artiglieria  ha  biso sere  guardata,  a volere  che  la da  mura  o da  fossi  o da  argini gli  manca  una  di  queste  guani prigione,  o la  diventa  inutile  : interviene  quando  la  si  ha  a e con  gli  uomini;  il  che  gli  ii nelle  giornate  e zuffe  campali.  P le  non  si  possono  adoperare,  s quel  modo  che  adoperavano  gl gli  instrumenti  da  trarre;  che levano  fuori  delle  squadre,  p comhatlessino  fuori  dell i ordini volta  che  o da  cavalleria  o erano  spinti,  il  refugio  loro  er alle  legioni.  Chi  altrimenti  ne  ! non  la  intende  bene,  e fidasi  s< cosa  che  facilmente  lo  può  in E se  il  Turco,  mediante  l’ ar conila  al  Sofi  ed  il  Soldauo  h vittoria,  è nato  non  per  altra  virtù  di quella,  che  per  lo  spavento  elle  lo  inusitato roraore  messe  nella  cavalleria  loro. Conchiuggo  pertanto,  venendo  al  fine  di questo  discorso,  l’  artiglieria  essere  utile in  uno  esercito  quando  vi  sia  mescolata l’antica  virtù;  ma  senza  quella,  contea a uno  esercito  virtuoso  è inutilissima. XVIII.  — Come  per  V autorità  de’ Romani j c per  lo  cssempio  della  antica milizia,  si  debbe  stimare  più  lè  fanterie che  i cavagli.
E’  si  può  per  molte  ragioni  e per  molti essempi  dimostrare  chiaramente,  quanto i Romani  in  tutte  le  militari  azioni  stimassino  più  la  milizia  a piè  che  a cavallo, e sopra  quella  fondassino  tutti  i disegni  delle  forze  loro:  come  si  vede per  molti  essempi,  ed  infra  gli  altri, quando  si  azzuffarono  con  i Latini  appresso il  lago  Regiilo;  dove  già  essendo inclinato  lo  esercito  romano,  per  soccorrere  ai  suoi  fecero  discenti uomini  da  cavallo  a piede,  e f via,  rinnovata  la  zuffa,  ebbon< toria.  Dove  si  vede  manifeste Romani  avere  più  confidato  in scudo  a piede,  che  manleneiu vallo.  Questo  medesimo  termini in  molte  altre  zuffe,  e sempre rono  ottimo  rimedio  in  gli  lort Nè  si  opponga  a questo  la  < di  Annibaie,  il  quale  veggendo  i nata  di  Canne,  che  i Consoli fatto  discendere  a piè  gli  loro facendosi  belle  di  simile  parti Quatti  tnallem  vinclos  milii cquilcs  ; cioè:  io  arci  più  car gli  dessino  legati.  La  quale  < ancoraché  la  sia  stata  in  bo uomo  eccellentissimo,  nondimt ha  a ire  dietro  alla  autorità, più  credere  ad  una  Repubblicf e a tanti  Capitani  eccellentissin rono  in  quella,  che  ad  uno  s<baie:  ancoraché  senza  le  auto siano  ragioni  manifeste.  Perchè  1’  uomo
a piede  può  andare  in  molti  luoghi,  dove uon  può  andare  il  cavallo;  puossi  insegnarli servare  1'  ordine,  e turbato  che fusse,  come  e’ lo  abbia  a riassumere: a’ cavagli  è diffìcile  fare  servare  l’ordine, ed  impossibile,  turbati  che  sono, riordinargli.  Olirà  di  questo,  si  trova, come  negli  uomiui,  de’  cavagli  che  kanno poco  animo,  e di  quelli  che  ne  hanno assai:  e molte  volte  interviene  che  un cavallo  animoso  è cavalcato  da  un  uomo vile,  ed  uno  cavallo  vile  da  uno  animoso; ed  in  qualunque  modo  che  segua questa  disparità,  ne  nasce  inutilità  e di- sordine. Possono  le  fanterie  ordinate  facilmente rompere  i cavagli,  e difficilmente esser  rotte  da  quelli.  La  quale oppinione  è corroborata,  oltre  a molti essempi  antichi  e moderni,  dalla  autorità di  coloro  che  danno  delle  cose  civili regola  : dove  mostrano  come  in  prima le  guerre  si  cominciarono  a fare con  i cavagli,  perchè  non  era  ancora 1’ onlinc  delle  fanterie;  ma  coi si  ordinarono,  si  conobbe  subi loro  erano  più  utili,  che  quell per  questo  però  che  i cavalli  i necessari  negli  eserciti,  e per perle,  e per  scorrere  e predai per  seguitare  i nimici  quando in  fuga,  c per  essere  ancora una  opposizione  ai  cavagli  dej. sari:  ma  il  fondamento  e il  n l’esercito,  c quello  chesi  debl mare,  debbono  essere  le  fan infra  i peccali  de* principi  ita1 hanno  fatto  Italia  serva  de’  I n q ii  ci  è il  maggiore,  clic  ave poco  conto  di  questo  ordine, volto  tutta  la  loro  cura  alla cavallo.  Il  quale  disordine  è na malignità  de* capi,  e per  la  ign coloro  che  tenevano  stato.  Pere dosi  ridotta  la  milizia  italiana, ticinque  anni  indietro,  in  uo non  avevano  stato,  ma  erano  < pitali!  di  ventura,  pcusorono  s me  polessino  mantenersi  la  riputazione stando  armati  loro,  e disarmati  i principi. E perchè  uno  numero  grosso  di fanti  non  poteva  loro  essere  continuamente pagato,  e non  avendo  sudditi  da poter  valersene,  ed  uno  piccolo  numero non  dava  loro  riputazione,  si  volgono  a tenere  cavagli  : perchè  dugcnto  o trecento cavalli  che  erano  pagati  ad  uno condottiere,  lo  mantenevano  riputato;  ed il  pagamento  non  era  tale,  che  dagli uomini  che  tenevano  stato  non  potesse essere  adempiuto.  E perchè  questo  seguisse più  facilmente,  e per  mantenersi più  in  riputazione,  levarono  tutta  l’ affezione e la  riputazione  da’  fanti,  e ridussonla  in  quelli  loro  cavalli:  e in  tanto crebbono  questo  disordine,  che  in  qualunque grossissimo  esercito  era  una  minima parte  di  fanteria.  La  quale  usanza fece  in  modo  debole,  insieme  con  molti altri  disordini  che  si  mescolarono  con quella,  questa  milizia  italiana,  che  questa provincia  è stata  facilmente  calpesta  (ia  tutti  gii  oltramontani.  >più  apertamente  questo  errore, mare  più  i cavalli  che  le  fantei uno  altro  essempio  romano.  E Romani  a campo  a Sora,  ed  i usciti  fuori  della  terra  una  tu cavalli  per  assaltare  il  campo, fece  all’  incontro  il  Maestro  de romano  con  la  sua  cavalleria,  e di  petto,  la  sorte  dette  che  nel scontro  i capi  dell’  uno  e dell’ alti
cito  morirono;  e restali  gli  alti*governo,  e durando  nondimeno  I i Romani  per  superare  più  fac lo  inimico,  scesono  a piede,  e cc sono  i cavalieri  nimici,  se  si  voi fendere,  a fare  il  simile:  e co questo,  i Romani  ne  riportarom toria.  Non  può  esser  questo  eì maggiore  in  dimostrare  quanto virtù  nelle  fantericche  ne’ cavag che  se  nelle  altre  fazioni  i Con cevano  discendere  i cavalieri  i era  per  soccorrere  alle  fanterie  i tivano,  e che  avevano  bisogno  ili  aiuto; ma  in  questo  luogo  e’  discesono,  non  per soccorrere  alle  fanterie  nè  per  eombattere  con  uomini  a piè  de’  nimici,  ma combattendo  a cavallo  co’ cavalli,  giudicareno,  non  potendo  superargli  a cavallo, potere  scendendo  più  facilmente vincergli.  Io  voglio  adunque  conchiudere,  che  una  fanteria  ordinata  non  possa senza  grandissima  diffìcultà  esser  superata,  se  non  da  una  altra  fanteria. Crasso  e Marc’  Antonio  romani  corsone per  il  dominio  de’  Parti  molte  giornate con  pochissimi  cavalli  ed  assai  fanteria, ed  all’  incontro  avevano  innumerabili cavalli  de’  Parti.  Crasso  vi  rimase  con parte  dello  esercito  morto.  Marc’  Antonio virtuosamente  si  salvò.  Nondimanco, in  queste  afflizioni  romane  si  vede  quanto le  fanterie  prevalevano  ai  cavalli  : perchè essendo  in  un  paese  largo,  dove  i monti  son  radi,  ed  i fiumi  radissimi,  le marine  longinque,  e discosto  da  ogni  comodità; nondimanco  Marc’ Antonio,  al giudicio  de’  Parti  medesimi, mente  si  salvò;  nè  mai  ebbe tutta  la  cavalleria  pnrtica  te ordini  dello  esercito  suo.  Se rimase,  chi  leggerà  bene  le  s vedrà  come  e’  vi  fu  piuttosto che  forzato:  nè  mai,  in  tutti sordini,  i Parti  ardirono  di  uri sempre  andando  costeggiando pedendogli  le  vettovaglie,  prò gli  e non  gli  osservando,  lo  et od  una  estrema  miseria.  Io avere  a durare  più  fatica  in  p quanto  la  virtù  delle  fanterie lente  ebe  quella  de’ cavalli,  : fussino  assai  moderni  essenv rendono  testimonianza  pieniss è veduto  novemila  Svizzeri  i da  noi  di  sopra  allegata,  and frontale  diecimila  cavalli  ed fanti,  e vincergli:  perchè  i cf li  potevano  offendere:  i fanti,  ] gente  in  buona  parte  guascoi ordinata,  stimavano  poco.  Yi ventiseimila  Svizzeri  andare  a trovare sopra  Milano  Francesco  re  di  Francia, che  aveva  seco  ventimila  cavalli,  qua-♦ rantamila  fanti  e cento  carra  d’artiglieria ; e se  non  vinsono  la  giornata come  a Novara,  combatterono  due  giorni virtuosamente;  e dipoi,  rotti  che  furono, la  metà  di  loro  si  salvarono.  Presunse Marco  Regolo  Attilio,  non  solo  con  la  fanteria sua  sostenere  i cavalli,  ma  gli  elefanti; e se  il  disegno  non  gli  riuscì, non  fu  però  che  la  virtù  della  sua  fanteria non  fusse  tanta,  che  ei  non  confidasse tanto  in  lei  che  credesse  superare quella  difficoltà.  Replico,  pertanto, che  a voler  superare  i fanti  ordinati,  è necessario  opporre  loro  fanti  meglio  ordinati di  quelli:  altrimenti,  si  va  ad  una perdita  manifesta.  Ne’ tempi  di  Filippo Visconti,  duca  di  Milano,  scesouo  ili Lombardia  circa  sedicimila  Svizzeri: donde  il  Duca  avendo  per  capitano  allora il  Carmignuola,  lo  mandò  con  circa mille  cavalli  e pochi  fanti  allo  incontro loro.  Costui  non  sappiendo  1*  01 combatter  loro,  ne  andò  ad  inc< con  i suoi  cavalli,  presu  me  nd( subito  rompere.  Ma  trovatogli  i avendo  perduti  molti  de’  suoi  u ritirò  : ed  essendo  valentissimo sappiendo  negli  accidenti  nuovi nuovi  partiti,  rifattosi  di  gente a trovare;  e venuto  loro  all’i fece  smontare  a piè  tutte  le  s d’  arme,  e fatto  testa  di  quelle fanterie,  andò  ad  investire  i S quali  non  ebbono  alcun  rimet chè,  sendo  le  genti  d’arme  de gnuola  a piè  e bene  armate, facilmente  entrare  infra  gli  01 Svizzeri,  senza  patire  alcuna  lei entrati  tra  questi,  poterono-  fu offendergli:  talché  di  tutto  il  ni quelli,  ne  rimase  quella  parte per  umanità  del  Carmignuola servata.  Io  credo  che  molti  co questa  differenza  di  virtù  che I’  uno  e 1’  altro  di  questi  ordir: tanta  la  infelicità  di  questi  tempi,  che nè  gli  essempi  antichi  nè  i moderni,  nè la  confessione  dello  errore  è sufficiente a fare  che  i moderni  principi  si  rav-vegghino  ; e pensino  che  a volere  ren-dere riputazione  alla  milizia  d’  una  pro-vincia o d’  uno  Stato,  sia  necessario  ri-suscitare questi  ordini,  tenergli  appresso,dar  loro  riputazione,  dar  loro  vita,  ac-ciocché a lui  e vita  c riputazione  ren-dino.  E come  e’diviano  da  questi  modi,così  diviano  dagli  altri  modi  detti  disopra  : onde  ne  nasce  che  gli  acquistisono  a danno,  non  a grandezza  d’uno Stato,  come  di  sotto  si  dirà. Che  gli  acquisii  nelle  re-pubbliche non  bene  ordinate  e che
secondo  la  romana  virtù  non  procedono, sono  a rovina,  non  a esalta-
zione di  esse. Queste  contrarie  oppinioni  alla  verità, fondale  in  su’  mali  essempi  che  da  que-sti  nostri  corrotti  secoli  sono  stati  in-trodotti, fanno  che  gli  uomini  non  pen-sano a limare  dai  consueti  modi.  Quandosi  sarebbe  potuto  persuadere  a uno  ita-liano da  trenta  anni  in  dietro,  che  die-cimila fanti  potessino  assaltare  in  uiipiano  diecimila  cavalli  ed  altrettanli, fanti, e con  quelli  non  solamente  combattere,ina  vincergli;  come  si  vede  per  lo  essempio  da  noi  più  volle  allegato,  a Novara? E benché  le  istorie  ne  siano  piene, /amen  non  ci  arebbero  prestato  fede; e se  ci  avessero  prestato  fede,  arebbero detto  che  in  questi  tempi  s’arma meglio,  e che  una  squadra  d’  uomini d’arme  sarebbe  atta  ad  urtare  uno  scoglio, non  che  una  fanteria:  e così  conqueste  false  scuse  corrompevano  il  giudizio loro;  nè  arebbero  considerato,  che Lucullo  con  pochi  fanti  ruppe  cento  cinquanta mila  cavalli  di  Tigrane;  e che tra  quelli  cavalieri  era  una  sorte  di  cavalleria simile  al  tutto  agii  uomini  d’arme nostri:  c così  questa  fallacia  è stata  scoperla  dallo  essempio  delle  genti  oltramontane. E come  e’ si  vede  per  quello essere  vero,  quanto  alla  fanteria,  quello che  nelle  istorie  si  narra;  così  doverrebbero  credere  esser  veri  ed  utili  tutti  gli altri  ordini  antichi.  E quando  questo  fusse credulo,  le  repubbliche  ed  i principi  er rerebbero meno;  sariano  più  forti  ad  op-porsi ad  uno  impeto  che  venisse  loro  ad-dosso; non  spererebbero  nella  fuga:  e quelli  che  avessino  nelle  mani  un  vivere civile,  Io  saperebbero  meglio  indirizzare, o per  la  via  dello  ampliare,  o per  la via  del  mantenere;  e crederebbero  che lo  accrescere  la  città  sua  d’  abitatori, farsi  compagni  e non  sudditi,  mandare colonie  a guardare  i paesi  acquistati, far  capitale  delle  prede,  domare  il  nimico con  le  scorrerie  e con  le  giornate e non  con  le  ossidioni,  tenere  ricco  il pubblico,  povero  il  privato,  mantenere con  sommo  studio  li  esercizi  militari, sono  le  vie  a fhre  grande  una  repubblica, ed  acquistare  imperio.  E quando questo  modo  dello  ampliare  non  gli  piacesse, penserebbe  che  gli  acquisti  per ogni  altra  via  sono  la  rovina  delle  repubbliche, e porrebbe  freno  ad  ogni ambizione;  regolando  bene  la  sua  città dentro  con  le  leggi  e co’ costumi,  proi- bendogli r acquistare  e solo  pensando  a difendersi,  e le  difese  tenere  ordinate bene:  come  fanno  le  repubbliche  della Magna,  le  quali  in  questi  modi  vivono e sono  vi v ute  libere  un  tempo.  Nondi- meno, come  altra  volta  dissi  quando  di- scorsi la  differenza  che  era  da  ordinarsi per  acquistare  a ordinarsi  per  mante- nere; è impossibile  che  ad  una  repubblica riesca  lo  stare  quieta,  c godersi  la sua  libertà  e gli  pochi  confini:  perchè, se  lei  non  molesterà  altrui,  sarà  molestata ella  ; e dallo  essere  molestata  le nascerà  la  voglia  e la  necessità  dello acquistare;  c quando  non  avesse  il  nimico fuora,  lo  troverebbe  in  casa  : come pare  necessario  intervenga  a tutte  le grandi  cittadi.  b se  le  repubbliche  della Magna  possono  vivere  loro  in  quel  modo, ed  hanno  potuto  durare  un  tempo; nasce  da  certe  condizioni  che  sono  in quel  paese,  le  quali  non  sono  altrove, - senza  le  quali  non  potrebbero  tenere  simil  modo  di  vivere.  Era  quella  parte della  Magna  di  che  io  parlo,  sottoposta allo  imperio  romano  come  la  Francia  e la  Spagna:  ma  venuto  dipoi  in  declinazione 1*  imperio,  e ridottosi  il  titolo  di tale  imperio  in  quella  provincia,  comin-ciarono quelle  ciltadi  più  potenti,  se-condo la  viltà  o necessità  degFimpera-dori,  a farsi  libere,  ricomperandosi  dallo imperio,  con  riservargli  un  piccolo  censo annuario;  tanto  che,  a poco  a poco, tutte  quelle  cittadi  che  erano  immediate dello  imperadore,  e non  erano  soggette ad  alcuno  principe,  si  sono  in  simil  modo ricomperate.  Occorse  in  questi  medesi- mi tempi  che  queste  cittadi  si  ricomperavano, che  certe  comunità  sottoposte  al duca  d’Austria  si  ribellarono  da  lui;  tra le  quali  fu  Filiborgo,  c Svizzeri,  e si- mili  ; le  quali  prosperando  nel  principio, pigliarono  a poco  a poco  tanto  augumento,  che,  non  che  e’sieno  tornati  sotto il  giogo  d’  Austria,  sono  in  timore  a tutti  i loro  vicini:  e questi  sono  quelli che  si  chiamano  Svizzeri.  É,  adunque, questa  provincia  compartita  in  Svizzeri, repubbliche  (che  chiamano  terre  franche), principi  ed  imperadore.  E la  cagione che,  intra  tante  diversità  di  vivere, non  vi  nascono,  o,  se  le  vi  nascono,  non vi  durano  molto  le  guerre,  è quel  segno dell’ imperadore  ; il  quale,  avvenga  che non  abbi  forze,  nondimeno  ha  fra  loro tanta  riputazione,  eli’  egli  è uno  loro
conciliatore,  e con  T autorità  sua,  interponendosi come  mezzano,  spegne  subito ogni  scandalo.  E le  maggiori  e le  più lunghe  guerre  vi  siano  state,  sono  quelle che  sono  seguite  intra  i Svizzeri  ed  il duca  d’Austria;  e benché  da  molti  anni in  qua  lo  imperadore  ed  il  duca  d’Austria  sia  una  cosa  medesima,  non  per tanto  non  ha  mai  potuto  superare  l’audacia  ilei  Svizzeri,  dove  non  è mai  stato modo  d’accordo,  se  non  per  forza.  Nè il  resto  della  Magna  gli  ha  porti  molti aiuti;  sì  perchè  le  comunità  non  sanno offendere  chi  vuole  vivere  libero  come loro  ; sì  perchè  quelli  principi,  parte non  possono  per  esser  poveri,  parte  non vogliono  per  avere  invidia  alla  potenza sua.  Possono  vivere,  adunque,  quelle comunità  contente  del  piccolo  loro  dominio, per  non  avere  cagione,  rispetto aii’dulorità  imperiale,  di disiderarlo  maggiore: possono  vivere  unite  dentro  alle mura  loro,  per  aver  il  nimico  propinquo, e.  che  piglierebbe  1’  occasione  d’-oc-euparle,  qualunque  volta  le  discordassino. Che  se  quella  provincia  fusse  condizionata altrimenti,  converrebbe  loro  cercare d’  ampliare  e rompere  quella  loro quiete.  E perchè  altrove  non  sono  tali condizioni,  non  si  può  prendere  questo modo  di  vivere;  e bisogna  o ampliare per  via  di  leghe,  o ampliare  come  i Romani. E ehi  si  governa  altrimenti,  cerca non  la  sua  vila,  ma  la  sua  morte  e rovina: perchè  in  mille  modi  e per  molte cagioni  gli  acquisii  sono  dannosi;  perchè gli  sta  molto  bene  insieme  acquistare imperio,  c non  forze;  e chi  acquista imperio  e non  forze  insieme,  conviene che  rovini.  Non  può  acquistare  forze  chi impoverisce  nelle  guerre,  ancora  che  sia vittorioso;  che  ei  mette  più  che  non trae  degli  acquisti:  come  hanno  fatto  i Veniziani  ed  i Fiorentini,  i quali  sono stati  molto  più  deboli,  quando  V uno aveva  la  Lombardia  e V altro  la  Toscana, che  non  erano  quando  1’  uno  era  contento del  mare,  e V altro  di  sei  .miglia di  confini.  Perchè  tutto  è nato  da  avere voluto  acquistare,  e non  avere  saputo pigliare  il  modo;  e tanto  più  meritano biasimo,  quanto  egli  hanno  meno  scusa, avendo  veduto  il  modo  hanno  tenuto  i Romani,  ed  avendo  potuto  seguitare  il loro  essempio,  quando  i Romani,  senza alcuno  essempio,  per  la  prudenza  loro, da  loro  medesimi  lo  seppono  trovare. Fanno,  oltra  di  questo,  gli  acquisti  qualche volta  non  mediocre  dauuo  ad  ogni bene  ordinata  repubblica,  quando  e’ si acquista  una  città  o una  provincia  piena di  delizie,  dove  si  può  pigliare  di  quelli costumi  per  la  conversazione  che  si  ha con  quelli:  come  intervenne  a Roma, prima,  nello  acquisto  di  Capova;  e dipoi, ad  Annibale.  E se  Capova  fusse stata  più  longinqua  dalla  città,  che  lo errore  de*  soldati  non  avesse  avuto  il rimedio  propinquo;  o che  Roma  fusse stata  in  alcuna  parte  corrotta;  era  senza dubbio  quello  acquisto  la  rovina  della Repubblica  romana.  E L.  fa  fede di  questo  con  queste  parole:  Jam  lune minime  salubris  militari  disciplina  Capita j instrumentum  omnium  nolupta- tunij  dclinitos  militimi  animos  avertit  a memoria  patria,  E veramente,  simili città  o provincie  si  vendicano  contra  al vincitore  senza  zuffa  e senza  sangue  ; perchè,  riempiendoli  de’  suoi  tristi  co- stumi, gli  espongono  ad  essere  vinti  da
 qualunque  gli  assalta.  E Iuvenale  non potrebbe  meglio,  nelle  sue  salire,  aver considerata  questa  parte,  dicendo:  thè nei  petti  romani  per  gli  acquisti  delle terre  peregrine  erano  intrati  i costumi peregrini  ; ed  in  cambio  di  parsimonia e di  altre  eccellentissime  virtù,  gala  et luxuria  incubuitj  victumque  ulciscìtur orbem.  Se,  adunque,  V acquistare  fu  per esser  perniziosi  ai  Romani  nei  tempi che  quelli  con  tanta  prudenza  e tanta virtù  procedevano,  che  sarà  adunque  a quelli  che  discosto  dai  modi  loro  pro- cedono ? e che,  oltre  agli  altri  errori che  fanno,  di  che  se  ne  è di  sopra  di- scorso assai,  si  vagliono  dei  soldati  o mercenari  o ausiliari  ? Donde  ne  risulta loro  spesso  quei  danni  di  che  nel  se- guente capitolo  si  farà  menzione. Gap.  XX.  — Quale  pericolo  porti  quel principe  o quella  repubblica  che  si vale  della  milizia  ausiliare  o merce- naria. Se  io  non  avessi  lungamente  trattato in  altra  mia  opera,  quanto  sia  inutile la  milizia  mercenaria  ed  ausiliare,  e quanto  utile  la  propria,  io  mi  disten-derei in  questo  discorso  assai  più  clic non  farò  ; ma  avendone  altrove  parlato a lungo,  sarò  in  questa  parte  brieve. Nè  mi  è paruto  in  tutto  da  passarla, avendo  trovato  in  L.,  quanto  ai soldati  ausiliari,  sì  largo  essempio  ; per- chè  soldati  ausiliari  sono  quelli  che  un principe  o una  repubblica  manda,  capitanati c pagati  da  lei,  in  tuo  aiuto. E venendo  al  testo  di  L.,  dico che,  avendo  i Romani,  in  diversi  luoghi, rotti  due  eserciti  de’  Sanniti  con  li  eserciti loro,  i quali  avevano  mandati  al  soccorso de*  Capovani;  e per  questo  liberi i Capovani  da  quella  guerra  ehe  i Sanniti facevano  loro;  e volendo  ritornare verso  Roma;  ed  acciò  che  i Capovani, spogliati  di  presidio,  non  diventassino di  nuovo  preda  dei  Sanniti;  lasciarono due  legioni  nel  paese  di  Capova,  che  gli difendesse.  Le  quali  legioni  marcendo nell*  ozio,  cominciarono  a dilettarsi  in quello;  tanto  che,  dimenticata  la  patria e la  riverenza  del  Senato,  pensarono  di- prendere T armi,  ed  insignorirsi  di  quel paese  che  loro  con  la  loro  virtù  avevano difeso,  parendo  loro  che  gli  abitatori non  fussino  degni  di  possedere  quelli beni  che  non  sapevano  difendere.  La qual  cosa  presentita,  fu  dai  Romani  op- pressa e corretta:  come,  dove  noi  par- leremo delle  congiure,  largamente  si mostrerà.  Dico  pertanto  di  nuovo,  come di  tutte  V altre  qualità  di  soldati,  gli ausiliari  sono  i più  dannosi.  Perchè  in essi  quel  principe  o quella  repubblica che  gli  adopera  in  suo  aiuto,  non  ha autorità  alcuna,  ma  vi  ha  solo  V autorità colui  che  li  manda.  Perchè  i soldati  au- siliari sono  quelli  che  ti  sono  mandati da  un  principe,  come  ho  detto,  sotto suoi  capitani,  sotto  sue  insegne  e pagati da  lui:  come  fu  questo  esercito  che  i Romani  mandarono  a Capova.  Questi tali  soldati,  vinto  eh’  egli  hanno,  il  piùdelle  volte  predano  così  colui  che  gli  hacondotti,  come  colui  contea  a chi  e’  sonocondotti  ; e lo  fanno  o per  malignità  delprincipe  che  gli  manda,  o per  ambizionloro.  E benché  la  intenzione  de’ Romaninon  fusse  di  rompere  1’  accordo  e leconvenzioni  che  avevano  fatte  coi  Capo-vani; nondimeno  la  facilità  che  parevaa quelli  soldati  di  opprimergli  fu  tanta,che  gli  potette  persuadere  a pensare  ditorre  ai  Capovani  la  terra  e lo  stato.Potrebbesi  di  questo  dare  assai  essempi;ma  voglio  mi  basti  questo,  e quello  deiRegini,  ai  quali  fu  tolto  la  vita  e laterra  da  una  legione  che  i Romani  viavevano  messa  in  guardia.  Debbe,  adun-que, un  principe  o una  repubblica  pi-gliare  prima  ogni  altro  partilo,  che  ri-correre a conti  aì  re  nello  Stato  suo  persua  difesa  genti  nusiliarie,  quando  eis’ abbia  a fidare  sopra  quelle  ; perchèogni  patto,  ogni  convenzione,  ancora  chedarà,  di’  egli  arà  col  nemico,  gli  saràpiù  leggieri  che  tal  partito.  E se  si  leg-geranno bene  le  cose  passate,  c diseor-rerannosi  le  presenti,  si  troverà,  peruno  che  n’abbia  avuto  buon  fine,  infi-niti esser  rimasi  ingannati.  Ed  uno  prin-cipe o una  repubblica  ambiziosa  nonpuò  avere  la  maggiore  occasione  di  oc-cupare una  città  o una  provincia,  cheesser  richiesto  che  mandi  gli  esercitisuoi  alla  difesa  di  quella.  Pertanto,  co-lui che  è tanto  ambizioso  che,  non  so-lamente per  difendersi  ma  per  offenderealtri,  chiama  simili  aiuti,  cerca  d’acqui-stare quello  che  non  può  tenere,  e cheda  quello  che  gliene  acquista  gli  puòfacilmente  esser  tolto.  Ma  l’ ambizionedell’  uomo  è tanto  grande,  che  per  ca-varsi una  presente  voglia,  non  pensa  almale  che  è in  brieve  tempo  per  risul-targliene. Nè  lo  muovono  gli  antichi  es-sempi,  cosi  in  questo  come  nell’  altrecose  discorse;  perchè,  se  e’  fussino  mossida  quelli,  vedrebbero  come  quanto  piùsi  mostra  la  liberalità  coi  vicini,  e d’es-sere più  alieno  da  occupargli,  tanto  piùti  si  gettano  in  grembo:  come  di  sotto,per  lo  essempio  de’  Capovani,  si  dirà.Gap.  XXI.  — Il  primo  Pretore  che  i Ro-mani mandarono  in  alcun  luogoj  fua Capova,  dopo  quattrocento  anni  chZcominciarono  a far  guerra. Quanto  i Romani  nei  modo  del  pro- cedere loro  circa  Y acquistare  fossero differenti  da  quelli  che  ne’  presenti  tempi ampliano  la  iuri&dUionc  loro,  si  è assai di  sopra  discorso;  e come  e’ lasciavano quelle  terre,  che  non  disfacevano,  vivere con  le  leggi  loro,  eziandio  quelle  che non  come  compagne,  ma  come  soggette si  arrendevano  loro;  ed  in  esse  non  lu- sciavano  alcun  segno  d’  imperio  per  il Popolo  romano,  ma  Y obbligavano  ad alcune  condizioni,  le  quali  osservando, le  mantenevano  nello  stato  e dignità loro.  E conoscesi  questi  modi  esser  stati osservati  infino  che  gli  uscirono  d’ Ita- lia, e che  cominciarono  a ridurre  i re- gni e gli  Stati  in  provincie.  Di  questo ne  è chiarissimo  essempio,  che  il  primo
Pretore  che  fusse  mandato  da  loro  in alcun  luogo,  fu  a Capova:  il  quale  vi mandarono,  non  per  loro  ambizione,  ma perchè  e’  ne  furono  ricerchi  dai  Capo-vani; i quali,  essendo  intra  loro  discordia, giudicarono  esser  necessario  avere dentro  nella  città  un  cittadino  romano che  gli  riordinasse  e riunisse.  Da  questo essempio  gli  Anziati  mossi,  e constretti dalla  medesima  necessità,  domandarono ancora  loro  un  Prefetto;  e Tito  Livio dice  in  su  questo  accidente,  ed  in  6U questo  nuovo  modo  d’ imperare,  quod /aro  non  solttm  arma j sed  jura  romana pollebant.  Yedesi,  pertanto,  quanto  qu$- sto  modo  facilitò  I’  augumento  romano. Perché  quelle  città,  massime,  che  sono use  a viver  libere,  o consuete  governarsi per  suoi  provinciali,  con  altra  quiete stanno  contente  sotto  uno  dominio  che non  veggono,  ancora  eli’  egli  avesse  in sè  qualche  gravezza,  che  sotto  quello che  veggendo  ogni  giorno,  pare  loro che  ogni  giorno  sia  rimproverata  loro la  servitù.  Appresso,  ne  seguita  un  al-tro bene  per  il  principe:  che  non  avendo i suoi  ministri  in  mano  i giudizi,  ed  i magistrati  che  civilmente  o criminal- mente rendono  ragione  in  quelle  cittadi, non  può  nascere  mai  sentenza  con  ca- rico o infamia  del  principe;  e vengono per  questa  via  a mancare  molte  cagioni «li  calunnia  e d’  odio  verso  di  quello.  E che  questo  sia  il  vero,  oltre  agli  antichi esscinpi  che  se  ne  potrebbono  addurre, ee  n’  è uno  essempio  fresco  in  Italia. Perchè,  come  ciascuno  sa,  scudo  Genova stata  più  volte  occupata  da’  Franciosi, sempre  quel  re,  eccetto  che  ne’  presenti tempi,  vi  ha  mandato  un  governatore francioso  che  in  suo  nome  la  governi. Al  presente  solo,  non  per  elezione  del re,  ma  perchè  cosi  ha  ordinato  la  ne- cessità, ha  lasciato  governarsi  quella città  per  sè  medesima,  e da  un  gover- natore genovese.  E senza  dubbio,  chi ricercasse  quali  di  questi  duoi  modi rechi  più  sicurtà  al  re  dell*  imperio  di essa,  e più  contentezza  a quelli  popolari, senza  dubbio  approverebbe  questo  ultimo modo.  Oltra  di  questo,  gli  uomini  tanto più  ti  si  gettano  in  grembo,  quanto  più tu  pari  alieno  dallo  occupargli  ; e tanto meno  ti  temono  per  conto  della  loro  li- bertà, quanto  più  sei  umano  e dome- stico con  loro.  Questa  dimestichezza  e liberalità  fece  i Capovani  correre  a chie- dere il  Pretore  ai  Romani  : che  se  dai Romani  si  fusse  mostro  una  minima voglia  di  mandarvelo,  subito  sarebbono ingelositi,  c si  sarebbono  discostati  da loro.  Ma  che  bisogna  ire  per  gli  essempi a Capova  ed  a Roma,  avendone  in  Fi-lenze  ed  in  Toscana?  Ciascuno  sa  quanto tempo  è che  la  città  di  Pistoia  venne volontariamente  sotto  V imperio  fioren-tino. Ciascuno  ancora  sa  quanta  inimi-cizia è stata  intra  i Fiorentini,  ed  i Pi-sani, Lucchesi  e Sanesi  : e questa  diver-sità d’animo  non  è nata  perchè  i Pi-stoiesi non  prezzino  la  loro  libertà come  gli  altri,  e non  si  giudichino  da quanto  gli  altri;  ma  per  essersi  i Fio-rentini portoti  con  loro  sempre  come fratelli,  e con  gli  altri  come  nimici. Questo  ha  fatto  clic  i Pistoiesi  sono  corsi volontari  sotto  F imperio  loro  : gli  altri hanno  fatto  e fanno  ogni  forza  per  non vi  pervenire.  E senza  dubbio,  i Fioren- tini se,  o per  vie  di  leghe  o di  aiuto, avessero  dimesticati  e non  inselvatichiti i suoi  vicini,  a quest’ora  sarebbero  si-gnori di  Toscana.  Non  è per  questo  che io  giudichi  che  non  si  abbia  ad  operare l’armi  e le  forze;  ma  si  debbono  riser- vare in  ultimo  luogo,  dove  e quando  gli altri  modi  non  bastino. Quanto  siano  false  molte volte  le  oppinioni  degli  uomini  nel giudicare  le  cose  grandi. Quanto  siano  false  molte  volle  le  op-
pinioui  degli  uomini,  1’  hanno  visto  e veggono  coloro  che  si  trovano  testimoni delle  loro  deliberazioni:  le  quali  molle volte,  se  non  sono  deliberate  da  uomini eccellenti,  sono  contrarie  ad  ogni  verità. E perchè  gli  eccellenti  uomini  nelle repubbliche  corrotte,  nei  tempi  quieti massime,  e per  invidia  c per  altre  ambiziose cagioni,  sono  inimicati;  si  va dietro  a quello  che  da  uno  comune  in- ganno è giudicato  bene,  o da  uomini
che  più  presto  vogliono  i favori  che  il bene  deir  universale,  è messo  innanzi.  Il quale  inganno  dipoi  si  scuopre  nei  tempi avversi,  e per  necessità  si  rifugge  a quelli  che  nei  tempi  quieti  erano  come dimenticati  : come  nel  suo  luogo  in  questa parte  appieno  si  discorrerà.  Nascono  an cora  certi  accidenti,  dove  facilmente  sono ingannali  gli  uomini  che  non  hanno grande  Esperienza  delle  cose,  avendo  in sè  quello  accidente  che  nasce  molti  ve* risimili,  atti  a far  credere  quello  die gli  uomini  sopra  tal  caso  si  persuadono. Queste  cose  si  sono  dette  per  quello  che Numicio  pretore,  poiché  i Latini  furono rotti  dai  Romani,  persuase  loro;  e per
quello  che  pochi  anni  sono  si  credeva per  molti,  quando  Francesco  1 re  di Francia  venne  ali’  acquisto  di  Milano, che  era  difeso  dai  Svizzeri.  Dico  per- tanto, che,  essendo  morto  Luigi  XII,  e succedendo  nel  regno  di  Francia  Fran- cesco d’  Angolem,  c desiderando  resti- tuire al  regno  il  ducato  di  Milano,  stato pochi  anni  innanzi  occupato  dai  Sviz- zeri mediante  il  conforto  di  Papa  Giu-lio II,  desiderava  aver  aiuti  in  Italia  che gli  facilitassero  l’ impresa  ; cd  oltre  ni Veniziani,  che  il  re  Luigi  s’aveva  rigua- dagnati, tentava  i Fiorentini  e Papa Leone  X ; parendogli  la  sua  impresa  più fucile  qualùnque  volta  s’  avesse  riguada-gnati costoro,  per  essere  le  genti  del  re di  Spagna  in  Lombardia,  ed  altre  forze dello  imperadore  in  ^Verona.  Non  cede Papa  Leone  alle  voglie  del  re,  ma  fu persuaso  da  quelli  che  lo  consigliavano (secondo  si  disse),  si  stesse  neutrale, mostrandogli  in  questo  partito  consistere la  vittoria  certa:  perchè  per  la  Chiesa non  si  faceva  avere  potenti  in  Italia  nè il  re  nè  i Svizzeri;  ma  volendola  ridurre nell’antica  libertà,  era  necessario  liberarla dalla  servitù  dell’  uno  e dell’altro. E perchè  vincere  1’  uno  e 1’  altro,  o di per  sè  o tutti  due  insieme,  non  era  possibile 'r  conveniva  che  superassino  1’  uno l’altro,  e che  la  Chiesa  con  gli  amici suoi  urlasse  quello  poi  che  rimanesse vincitore.  Ed  era  impossibile  trovare migliore  occasione  che  la  presente,  sen-do  1’  uno  e 1’  altro  in  su’  campi,  ed  aven-do il  Papa  le  sue  forze  ad  ordine  da potere  rappresentarsi  in  sui  confini  di Lombardia,  e propinquo  all’  uno  e l’altro esercito,  sotto  colore  di  voler  guardare le  cose  sue,  e quivi  tanto  stare  che  ve- nissero alla  giornata;  la  quale  ragione- volmente, sendo  Y uno  e V altro  esercito virtuoso,  doverrebbe  esser  sanguinosa per  tutte  due  le  parti,  e lasciare  in  modo debilitato  il  vincitore,  che  fusse  al  Papa facile  assaltarlo  e romperlo:  e cosi  ver- rebbe con  sua  gloria  a rimanere  signore di  Lombardia,  ed  arbitro  di  tutta  Italia. E quanto  questa  oppiuione  fusse  falsa, si  vide  per  lo  evento  della  cosa:  perchè, sendo  dopo  una  lunga  zuffa  sufi  supe- rati i Svizzeri,  non  che  le  genti  del  Papa c di  Spagna  presumessero  assaltare  i vincitori,  ma  si  prepararono  alla  fuga  ; la quale  ancora  non  sarebbe  loro  giovata, se  non  fusse  stato  o la  umanità  o la freddezza  del  re,  che  non  cercò  la  seconda vittoria,  ma  gli  bastò  fare  accordo con  la  Chiesa.  Ha  questa  oppinione  certe ragioni  che  discosto  paiono  vere,  ma sono  al  tutto  aliene  dalla  verità.  Perchè, rade  volte  accade  che  M vincitore  perda assai  suoi  soldati:  perchè  de5 vincitori  ne muore  nella  zuffa,  non  nella  fuga  ; e nello ardore  del  combattere,  quando  gli  uo- mini hanno  volto  il  viso  1*  uno  all*  altro, ne  cade  pochi,  massime  perchè  la  dura poco  tempo  il  più  delle  volte;  e quando pur  durasse  assai  tempo,  e de’ vincitori ne  morisse  assai,  è tanta  la  riputazione che  si  tira  dietro  la  vittoria,  ed  il  ter- rore che  la  porta  seco,  che  di  lunga avanza  il  danno  che  per  la  morte  de'suoi soldati  avesse  sopportato.  Talché,  se  uno esercito  il  quale,  in  su  la  oppinione  che e*  fusse  debilitato,  andasse  a trovarlo, si  troverebbe  ingannato;  se  già  non  fusse l’esercito  tale,  che  d’ogni  tempo,  e to- nanti alla  vittoria  e poi,  potesse  com- batterlo. In  questo  caso  e’  potrebbe,  se- condo la  sua  fortuna  e virtù,  vincere e perdere;  ma  quello  clic  si  fusse  az- zuffato prima,  ed  avesse  vinto,  arebbe piuttosto  vantaggio  dall’altro.  11  che  si conosce  certo  per  la  esperienza  de’  Lati- ni e per  la  fallacia  che  Nummo  pretore prese,  e per  il  danno  che  ne  riportorno quelli  popoli  che  gli  crederono:  il  quale, vinto  che  i Romani  ebbero  i Latini,  gri-dava per  tutto  il  paese  di  Lazio,  che allora  era  tempo  assaltare  i Romani  de- bilitati per  la  zuffa  avevano  fatta  con loro;  e che  solo  appresso  i Romani  era rimaso  il  nome  della  vittoria,  ma  tutti gli  altri  danni  avevano  sopportati  come se  fussino  stati  vinti;  c che  ogni  poco di  forza  che  di  nuovo  gli  assaltasse,  era per  spacciargli.  Donde  quelli  popoli  che gli  crederono,  fecero  nuovo  esercito,  e su- bito furono  rotti,  e patirono  quel  danno che  patiranno  sempre  coloro  che  ter- ranno simili  oppinioni. Quanto  i Romani  nel giudicare  i sudditi  per  alcuno  acci- dente che  necessitasse  tal  giudizio j fuggivano  la  via  del  mezzo.
Jam  Laiio  is  status  crai  rerum  * ut ncque  pacem , ncque  bcllum  pati  possnnt. Di  tutti  gli  stati  infelici,  è infelicissimo quello  d’  un  principe  o d’  una  repub- blica clic  è ridotto  in  termine  che  non
può  ricevere  la  pace,  o sostenere  la guerra  : a che  si  riducono  quelli  che sono  dalie  condizioni  della  pace  troppo offesi  ; e dall’  altro  canto,  volendo  far guerra,  convien  loro  o gittarsi  in  preda di  chi  gli  aiuti,  o rimanere  preda  del nimico.  Ed  a tutti  questi  termini,  si viene  per  cattivi  consigli,  e cattivi  pala- titi, da  non  avere  misuralo  bene  le  forze sue,  come  di  sopra  si  disse.  Perchè quella  repubblica  o quei  principe  che bene  le  misurasse,  con  difficultà  si  cou- durrebbe  nel  termine  si  condussono  i Latini:  i quali  quando  non  dovevano accordare  con  i Romani,  accordarono; e quando  non  dovevano  rompere  loro guerra,  la  ruppono:  e così  seppono  fare in  modo,  che  la  inimicizia  ed  amicizia dei  Romani  fu  loro  ugualmente  danno- sa. Erano,  adunque,  vinti  i Latini  ed  al tutto  afflitti,  prima  da  Manlio  Torquato, e dipoi  da  Cammillo:  il  quale  avendogli costretti  a darsi  e rimettersi  nelle  brac- cia de’ Romani,  ed  avendo  messo  la  guar- dia per  tutte  le  terre  di  Lazio,  e preso da  tutte  gli  staticità  ; tornato  in  Roma, riferì  al  Senato  come  tutto  Lazio  era nelle  mani' del  Popolo  romano.  E per- chè questo  giudizio  è notabile,  e ineritad’  essere  osservato,  per  poterlo  imitare
quando  simili  occasioni  sono  date  a’  principi, io  voglio  addurre  le  parole  di  Li- vio poste  in  bocca  di  Cammillo;  le  quali fanno  fede  e del  modo  che  i Romani tennono  in  ampliare,  e come  ne’ giudizi di  Stato  sempre  fuggirono  la  via  del mezzo,  e si  volsono  agli  estremi:  perchè un  governo  non  è altro  che  tenere  in modo  i sudditi,  che  non  ti  possano  o debbano  offendere.  Questo  si  fu  o con assicurarsene  in  tutto,  togliendo  loro ogni  via  da  nuocerti;  o con  beneficargli in  modo,  che  non  sia  ragionevole  ch’egli- no abbino  a desiderare  di  mutar  fortuna. li  che  tutto  si  comprende,  e prima per  la  proposta  di  Cammillo,  c poi  per il  giudizio  dato  dal  Senato  sopra  quella. Le  parole  sue  furono  queste:  Dii  im- mortale s ita  vos  potentcs  hujus  constiti fecerunl,  ut  sit  Lalium,  an  non  sii , in vostra  manu  posuerint.  Jtaque  pacctn vobiSj  quod  ad  Lalinos  allinei,  parare in  perpeluum,  vcl  scevicndo,  vel  ig na- scendo potestis.  Vultis  crudeliter  consti- leve  in  dedilos,  viclosque  ? licei  delere omno  I. aduni.  Vultis,  exemplo  majorum, auqcrc  rem  romanam , viclos  in  civita- lem  accipiendo  ? materia  crescendi  per summam  gloriam  suppeditat.  Certe  id fìrmissimum  imperium  est,  quo  obedien- tes  gaudenl.  Illorum  igitur  anirnos , dum cxpcctatione , slupenl,  seti  pana,  seu benefìcio  prceoccupari  opportet.  A questa proposta  successe  la  deliberazione  del Senato:  la  quale  fu,  secondo  le  parole del  Consolo,  che  recatosi  innanzi,  terra per  terra,  tutti  quelli  eh’  erano  di  mo- mento, o gli  beneficarono  o gli  spenso- no  ; facendo  ai  beneficati  esenzioni,  pri vilegi,  donando  loro  la  città,  e da  ogni parte  assicurandogli  ; di  quelli  altri  dis- fecero le  terre,  mandaronvi  colonie,  ri- dussongli  in  Roma,  dissiparongli  tal- mente che  con  \9  arme  e con  il  consiglio non  potevano  più  nuocere.  Nè  usorno mai  la  via  neutrale  in  quelli,  come  ho detto,  di  momento.  Questo  giudizio  deb- bono i principi  imitare.  A questo  do- vevano accostarsi  i Fiorentini,  quando nel  1502  si  ribellò  Arezzo,  e tutta  la Val  di  Chiana  : il  che  se  avessino  fatto, nrebbero  assicurato  l’ imperio  loro,  e fatta  grandissima  la  città  di  Firenze,  e datogli  quelli  campi  che  per  vivere  gli mancano.  Ma  loro  usarono  quella  via del  mezzo,  la  quale  è perniziosissima nel  giudicare  gli  uomini;  e parte  degli Aretini  ne  confinarono,  parte  ne  con- dennarono;  a tutti  tolsono  gli  onori  e gli  loro  antichi  gradi  nella  città;  e la- sciarono la  città  intera.  E se  alcuno  cit- tadino nelle  deliberazioni  consigliava  che Arezzo  si  disfacesse  ; a quelli  che  pareva esser  più  savi,  dicevano  come  sarebbe poco  onore  della  repubblica  disfarla, perchè  parrebbe  che  Firenze  mancasse di  forze  di  tenerla.  Le  quali  ragioni  sono di  quelle  che  paiono  e non  sono  vere; perchè  con  questa  medesima  ragione  non si  arebbe  ad  ammazzare  uno  parricida, uno  scellerato  e scandaloso,  sendo  vergogna di  quel  principe  mostrare  di  non aver  forze  da  poter  frenare  uno  uomo solo.  E non  veggono  questi  tali  che hanno  simili  oppinioni,  come  gii  uomini particolarmente,  ed  una  città  tutta  in-sieme pecca  talvolta  contra  ad  uno Stato,  che  per  esempio  agli  altri,  per sicurtà  di  sé,  non  ha  altro  rimedio  un principe  che  spengerla.  E l’onore  con-siste nel  sapere  e potere  castigarla  ; non nel  potere  con  mille  pericoli  tenerla: perchè  quel  principe  che  non  castiga  chi erra,  in  modo  che  non  possa  più  errare, è tenuto  o ignorante  o vile.  Questo giudizio  che  i Romani  dettero,  quanto sia  necessario  si  conferma  ancora  per la  sentenza  che  dettero  de’  Privernati.
Dove  si  debbe,  per  ii  testo  di  Livio,  no-tare due  cose:  1’  una,  quello  che  di  so-pra si  dice,  che  i sudditi  si  debbono  o beneficare  o spengere:  Poltra,  quanto la  generosità  dell’  animo,  quanto  il  par- lare il  vero  giovi,  quando  egli  è detto uel  conspetto  degli  uomini  prudenti.  Era ragunato  ii  Senato  romano  per  giudicare de’ Privernati,  i quali  sendosi  ribellati, erano  di  poi  per  forza  ritornati  sotto la  ubbidienza  romana.  Erano  mandati dal  popolo  di  Priverno  molti  cittadini per  impetrare  perdono  dal  Senato;  ed essendo  venuti  al  conspetto  di  quello, fu  detto  ad  un  di  loro  da  un  de’  Sena- tori, quam  pcenam  merilos  Privernales censeret.  Al  quale  Privernate  rispose  : E am  y quam  merentur  qui  se  libevtale dignos  ccnsent.  Al  quale  il  Consolo  re- plicò : Quid  si  pcenam  remiltimus  vobis, qualcm  nos  pacati i vobiscum  habituros speremus  ? A che  quello  rispose:  Si  bo~m tm  dederitis , et  fidelem  et  perpetuarli  ; si  malam , haud  diuturna  m.  Donde  la più  savia  parte  del  Senato,  ancora  che molli  se  n’  alterassino,  disse:  se  audi •visse  vocem  el  liberi  et  viri  ; nec  credi posse  Uhm  popolum , aul  hominem,  de nique  in  ea  condilione  cujus  eum  pestìi -teat,  diutius  quam  nccesse  sii,  mansu rum.  ibi  pacem  esse  fidam , ubi  volun-tarii  pacati  svit , ncque  eo  loco  ubi  scr-vitutem  esse  velini , / idem  sperandovi esse.  Ed  in  su  queste  parole,  deliberorno che  i Privcrnati  fussero  ciltadini  roma- ni, e de’  privilegi  della  civililà  gli  ono- rarono, dicendo  : eos  demum  qui  nihil prceterquam  de  liberiate  cogitant,dignos esse , qui  Romani  fiant.  Tanto  piacque agli  animi  generosi  questa  vera  e ge- nerosa risposta;  perchè  ogni  altra  ri- sposta sarebbe  stata  bugiarda  e vile.  E coloro  che  credono  degli  uomini  altri- menti, massime  di  quelli  che  sono  usi o ad  essere  o a parere  loro  essere  li- beri, se  n’ingannano;  e sotto  queslo inganno  pigliano  partiti  non  buoni  per  sé,  e da  non  satisfare  a loro.  Di  che nascono  le  spesse  ribellioni  e le  rovine degli  Stati.  Ma  per  tornare  al  discorso nostro,  conchiudo,  e per  questo  e per quello  giudizio  dato  dai  Latini:  quando si  ha  a giudicare  cittadi  potenti,  e che sono  use  a vivere  libere,  conviene  o * spegnerle  o carezzarle  ; altrimenti,  ogni giudizio  è vano.  E debbesi  fuggir  al tutto  la  via  del  mezzo,  la  quale  è pcr-niziosn,  come  la  fu  a’  Sanniti  quando avevano  rinchiuso  i Romani  alle  forche Caudine;  quando  non  volleno  seguire  il parere  di  quel  vecchio,  che  consigliò che  i Romani  si  lasciassero  andare  ono-rati, o che  s’  ammazzassero  tutti  ; ma pigliando  una  via  di  mezzo  disarman- dogli c mettendogli  sotto  il  giogo,  gli lasciarono  andare  pieni  d’ ignominia  e di  sdegno.  Talché  poco  dipoi  conobbero con  lor  danno  la  sentenza  di  quel  vec- chio essere  stata  utile,  e la  loro  dili-berazione dannosa;  come  nel  suo  luogo più  appieno  si  discorrerà..  XXIV.  — Le  fortezze  generalmente sono  molto  più  dannose  che  utili.
Parrà  forse  a questi  savi  de*  nostri tempi  cosa  non  bene  considerata,  che  i Romani  nel  volere  assicurarsi  dei  popoli di  Lazio  e della  città  di  Priverno,  non pensassino  di  edificarvi  qualche  fortezza, la  qual  fusse  un  freno  a tenergli  in  fe- de; sendo,  massime,  un  detto  in  Firenze, allegato  da*  nostri  savi,  che  Pisa  e P al- tre simili  città  si  debbono  tenere  con  le fortezze.  E veramente,  se  i Romani  fus- sino  stati  fatti  come  loro,  egli  arebbero pensato  di  edificarle;  ma  perchè  egli erano  d*  altra  virtù,  d’ altro  giudizio, d’  altra  potenza,  e’  non  le  edificarono. E mentre  che  Roma  visse  libera,  e che la  seguì  gli  ordini  suoi  e le  sue  vir- tuose constiluzioni,  mai  n’edificò  per tenere  o città  o provincie;  ma  salvò bene  alcune  delle  edificate.  Donde  ve- duto il  modo  del  procedere  de’ Romani
in  questa  parte,  e quello  eie’  prìncipi de’  nostri  tempi,  mi  pare  da  mettere  in considerazione,  se  gli  è bene  edificare fortezze,  se  le  fanno  danno  o utile  a quello  che  I’  edifica.  Dehbesi,  adunque, considerare  come  le  fortezze  si  fanno  o per  difendersi  da’nimici,  o per  difen- dersi da’  soggetti.  Nel  primo  caso  le non  sono  necessarie;  nel  secondo  dan- nose. E cominciando  a render  ragione perchè  nel  secondo  ^caso  le  siano  dan- nose, dico  che  quel  principe  o quella repubblica  che  ha  paura  de’  suoi  sud- diti e delta  ribellione  loro,  prima  con- viene che  tal  paura  nasca  da  odio  che abbiano  i suoi  sudditi  seco;  l’odio, da’ mali  suoi  portamenti  ; i mali  porta-menti nascono  o da  poter  credere  te-nergli con  forza,  o da  poca  prudenza  di
chi  gli  governa  : ed  una  delle  cose  clic fa  credere  potergli  forzare,  è l’  avere loro  addosso  le  fortezze;  perchè  i mali trattamenti,  clic  sono  cagione  dell’  odio, nascono  in  buona  parte  per  avere  quel principe,  o quella  repubblica,  le  fortez- ze: le  quali,  quando  sia  vero  questo,  di gran  lunga  sono  più  nocive,  che  utili. Perchè  in  prima,  come  è detto,  le  ti fanno  essere  più  audace  e più  violento nei  sudditi;  dipoi,  non  ci  è quella  si- curtà che  tu  ti  persuadi  : perchè  tutte le  forze,  tutte  le  violenze  che  si  usano per  tenere  un  popolo,  sono  nulla  eccetto che  due;  o che  tu  abbia  sempre  da  met- tere in  campagna*  un  buono  esercito, come  avevano  i Romani;  o che  gli  dis- sipi, spenga,  disordini,  disgiunga,  in modo  che  non  possino  convenire  ad  of- fenderti. Perchè  se  tu  gP  impoverisci, spoliatis  arma  supersunt  : se  tu  gli  di- sarmi, furor  arma  ministrai:  se  tu ammazzi  i capi,  e gli  altri  segui  d’ ingiu- riare, rinascono  i capi,  come  quelli  det- P idra:  se  tu  fai  le  fortezze,  le  sono utili  ne’ tempi  di  pace,  perchè  ti  danno più  animo  a far  loro  male;  ma  ne’ tempi di  guerra  sono  inutilissime,  perchè  le  so- no assaltate  dal  nimico  e da’  sudditi,  nè  è possibile  che  le  faccino  resistenza  ed all’uno  ed  all’altro.  E se  inai  furono disutili,  sono  ne’  tempi  nostri  rispetto alle  artiglierie  ; per  il  furore  delle  quali i luoghi  piccoli,  e dove  altri  non  si  possa ritirare  con  li  ripari,  è impossibile  di- fendere, come  di  sopra  discorremmo.  Io voglio  questa  materia  disputarla  più tritamente.  0 tu,  principe,  vuoi  con  que- ste fortezze  tenere  in  freno  il  popolo delia  tua  città;  o tu,  principe,  o tu,  re- pubblica, vuoi  frenare  una  città  occu-pata per  guerra.  Io  ini  voglio  voltare al  principe,  e gli  dico:  che  tal  fortezza per  tenere  in  freno  i suoi  cittadini  non può  essere  più  inutile  di  quello  eh’ ella è,  per  le  cagioni  dette  di  sopra  ; perchè la  ti  fa  più  pronto  c men  rispettivo  ad oppressateli  ; e quella  oppressione  gli fa  si  esposti  alla  tua  roviua,  e gli  ac-cende in  modo,  che  quella  fortezza  che ne  è cagione,  non  ti  può  poi  difendere. Tanto  che  un  principe  savio  e buono, per  mantenersi  buono,  per  non  dare cagione  nè  ardire  a’ figliuoli  di  diven-tare tristi,  mai  non  farà  fortezza,  ac-ciocché quelli  non  in  su  le  fortezze,  ina in  su  la  benivolenza  degli  uomini  si fondino.  E se  il  conte  Francesco  Sforza, diventato  duca  di  Milano,  fu  riputato savio,  e nondimeno  fece  in  Milano  una fortezza  ; dico  che  iti  questo  caso  ei  non fu  savio,  e V effetto  ha  dimostro,  come tal  fortezza  fu  a danno,  e non  a sicurtà de’  suoi  eredi.  Perchè  giudicando  me-diante quella  viver  sicuri,  e potere  of-fendere gli  cittadini  e sudditi  loro,  non perdonarono  ad  alcuna  generazione  di violenza;  talché  diventati  sopra  modo odiosi,  perderono  quello  Stato  come prima  il  nimico  gli  assaltò:  nè  quella fortezza  gli  difese,  nè  fece  loro  nella guerra  utile  alcuno,  e nella  pace  avea loro  fatto  danno  assai.  Perchè  se  non avessiuo  avuto  quella,  e se  per  poca prudenza  avessino  maneggiati  agramente i loro  cittadini,  arebbero  scoperto  il  pe- ricolo più  presto,  e sarebbonsene  riti- rati;  ed  orebbero  poi  potuto  più  ani-mosamente resistere  all’  impeto  franciosoco’  sudditi  amici  senza  fortezza,  die  con quelli  inimici  con  la  fortezza:  le  quali non  ti  giovano  in  alcuna  parte;  perchè, o le  si  perdono  per  frali  de  di  chi  le guarda,  o per  violenza  di  chi  I’  assalta, o per  fame.  E se  tu  vuoi  che  le  ti  gio- vino, e ti  aiutino  a ricuperare  uno  Stato perduto,  dove  ti  sia  solo  rimaso  la  for- tezza ; ti  conviene  avere  uno  esercito,  con il  quale  tu  possa  assaltare  colui  che t’ha  cacciato:  e quando  tu  abbia  questo esercito,  tu  riavesti  lo  Stato  in  ogni  mo- do, eziandio  che  la  fortezza  non  \i  fusse  ; c tanto  più  facilmente,  quanto  gli  uomini ti  fussiuo  più  amici  che  non  ti  erano avendogli  mal  trattati  per  l’orgoglio della  fortezza.  E per  isperienzn  s’  è vi- sto, come  questa  fortezza  di  Milano,  nè agli  Sforzeschi  nè  a’  Franciosi,  ne’ tempi avversi  dell’  uno  e dell’  altro,  non  ha fatto  a alcunb  di  loro  utile  alcuno;  anzi a tutti  ha  recato  danni  e rovine  assai. non  avendo  pensato  mediante  quella  a più  onesto  modo  di  tenere  quello  Stato. Guido  Ubaldo  duca  di  Urbiuo,  figliuolo di  Federigo,  che  fu  ne’  suoi  tempi  tanto stimato  capitano,  sendo  cacciato  da  Ce* sarc  Borgia,  figliuolo  di  papa  Alessan- dro VI,  dello  stato;  come  dipoi,  per  uno accidente  nato,  vi  ritornò,  fece  rovinare tutte  le  fortezze  clic  erano  in  quella  pro- vincia, giudicandole  dannose.  Perchè, sendo  quello  amato  dagli  uomini,  per rispetto  di  loro  non  le  voleva  ; e per conto  de’  nimici,  vedeva  non  le  poter  di- fendere, avendo  quelle  bisogno  d’  uno esercito  in  campagna,  che  le  difendesse; talché  si  volse  a rovinarle.  Papa  Iulio, cacciati  i Bentivogli  di  Bologna,  fece  in quella  città  una  fortezza  ; e dipoi  faceva assassinare  quel  popolo  da  un  suo  go- vernatore : talché  quel  popolo  si  ribellò, e subito  perde  la  fortezza  ; e cosi  non gli  giovò  la  fortezza  e 1*  offese,  intanto clic  portandosi  altrimenti,  gli  arebbe giovato.  Niccolò  da  Castello,  padre  de’  Yi teili,  tornato  nella  sua  patria  donile  era esule,  subito  disfece  due  fortezze  vi aveva  edificale  papa  Sisto  IV,  giudican- do, non  la  fortezza,  ma  la  benivolenza del  popolo  l’avesse  a tenere  in  quello stato.  Ma  di  tutti  gli  altri  essempi  il più  fresco,  il  più  notabile  in  ogni  parte, ed  atto  a mostrare  la  inutilità  dello  edi- ficarle e 1’  utilità  del  disfarle,  è quello di  Genova,  seguito  ne’  prossimi  tempi. Ciascuno  sa  come,  nel  1507,  Genova  si ribellò  da  Luigi  XII  re  di  Francia,  il quale  venne  personalmente  e con  tutte le  forze  sue  a racquietarla  ; e ricuperata che  1’  ebbe,  fece  una  fortezza,  fortissima di  tutte  l’ altre  delle  quali  al  presente si  avesse  notizia:  perchè  era  per  silo  e per  ogni  altra  circonstanza  inespugna-) bile,  posta  in  su  una  punta  di  colle  che si  distende  nel  mare,  chiamato  dai  Ge- novesi Codefa  ; e per  questo  batteva  tutto il  porto,  e gran  parte  della  terra  di  Ge- nova. Occorse  poi,  nel  1512,  che  sendo cacciate  le  genti  franciose  d’ Italia,.  Gc- novo,  nonostante  la  fortezza,  si  ribellò; e prese  lo  stalo  di  quella  Ottaviano  Fre-  *goso,  il  quale  con  ogni  industria,  in termine  di  sedici  mesi,  per  fame  la espugnò.  E ciascuno  credeva  e da  molti» n*  era  consigliato,  che  la  conservasse  per suo  rifugio  in  ogni  accidente:  ma  esso, come  prudentissimo,  conoscendo  che  non le  fortezze,  ma  la  volontà  degli  uomini mantenevano  i principi  in  stato,  la  ro-vinò. E cosi,  senza  fondare  lo  stato  suo in  su  la  fortezza,  ma  in  su  la  virtù  e prudenza  sua,  lo  ha  tenuto  e tiene.  E dove  a variare  lo  stato  di  Genova  sole- vano bastare  mille  fanti,  gli  avversari suoi  l’ hanno  assaltato  con  diecimila,  e non  T hanno  potuto  offendere.  Vedesi adunque  per  questo,  come  il  disfare  la fortezza  non  ha  offeso  Ottaviano,  ed  il farla  non  difese  il  re  di  Francia.  Per- chè, quando  e’  potette  venire  in  Italia con  l’  esercito,  e’  potette  ricuperare  Ge- nova, non  vi  avendo  fortezza;  ma  quando e’  non  potette  venire  in  Italia  con  l’cser-cito,  e*  non  potette  tenere  Genova,  aven-dovi la  fortezza.  Fu,  adunque,  di  spesa al  re  di  farla,  e vergognoso  il  perderla; a Ottaviano  glorioso  il  racquistarla,  ed utile  il  rovinarla.  Ma  vegnamo  alle  re- pubbliche che  fanno  le  fortezze  noli nella  patria,  ma  nelle  terre  che  le  acqui- stano. Ed  a mostrare  questa  fallacia, quando  e’  non  bastasse  V essempio  detto di  Francia  e di  Genova,  voglio  mi  basti Firenze  e Pisa  : dove  i Fiorentini  fecero le  fortezze  per  tenere  quella  città  ; e non conobbero  che  una  città  stata  sempre inimica  del  nome  fiorentino,  vissuta  li- bera, e che  ha  alla  ribellione  per  rifu- gio la  libertà,  era  necessario,  volendola tenere,  osservare  il  modo  romano;  o farsela  compagna,  o disfarla.  Perchè  la virtù  delle  fortezze  si  vidde  nella  venula del  re  Carlo;  al  quale  si  dettono  o per poca  fede  di  chi  le  guardava,  o per  ti- more di  maggior  male:  dove,  se  le  non fussino  state,  i Fiorentini  non  arcbbero fondato  11  potere  tenere  Pisa  sopra  quelle,  e quel  re  non  arebbe  potuto  per quella  via  privare  i Fiorentini  di  quella città;  e gli  modi  con  li  quali  si  fussi mantenuta  fino  a quel  tempo,  sarebbero stati  per  avventura  sufficienti  a conser- varla, e senza  dubbio  non  arebbero  fatto più  cattiva  pruova  che  le  fortezze.  Con- chiudo dunque,  che  per  tenere  la  patria propria,  la  fortezza  è dannosa  ; per  te- nere le  terre  che  si  acquistano,  le  for- tezze sono  inutili:  e voglio  mi  basti I’  autorità  de’  Romani,  i quali  nelle  terre che  volevano  tenere  con  violenza,  smu- ravano, e non  muravano.  E chi  contra questa  oppinione  n’allegassi  negli  anti- chi tempi  Taranto,  e ne’  moderni  Bre- scia, i quali  luoghi  mediante  le  fortezze furono  ricuperati  dalla  ribellione  dei sudditi  ; rispondo  che  alla  ricuperazione di  Taranto,  in  capo  d’ uno  anno,  fu mandato  Fabio  Massimo  con  tutto  lo esercito,  il  quale  sarebbe  stato  alto  a ricuperarlo  eziandio  se  non  vi  fusse stata  la  fortezza;  e se  Fabio  usò  quella via,  quando  la  non  vi  fusse  stata  dareb- be usata  un’altra,  che  arebbe  fatto  il medesimo  effetto.  Ed  io  non  so  di  che utilità  sia  una  fortezza  che,  a renderti la  terra,  abbia  bisogno,  per  la  ricupe-razione d’  essa  d*  uno  esercito  consolare, e d’  un  Fabio  Massimo  per  capitano.  E che  i Romani  1*  avessino  ripresa  in  ogni modo,  si  vide  per  V essempio  di  Capova  ; dove  non  era  fortezza,  e per  virtù  dello
esercito  la  riacquistarono.  Ma  vegliamo  a Brescia.  Dico,  come  rade  volte  occorre quello  che  è occorso  in  quella  ribellione, clic  la  fortezza  che  rimane  nelle  forze tue,  sendo  ribellata  la  terra,  abbia  uno esercito  grosso  e propinquo,  coiti’  era quel  de’  Franciosi  : perchè,  essendo  mon- signor di  Fois,  capitano  del  re,  con l’esercito  a Bologna,  intesa  la  perdita di  Brescia,  senza  differire  ne  andò  a quella  volta,  ed  in  tre  giorni  arrivato a Brescia,  per  la  fortezza  riebbe  la terra.  Ebbe,  pertanto,  ancora  la  fortezza di  Brescia,  a volere  clic  la  giovasse,  bi-sogno  d’ un  monsignor  di  Fois,  c d’  un esercito  francioso  che  in  tre  dì  la  soc- corresse. Sì  clic  F esscmpio  di  questo, all’  incontro  degli  essempi  contrari,  non basta  ; perchè  assai  fortezze  sono  state, nelle  guerre  de’  nostri  tempi,  prese  e riprese  con  la  mcdesimu  fortuna  che  si è ripresa  e presa  la  campagna,  non  so- lamente in  Lombardia,  ma  in  Romagna, nel  regno  di  Napoli,  c per  tutte  le  parti d’ Italia.  Ma,  quanto  allo  edificar  for- tezze per  difendersi  da’  n inaici  di  fuora, dico  che  le  non  sono  necessarie  a quelli popoli  nè  a quelli  regni  che  hanno  buoni eserciti;  ed  a quelli  che  non  hanno  buoni eserciti,  sono  inutili:  perchè  i buoni eserciti  senza  le  fortezze  sono  sufficienti a difendersi  ; le  fortezze  senza  i buoni eserciti  non  ti  possono  difendere.  E que-sto si  vede  per  isperienza  di  quelli  che sono  stati  e nei  governi  e nell*  altre cose  tenuti  eccellenti;  comesi  vede  dei Romani  e degli  Spartani:  che  se  i Ro- mani non  edificavano  fortezze,  gli  Spar-tani  non  solamente  si  astenevano  da quelle,  ma  non  permettevano  d’ aver mura  alla  loro  città;  perchè  volevano che  la  virtù  dell*  uomo  particolare,  non .altro  difensivo,  gli  difendesse.  Dondechè, essendo  domandato  uno  Spartano  da uno  Ateniese,  se  le  mura  d’  Atene  gli parevano  belle,  gli  rispose:  Si,  se  le fussino  abitate  da  donne.  Quel  principe, adunque,  che  abbi  buoni  eserciti,  quan- do in  sulle  marine  alla  fronte  dello Stato  suo  abbia  qualche  fortezza  che possa  qualche  dì  sostenere  lo  inimico infino  che  sia  a ordine,  sarebbe  qualche volta  cosa  utile,  ma  la  non  è necessaria. Ma  quando  il  principe  non  ha  buono esercito,  avere  le  fortezze  per  il  suo Stato  o alle  frontiere,  gli  sono  o dan- nose o inutili  : dannose,  perchè  facil- mente le  perde,  e perdute  gli  fanno guerra  ; o se  pur  le  fussino  sì  forti  che  M nimico  non  le  potesse  occupare,  sono lasciate  indietro  dallo  esercito  nimico,  evennono  ad  essere  di  nessuno  frutto:
perchè  i buoni  eserciti,  quando  non  hanno gagliardissimo  riscontro,  entrano  neipaesi  nitnici  senza  rispetto  di  città  o di fortezza  che  si  lascino  indietro;  come si  vede  nell*  antiche  istorie,  e come  si vede  fece  Francesco  Maria,  il  quale ne’ prossimi  tempi  per  assaltare  Urbino si  lasciò  indietro  dieci  città  ni  miche, senza  alcuno  rispetto.  Quel  principe, adunque,  che  può  fare  buono  esercito, può  fare  senza  edificare  fortezza;  quello che  non  ha  V esercito  buono,  non  debbe edificare.  Debbe  bene  afforzare  la  città dove  abita,  e tenerla  munita,  e ben  di- sposti i cittadini  di  quella,  per  poter sostenere  tanto  un  impelo  nimico,  o che accordo,  o che  aiuto  esterno  lo  liberi. Tutti  gli  altri  disegni  sono  di  spesa ne’  tempi  di  pace,  ed  inutili  ne’  tempi di  guerra.  E così,  chi  considererà  tutto quello  ho  detto,  conoscerà  i Romani, come  savi  in  ogni  altro  loro  ordine, cosi  furono  prudenti  in  questo  giudizio dei  Latini  e de’  Privernati  ; dove,  non pensando  a fortezze,  con  più  virtuosi modi  e più  savi  se  ne  assicurarono. Che  lo  assaltare  una  città disunita,  per  occuparla  mediante  la sua  disunione,  è partito  contrario. Era  tanta  disunione  nella  Repubblica romana  intra  la  Plebe  e la  Nobiltà,  clic i Veienti  insieme  con  gli  Etrusci,  me- diante tale  disunione,  pensarono  potere estinguere  il  nome  romano.  Ed  avendo fatto  esercito,  e corso  sopra  i campi  di Roma,  mandò  il  Senato  loro  contra  Gii. Manlio  e 2M.  Fabio;  i quali  avendo  con- dotto il  loro  esercito  propinquo  allo  eser- cito de’ Veienti,  non  cessavano  i Veien- ti, e con  assalti  e con  obbrobri,  offendere e vituperare  il  nome  romano:  e fu  tanta la  loro  temerità  ed  insolenza,  che  i Ro- mani di  disuniti  diventarono  uniti;  e venendo  alla  zuffa,  gli  ruppono  e vin- sono.  Vedesi  pertanto,  quanto  gli  uomini s’ ingannano,  come  di  sopra  discorrem-  mo,  nel  pigliare  de’  parliti;  c come  molte volte  credono  guadagnare  una  cosa,  e la  perdono.  Credeltono  i Veienti  assal- tando i Romani  disuniti,  vincergli;  c quello  assalto  fu  cagione  della  unione di  quelli,  e della  rovina  loro.  Perchè  la cagione  della  disunione  delle  repubbli- che il  più  delle  volte  è P ozio  e la  pace; la  cagione  della  unione  è la  paura  e la guerra.  E però,  se  i Veienti  fussiuo  stati savi,  eglino  arebbono,  quanto  più  disu- nita vedevano  Roma,  tanto  più  tenuta da  loro  la  guerra  discosto,  e con  Parti della  pace  cerco  d’oppressargli.  Il  modo  è cercare  di  diventare  confidente  di  quella città  ciré  disunita;  ed  infino  che  non vengono  alP  arme,  come  arbitro,  maneg- giarsi intra  le  parli.  Venendo  alParme, dare  lenti  favori  alla  parte  più  debole; si  per  tenergli  più  in  su  la  guerra,  e fargli  consumare;  si  perchè  le  assai forze  non  gli  facessero  tutti  dubitare  che tu  volessi  opprimergli,  e diventar  loro principe.  E quando  questa  parte  è go-vernata  bene,  interverrà  quasi  sempre che  Y ara  quel  fine  che  tu  hai  presup- posto. La  città  di  Pistoia,  come  in  altro discorso  e ad  altro  proposito  dissi, non  venne  alla  Repubblica  di  Firenze con  altra  arte  che  con  questa;  perchè, sendo  quella  divisa,  c favorendo  i Fio- rentini or  Furia  parte  or  l’altra, senza carico  dell’  una  e dell’  altra,  la  condus- sono  in  termine,  che,  stracca  di  quel suo  vivere  tumultuoso,  venne  sponta- neamente a gittarsi  nelle  braccia  di  Fi- renze. La  città  di  Siena  non  ha  mai  mu- tato stato  col  favore  de’ Fiorentini,' se non  quando  i favori  sono  stati  deboli  e pochi.  Perchè,  quando  e’ sono  stali  assai e gagliardi,  hanno  fatto  quella  città  unita alla  difesa  di  quello  stato  che  regge.  Io voglio  aggiungere  ai  soprascritti  un  al- tro essempio.  Filippo  Visconti,  duca  di Milano,  più  volte  mosse  guerra  ai  Fio- rentini, fondatosi  sopra  le  disunioni  loro, e sempre  ne  rimase  perdente;  talché gli  ebbe  a dire,  dolendosi  delle  sue  imprese,  come  le  pazzie  de’ Fiorentini  gli avevano  fatto  spendere  inutilmente  due milioni  d’  oro.  Restarono,  adunque,  co- me di  sopra  si  dice,  ingannati  i Veienli e gli  Toscani  da  questa  oppinione,  e fu- rono alfine  in  una  giornata  superati  dai Romani.  IT  così  per  Io  avvenire  ne  re- sterà ingannato  qualunque  per  simile via  e per  simile  cagione  crederà  oppres- sore un  popolo. Il  vilipendio  e V impro-perio genera  odio  conira  a coloro  che r usano j senza  alcuna  loro  utilità. lo  eredo  che  sta  una  delle  grandi  pru-denze che  usino  gli  uomini,  astenersi  o dal  minacciare,  o dallo  ingiuriare  alcuno con  le  parole:  perchè  1’  una  cosa  e l’al- tra non  tolgono  forze  al  nimico;  ma l’una  lo  fa  più  cauto;  l’altra  gli  fa avere  maggiore  odio  contra  di  te,  e pensare  con  maggiore  industria  di  of-fenderti. Yedesi  questo  per  lo  essempio de*  Veienti,  de’ quali  nel  capitolo  supe-riore si  è discorso;  i quali  alla  ingiu-ria della  guerra  aggiunsono,  contra  ai Romani,  l’obbrobrio  delle  parole:  dal quale  ogni  capitano  prudente  debbe  fare astenere  i suoi  soldati  ; perchè  le  son cose  che  infiammano  ed  accendono  il nimico  alla  vendetta,  ed  in  uessuna  parte lo  impediscono,  come  è detto,  alla  offesa; tanto  che  le  sono  tutte  arme  che  ven- gono contra  a te.  Di  che  ne  seguì  già uno  essempio  notabile  in  Asia:  dove Gabade,  capitano  de’ Persi,  essendo  stato a campo  ad  Amida  più  tempo,  ed  avendo diliberato,  stracco  dal  tedio  della  ossi- dione,  partirsi;  levandosi  già  col  campo, quelli  della  terra  venuti  tutti  in  su  le mura,  insuperbiti  della  vittoria,  non perdonarono  a nessuna  qualità  d’ ingiu- ria, vituperando,  accusando,  rimprove-rando la  viltà  e la  poltroneria  del  ni-mico. Da  che  Gabade  irritato,  mutò consiglio;  e ritornato  alla  ossidione,  tan-ta fu  la  indegnazione  della  ingiuria,  che in  pochi  giorni  gli  prese  e saccheggiò. E questo  medesimo  intervenne  a’Veienti: a’  quali,  coni’  è detto,  non  bastando  il far  guerra  a’  Romani,  ancora  con  le  pa- role gli  vituperarono;  ed  andando  in- iìno  in  su  lo  steccato  del  campo  a dir loro  ingiuria,  gl’ irritarono  molto  più con  le  parole  che  con  P arme  : e quelli soldati  che  prima  combattevano  mal  vo- lentieri, costrinsero  i Consoli  ad  appic- care la  zuffa;  talché  i Veienti  portarono la  pena,  come  gli  antedetti,  della  con-tumacia loro.  Hanno  adunque  i buoni principi  di  esercito,  ed  i buoni  governa-tori di  repubblica,  a far  ogni  opportuno
l imedio,  che  queste  ingiurie  e rimproveri non  si  usino  o nella  città  o nello  eser- cito suo,  nè  infra  loro,  nè  contra  il  ni-mico: perchè  usati  contra  al  nimico,  ne nascono  gli  inconvenienti  soprascritti; infra  loro,  farebbono  peggio  non  vi  si riparando,  come  vi  hanno  sempre  gli uomini  prudenti  riparato.  Avendo  le  le-gioni romane  state  lasciate  a Capova congiurato  conil  a a’ Capovani,  come  nel
suo  luogo  si  narrerà;  ed  essendone  di questa  congiura  nata  sedizione,  la  quale fu  poi  da  Valerio  Corvino  quietata  ; in- tra all*  altre  conslituzioni  che  nella  con- venzione si  fecero,  ordinarono  pene  gra-vissime a coloro  che  improverassino  mai ad  alcun  di  quelli  soldati  tale  sedizione. Tiberio  Gracco,  fatto  nella  guerra  di  An- nibaie capitano  sopra  certo  numero  di servi  che  i Romani,  per  carestia  d’uo- mini, avevano  armati,  ordinò,  intra  le prime  cose,  pena  capitale  a qualunque rimproverasse  la  servitù  di  alcuno  di loro.  Tanto  fu  stimato  dai  Romani,  co- me di  sopra  s’è  detto,  cosa  dannosa  il vilipendere  gli  uomini,  ed  il  rimprove- rare loro  alcuna  vergogna;  perchè  non è cosa  che  accenda  tanto  gli  animi  loro, nè  generi  maggiore  sdegno,  o da  vero o da  beffe  che  si  dica  : ISam  facetice aspcrcCj  quando  nimium  ex  vero  traxe rc,  acretn  sui  memorianx  relinquunt. Cap.  XXVII.  — Ai  principi  e repubbli-che prudenti  debbe  bastare  vincere;perchè  il  più  delle  volle j quando  non basti j si  perde. Lo  usare  parole  contra  al  nimico  pocoonorevoli,  nasce  il  più  delle  volte  dauna  insolenza  che  ti  dà  o la  vittoria  ola  falsa  speranza  della  vittoria;  la  qualefalsa  speranza  fa  gli  uomini ‘non  sola-mente errare  nel  dire,  ma  ancora  nellooperare.  Perchè  questa  speranza,  quandola  entra  ne’  petti  degli  uomini,  fa  loropassare  il  segno,  e perdere  il  più  dellevolte  quella  occasione  d’  avere  un  benecerto,  sperando  d’  avere  un  meglio  in-certo. E perchè  questo  è un  terminedie  merita  considerazione,  ingannando-cisi  dentro  gli  uomini  molto  spesso,  econ  danno  dello  stato  loro;  e’ mi  pareda  dimostrarlo  particolarmente  con  es-sempi  antichi  e moderni,  non  si  potendocon  le  ragioni  così  distintamente  dimo-Digitized  by  Googlestrare.  Annibaie,  poi  ch’egli  ebbe  rottii Romani  a Canne,  mandò  suoi  oratoria Cartagine  a significare  la  vittoria,  echiedere  sussidi.  Disputossi  nel  senatodi  quello  s’ avesse  a fare.  ConsigliavaAnnone,  un  vecchio  e prudente  cittadinocartaginese,  che  si  usasse  questa  vitto-ria saviamente  in  far  pace  coi  Romani,potendola  avere  con  condizioni  onesteavendo  vinto;  e non  s’aspettasse  d’averlaa fare  dopo  la  perdita:  perchè  la  in-tenzione de’  Cartaginesi  doveva  essere,mostrare  ai  Romani  come  e’ bastavan
a combattergli  ; ed  avendosene  avutovittoria,  non  si  cercasse  di  perderla  perla  speranza  d’ una  maggiore.  Non  fupreso  questo  partito;  ma  fu  bene  poidal  senato  cartaginese  conosciuto  savio,quando  1’  occasione  fu  perduta.  AvendoAlessandro  Magno  già  preso  tutto  l’orien-te, la  repubblica  di  Tiro,  nobile  in  quellitempi  e potente  per  avere  la  loro  cittàin  acqua  come  i Veniziani,  veduta  lagrandezza  d’  Alessandro,  gli  mandaronooratori  a dirgli,  come  volevano  esseresuoi  buoni  servitori  e dargli  quella  ub-bidienza voleva,  ma  che  non  erano  giàper  accettare  nè  lui  nè  le  sue  genti  nellaterra  : donde  sdegnato  Alessandro  cheuna  città  gli  volesse  chiudere  quelleporte  che  tutto  il  mondo  gli  aveva  aper-te, gli  ributtò,  e non  accettate  le  condi-zioni loro,  vi  mandò  a campo.  Era  laterra  in  acqua,  e benissimo  di  vettova-glie e d’  altre  munizioni  necessarie  alladifesa  munita:  tanto  che  Alessandro  do-po quattro  mesi  s*  avvide,  che  una  cittàgli  toglieva  quel  tempo  alla  sua  gloriache  non  gli  avevano  tolti  molti  altriacquisti  ; e diliberò  di  tentare  1*  accordo,e concedere  loro  quello  che  per  loromedesimi  avevano  domandato.  Ma  quellidi  Tiro  insuperbiti,  non  solamente  nonvolsero  accettare  l*  accordo,  ina  ammaz-zorono  chi  venne  a praticarlo.  Di  cheAlessandro  sdegnato,  con  tanta  forza  simise  alla  espugnazione,  che  la  prese  edisfece,  ed  ammazzò  e fece  schiavi  gliuomini.  Venne,  nel  4512,  uno  esercitospagnuolo  in  su  'I  dominio  fiorentinoper  rimettere  i Medici  in  Firenze,  e ta-glieggiare la  città,  condotti  da’ cittadinid’ entro,  i quali  avevano  dato  loro  spranza, che  subito  fussero  in  su  ’1  domi-nio fiorentino,  piglierebbono  V arme  inloro  favore;  ed  essendo  entrati  nel  piano,e non  si  scoprendo  alcuno,  ed  avendocarestia  di  vettovaglie,  tentarono  V ac-cordo: di  che  insuperbito  il  popolo  dFirenze,  non  lo  accettò-;  donde  ne  nacquela  perdita  di  Prato,  e la  rovina  di  quelloStato.  Non  possono,  pertanto,  i principiche  sono  assaltati  far  il  maggiore  errore,quando  1*  assalto  è fatto  da  uomini  digran  lunga  più  potenti  di  loro,  che  ri-cusare ogni  accordo,  massime  quandogli  è offerto:  perchè  non  sarà  mai  of-ferto si  basso,  che  non  vi  sia  dentro  inqualche  parte  il  bene  essere  di  coluiche  io  accetta,  e vi  sarà  parte  della  suavittori?.  Perchè  e’  doveva  bastare  al  po-polo di  Tiro,  clic  Alessandro  accettasse  quelle  condizioni  che  egli  aveva  prima rifiutate;  ed  era  assai  vittoria  la  loro, quando  con  Y armi  in  mano  avevano fatto  condiscendere  un  tanto  uomo  alla voglia  loro.  Doveva  bastare  ancora  al popolo  fiorentino,  e gli  era  assai  vittoria, se  lo  esercito  spagnuolo  cedeva  a qual- cuna delle  voglie  di  quello,  e le  sue  non adempieva  tutte:  perchè  la  intenzione di  quello  esercito  era  mutare  lo  stato in  Firenze,  e levarlo  dalla  devozione  di Francia,  e trarre  da  lui  danari.  Quando di  tre  cose  e’  ne  avesse  avute  due,  che son  1’ ultime;  ed  al  popolo  ne  fusse  re* stata  una,  che  era  la  conservazione  dello stato  suo;  ci  aveva  dentro  ciascuno  qual- che onore  e qualche  satisfazione,  nè  si doveva  il  popolo  curare  delle  due  cose, rimanendo  vivo  ; nè  doveva,  quando  bene egli  avesse  veduta  maggiore  vittoria,  e quasi  certa,  voler  mettere  quella  in  al- cuna parte  a discrezione  della  fortuna, andandone  Y ultima  posta  sua:  la  quale qualunque  prudente  mai  arrischierà  se non  necessitato.  Annibaie  partito  iT  Ita-lia, dove  era  stato  sedici  anni  glorioso, richiamato  da’  suoi  Cartaginesi  a soc- correre la  patria,  trovò  rotto  Asdrubale e Siface;  trovò  perduto  il  regno  di  Nu- midia; ristretta  Cartagine  intra  i termini delle  sue  mura,  alla  quale  non  restava altro  rifugio,  che  esso  e T esercito  suo  : e conoscendo  come  quella  era  1’  ultima posta  della  sua  patria,  non  volle  prima metterla  a rischio,  di’  egli  ebbe  ten- tato ogni  altro  rimedio;  e non  si  ver- gognò di  domandare  la  pace,  giudicando se  alcuno  rimedio  aveva  la  sua  patria, era  in  quella,  e non  nella  guerra:  quale sendogli  poi  negata,  non  volle  mancare, dovendo  perdere,  di  combattere;  giudi- cando potere  pur  vincere  ; o perdendo, perdere  gloriosamente.  E se  Annibaie, il  quale  era  tanto  virtuoso  ed  aveva  il suo  esercito  intero,  cercò  prima  la  pace che  la  zuffa,  quando  ci  vide  che  per- dendo quella,  la  sua  patria  diveniva  ser-va ; che  debbe  fare  un  altro  di  manco virtù  e di  manco  isperienza  di  lui?  Ma gli  uomini  fanno  questo  errore:  che  non sanno  porre  termini  alle  speranze  loro, ed  in  su  quelle  fondandosi,  senza  mi*surarsi  altrimenti,  rovinano. Quanto  sia  pericoloso
ad  una  repubblica  o ad  uno  principe non  vendicare  una  ingiuria  falla  con-tro al  pubblico  o conira  al  privalo. Quello  che  facciano  fare  agli  uomini gli  sdegni,  facilmente  si  conosce  per quello  che  avvenne  ai  Romani,  quando e’  mandarono  i tre  Fabi  oratori  ai  Fran- ciosi, che  erano  venuti  ad  assaltare  la Toscana,  ed  in  particolare  Chiusi.  Per- chè, avendo  mandato  il  popolo  di  Chiusi per  aiuto  a Roma,  i Romani  mandarono ambasciatori  a’  Franciosi,  che  in  nome del  Popolo  romano  significassero  a quelli, si  astenessino  di  far  guerra  ai  Toscani. I quali  oratori,  sendo  in  su  M luogo,  e più  atti  a fare  che  a dire,  venendo  i Franciosi  c i Toscani  alla  zuffa,  si  mi- sero intra  i primi  a combattere  contra a quelli  : onde  ne  nacque  che  essendo conosciuti  da  loro,  tutto  lo  sdegno  che avevano  contra  a’  Toscani,  volsero  con- tea ai  Romani.  11  quale  sdegno  diventò maggiore,  perchè,  avendo  i Franciosi per  loro  ambasciadori  fatto  querela  con il  Senato  romano  di  tale  ingiuria,  e do- mandato che  in  satisfazione  del  danno fussino  dati  loro  i soprascritti  Fabi; non  solamente  non  furono  consegnati loro,  o in  altro  modo  castigati;  ma  ve- nendo i comizi,  furono  fatti  Tribuni  con potestà  eousolare.  Talché,  veggendo  i Franciosi  quelli  onorati  che  dovevano esser  puniti,  ripresono  tutto  esser  fatto in  loro  dispregio  ed  ignominia;  ed  ac- cesi d’  ira  e di  sdegno,  vennero  ad  as- saltare Roma,  e quella  presero,  eccetto il  Campidoglio.  La  quale  rovina  nacque a*  Romani  solo  per  la  inosservanza  della
giustizia;  perchè  avendo  peccato  i loro ambasciatori  conira  jus  gcntiunij  e do-
vendo  esser  gastigati,  furono  onorati. Però  è da  considerare  quanto  ogni  re- pubblica ed  ogni  principe  debbe  tenere conto  di  fare  simile  ingiuria,  non  sola- mente contra  ad  una  universalità,  ma ancora  contra  ad  uno  particolare.  Per- chè, se  uno  uomo  è offeso  grandemente o dal  pubblico  o dal  privato,  e non  sia
vendicato  secondo  la  satisfazione  sua; se  e’  vive  in  una  repubblica,  cerca  an- cora con  la  rovina  di  quella  vendicarsi  ; se  e’  vive  sotto  un  principe,  ed  abbia in  sè  alcuna  generosità,  non  si  acquieta mai,  in  fino  che  in  qualunque  modo  si vendichi  contra  di  lui,  ancora  che  egli vi  vedesse  dentro  il  suo  proprio  male. Per  verificare  questo,  non  ci  è il  più bello  nè  il  più  vero  essemrpio  che  quello di  Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Ales- sandro. Aveva  costui  in  la  sua  corte Pausania,  giovine  bello  e nobile,  del quale  era  innamorato  Aitalo;  uno  de' pri- mi uomini  che  fusse  presso  a Filippo; cd  a\endolo  più  volte  ricerco  che  dovesse  consentirgli,  e trovandolo  alieno  da  si- mili cose,  deliberò  di  avere  con  inganno e per  forza  quello  che  per  altro  verso vedeva  non  potere  avere.  E fatto  un  so- lenne convito,  nel  quale  Pausania  e molti altri  nobili  baroni  convennero,  fece,  poi- ché ciascuno  fu  pieno  di  vivande  e di vino,  prendere  Pausania  ; e condottolo allo  stretto,  non  solamente  per  forza sfogò  la  sua  libidine,  ma  ancora,  per maggiore  ignominia,  lo  fece  da  molti degli  altri  in  simile  modo  vituperare. Della  quale  ingiuria  Pausania  si  dolse più  volte  con  Filippo  ; il  quale,  avendolo tenuto  un  tempo  in  speranza  di  vendi- carlo, non  solamente  non  lo  vendicò, ma  prepose  Attalo  al  governo  d’ una provincia  di  Grecia.  Donde  Pausania, vedendo  il  suo  nimico  onorato  e non gastigato,  volse  tutto  lo  sdegno  suo  non contra  a quello  che  gli  aveva  fatto  in-giuria, ma  conira  a Filippo  che  non P aveva  vendicato:  ed  una  mattina  so- lenne, in  su  le  nozze  della  figliuola  di Filippo  maritata  ad  Alessandro  di  Epiro, andando  Filippo  al  tempio  a celebrarle, in  mezzo  di  due  Alessandri,  genero  e figliuolo,  l’ammazzò.  Il  quale  essempio è molto  simile  a quello  de’  Romani,  no- tabile a qualunque  governa:  che  mai non  debba  tanto  poco  stimare  un  uomo, che  e’  creda,  aggiungendo  ingiuria  sopra ingiuria,  che  colui  che  è ingiuriato  non pensi  di  vendicarsi  con  ogni  .suo  peri-colo e particolar  danno. La  fortuna  accieca  gli animi  degli  uominij  quando  la  non imolc  che  quelli  si  opponghino  a*  di-segni suoi. Se  e’  si  considerrà  bene  come  proce-dono le  cose  umane,  si  vedrà  molte  volte nascere  cose  e venire  accidenti  a’ quali i cieli  al  tutto  non  hanno  voluto  che  si provvegga.  E quando  questo  eh’  io  dico intervenne  a Roma,  «love  era  tanta  virtù, tanta  religione  e tanto  ordine;  non  è meraviglia  che  gli  intervenga  molto  più spesso  in  una  città  o in  una  provincia che  manchi  delle  cose  sopradette.  E per-chè questo  luogo  è notabile  assai  a di-mostrare la  potenza  del  cielo  sopra  le cose  umane,  Tito  Livio  largamente  e con  parole  efficacissime  lo  dimostra  ; di-cendo come,  volendo  il  cielo  a qualche fine,  che  i Romani  conoscessono  la  po-tenza sua,  fece  prima  errare  quelli  Fa-bi  che  andarono  oratori  a’  Franciosi, e mediante  F opera  loro  gli  concitò  a far  guerra  a Roma:  dipoi  ordinò,  che per  reprimere  quella  guerra  non  si  fa-cesse in  Roma  cosa  alcuna  degna  del Popolo  romano;  avendo  prima  ordinato che  Camillo,  il  quale  poteva  essere  solo unico  rimedio  a tanto  male,  fusse  man- dato in  esilio  ad  Ardea:  dipoi  venendo i Franciosi  verso  Roma,  coloro  che  per rimediare  allo  impeto  de’Volsci,  ed  altri finitimi  loro  inimici,  avevano  creato  molte volte  un  Dittatore,  venendo  i Franciosi non  lo  crearono.  Ancora,  nel  fare  la elezione  de’  soldati,  la  feciono  debole  e senza  alcuna  istraordinaria  diligenza;  e furono  tanto  pigri  a pigliare  l’  arme, che  a fatica  furono  a tempo  a scontrare  i Franciosi  sopra  il  fiume  d’ Allia,  disco* sto  a Roma  dieci  miglia.  Qui  i Tribuni posero  il  loro  campo,  senza  alcuna  con* sueta  diligenza  ; non  provvedendo  il luogo  prima,  nou  si  circondando  con fossa  e con  steccato,  non  usando  alcuno rimedio  umauo  o divino  ; e nello  ordi- nare la  zuffa,  fecero  gli  ordini  rari  e deboli:  in  modo  che  nè  i soldati  uè  i capitani  fecero  cosa  degna  della  romana disciplina.  Combattessi  poi  senza  alcuno sangue;  perchè  e’ fuggirono  prima  che fussiuo  assaltati,  e la  maggior  parte  se ne  andò  a Veio,  1’  altra  si  ritirò  a Ro- ma; i quali  senza  entrare  altrimenti nelle  case  loro,  se  ne  entrarono  in  Cam-
pidoglio; in  modo  che  il  Senato,  senza peusare  di  difender  Roma,  non  chiuse, non  che  altro,  le  porte;  e parte  se  ne fuggi,  parte  con  gli  altri  se  ne  entra- rono  in  Campidoglio  Pure,  nel  difender quello  usarono  qualche  ordine  non  tu-multuario; perchè  e’  non  lo  aggravarono di  genti  inutili;  messonvi  tutti  i fru-menti che  poterono,  acciocché  potessino sopportare  1’  ossidione  j e della  turba inutile  de’  vecchi  e delle  donne  e de’ fan-ciulli, la  maggior  parte  se  ne  fuggi  nelle
terre  circunvicine,  il  rimanente  restò  in Roma  in  preda  de’  Franciosi.  Talché,  chi avesse  letto  le  cose  fatte  da  quel  popolo tanti  anni  innanzi,  e leggesse  dipoi  quelli tempi,  non  potrebbe  a nessun  modo  cre- dere che  fusse  stato  un  medesimo  po- polo. E detto  che  Tito  Livio  ha  tutti  i sopraddetti  disordini,  conchiude:  Adeo obcoecat  animo»  fortuna , cum  vini  suam ingruentem  refringi  non  vult.  Nè  può essere  -43ÌÙ  vera  «{«està  conclusione:  on- de gli  uomini  che  vivono  ordinariamente nelle  grandi  avversità  0 prosperità,  me- ritano manco  laude  0 manco  biasimo. Perchè  il  più  delle  volte  si  vedrà  quelli ad  una  rovina  e ad  una  grandezza  es-  scr  stati  condotti  da  una  comodità  grande che  gli  hanno  fatto  i cieli,  dandogli  oc-casione, o togliendoli  di  potere  operare virtuosamente.  Fa  bene  la  fortuna  que-sto, che  la  elegge  uno  uomo,  quando  la voglia  condurre  cose  grandi,  di  tanto spirito  e di  tanta  virtù,  che  e’ conosca quelle  occasioni  che  la  gli  porge.  Cosi medesimamente,  quando  la  voglia  con- durre grandi  rovine,  la  vi  prepone  uo-mini che  aiutino  quella  rovina.  E se alcuno  fusse  che  vi  potesse  ostare,  o la lo  ammazza,  o la  lo  priva  di  tutte  le facultà  da  potere  operare  alcun  bene. Conoscesi  questo  benissimo  per  questo testo,  come  la  fortuna  per  far  maggiore Roma,  e condurla  a quella  grandezza venne,  giudicò  fusse  necessario  batterla (come  a lungo  nel  principio  del  seguente libro  discorreremo),  ma  non  volle  già in  tutto  rovinarla.  E per  questo  si  vede che  la  fece  esulare,  e non  morire,  Cam- mino; fece  pigliare  Roma,  e non  il  Cam-pidoglio ; ordinò  che  i Romani,  per  ri parare  Roma,  non  pensassino  alcuna cosa  buona;  per  difendere  il  Campido-glio, non  mancarono  di  alcuno  buono  or-dine. Fece,  perchè  Roma  fusse  presa, che  la  maggior  parte  de’ soldati  che  fu-rono rotti  ad  Allia,  se  n’  andarono  a Veio;  e così,  per  la  difesa  della  città  di Roma,  tagliò  tutte  le  vie.  E nell’ ordinar questo,  preparò  ogni  cosa  alla  sua  ricupe- razione ; avendo  condotto  uno  esercito romano  intero  a Veio,  e Cammillo  ad Ardea,  da  poter  fare  grossa  testa,  sotto un  capitano  non  maculato  d’  alcuna  igno- minia per  la  ' perdita,  ed  intero  nella sua  riputazione,  per  la  ricuperazione della  patria  sua.  Sarebbeci  da  addurre in  confirmazione  delle  cose  delle  qual- che essempio  moderno;  ma  per  non  gli giudicare  necessari,  potendo  questo  a qualunque  satisfare,  gli  lascerò  indietro. Affermo  bene  di  nuovo,  questo  essere verissimo,  secondo  che  per  tutte  ì’islo- rie  si  vede,  che  gli  uomini  possono  se- condare la  fortuna  e non  opporsegli; possono  tessere  gli  orditi  suoi,  e non rompergli.  Debbono  bene  non  si  abban- donare mai  ; perchè  non  sappiendo  il fine  suo,  ed  andando  quella  per  vie  tra- verse ed  incognite,  hanno  sempre  a spe-rare, e sperando  non  si  abbandonare  in qualunque  fortuna  ed  in  qualunque  tra-vaglio si  trovino.
Cap.  XXX.  — Le  repubbliche  c gli  prin-cipi veramente  polenti  non  comperano l*  amicizie  con  danari,  ma  con  la virtù  e con  la  riputazione  delle  forze. Erano  i Romani  assediati  nel  Campi-doglio, ed  ancoraché  gli  aspettassino  il soccorso  da  Veio  e da  Cammillo,  sendo cacciati  dalla  fame,  vennono  a compo- sizione con  i Franciosi  di  ricomperarsi certa  quantità  d'oro;  e sopra  tale  con-venzione pesandosi  di  già  l’oro,  so-pravvenne Cammillo  con  V esercito  suo  :il  che  fece,  dice  lo  istorico,  la  fortuna,ut  Romani  auro  redempti  non  vivcrent.
La  qual  cosa  non  solamente  è notabile in  questa  parte,  ma  cziam  nel  processo delle  azioni  di  questa  Repubblica  ; dove si  vede  che  mai  acquistarono  terre  con danari,  mai  feciono  pace  con  danari, ma  sempre  con  la  virtù  delle  armi:  il che  non  credo  sia  mai  intervenuto  ad alcuna  altra  repubblica.  Ed  intra  gli altri  segni  per  i quali  si  conosce  la  po-tenza d’  uno  Stato,  è vedere  come  e'  vive con  gli  vicini  suoi.  E quando  e’  si  go- verna in  modo  che  i vicini,  per  averlo amico,  siano  suoi  pensionari,  allora  è certo  segno  che  quello  Stato  è potente: ma  quando  detti  vicini,  ancoraché  in- feriori a lui,  traggono  da  quello  danari, allora  è segno  grande  di  debolezza  di quello.  Legghinsi  tutte  le  istorie  romane, e vedrete  come  i Massiliensi,  gli  Edui, Rodiani,  lerone  siracusano,  Eumene  e Massinissa  regi,  i quali  tutti  erano  vi- cini ai  confini  dello  imperio  romano, per  avere  l’amicizia  di  quello,  concor- revano a spese  ed  a tributi  ne’  bisogni d’  esso,  non  cercando  da  lui  altro  pre- mio che  lo  essere  difesi.  Al  contrario
si  vedrà  negli  Stati  deboli:  e comin- ciandosi dal  nostro  di  Firenze,  ne’  tempi passati,  nella  sua  maggior  riputazione, non  era  signorotto  in  Romagna  che  non avesse  da  quello  provvisione;  e di  più la  dava  ai  Perugini,  ai  Castellani,  e a tutti  gli  altri  suoi  vicini.  Che  se  questa città  fusse  stata  armata  e gagliarda,  sa- rebbe tutto  ito  per  contrario:  perchè tutti,  per  avere  la  protezione  di  essa, arebbero  dato  danari  a lei,  e cereo  non di  vendere  la  loro  amicizia,  ma  di  com-perare la  sua.  Nè  sono  in  questa  viltà vissuti  soli  i Fiorentini,  ma  i Yiniziani, ed  il  re  di  Francia;  il  quale,  con  uno tanto  regno,  vive  tributario  de’ Svizzeri
e del  re  d’ Inghilterra.  Il  che  tutto  na-sce dallo  avere  disarmali  i popoli  suoi, ed  avere  piuttosto  voluto,  quel  re  e gli altri  prenominati,  godersi  un  presente
utile  di  potere  saccheggiare  i popoli,  e fuggire  uno  immaginato  piuttosto  che vero  pericolo,  che  fare  cose  che  gli  as- sicurino, e faccino  i loro  Stati  felici  in perpetuo.  li  quale  disordine  se  parto- risce qualche  tempo  qualche  quiete,  è cagione  col  tempo  di  necessità,  di  danni e rovine  irrimediabili.  E sarebbe  lungo raccontare  quante  volte  i Fiorentini,  Ve- niziani,  e questo  regno,  si  sono  ricom- perati in  su  le  guerre  ; e quante  volte si  sono  sottomessi  ad  una  ignominia,  che i-  Romani  furono  una  sola  volta  per sottomettersi.  Sarebbe  lungo  raccontare quante  terre  i Fiorentini  e Veniziatri hanno  comperate;  di  che  si  è veduto poi  ii  disordine,  e come  le  cose  che si  acquistano  con  1’  oro,  non  si  sanno difendere  col  ferro.  Osservarono  i Ro- mani questa  generosità  e questo  modo di  vivere,  mentre  che  vissono  liberi; ma  poiché  egli  entrarono  sotto  gli  im- peradori,  e che  gli  imperadori  comin- ciarono ad  esser  cattivi,  ed  amore  più P ombra  che  il  sole,  cominciarono  an- cora essi  a ricomperarsi,  ora  dai  Parti, ora  dai  Germani,  ora  da  altri  popoli convicitty:  il  che  fu  principio  della  ro- vina di  tanto  imperio.  Procedevano,  per- tanto, simili  inconvenienti  dallo  avere disarmati  i suoi  popoli:  di  che  ne  re- sulta un  altro  maggiore,  che  quanto  il nimico  più  ti  s’  appressa,  tanto  ti  trova più  debole.  Perchè  chi  vive  ne’  modi delti  di  sopra,  traila  male  quelli  sud- diti che  sono  dentro  all’  imperio  suo, per  avere  uomini  ben  disposti  a tenere il  nimico  discosto.  Di  questo  nasce,  che per.  tenerlo  più  discosto,  ei  dà  provvi- sione a questi  signori  e popoli  che  sono propinqui  ai  confini  suoi.  Donde  nasce che  questi  Stati  così  fatti  fanno  uu  poco di  resistenza  in  sui  confini,  ma  comeii nimico  gli  ha  passati,  ei  non  hanno  ri- medio alcuno.  E non  si  avveggono,  co- me questo  modo  del  loro  procedere  è conila  ad  ogni  buono  ordine.  Perchè  il cuore  c le  parti  vitali  d*  uu  corpo  si hanno  a tenere  armate,  e non  l’ estre- mità d’esso;  perchè  senza  quelle  si  vive, ed  offeso  quello  si  muore  : c questi  Stati tengono  il  cuore  disarmato,  e le  maui c li  piedi  armati.  Quello  che  abbia  fatto questo  disordine  a Firenze,  si  è veduto, e vedesi  ogni  di:  chè  come  uno  eser- cito passa  i confini,  e che  gli  entrano propinquo  al  cuore,  non  ritrova  più alcuno  rimedio.  De’  Veniziani  si  vidde pochi  anni  fono  la  medesima  pruova; c se  la  lorp  città  non  era  fasciata  dal- P acque,  se  ne  sarebbe  veduto  it  fine. Questa  isperienza  non  si  è vista  sì  spesso in  Francia,  per  essere  quello  sì  gran regno,  eh*  egli  ha  pochi  nimici  supe-riori. Nondimeno,  quando  gli  Inghilesi, nel  1513,  assaltarono  quel  regno,  tremò tutta  quella  provincia;  ed  il  re  mede- simo, e ciascuno  altro,  giudicava  che una  rotta  sola  gli  potesse  torre  lo  Stato. Ai  Romani  interveniva  il  contrario;  per- chè quanto  più  il  nimico  si  appressava a Roma,  tanto  più  trovava  quella  città potente  a resistergli.  E si  vidde  nella ventila  d’ Annibaie  in  Italia,  che  dopo tre  rotte,  c dopo  tante  morti  di  capi- tani e di  soldati,  ei  poterono  non  solo sostenere  il  nimico,  ma  vincere  la  guerra. Tutto  nacque  dallo  avere  bene  armato il  cuore,  e delle  estremità  tenere  poco conto.  Perchè  il  fondamento  dello  stato suo  era  il  popolo  di  Roma,  il  nome  la-tino, e V altre  terre  compagne  in  Italia, e le  loro  colonie;  donde  e' traevano  tanti soldati,  che  furono  suftmenti  con  quelli a combattere,  e tenere  il  mondo.  E che sia  vero,  si  vede  per  la  domanda  che fece  Annone  cartaginese  a quelli  oratori d’ Annibaie  dopo  la  rotta  di  Canne:  i quali  avendo  magnificato  le  cose  fatte da  Annibaie,  furono  domandali  da  An-none, se  del  popolo  romano  alcuno  era venuto  a domandar  pace,  e se  del  nome latino  e delle  colonie  alcuna  terra  si  era ribellata  dai  Romani;  e negando  quelli l’ una  e l’altra  cosa,  replicò  Annone: Questa  guerra  è ancora  intera  come prima.  Vedesi,  pertanto,  e per  questo discorso,  e per  quello  che  più  volte  ab bianio  altrove  detto,  quanta  diversità sia  dal  modo  del  procedere  delle  repub-bliche presenti,  a quello  delle  antiche. Vedesi  ancora  per  questo  ogni  di  mira- colose perdite  e miracolosi  acquisti.  Per- chè, dove  gli  uomini  hanno  poca  virtù, la  fortuna  dimostra  assai  la  potenza  sua; e perchè  la  è varia,  variano  le  repubbliche e gli  Stati  spesso;  e varieranno sempre,  iniino  che  non  surga  qualcuno
che  sia  dell’  antichità  tanto  amatore,  che la  regoli  in  modo,  che  la  non  abbi  ca-gione di  dimostrare  ad  ogni  girare  di sole  quanto  ella  puote. Cap.  XXXI.  — Quanto  sia  pericoloso credere  agli  sbandili. E’  non  mi  pare  fuori  di  proposito  ra-gionare, intra  questi  altri  discorsi,  quanto sia  cosa  pericolosa  credere  a quelli  che sono  cacciati  della  patria  sua,  essendo cose  che  ciascuno  di  si  hanno  a prati- care da  coloro  che  tengono  Stati:  po- tendo,  massime,  dimostrare  questo  con uno  memorabile  essempio  detto  da  Tito Livio  nelle  sue  istorie,  ancora  che  sia  foo-  x ra  di  proposito  suo.  Quando  Alessandro Magno  passò  con  Y esercito  suo  in  Asia, Alessandro  di  Epiro,  cognato  e zio  di quello,  venne  con  genti  in  Italia,  chia- mato dagli  sbanditi  Lucani,  i quali  gli dettono  speranza  che  potrebbe  mediatiti loro  occupare  tutta  quella  provincia. Donde  che  quello,  sotto  la  lode  e spe-ranza loro,  venuto  in  Italia,  fu  morto da  quelli;  sendo  loro  promesso  Hi  ritor-nata nella  patria  dai  loro  cittadini,  se 10  ammazzavano.  Debbesi  considerare, pertanto,  quanto  sia  vana  e la  fede  e le promesse  di  quelli  che  si  trovano  privi della  loro  patria.  Perchè,  quanto  alla fede,  si  ha  ad  estimare  che  qualunque volta  possono  per  altri  mezzi  che  per 11  tuoi  rientrare  nella  patria  loro,  che iasceranno  te  ed  aceosterannosi  ad  altri, nonostante  qualunque  promessa  ti  aves- sino fatta.  E quanto  alla  vana  promessa
e speranza,  egli  è tanta  la  voglia  estrema die  è in  loro  di  ritornare  in  casa,  che e’ credono  naturalmente  molte  cose  che sono  false,  e molte  ad  arte  ne  aggiun- gono:  talché,  tra  quello  che  credono  e quello  che  dicono  di  credere,  ti  riem- piono di  speranza }.  tulmentechè  fonda-toti in  su  quella,  tu  fai  una  spesa  in vano,  o tu  fai  una  impresa  dove  tu  ro-vini. Io  voglio  per  cssempio  mi  basti Alessandro  predetto,  e di  più  Temisto- cle ateniese;  il  quale  essendo  fatto  ri- bello, se  ne  fuggi  in  Asia  a Dario,  dove gli  promisse  tanto,  quando  ei  volesse assaltare  la  Grecia,  che  Dario  si  volse alla  impresa.  Le  quali  promesse  non  gli potendo  poi  Temistocle  osservare,  o per vergogna  o per  tema  di  supplicio,  av- velenò sè  stesso.  E se  questo  errore  fu fatto  da  Temistocle,  nomo  eccellentissi- mo, si  debbe  stimare  che  tanto  più  vi errino  coloro  che,  per  minor  virtù,  si lasceranno  più  tirare  dalla  voglia  e dalla passione  loro.  Debbe,  adunque,  un  prin-cipe  andare  adagio  a pigliare  imprese sopra  la  relazione  d’ un  confinato,  per- chè il  più  delle  volle  se  ne  resta  o con vergogna,  o con  danno  gravissimo.  E perchè  ancora  rade  volle  riesce  il  pi- gliare le  terre  di  furto,  e per  intelli- genza che  altri  avesse  in  quelle,  non  mi pare  fuor  di  proposito  discorrerne  nel seguente  capitolo;  aggiungendovi  con quanti  modi  i Romani  le  acquistavano. Cap.  XXXII.  — In  quanti  modi  i Romani occupavano  le  terre. Essendo  i Romani  tutti  volti  alla  guer- ra, fecero  sempre  mai  quella  con  ogni vantaggio,  e quanto  alla  spesa,  e quanto ad  ogni  altra  cosa  che  in  essa  si  ricerca. Da  questo  nacque  che  si  guardarono  dal pigliare  le  terre  per  ossidione  ; perchè giudicavano  questo  modo  di  tanta  spesa e di  tanto  scomodo,  che  superasse  di gran  lunga  la  utilità  che  dello  acquisto si  potesse  trarre:  e per  questo  pensa-rono  che  fusse  meglio  e più  utile  sog-giogare le  len  e per  ogni  altro  modo  che assediandole;  donde  in  tante  guerre  ed in  tanti  anni  ci  sono  pochissimi  essem- pi  di  ossidioni  fatte  da  loro.  I modi, adunque,  con  i quali  gli  acquistavano le  città,  erano  o per  espugnazione,  o per  dedizione.  La  espugnazione  era  o per  forza  e per  violenza  aperta,  o per forza  mescolata  con  fraude.  La  violenza aperta  era  o con  assalto,  senza  percuo- tere le  mura  (il  che  loro  chiamavano aggredì  urbem  coronaj  perchè  con  tutto l’ esercito  circondavano  la  città,  e da tutte  le  parti  la  combattevano;  e molte volte  riuscì  loro  che  in  uno  assalto  piglia-rono una  città,  ancora  che  grossissima,
come  quando  Scipione  prese  Cartagine nuova  in  (spaglia)  : o,  quando  questo assalto  non  bastava,  si  dirizzavano  a rompere  le  mura  con  arieti,  o con  al- tre loro  macchine  belliche:  o e’ facevano una  cava,  e per  quella  entravano  nella città  (nel  qual  modo  presono  la  città de’  Veìenti)  : o,  per  essere  eguali  a quelli che  difendevano  le  mura,  facevano  torri di  legname,  o facevano  argini  di  terra appoggiati  alle  mura  di  fuori,  per  ve-nire all’  altezza  di  esse  sopra  quelli. Contea  questi  assalti,  chi  difendeva  le terre,  nel  primo  caso  circa  lo  essere assaltato  intorno  intorno,  portava  più subito  pericolo,  ed  avea  più  dubbi  rime-di: perchè  bisognandoli  in  ogni  loco avere  assai  difensori,  o quelli  ch’egli aveva  non  erano  tanti  che  potessero  o supplire  per  tutto,  o cambiarsi  ; o se potevano,  non  erano  tutti  di  eguale  ani- mo a resistere,  e da  una  parte  che  fusse inclinata  la  zuffa,  si  perdevano  tutti. Però  occorse,  come  io  ho  detto,  che molte  volte  questo  modo  ebbe  felice  suc-cesso. Ma  quando  non  riusciva  al  primo, non  lo  ritentavano  molto,  per  esser  mo-do pericoloso  per  lo  esercito  : perchè difendendosi  in  tanto  spazio,  restava  per tutto  debile  a potere  resistere  ad  una eruzione  che  quelli  di  dentro  avessino fatta,  ed  anche  si  disordinavano  e strac-cavano i soldati;  ma  per  una  volta  ed allo  improvviso  tentavano  tal  modo. Quanto  alla  rottura  delle  mura,  sì  op-
ponevano, come  re’ presenti  tempi,  con ripari.  E per  resistere  alle  cave,  face-vano una  contraccava,  e per  quella  si opponevano  al  nimico,  o con  le  armi  o con  altri  ingegni:  intra  i quali  era  que- sto, che  egli  empivano  dogli  di  penne, nelle  quali  appiccavano  il  fuoco,  ed  ac- cesi gli  mettevano  nella  cava,  i quali con  il  fumo  e con  il  puzzo  impedivano l'entrata  a'  nimici.  E se  con  le  torri  gli assaltavano,  s' ingegnavano  con  il  fuoco rovinarle.  E quanto  agli  argini  di  terra, rompevano  il  muro  da  basso,  dove  l'ar- gine s'appoggiava,  tirando  dentro  la  ter- ra che  quelli  di  fuori  vi  ammontavano; talché  ponendosi  di  fuori  la  terra,  e le- vandosi di  dentro,  veniva  a non  cre-scere 1'  argine.  Questi  modi  di  espugna-zione non  si  possono  lungamente  tentare: ma  bisogna  o levarsi  da  campo,  e cer-care  per  altri  modi  vincere  la  guerra; come  fece  Scipione,  quando  entrato  in
Affrica,  avendo  assaltato  litica  e non  gli riuscendo  pigliarla,  si  levò  dal  campo, e cercò  di  rompere  gii  eserciti  cartagi-nesi: ovvero  volgersi  alla  ossidione; come  feciono  a Vcio,  Capova,  Cartagine e lerusalem  e simili  terre,  che  per  os-sidione occuparono.  Quanto  allo  acqui-
stare le  terre  per  violenza  furtiva,  oc-corre come  intervenne  di  Palepoli,  cheper  trattato  di  quelli  di  dentro  i Romani la  occuparono.  Di  questa  sorte  espugna-zione dai  Romani  c da  altri  ne  sono state  tentate  molte,  e poche  ne  sono  riu-scite : la  ragione  è che  ogni  minimo impedimento  rompe  il  disegno,  e gli impedimenti  vengono  facilmente.  Perchè, o la  congiura  si  scuopre  innanzi  che  si venga  all’atto  : e scuopresi  non  con  molta diftìcultà,  sì  per  la  infedelità  di  coloro con  chi  la  è comunicata,  sì  per  la  diffì- cullù  del  praticarla,  avendo  a convenire con  nimici,  e con  chi  non  ci  è licito,  se  non  sotto  qualche  colore,  parlare.  Ma quando  la  congiura  non  si  scoprisse  nel
maneggiarla,  vi  surgono  poi  nel  met-terla in  atto  mille  dilYicultà.  Perchè,  o se  tu  vieni  innanzi  al  tempo  disegnato, o se  tu  vieni  dopo,  si  guasta  ogni  cosa  : se  si  lieva  un  rumore  furtivo,  come 1’  oche  del  Campidoglio  : se  si  rompe uno  ordine  consueto  : ogni  minimo  erro-re ed  ogni  minima  fallacia  che  si  piglia, rovina  la  impresa.  Aggiungonsi  a que- sto le  tenebre  della  notte;  le  quali  met- tono più  paura  a chi  travaglia  in  quelle cose  pericolose.  Ed  essendo  la  maggior parte  degli  uomini  che  si  conducono  a simili  imprese,  inesperti  del  sito  del paese  e de’  luoghi,  dove  ei  sono  menati, si  confondono,  inviliscono,  ed  implicano per  ogni  minimo  e fortuito  accidente; ed  ogni  immagine  falsa  è per  fargli  met-tere in  volta.  Nè  si  trovò  mai  alcuno che  fusse  più  felice  in  queste  espedizioni
fraudolente  c notturne,  che  Arato  Sicio-neo;  il  quale  quanto  valeva  in  queste,tanto  nelle  diurne  ed  aperte  fazioni  era pusillanime:  il  che  si  può  giudicare fusse  più  tosto  per  una  occulta  virtù  clic era  in  lui,  che  perchè  in  quelle  natu- ralmente dovesse  essere  più  felicità.  Di questi  modi,  adunque,  se  ne  praticano assai,  pochi  se  ne  conducono  alla  pruova,-
e pochissimi  ne  riescono.  Quanto  allo acquistare  le  terre  per  dedizione,  o le si  danno  volontarie,  o forzate.  La  vo-lontà nasce  o per  qualche  necessità  estrin-seca che  gli  costringe  a rifuggirsi  sotto; come  fece  Capova  ai  Romani;  o per  de-siderio di  esser  governati  bene,  sendo allettati  dal  governo  buono  che  quel  prin-cipe tiene  in  coloro  che  se  gli  sono  vo-lontari rimessi  in  grembo  ; come  fcrono i Rodiani,  i Massiliensi  ed  altri  simili cittadini,  che  si  deltono  al  Popolo  ro-'mano.  Quanto  alla  dedizione  forzata,  o tale  forza  nasce  da  una  lunga  ossidione, come  di  sopra  si  è detto;  o la  nasce  da una  continua  oppressione  di  correrie, depredazioni,  ed  altri  mali  trattamenti,  i quali  volendo  fuggire,  una  città  si  arren- de. Di  tutti  i modi  detti,  ì Romani  usa- rono più  questo  ultimo  che  nessuno;  ed attesono  più  che  quattrocento  cinquanta anni  a straccare  i vicini  con  le  rotte  e con le  scorrerie,  e pigliare  mediani!  gli  accor- di riputazione  sopra  di  loro,  come  altre volte  abbiamo  discorso.  E sopra  tal  modo si  fondarono  sempre,  ancora  che  gli  ten-tassino  tutti;  ma  negli  altri  trovarono cose  o pericolose,  o inutili.  Perchè  nella ossidione  è la  lunghezza  e la  spesa; nella  espugnazione,  dubbio  e pericolo; nelle  congiure,  la  incerlitudine.  E vid-dono  che  con  una  rotta  d’esercito  ini-mico acquistavano  un  regno  in  un  gior-no; e nel  pigliare  per  ossidione  una città  ostinata,  consumavano  molti  anni. XXXUI.  — Come  i Romani  davano agli  loro  capitani  degli  eserciti  le commissioni  libere. lo  stimo  che  sia  da  considerare,  leg-gendo questa  liviana  istoria,  volendone far  profitto,  tutti  i modi  del  procedere del  Popolo  e Senato  romano.  E infra P altre  cose  che  meritano  considerazione, sono  : vedere  con  quale  autorità  ei  man-davano fuori  i loro  Consoli,  Dittatori ed  altri  Capitani  degli  eserciti  ; de’  quali si  vede  V autorità  essere  stata  grandis-
sima, ed  il  Senato  non  si  riservare  al-tro che  P autorità  di  muovere  nuove guerre,  e di  confirmare  le  paci;  tutte P altre  cose  rimetteva  nell’  arbitrio  e potestà  del  Consolo.  Perchè,  deliberata
eh*  era  dal  Popolo  e dal  Senato  una guerra,  verbigrazia  contra  ai  Latini, tutto  il  resto  rimettevano  nelP  arbitrio del  Consolo;  il  quale  poteva  o fare  uua giornata  o non  la  fare,  e campeggiare questa  o quell*  altra  terra,  come  a lui pareva.  Le  quali  cose  si  verificano  per molti  essempi,  e massime  per  quello  che occorse  in  una  ispedizione  contra  ai Toscani.  Perchè,  avendo  Fabio  Consolo vinto  quelli  presso  a Sutri,  e disegnando con  P esercito  dipoi  passare  la  selva Cimino,  ed  andare  in  Toscana;  non  so-lamente non  si  consigliò  col  Senato, raa  non  gli  ne  dette  alcuna  notizia,  an-cora che  la  guerra  fusse  per  aversi  a fare  in  paese  nuovo,  dubbio  e pericoloso. Il  che  si  testifica  ancora  per  la  dilibe-razione che  all’  incontro  di  questo  fu fatta  dal  Senato  : il  quale  avendo  inteso la  vittoria  che  Fabio  aveva  avuta,  du-bitando che  quello  non  pigliasse  partitodi  passare  per  le  dette  selve  in  Tosca-na, giudicando  che  fusse  bene  non  ten-tare quella  guerra  e correre  quel  peri-colo, mandò  a Fabio  due  Legati  u far-gli intendere  non  passasse  in  Toscana;
i quali  arrivarono  che  vi  era  già  pas-sato, ed  aveva  avuta  la  vittoria,  ed  in cambio  di  impeditoci  della  guerra,  tor-narono ambasciadori  dello  acquisto  e della  gloria  avuta.  E chi  considera  bene questo  termine,  lo  vedrà  prudentissima-mente  usato  : perchè,  se  il  Senato  avesse
voluto  che  un  Consolo  procedesse  nella guerra  di  mano  in  mano,  secondo  che quello  gli  commelteva,  lo  faceva  meno circunspetlo  e più  lento;  perchè  non gli  sarebbe  parato  che  la  gloria  della vittoria  fusse  tutta  sua,  ma  che  ne  participasse  il  Senato  con  il  consiglio  del quale  ei  si  fusse  governato.  Oltra  di questo,  il  Senato  si  obbligava  a voler consigliare  una  cosa  che  non  se  ne  po-teva intendere;  perchè,  nonostante  che in  quello  fussino  tutti  uomini  esercita-tissimi nella  guerra,  nondimeno  non essendo  in  sul  luogo,  e non  sappiendo infiniti  particolari  che  sono  necessari sapere  a voler  consigliar  bene,  areb-bono,  consigliando,  fatti  infiniti  errori. E per  questo  e’  volevano  che  ’1  Consolo per  sè  facesse,  e che  la  gloria  fusse tutta  sua;  lo  amore  della  quale  giudica- vano che  fusse  freno  e regola  a farlo operar  bene.  Questa  parte  si  è più  vo- lentieri notata  da  me,  perchè  io  veggio che  le  repubbliche  de’  presenti  tempi, come  è la  veneziana  e fiorentina,  la intendono  altrimenti  ; e se  gli  loro  ca-pitani,  provveditori  o commissari  hanno a piantare  una  artiglieria,  lo  vogliono
intendere,  e consigliare.  Il  quale  modo merita  quella  laude  che  meritano  gli altri,  i quali  tutti  insieme  I’  hanno  con- dotte ne’  termini  che  al  presente  si truovano. .LIBRO  TERZO.  I.  — A volere  che  una  sella  o una repubblica  viva  lungamente , è neces-sario ritirarla  spesso  verso  il  suo principio. Egli  è cosa  verissima,  come  tutte  le cose  del  mondo  hanno  il  termine  della vita  loro.  Ma  quelle  vanno  tutto  il  corso che  è loro  ordinato  dal  cielo  general- mente, che  non  disordinano  il  corpo loro,  ma  tengonlo  in  modo  ordinato,  o che  non  altera,  o s' egli  altera,  è a sa-lute, e non  a danno  suo.  E perchè  io parlo  de’  corpi  misti,  come  sono  le  re-pubbliche e le  sètte,  dico  clic  quelle  al-(eruzioni  sono  u salute,  che  le  riducono verso  i principi!  loro.  E però  quelle
sono  meglio  ordinate,  ed  hanno  più  lunga vita,  che  mediatiti  gli  ordini  suoi  si  pos sono  spesso  rinnovare;  ovvero  che  per accidente,  fuori  di  detto  ordine,  vengono a detta  rinnovazione.  Ed  è cosa  più  chiara che  la  luce,  che  non  si  rinnovando  que- sti corpi,  non  durano.  Il  modo  del  rin- novargli è,  come  è detto,  ridurgli  verso i principii  suoi.  Perchè  tutti  i pri  nei  pi  i delle  sètte,  e delle  repubbliche,  e dei regni,  conviene  che  abbino  in  sè  qual- che bontà,  mediante  la  quale  ripiglino la  prima  riputazione,  ed  il  primo  augu- mento  loro.  E perchè  nel  processo  del tempo  quella  bontà  si  corrompere  non interviene  cosa  che  la  riduca  al  segno, ammazza  di  necessità  quel  corpo.  E que- sti dottori  di  medicina  dicono,  parlando dei  corpi  degli  uomini,  quoti  quolidie aggregatur  aliquidj  quod  quandoque indiget  curalione.  Questa  riduzione  verso  il  principio,  parlando  delle  repubbliche, si  fa  o per  accidente  estrinseco,  o per prudenza  intrinseca.  Quanto  al  primo, si  vede  come  gli  era  necessario  che  Roma fusse  presa  dai  Franciosi,  a volere  che la  rinascesse;  e rinascendo,  ripigliasse nuova  vita  e nuova  virtù;  e ripigliasse la  osservanza  della  religione  e della  giu-
stizia, le  quali  in  lei  cominciavano  a macularsi.  Il  che  benissimo  si  comprende per  l’istoria  di,  Livio,  dove  ei  mostra che  nel  trar  fuori  1’  esercito  contra  ai Franciosi,  e nel  creare  i Tribuni  con potestà  consolare,  non  osservarono  al- cuna religiosa  cerimonia.  Così  medesi-mamente, non  solamente  non  privarono i tre  Fabi  i quali  conira  jus  gcntium avevano  combattuto  contra  i Franciosi, ma  gli  crearono  Tribuni.  E debbesi  fa- cilmente presupporre,  che  dell’ altre  con stituzioni  buone  ordinate  da  Romolo,  e ila  quelli  altri  principi  prudenti,  si  co- minciasse a tenere  meno  conto  che  non era  ragionevole  e necessario  a tenere  il vivere  libero.  Veline,  adunque,  questa
battitura  estrinseca,  acciocché  tutti  gii ordini  di  quella  città  si  ripigliassero; e si  mostrasse  a quel  popolo,  non  so- lamente essere  necessario  mantenere  la religione  e la  giustizia,  ma  ancora  sti- mare i suoi  buoni  cittadini,  e far  più conto  della  loro  virtù,  che  di  quelli  co- modi che  e’  paresse  loro  mancare  me-diante 1’  opere  loro.  Il  che  si  vede  che successe  appunto;  perchè,  subito  Ripresa Roma,  rinnovarono  tutti  gli  ordini  del 1’  antica  religione  loro;  punirono  quelli Fabi  die  avevano  combattuto  conira jus  genfìum  ; ed  oppresso  stimarono tanto  la  virtù  e bontà  di  Cammillo,  che posposto,  il  Senato  e gli  altri,  ogni  in- vidia, rimettevano  in  lui  tutto  il  pondo di  quella  Repubblica.  È necessario,  adun- que, come  è detto,  che  gli  uomini  che vivono  insieme  in  qualunque  ordine, spesso  si  riconoschino,  o per  questi  ac-cidenti estrinsechi  o per  gli  intrinsechi. E quanto  a questi,  conviene  che  nasca o da  una  legge  la  quale  spesso  rivegga il  conto  agii  uomini  che  sono  in  quel corpo;  o veramente  da  uno  uomo  buono che  nasca  fra  loro,  il  quale  con  gli  suoi essempi  e con  le  sue  opere  virtuose, faccia  il  medesimo  effetto  che  l’ordine. Surge,  adunque,  questo  bene  nelle  re- pubbliche, o per  virtù  d’un  uomo  o per virtù  d’  uno  ordine.  E quanto  a questo ultimo,  gli  ordini  che  ritirarono  la  Re-pubblica romana  verso  il  suo  principio, furono  i Tribuni  della  plebe,  i Censori, e tutte  1’  altre  leggi  che  venivano  con tra  all’ambizione  ed  alla  insolenza  degli uomini.  I quali  ordini  hanno  bisogno d’ esser  fatti  vivi  dalla  virtù  d’  un  cit- tadino, il  quale  animosamente  concorra ad  eseguirli  contra  alla  potenza  di  quelli che  gli  trapassano.  Delle  quali  esecu- zioni, innanzi  alla  presa  di  Roma  dai Franciosi,  furon  notabili,  la  morte  de’ figliuoli  di  Bruto,  la  morte  de’  dieci  cit-tadini, quella  di  Melio  Frumentario:  dopo la  presa  di  Roma,  fu  la  morte  di  Man-lio Capitolino,  la  morte  del  figliuolo  di Manlio  Torquato,  la  esecuzione  di  Papi-rio Cursore  conira  a Fabio  suo  maestro
de’ Cavalieri,  la  accusa  degli  Scipioni. Le  quali  cose,  perchè  erano  eccessive  e notabili,  qualunque  volta  ne  nasceva  una, facevano  gli  uomini  ritirare  verso  il  se- gno: e quando  le  cominciarono  ad  es-ser più  rare,  cominciarono  ancora  a dare più  spazio  agii  uomini  di  corrompersi, e farsi  con  maggiore  pericolo  e più  tu- multo. Perchè  dalP  una  all’altra  di  simili esecuzioni  non  vorrebbe  passare,  il  più, dieci  anni:  perchè,  passato  questo  tempo, gli  uomini  cominciano  a variare  co’  co-stumi, e trapassare  le  leggi  ; e se  non nasce  cosa  per  la  quale  si  riduca  loro a memoria  la  pena,  e ritruovisi  negli animi  loro  la  paura,  concorrono  tosto tanti  delinquenti,  che  non  si  possono più  punire  senza  pericolo.  Dicevano,  a questo  proposito,  quelli  che  hanno  go-vernato lo  Stato  di  Firenze  dal  1434 infino  al  1494,  come  egli  era  necessario ripigliare  ogni  cinque  anni  lo  Stato; altrimenti,  era  difficile  mantenerlo  : e chiamavano  ripigliare  lo  Stato,  mettere quel  terrore  e quella  paura  negli  uo- mini che  vi  avevano  messo  nel  pigliarlo, avendo  in  quel  tempo  battuti  quelli  che avevano,  secondo  quel  modo  di  vivere, male  operato.  Ma  come  di  quella  batti- tura la  memoria  si  spegne,  gli  uomini prendono  ardire  di  tentare  cose  nuove, e di  dir  male;  c però  è necessario  prov-vedervi, ritirando  quello  verso  i suoi principii.  Nasce  ancora  questo  ritira-mento delle  repubbliche  verso  il  loro principio  dalle  semplici  virtù  d’un  uomo, senza  dipendere  da  alcuna  legge  che  ti stimoli  ad  alcuna  esecuzione:  nondiman co  sono  di  tanta  riputazione  e di  tanto essempio,  che  gli  uomini  buoni  dispe-rano imitarle,  e gli  tristi  si  vergognano a tenere  vita  contraria  a quelle.  Quelli che  in  Roma  particolarmente  feciono questi  buoni  effetti,  furono  Orazio  Code, Scevola,  Fabrizio,*  i duoi  Deci,  Regolo Attilio,  ed  alcuni  altri  ; i quali  con  i loro essempi  rari  e virtuosi  facevano  in  Roma quasi  il  medesimo  effetto  che  si  faces-sino  le  leggi  e gli  ordini.  E se  le  ese-cuzioni soprascritte,  insieme  con  questi particolari  essempi,  fussino  almeno  se-guite ogni  dieci  anni  in  quella  città,  ne seguiva  di  necessità  che  la  non  si  sarebbe mai  corrotta:  ma  coinè  e’ cominciarono  a diradare  1’  una  e V altra  di  queste  due cose,  cominciarono  a moltiplicare  le  cor- ruzioni. Perchè  dopo  Marco  Regolo  non vi  si  vidde  alcun  simile  essempio:  e ben- ché in  Roma  surgessino  i duoi  Catoni, fu  tanta  distanza  da  quello  a loro,  ed intra  loro  dall’  uno  all’  altro,  e rimasono sì  soli,  che  non  potettono  con  gli  es- sempi  buoni  fare  alcuna  buona  opera; e massime  P ultimo  Catone,  il  quale  tro- vando in  buona  parte  la  città  corrotta, non  potette  con  lo  essempio  suo  fare che  i cittadini  diventassino  migliori.  E questo  basti  quanto  alle  repubbliche.  Ma quanto  alle  sètte,  si  vede  ancora  queste rinnovazioni  essere  necessarie  per  lo  essempio  della  nostra  religione;  la  quale se  non  fusse  stata  ritirata  verso  il  suo principio  da  san  Francesco  c da  san  Do- menico, sarebbe  al  lutto  spenta.  Perchè questi,  con  la  povertà  e con  ressempio della  vita  di  Cristo,  la  ridussono  nella mente  degli  uomini,  che  già  vi  era  spen- ta : e furono  sì  potenti  gli  ordini  loro nuovi,  cli’ei  sono  cagione  che  la  diso- nestà de’  prelati  e de’  capi  della  reli- gione non  la  rovini;  vivendo  ancora  po- veramente, ed  avendo  tanto  credito  nelle confessioni  con  i popoli  e nelle  predi- cazioni, che  c’  danno  loro  ad  intendere come  egli  è male  a dir  male  del  male, e che  sia  bene  vivere  sotto  1*  ubbidienza loro,  e se  fanno  errori,  lasciargli  gasli gare  a Dio:  e così  quelli  fanno  il  peg- gio che  possono,  perchè  non  temono quella  punizione  che  non  veggono  e non credono.  Ha,  adunque,  questa  rinnova- zione mantenuto,  e mantiene  questa  re- ligione. Hanno  ancora  i regni  bisogno di  rinnovarsi,  e ridurre  le  leggi  di  quelli
verso  il  suo  principio.  E si  vede  quanto buono  effetto  fa  questa  parte  nel  regno di  Francia;  il  quale  regno  vive  sotto  le leggi  e sotto  gli  ordini  più  clic  alcuno altro  regno  Delle  quali  leggi  ed  ordini ne  sono  mnntenitori  i parlamenti,  c mas- sime quel  di  Parigi  ; le  quali  sono  da lui  rinnovate  qualunque  volta  e’  fa  una esecuzione  contra  ad  uno  principe  di quel  regno,  e che  ei  condanna  il  re nelle  sue  sentenze.  Ed  infino  a qui  si  è mantenuto  per  essere  stato  uno  ostinato esecutore  contra  a quella  nobiltà  : ma qualunque  volta  e’  ne  lasciasse  alcuna impunita,  c che  le  venissino  a multi- plicare, senza  dubbio  ne  nascerebbe  o che  le  si  arebbono  a correggere  con disordine  grande,  o che  quel  regno  si
risolverebbe.  Conchiudesi,  pertanto,  non esser  cosa  più  necessaria  in  un  vivere comune,  o setta  o regno  o repubblica che  sia,  che  rendergli  quella  riputazione ch’egli  aveva  ne’  princi pii  suoi;  ed  in-gegnarsi che  siano  ol  gli  ordini  buoni O i buoni  uomini  che  facciano  questo effetto,  e non  l’ abbia  a fare  una  for/.a estrinseca.  Perchè,  ancora  che  qualche volta  la  sia  ottimo  rimedio,  come  fu  a Roma,  ella  è tanto  pericolosa,  che  non è in  modo  alcuno  da  disperarla.  E per dimostrare  a qualunque,  quanto  le  azioni degli  uomini  particolari  facessino  grande Roma,  e causassimo  in  quella  città  molti buoni  effetti,  verrò  alla  narrazione  e is- corso  di  quelli:  intra  i termini  de  qua I. questo  terzo  libro  ed  ultima  parte  d. questa  prima  Deca  si  conchiudera.  E benché  le  azioni  degli  re  bissino  grand, e notabili,  nondimeno,  dichiarandole  la istoria  diffusamente,  le  lasceremo  indie- tro; nè  parleremo  altrimenti  di  loro, eccetto  che  di  alcuna  cosa  che  «vessino operata  appartenente  alti  loro  privat, comodi  ; e coniincierenci  da  BiutOj  pa drc  della  romana  libertà. FI.  — Come  gli  è cosa  sapientissima simulare  in  tempo  la  pazzia. Non  fu  alcuno  mai  tanto  prudenti1,  -nè  tanto  stimato  savio,  per  alcuna  sua egregia  operazione,  quanto  merita  d’ es- ser tenuto  lunio  Bruto  nella  sua  simu- lazione della  stultizia.  Ed  ancora  che Tito  Livio  non  esprima  altro  che  una cagione  che  Io  inducesse  a tale  simula- zione, quale  fu  di  potere  più  sicura- mente vivere,  e mantenere  il  patrimonio suo;  nondimanco,  considerato  il  suo modo  di  procedere,  si  può  credere  che simulasse  ancora  questo  per  essere  man- co osservato,  ed  avere  più  comodità  di opprimere  i re  e di  liberare  la  sua  pa- tria, qualunque  volta  gliene  fussc  data occasione.  E che  pensasse  a questo,  si vide,  prima,  nello  interpretare  l’oracolo di  Apolline,  quando  simulò  cadere  per baciare  la  terra,  giudicando  per  quello aver  favorevoli  gli  Dii  ai  pensieri  suoi; e dipoi,  quando  sopra  la  moria  Lucre-zia, inira  il  padre  ed  il  marito  ed  altri parenti  di  lei,  ei  fu  il  primo  a trarle  il coltello  dalla  ferita,  e far  giurare  ai circonstanli,  che  mai  sopporterebbono che  per  lo  avvenire  alcuno  regnasse  in Roma.  Dallo  essempio  di  cgsIuì  hanno ad  imparare  tutti  coloro  che  sono  mal- contenti d’  uno  principe;  e debbono  pri- ma misurare  e pesare  le  forze  loro,  e se  sono  si  potenti  che  possino  scoprirsi suoi  nimici  e fargli  apertamente  guerra, debbono  entrare  per  questa  via,  come manco  pericolosa  e più  onorevole.  Ma se  sono  di  qualità  che  a fargli  guerra aperta  le  forze  loro  non  bastino,  deb- bono con  ogni  industria  cercare  di  far- segli  amici  ; cd  a questo  effetto,  entrare per  tutte  quelle  vie  che  giudicano  esser necessarie,  seguendo  i piaceri  suoi,  e pigliando  diletto  di  tutte  quelle  cose  che veggono  quello  dilettarsi.  Questa  dipie- sticliezza,  prima,  ti  fa  vivere  sicuro;  e, senza  portare  alcun  pericolo,  ti  fa  go-derc  la  buona  fortuna  di  quel  principe insieme  con  esso  lui,  e ti  arreca  ogni comodità  di  satisfare  all*  animo  tuo.  Vero è ebe  alcuni  dicono  che  si  vorrebbe  con gli  principi  non  stare  sì  presso  che  la rovina  loro  ti  coprisse,  nè  sì  discosto che  rovinando  quelli  tu  non  fussi  a tempo  a salire  sopra  la  rovina  loro:  la qual  via  del  mezzo  sarebbe  la  più  vera, quando  si  potesse  conservare;  ma  per- chè io  credo  che  sia  impossibile,  con- viene ridursi  ai  duoi  modi  soprascritti, cioè  di  allargarsi  o di  stringersi  con loro.  Chi  fa  altrimenti,  e sia  uomo  per le  qualità  sue  notabile,  vive  in  conti* novo  pericolo.  Nè  basta  dire:  io  non  mi curo  d’ alcuna  cosa,  non  desidero  nè onori  nè  utili,  io  mi  voglio  vivere  quie- tamente e senza  briga;  perchè  queste scuse  sono  udite  e non  accettate  : nè possono  gii  uomini  che  hanno  qualità eleggere  lo  starsi,  quando  bene  lo  eleg- gessino  veramente  e senza  alcuna  am- bizione, perchè  non  è loro  creduto  ; tal chè  se  si  vogliono  star  loro,  non  sono lasciati  stare  da  altri.  Conviene  adun- que fare  il  pazzo,  come  Bruto  ; ed  assai si  fa  il  matto,  laudando,  parlando,  veg- gendo,  faccendo  cose  eontra  all*  animo tuo,  per  compiacere  al  principe.  E poi- ché noi  abbiamo  parlato  della  prudenza di  questo  uomo  per  ricuperare  la  li- bertà di  Roma,  parleremo  ora  della  sua severità  in  mantenerla. Cap.  HI.  — Come  egli  è necessariOj  a voler  mantenere  una  libertà  acquistata di  nuovo 9 ammazzare  i figliuoli  di Bruto. Non  fu  meno  necessaria  che  utile  la severità  di  Bruto  nel  mantenere  in  Roma quella  libertà  che  egli  vi  aveva  acqui-stala ; la  quale  è di  un  essempio  raro in  tutte  le  memorie  delle  cose:  vedere il  padre  sedere  prò  tribunali,  e non solamente  condennare  i suoi  figliuoli  a morte,  ma  esser  presente  alla  morte loro.  E sempre  si  conoscerà  questo  per coloro  che  le  cose  antiche  leggeranno: come  dopo  una  mutazione  di  Stato,  o da  repubblica  in  tirannide  o da  tiran- nide in  repubblica,  è necessaria  una esecuzione  memorabile  contra  a’  nimici delle  condizioni  presenti.  E chi  piglia una  tirannide  e non  ammazza  Bruto,  e chi  fa  uno  Stato  libero  e non  ammazza i figliuoli  di  Bruto,  si  mantiene  poco tempo.  E perchè  di  sopra  è discorso questo  luogo  largamente,  mi  rimetto  a quello  che  allora  se  ne  disse:  solo  ci addurrò  uno  essempio  stato  ne’  dì  no- stri, e nella  nostra  patria  memorabile. E questo  è Piero  Soderini,  il  quale  si credeva  con  la  pazienza  e bontà  sua superare  quello  appetito  che  era  ne’  fi- gliuoli di  Bruto  di  ritornare  sotto  un altro  governo,  e se  ne  ingannò.  E ben- ché quello,  per  la  sua  prudenza,  cono- scesse questa  necessità  J e che  la  sorte e la  ambizione  di  quelli  che  lo  urtava- no, gli  desse  occasione  a spegnerli  ; non-dimeno  non  volse  mai  Y animo  a farlo. Perchè,  oltre  al  credere  di  potere  con la  pazienza  e con  la  bontà  estinguere  i mali  umori,  e con  i premi  verso  qual- cuno consumare  qualche  sua  inimicizia; giudicava  (e  molte  volle  ne  fece  con  gli amici  fede)  che  a volere  gagliardamente urtare  le  sue  opposizioni,  e battere  i suoi  avversari,  gli  bisognava  pigliare straordinaria  autorità,  e rompere  con le  leggi  la  civile  equalità  : la  qualcosa, ancora  che  dipoi  non  fusse  da  lui  usata tirannicamente,  arebbe  tanto  sbigottito I’  universale,  che  non  sarebbe  mai  poi concorso  dopo  la  morte  di  quello  a ri-fare un  gonfaloniere  a vita;  il  quale ordine  egli  giudicava  fusse  bene  uugu-mentarc  c mantenere.  Il  quale  rispetto era  savio  e buono  : nondimeno,  e’  non si  debbe  mai  lasciare  scorrere  un  male rispetto  ad  un  bene,  quando  quel  bene facilmente  possa  essere  da  quel  male oppressalo.  E doveva  credere  che,  aven- dosi a giudicare*  Y opere  sue  c la  intenzione  sua  dal  One,  quando  la  fortuna e la  vita  lo  avesse  accompagnato,  che poteva  certificare  ciascuno,  come  quello aveva  fatto,  era  per  salute  della  patria, e non  per  ambizione  sua  ; e poteva  re- golare le  cose  in  mòdo,  che  un  suo  suc- cessore non  potesse  fare  per  male  quello che  egli  avesse  fatto  per  bene.  Ma  lo ingannò  la  prima  oppinione,  non  cono- scendo che  la  malignità  non  è doma  da tempo,  nè  placata  da  alcun  dono.  Tanto che,  per  non  sapere  somigliare  Bruto, ei  perde,  insieme  con  la  patria  sua,  lo Stato  e la  riputazione.  E come  egli  è cosa  difficile  salvare  uno  Stato  libero, cosi  è difficile  salvarne  un  regio;  come nel  seguente  capitolo  si  mostrerà. Cap.  IV.  - — Non  vive  sicuro  un  prin-cipe in  un  principato,  mentre  vivono coloro  che  ne  sono  stati  spogliali. La  morte  di  Tarquinio  Prisco  causata
dai  figliuoli  di  Anco,  e la  morte  di  Ser-vio  Tulio  causata  da  Tarquinio  Super-bo, mostra  quanto  difficile  sia  e peri-coloso spogliar  uno  del  regno,  e quello lasciar  vivo,  ancora  che  cercasse  con meriti  guadagnarselo.  E vedesi  come Tarquinio  Prisco  fu  ingannato  da  pa-rergli possedere  quel  regno  giuridica-mente, essendogli  stato  dato  dal  Popolo, e confermato  dal  Senato:  nè  credette che  nei  figliuoli  di  Anco  potesse  tanto lo  sdegno,  che  non  avessino  a conten- tarsi di  quello  che  si  contentava  tutta Roma.  E Servio  Tulio  s’ ingannò,  cre- dendo potere  con  nuovi  meriti  guada-gnarsi i figliuoli  di  Tarquinio.  Dimodo- ché, quanto  al  primo,  si  può  avvertire ogni  principe,  che  non  viva  mai  sicuro del  suo  principato,  finché  vivono  coloro che  ne  sono  stati  spogliati.  Quanto  al secondo,  si  può  ricordare  ad  ogni  po- tente, che  mai  le  ingiurie  vecchie  non furono  cancellate  da’ benefizi  nuovi;  e tanto  meno,  quanto  il  benefizio  nuovo è minore  che  non  è stata  l’ingiuria.  E
senza  dubbio,  Servio  Tulio  fu  poco  pru-dente a credere  che  i figliuoli  di  Tar quinio  fussino  pazienti  ad  esser  generi di  colui  di  chi  e’ giudicavano  dovere  es-sere re.  E questo  appetito  del  regnare è tanto  grande,  che  non  solamente  en-tra nei  petti  di  coloro  a chi  s’  aspetta il  regno,  ma  di  quelli  a chi  non  s’  aspet- ta: come  fu  nella  moglie  di  Tarquinio giovine,  figliuola  di  Servio;  la  quale, mossa  da  questa  rabbia,  coutra  ogni pietà  paterna,  mosse  il  marito  contro  al padre  a torgli  la  vita  ed  il  regno:  tanto stimava  più  essere  regina,  che  figliuola di  re  ! Se,  adunque,  Tarquinio  Prisco  e Servio  Tulio  perdettono  il  regno  per non  si  sapere  assicurare  di  coloro  a chi  ei  l avevano  usurpato,  Tarquinio Superbo  lo  perdè  per  non  osservare  gli ordini  degli  antichi  re;  come  nel  se- guente capitolo  si  mostrerà.
V.  — Quello  che  fa  perdere  uno regno  ad  uno  re  che  sia  ereditario di  quello. Avendo  Tarquinio  Superbo  morto  Ser-vio Tulio,  e di  lui  non  rimanendo  eredi, veniva  a possedere  il  regno  sicuramen-te, non  avendo  a temere  di  quelle  cose che  avevano  offeso  i suoi  antecessori.  E benché  il  modo  dell’  occupare  il  regno fusse  stato  istraordinario  ed  odioso;nondimeno,  quando  egli  avesse  osservato gli  antichi  ordini  degli  altri  re,  sarebbestato  comportato,  nè  si  sarebbe  conci-tato il  Senato  e la  Plebe  contra  di  lui
per  torgli  lo  Stato.  Non  fu,  adunque, costui  cacciato  per  aver  Sesto  suo  figliuo-lo stuprata  Lucrezia,  ma  per  aver  rotte le  leggi  del  regno,  e governatolo  tiran-nicamente; avendo  tolto  al  Senato  ogni autorità,  e ridottola  a sé  proprio;  e quelle  faccende  che  nei  luoghi  pubblici con  satisfazione  del  Senato  romano  si facevano,  le  ridusse  a fare  nel  palazzo suo  con  carico  ed  invidia  suo  ; talché in  breve  tempo  egli  spogliò  Roma  di tutta  quella  libertà  cl»’  ella  aveva  sotto gli  altri  Re  mantenuta.  Nò  gli  bastò farsi  nimici  i Padri,  che  si  concitò  an- cora contra  la  Plebe,  affaticandola  in cose  meccaniche,  e tutte  aliene  da  quelloa che  P avevano  adoperata  i suoi  ante-cessori: talché,  avendo  ripiena  Roma  di
essempi  crudeli  e superbi,  aveva  dispo-sti già  gli  animi  di  tutti  i Romani  allaribellione,  qualunque  volta  ne  avessino occasione.  E se  lo  accidente  di  Lucrezianon  fusse  venuto,  come  prima  ne  fussc nato  un  altro,  arebbe  partorito  il  me-desimo effetto.  Perchè,  se  Tarquinio fusse  vissuto  come  gli  altri  Re,  e Sestosuo  figliuolo  avesse  fatto  quello  errore, sarebbero  Bruto  e Collatino  ricorsi  aTarquinio  per  la  vendetta  contru  a Se-sto, e non  al  Popolo  romano.  Soppino
adunque  i principi,  come  a quella  ora e*  cominciano  a perdere  lo  Stato,  eh’  eicominciano  a rompere  le  leggi,  e quelli modi  e quelle  consuetudini  che  sonoantiche,  e sotto  le  quali  gli  uomini  lungo tempo  sono  vivuti.  E se  privati  di’  eisono  dello  Stato,  e'  diventassino  mai tanto  prudenti,  che  conoscessino  conquanta  facilità  i principati  si  tenghino da  coloro  che  saviamente  si  consiglia-no; dorrebbe  molto  più  loro  tal  perdi-ta, ed  a maggiore  pena  si  condanne-rebbono,  che  da  altri  fussino  condan-nati. Perchè  egli  è molto  più  facile  es-sere amato  da’  buoni  che  dai  cattivi,  ed ubbidire  alle  leggi  che  volere  comandareloro.  E volendo  intendere  il  modo  aves-sino a tenere  a fare  questo,  non  hannoa durare  altra  fatica  che  pigliare  per loro  specchio  la  vita  dei  principi  buo-ni; come  sarebbe  Tiinoleone  Corintio, Arato  Sicioneo,  e simili:  nella  vitade’  quali  ei  troveranno  tanta  sicurtà  e tanta  «atisfazione  di  chi  regge  e di  chiè retto,  che  doverrebbe  venirgli  voglia di  imitargli,  potendo  facilmente,  per  leragioni  dette,  farlo.  Perchè  gli  uomini, quando  sono  governati  bene,  non  cer-cano  uè  vogliono  altra  libertà  : come intervenne  ai  popoli  governati  dai  duoiprenominati  ; che  gli  costrinsono  ad  es-sere principi  mentre  che  vissono,  ancorache  da  quelli  più  volte  fusse  tentato  di ridursi  in  vita  privata.  E perchè  in  que-sto, e ne'  duoi  antecedenti  capitoli,  si  è ragionato  degli  umori  concitati  contraa'  principi,  e delle  congiure  fatte  dai figliuoli  di  Bruto  contra  alla  patria,  edi  quelle  fatte  contra  a Tarquinio  Pri-sco ed  a Servio  Tulio;  non  mi  parecosa  fuori  di  proposito,  nel  seguente capitolo,  parlarne  diffusamente,  sendomateria  degna  di  essere  notata  dai  prin-cipi e dai  privati. Cap.  VI.  — Delle  congiure.E'  non  mi  è parso  da  lasciare  indie-tro il  ragionare  delle  congiure,  essendocosa  tanto  pericolosa  ai  principi  ed  ai privali  ; perché  si  vede  per  quelle  mollipiù  principi  aver  perduta  la  vita  e lo Stato,  die  per  guerra  aperta.  Perchè  ilpoter  fare  aperta  guerra  con  un  prin-cipe, è conceduto  a pochi  ; il  poterglicongiurar  contra,  è conceduto  a ciascuno' DalP  altra  parte,  gli  uomini  privati  nonentrano  in  impresa  più  pericolosa  nè più  temeraria  di  questa;  perchè  la  èdifficile  e pericolosissima  in  ogni  sua parte.  Donde  ne  nasce,  che  molte  se  netentano,  e pochissime  hanno  il  line  de-siderato. Acciocché,  adunque,  i principi imparino  a guardarsi  da  questi  pericoli, e che  i privati  più  timidamente  vi  siniellino;  anzi  imparino  ad  esser  contenti a vivere  sotto  quello  imperio  che  dallasorte  è stato  loro  preposto;  io  ne  par- lerò diffusamente,  non  lasciando  indietroalcun  caso  notabile  in  documento  del-1’  uno  e dell’  altro.  E veramente,  quellasentenza  di  Cornelio  Tacito  è aurea, che  dice:  che  gli  uomini  hanno  ad  ono-rare le  cose  passate,  ed  ubbidire  alle  presenti  ; e debbono  desiderare  i buoniprincipi,  e comunque  si  siano  fatti  tol-lerargli. E veramente  chi  fa  altrimenti,il  più  delle  volte  rovina  sè  e la  sua patria.  Dobbiamo,  adunque,  entrandonella  materia,  considerare  prima  contra a chi  si  fanno  le  congiure;  e troveremofarsi  o contra  alla  patria,  o contra  ad uno  principe;  delle  quali  due  voglioche  al  presente  ragioniamo;  perchè  di quelle  che  si  fanno  per  dare  una  terraai  nimici  che  la  assediano,  o che  abbino per  qualunque  cagione  similitudine  conquesta,  se,  n’  è parlato  di  sopra  a suf- ficienza. E tratteremo  in  questa  primaparte  di  quelle  contra  al  principe,  e pri-ma esamineremo  le  cagioni  di  esse:  lequali  sono  molte;  ma  una  ne  è impor-tantissima più  che  tutte  V altre.  E que-sta è l’essere  odiato  dall’universale; perchè  quel  principe  che  si  è concitatoquesto  universale  odio,  è ragionevole che  abbi  de’  particolari  i quali  da  luisiano  stati  più  offesi,  e che  desiderino vendicarsi.  Questo  desiderio  è accresciutoloro  da  quella  mala  disposizione  univer- sale, che  veggono  essergli  concitata  con-tra.  Debbe,  adunque,  un  principe  fug-gire questi  carichi  pubblici  : e come  egliabbia  a fare  a fuggirli,  avendone  altrove trattato,  non  ne  voglio  parlare  qui;  per-chè guardandosi  da  questo,  le  semplici offese  particolari  gli  faranno  meno  guer-ra. L’ una,  perchè  si  riscontra  rade  volte in  uomini  che  stimino  tanto  una  ingiu-rio, che  si  menino  a tanto  pericolo  per vendicarla;  l’altra,  che  quando  pur  eilussino  d’animo  e di  potenza  da  farlo, sono  ritenuti  da  quella  benivolenza  uni-versale, che  veggono  avere  ad  uno  prin-cipe. Le  ingiurie,  conviene  che  sianonella  roba,  nel  sangue,  o nell’onore.  Di quelle  del  sangue  sono  più  pericolose  leminacce  che  la  esecuzione;  anzi,  le  mi-nacce sono  pericolosissime,  e nella  ese-cuzione non  vi  è pericolo  alcuno:  perchè chi  è morto,  non  può  pensare  alla  ven-detta; quelli  che  rimangono  vivi,  il  più delle  volte  ne  lasciano  il  pensiero  almorto.  Ma  colui  che  è minacciato,  e che si  vede  constretto  da  una  necessità  o difare  o di  patire,  diventa  un  uomo  pe-ricolosissimo per  il  principe:  come  nelsuo  luogo  particolarmente  diremo.  Fuora di  queste  necessità,  la  roba  e l’onoresono  quelle  due  cose  che  offendono  più gii  uomiui  che  alcun’ altra  offesa,  e dallequali  il  principe  si  debbe  guardare  : per-chè e’  non  può  mai  spogliare  uno  tanto,che  non  gli  resti  un  coltello  da  vendi-carsi: non  può  mai  tanto  disonorareuno,  che  non  gli  resti  un  animo  ostinato alla  vendetta.  E degli  onori  che  si  tol-gono agli  uomini,  quello  delle  donne importa  più:  dopo  questo,  il  vilipendiodella  sua  persona.  Questo  armò  Pausa-sania  contro  a Filippo  di  Macedonia;questo  ha  armato  molti  altri  contra  a molti  altri  principi:  e nei  nostri  tempiIulio  Belanti  non  si  mosse  a congiurare contra  Pandolfo  tiranno  di  Siena,  se  nonper  avergli  quello  data,  e poi  tolta  per moglie  una  sua  figliuola  ; come  nel  suoluogo  diremo.  La  maggior  cagione  che fece  che  i Pazzi  congiurarono  conteaa’  Medici,  fu  l’eredità  di  Giovanni  Bon- romei,  la  quale  fu  loro  tolta  per  ordinedi  quelli.  Un’altra  cagione  ci  è,  e gran-dissima, che  fu  gli  uomini  congiurarecontro  al  principe;  la  quale  è il,  disi-derio  di  liberare  la  patria  stata  daquello  occupata.  Questa  cagione  mosse Bruto  e Cassio  contro  a Cesare;  questaha  mosso  molti  altri  contro  ai  Palali, Dionisi,  ed  altri  oceupatori  della  patrialoro.  Nè  può  da  questo  umore  alcuno tiranno  guardarsi,  se  non  con  diporrela  tirannide.  E perchè  non  si  truovu alcuno  che  faccia  questo,  si  truovauo pochi  che  non  capitino  male;  donde nacque  quel  verso  di  Iuvenale:« Adgcnerum  Cereria  sineccedeet  vulnere  parici Descendunt  reges,  et  sicca  morte  tiranni.  »1 pericoli  che  si  portano,  come  io  dissi di  sopra,  nelle  congiure,  sono  grandi, portandosi  per  lutti  i tempi;  perchè  in tali  casi  si  coire  pericolo  nel  maneg-giarli, nello  eseguirli,  ed  eseguiti  che sono.  Quelli  che  congiurano,  o e’sonouno,  o e’  sono  più.  Uno  non  si  può  dire che  sia  congiura,  ma  è una  ferma  dispo-sizione nata  in  un  uomo  d’  ammazzare il  principe.  Questo  solo  dei  tre  pericoliche  si  corrono  nelle  congiure,  manca del  primo;  perchè  innanzi  alla  esecu-zione non  porta  alcun  pericolo,  non avendo  altri  il  suo  segreto,  nè  portandopericolo  che  torni  il  disegno  suo  all*  orec-chie del  principe.  Questa  diliberazionecosi  fatta  può  cadere  in  qualunque  uomo, di  qualunque  sorte,  piccolo,  grande,  no-bile, ignobile,  famigliare  e non  famiglia-re al  principe;  perchè  ad  ognuno  è le-cito qualche  volta  parlargli;  ed  a chi  è lecito  parlare,  è lecito  sfogare  T animosuo.  Pausanio,  del  quale  altre  volte  si  è parlato,  ammazzò  Filippo  di  Macedoniache  andava  al  tempio,  con  mille  armati d*  intorno,  ed  in  mezzo  intra  il  figliuoloed  il  genero:  ma  costui  fu  nobile  e co- gnito  al  principe.  Uno  Spagnuolo  poveroed  abietto,  dette  una  coltellata  in  su  M collo  al  re  Ferrante,  re  di  Spagna  : nonfu  la  ferita  mortale,  ma  per  questo  si vidde  che  colui  ebbe  animo  e comoditàa farlo.  Uno  dervis,  sacerdote  turchesco, trasse  d’  una  scimitarra  a Baisit,  padredel  presente  Turco:  non  lo  ferì,  ma  ebbe pur  animo  e comodità  a volerlo  fare.Di  questi  animi  «fatti  cosi,  se  ne  truo- vano,  credo,  assai  che  lo  vorrebbonofare,  perchè  nel  volere  non  è pena  uè pericolo  alcuno  ; ma  pochi  che  lo  facci-no. Ma  di  quelli  che  lo  fanno,  pochis- simi o nessuno  che  non  siano  ammaz-zati in  sul  fatto:  però  non  si  truova  chi voglia  andare  ad  una  certa  morte.  Malasciamo  andare  queste  uniche  volontà, e veniamo  alle  congiure  intra  i più.Dico,  trovarsi  nelle  istorie,  tutte  le  con-giure esser  fatte  da  uomini  grandi,  ofamigliarissimi  de!  principe:  perchè  gli altri,  se  non  sono  matti  affatto,  non  pos-sono congiurare  ; perchè  gli  uomini  de-boli,  e non  famiglial  i al  principe,  man-cano di  tutte  quelle  speranze  e di  tutte quelle  comodità  che  si  richiede  alla  ese-cuzione d’  una  congiura.  Prima,  gli  uo-mini deboli  non  possono  trovare  riscon-tro di  chi  tenga  lor  fede;  perchè  uno non  può  consentire  alla  volontà  loro,sotto  alcuna  di  quelle  speranze  che  fa entrare  gli  uomini  ne’ pericoli  grandi;in  modo  che,  come  e’  si  sono  allargati in  due  o in  tre  persone,  e’  trovano  loaccusatore  c rovinano:  ma  quando  pure ei  fussino  tanto  felici  che  mancassinodi  questo  accusatore,  sono  nella  esecu-zione intorniati  da  tale  difficultà,  pernon  aver  V entrata  facile  al  principe, che  gli  è impossibile  che  in  essa  ese-cuzione ei  non  rovinino.  Perchè,  se  gli uomini  grandi,  e che  hanno  Y entratafacile,  sono  oppressi  da  quelle  difficultà. che  di  sotto  si  diranno,  conviene  che  incostoro  quelle  difficultà  senza  fine  crc-schino.  Pertanto  gli  uomini  (perchè  dovene  va  la  vita  e la  roba  non  sono  al  tutto insani),  quando  si  veggono  deboli,  se  neguardano;  e quando  egli  hanno  a noia un  principe,  attendono  a biastemmarlo,cd  aspettano  che  quelli  che  hanno  mag-giore qualità  di  loro,  gli  vendichino.  Ese  pure  si  trovasse  che  alcuno  di  que-sti simili  avesse  tentato  qualche  cosa,  sidebbe  laudare  in  loro  la  intenzione,  e non  la  prudenza.  Vedesi,  pertanto,  quelliche  hanno  congiurato,  essere  stali  tutti uomini  grandi,  o famiglial  i del  princi-pe; de’ quali  molti  hanno  congiuralo, mossi  cosi  da  troppi  benefìzi,  comedalle  troppe  ingiurie:  come  fu  Peren-nio  contra  a Commodo,  Plauziano  con-tro a Severo,  Sciano  contra  a Tiberio. Costoro  tutti  furono  dai  loro  imperadoricon stituiti  in  tanta  ricchezza,  onore  e grado,  che  non  pareva  che  mancasseloro  alla  perfezione  della  potenza  altro che  l’ imperio;  e di  questo  non  volendomancare,  si  missono  a congiurare  con- ila al  principe:  ed  ebbono  le  loro  con-giure tutte  quel  fine  che  meritava  la loro  ingratitudine;  ancora  che  di  que-ste simili  ne’  tempi  più  freschi  ne  avesse buon  fine  quella  di  Iacopo  d’Appianocontra  a messer  Piero  Gambacorti,  prin-cipe di  Pisa  : il  quale  Iacopo,  allevato  enutrito  e fatto  riputato  da  lui,  gli  tolse poi  lo  Stato.  Fu  di  queste  quella  delCoppola,  ne’  nostri  tempi,  contra  al  re Ferrando  d' Aragona  ; il  quale  Coppolavenuto  a tanta  grandezza  che  non  gli pareva  gli  mancasse  se  non  il  regno,per  volere  ancora  quello,  perde  la  vita. E veramente,  se  alcuna  congiura  contraa’ principi  fatta  da  uomini  grandi  do-vesse avere  buon  fine,  doverrebbé  es-sere questa;  essendo  fatta  da  un  altro re,  si  può  dire,  e da  chi  ha  tanta  co-modità di  adempire  il  suo  desiderio: ma  quella  cupidità  del  dominare  chegli  accieca,  gli  accieca  ancora  nel  ma-neggiare questa  impresa  ; perchè,  sesapessino  fare  questa  cattività  con  pru-denza, sarebbe  impossibile  non  riuscisseloro.  Debbe,  adunque,  un  principe  che si  vuole  guardare  dalie  congiure,  temerepiù  coloro  a chi  egli  ha  fatto  troppi piaceri,  che  quelli  a chi  gli  avesse  fattetroppe  ingiurie.  Perchè  questi  mancano di  comodità,  quelli  ne  abbondano;  e lavoglia  è simile,  perchè  gli  è così  grande o maggiore  il  desiderio  del  dominare,che  non  è quello  della  vendetta.  Deb-bono, pertanto,  dare  tanta  autorità  agliloro  amici,  che  da  quella  al  principato sia  qualche  intervallo,  e che  vi  sia  inmezzo  qualche  cosa  da  disiderare:  al-trimenti, sarà  coso  rara  se  non  inter-verrà loro  come  ai  principi  soprascritti. .Ma  torniamo  all’  ordine  nostro.  Dico,che  avendo  ad  esser  quelli  che  congiu-rano uomini  grandi,  e che  abbino  l’aditofacile  al  principe,  si  ha  a discorrere  i successi  di  queste  loro  imprese  qualisiano  stati,  e vedere  la  cagione  che  gli  «ha  fatti  essere  felici  ed  infelici.  E comeio  dissi  di  sopra,  ci  si  trovano  dentro in  tre  tempi,  pericoli:  prima,  in  su  ’lfatto,  e poi.  Però  se  ne  trovano  poche che  abbiano  buono  esito,  perchè  gli  èimpossibile  quasi  passargli  tutti  felice-mente. E cominciando  a discorrere  ipericoli  di  prima,  che  sono  i più  impor-tanti; dico,  come  e’  bisogna  essere  moltoprudente,  ed  avere  una  gran  sorte,  che nel  maneggiare  una  congiura  la  non  siscuopra.  E si  scuoprono  o per  relazio-ne, o per  coniettura.  La  relazione  nasceda  trovare  poca  fede,  o poca  prudenza, negli  uomini  con  chi  tu  la  comunichi.La  poca  fede  si  truova  facilmente,  per-chè tu  non  puoi  comunicarla  se  noncon  tuoi  fidati,  che  per  tuo  amore  si mettino  alla  morte,  o con  uomini  chesiano  malcontenti  del  principe.  De’  fidati se  ne  potrebbe  trovare  uno  o due;  macome  tu  Li  distendi  in  molti,  è impos-sibile gli  truovi:  dipoi,  c’bisogna  beneche  la  benevolenza  che  ti  portano  sia grande,  a volere  che  non  paia  loro  mag-giore il  pericolo  e la  paura  della  pena. Dipoi  gli  uomini  s' ingannano  il  piùdelle  volte  dello  amore  che  tu  giudichi che  un  uomo  ti  porti,  nè  le  ne  puoimai  assicurare,  se  tu  non  ne  fai  espe- rienza: e farne  esperienza  in  questo  èpericolosissimo:  e sebbene  he  avessi  fatto esperienza  in  qualche  altra  cosa  perico-losa dove  e’ ti  fussono  stali  fedeli,  non puoi  da  quella  fede  misurare  questa,passando  questa  di  gran  lunga  ogni  al-tra qualità  di  pericolo.  Se  misuri  la  fededalla  mala  contentezza  che  uno  abbia del  principe,  in  questo  tu  ti  puoi  facil-mente ingannare:  perchè  subito  che  tu hai  manifestato  a quel  malcontento  l’ani-mo  tuo,  tu  gli  dai  materia  di  conten- tarsi, e convien  bene  o che  1’  odio  siagrande,  o che  1’  autorità  tua  sia  gran-dissima a mantenerlo  in  fede.  Di  quinasce  che  assai  ne  sono  rivelate  ed oppresse  ne’  primi  principii  loro;  e chequando  una  è stata  infra  molti  uomini segreta  lungo  tempo,  è tenuta  cosa  mi-racolosa: come  fu  quella  di  Pisone  con-tea a Nerone,  e ne' nostri  tempi  quellade’  Pazzi  conira  a Lorenzo  e Giuliano de'  Medici;  delle  quali  erano  consapevolipiù  clic  cinquanta  uomini,  c condus- sonsi  alla  esecuzione  a scoprirsi.  Quantoa scoprirsi  per  poca  prudenza,  nasce quando  uno  congiurato  ne  parla  pococauto,  in  modo  che  un  servo  o altra terza  persona  intenda;  come  intervenneai  figliuoli  di  Bruto,  che  nel  maneggiare la  cosa  con  i legali  di  Tarquinio,  fu-rono intesi  da  un  servo,  che  gli  accusò: ovvero  quando  per  leggerezza  ti  vienecomunicala  a donna  o a fanciullo  che tu  ami,  o a simile  leggieri  persona  ;come  fece  Dinno,  uno  de*  congiurati  con Filota  centra  ad  Alessandro  Magno,  ilquale  comunicò  la  congiura  a Nicomaco fanciullo  amato  da  lui,  il  quale  subito lo  disse  a Ciballino  suo  fratello,  e Ci-bullino  al  re.  Quanto  a scoprirsi  perconieltura,  ce  tf  è in  essempio  la  con-giura Pisoniana  conira  a Nerone;  nellaquale  Scevino,  uno  de’  congiurati,  il  dì dinanzi  eh’  egli  aveva  ad  ammazzareNerone,  fece  testamento,  ordinò  che  Me-lichio  suo  liberto  facesse  arrotare  unsuo  pugnale  vecchio  e rugginoso,  liberò tutti  i suoi  servi  e dette  loro  danarifece  ordinare  fasciature  da  legare  ferite: per  le  quali  conietture  accertatosi  .Meli-chio  della  cosa,  lo  accusò  a Nerone.  Fu preso  Scevino,  e con  lui  Natale,  un  altrocongiurato,  i quali  erano  stati  veduti parlare  a lungo  e di  segreto  insieme  ildi  davanti;  e non  si  accordando  del ragionamento  avuto,  furono  forzati  aconfessare  il  vero;  talché  la  congiura fu  scoperta,  con  rovina  di  tutti  i con-giurati. Da  queste  cagioni  dello  scoprire le  congiure  è impossibile  guardarsi,  cheper  malizia,  per  imprudenza  o per  leg- gerezza, la  non  si  scuopra,  qualunquevolta  i conscii  d’essa  passano  il  numero di  tre  o di  quattro.  E come  e’  ne  è presopiù  che  uno,  è impossibile  non  riscon- trarla, perchè  due  non  possono  esserconvenuti  insieme  di  tutti  i ragiona- menti loro.  Quando  e’  sia  preso  solouno  che  sia  uomo  forte,  può  egli  con  la fortezza  dello  animo  tacere  i congiurati;ina  conviene  che  i congiurati  non  ab-bino meno  animo  di  lui  a star  saldi,e non  si  scoprire  con  la  fuga  : perchè da  una  parte  che  P animo  manca,  o dachi  è sostenuto  o da  chi  è libero,  la congiura  è scoperta.  Ed  è raro  lo  es-sempio  addotto  da  Tito  Livio  nella  con-giura fatta  contra  a Girolamo  re  diSiracusa  ; dove,  sendo  Teodoro  uno  de’congiurati  preso,  celò  con  una  virtùgrande  tutti  i congiurati,  ed  accusò  gli amici  del  re;  e dall’altra  parte,  tulli  icongiurati  confidarono  tanto  nella  virtù di  Teodoro,  che  nessuno  si  parti  diSiracusa,  o fece  alcuno  segno  di  timore. Passasi,  adunque,  per  tutti  questi  peri-coli nel  maneggiare  una  congiura  in-nanzi che  si  venga  alla  esecuzioned'essa:  i quali  volendo  fuggire,  ci  sono questi  rimedi.  Il  primo  ed  il  più  vero,anzi  a dir  meglio,  unico,  è non  dare tempo  ai  congiurati  di  accusarti;  eperciò  comunicare  loro  la  cosa  quando tu  ia  vuoi  fare,  e non  prima:  quelliche  hanno  fatto  cosi,  fuggono  al  certo  i pericoli  che  sono  nel  praticarla,  e il  piùdelle  volte  gli  altri  ; anzi  hanno  tutte avuto  felice  fine:  e qualunque  prudentearebbe  comodità  di  governarsi  in  que-sto modo,  lo  voglio  che  mi  basti  ad-durre due  essempi.  Nelemato,  non  po-tendo sopportare  la  tirannide  di  Ari-slotimo  tiranno  di  Epiro,  ragunò  in  casa sua  molti  parenti  ed  amici,  e conforta-togli a liberare  la  patria,  alcuni  di  loro chiesono  tempo  a deliberarsi  ed  ordi-narsi; donde  Nelemato  fece  a’  suoi  servi serrare  la  casa,  ed  a quelli  che  essoaveva  chiamati,  disse:  0 voi  giurerete di  andare  ora  a fare  questa  esecuzione,o io  vi  darò  tutti  prigioni  ad  Aristoti-mo.  Dalle  quali  parole  mossi  coloro,giurarono;  ed  andati  senza  intermissio-ne di  tempo,  felicemente  l’ ordine  diNelemato  eseguirono.  Avendo  un  Mago, per  inganno,  occupato  il  regno  de’Persi,ed  avendo  Orlano,  uno  de’grandi  uomini del  regno,  intesa  e scoperta  la  fraude,lo  conferì  con  sei  altri  principi  di  quello Stato,  dicendo  come  egli  era  da  vendi-care il  regno  dalla  tirannide  di  quel Mago;  e domandando  alcuno  di  lorotempo,  si  levò  Dario,  uno  de’  sei  chia- mati da  Orlano,  e disse:  0 noi  andre-mo ora  a far  questa  esecuzione,  o io  vi andrò  ad  accusar  tutti.  E così  d’ac-cordo levatisi,  senza  dar  tempo  ad  al- cuno di  pentirsi,  eseguirono  felicementei disegni  loro.  Simile  a questi  duoi essempi  ancora  è il  modo  che  gli  Etolitennero  ad  ammazzare  Nabide,  tiranno spartano  ; i quali  mandarono  Alessame-no  loro  cittadino,  con  trenta  cavalli  e dugento  fanti,  a Nabide,  sotto  colore  dimandargli  aiuto;  ed  il  segreto  solamente comunicarono  ad  Alessameno;  ed  agli altri  imposono  che  lo  ubbidissino  in ogni  e qualunque  cosa,  sotto  pena  diesilio.  Andò  costui  in  Sparta,  e non  co-municò mai  la  commissione  sua  se  nonquando  ei  la  voile  eseguire:  donde  gli riusci  d’  ammazzarlo.  Costoro,  adunque,per  questi  modi  hanno  fuggiti  quelli pericoli  che  si  portano  ne!  maneggiarele  congiure  ; e chi  imiterà  loro,  sempre gli  fuggirà.  E che  ciascuno  possa  farecome  loro,  io  ne  voglio  dare  lo  essein- pio  di  Pisone,  preallegato  di  sopra.  EraPisone  grandissimo  e riputatissimo uomo,  e famigliare  di  Nerone,  e in  chiegli  confidava  assai.  Andava  Nerone ne’  suoi  orli  spesso  a mangiare  seco.Poteva,  adunque,  Pisone  farsi  amici uomini  d’animo,  di  cuore,  e di  dispo-sizione atti  ad  una  tale  esecuzione  (il che  ad  uno  uomo  grande  è facilissimo);e quando  Nerone  fusse  stato  ne*  suoi orti,  comunicare  loro  la  cosa,  e conparole  convenienti  inanimirli  a far  quello che  loro  non  avevano  tempo  a ricusa-re, e che  era  impossibile  che  non  riu- scisse. E cosi,  se  si  esamineranno  tutte1’  altre,  si  troverà  poche  non  esser  po- tute condursi  nel  medesimo  modo:  magli  uomini  per  lo  ordinario  poco  inten-denti  delie  azioni  del  mondo,  spessofanno  errori  grandissimi,  e tanto  mag-giori in  quelle  che  hanno  più  dello istraordinario,  come  è questa.  Debbesi, adunque,  non  comunicare  mai  la  cosase  non  necessitato  ed  in  sul  fatto;  e se  pure  la  vuoi  comunicare,  comunicalaad  un  solo,  del  quale  abbi  fatto  lun-ghissima isperienza,  o che  sia  mossodalle  medesime  cagioni  che  tu.  Tro-varne uno  così  fatto  è molto  più  facileche  trovarne  più,  e per  questo  vi  è meno  pericolo;  dipoi,  quando  pure  eiti  ingannasse,  vi  è qualche  rimedio  a difendersi,  che  non  è dove  siano  con-giurati assai:  perchè  da  alcuno  prudente ho  sentito  dire  che  con  uno  si  può  par-lare ogni  cosa,  perchè  tanto  vale,  se  tu non  ti  lasci  condurre  a scrivere  di  tuamano,  il  sì  dell*  uno  quanto  il  no  del- l’altro; e dallo  scrivere  ciascuno  debbeguardarsi  come  da  uno  scoglio,  perchè non  è cosa  che  più  facilmente  ti  con-vinca, che  lo  scritto  di  tua  mano.  Plau- ziano  volendo  fare  ammazzare  Severoimperadore  ed  Antonino  suo  figliuolo, commise  la  cosa  a Saturnino  tribuno;il  quale  volendo  accusarlo  e non  ubbi- dirlo,  e dubitando  che  venendo  alla  ac-cusa non  fusse  più  creduto  a Plauziano che  a lui,  gli  chiese  una  cedola  di  suamano,  che  facesse  fede  di  questa  cora-missione  ; la  quale  Plauziano , acce-cato dalla  ambizione,  gli  fece:  donde seguì  che  fu  dal  tribuno  accusato  econvinto  ; e senza  quella  cedola,  e certi  altri  contrassegni,  sarebbe  statoPlauziano  superiore  : tanto  audacemente negava.  Truovasi,  adunque,  nella  accusad’uno  qualche  rimedio,  quando  tu  non puoi  esser  da  una  scrittura,  o altricontrassegni,  convinto:  da  che  uno  si debbe  guardare.  Era  nella  congiura  Pi-soniana  una  femmina  chiamata  Epicari, 9tata  per  lo  addietro  amica  di  Nerone;la  quale  giudicando  che  fusse  a propo-sito mettere  tra  i congiurati  uno  capi-tano di  alcune  triremi  che  Nerone  teneva per  sua  guardia,  gli  coipunicò  la  con-giura, ma  non  i congiurati.  Donde,  rom-pendogli quel  capitano  la  fede  ed  accu-sandola a Nerone,  fu  tanta  l’ audacia  di Epicari  nel  negarlo,  che  Nerone,  rimasoconfuso,  non  la  condennò.  Sono,  adun-que, nel  comunicare  la  cosa  ad  un  solodue  pericoli  : l’ uno,  che  non  ti  accusi  in pruova;  l’altro,  che  non  ti  accusi  con-vinto e constretto  dalla  pena,  sendo  egli preso  per  qualche  sospetto  o per  qual-che indizio  avuto  di  lui.  Ma  nell’  uno  e nell’altro  di  questi  duoi  pericoli  è qual-che rimedio,  potendosi  uegare  l’uno  al- legandone l’odio  che  colui  avesse  teco,e negare  l’altro  allegandone  la  forza che  lo  costringesse  a dire  le  bugie.  E,adunque,  prudenza  non  comunicare  la cosa  a nessuno,  ma  fare  secondo  quelliessenipi  soprascritti;  o quando  pure  la comunichi,  non  passare  uno,  dove  se  èqualche  più  pericolo,  ve  n’è  meno  assai che  comunicarla  con  molti.  Propinquo a questo  modo  è quando  una  necessità ti  constringa  a fare  quello  al  principeche  tu  vedi  che  '1  principe  vorrebbe fare  a te,  la  quale  sia  tanto  grande  chenon  ti  dia  tempo  se  non  a pensare  d’as* sicurarti.  Questa  necessità  conduce  quasisempre  la  cosa  al  (ine  disiderato:  ed  a provarlo  voglio  bastino  duoi  essempi.Aveva  Commodo,  imperadore,  Leto  ed Eletto,  capi  de’ soldati  pretoriani,  intrai primi  amici  e famigliaci  suoi,  ed  aveva Marzia  intra  le  sue  prime  concubine  edamiche;  e perchè  egli  era  da  costoro qualche  volta  ripreso  de' modi  con  iquali  maculava  la  persona  sua  e lo  im-perio, deliberò  di  fargli  morire,  e scrissein  su  una  lista:  Marzia,  Leto  ed  Eletto, ed  alcuni  altri  che  voleva  la  notte  se-guente far  morire;  e questa  lista  messe sotto  il  capezzale  del  suo  letto.  Ed  essen-do ito  a lavarsi,  un  fanciullo  favorito di  lui  scherzando  per  camera  e su  pelletto,  gli  venne  trovata  questa  lista,  ed uscendo  fuora  con  essa  in  mano,  ri-scontrò Marzia;  la  quale  gliene  tolse, e lettola,  e veduto  il  contenuto  d’essa,subito  mandò  per  Leto  ed  Eletto;  e co-nosciuto tutti  tre  il  pericolo  in  qualeerano,  diliberarono  prevenire;  e,  senza metter  tempo  in  mezzo,  la  notte  seguenteammazzarono  Commodo.  Era  Antonino Caracalla,  imperadore,  con  gli  esercitisuoi  in  Mesopotamia,  ed  aveva  per  suo prefetto  Macrino,  uomo  più  civile  chearmigero;  e,  come  avviene  che.  i prin- cipi non  buoni  temono  sempre  che  altrinon  operi  contra  di  loro  quello  che  par loro  meritare,  scrisse  Antonino  a Ma-terniano  suo  amico  a Roma,  che  inten-desse dagli  astrologi,  se  gli  era  alcunoche  aspirasse  allo  imperio,  e gliene  av-visasse. Donde  Materniano  gli  riscrisse,come  Macrino  era  quello  che  vi  aspira-• va;  e pervenuta  la  lettera,  prima  allemani  di  Macrino  che  dello  imperadore,e per  quella  conosciuta  la  necessità  od’ammazzare  lui  prima  che  nuova  let-tera venisse  da  Roma,  o di  morire,commise  a Marziale  centurione,  suo  fida-lo,  ed  a chi  Antonino  aveva  morto  pochigiorni  innanzi  un  fratello,  che  lo  am-mazzasse: il  che  fu  eseguito  da  lui  fe-licemente. Vedesi,  adunque,  che  questa necessità  che  non  dà  tempo,  fa  quasiquel  medesimo  effetto  che  ’l  modo  da me  sopraddetto  che  tenne  Nelemato  diEpiro.  Vedesi  ancora  quello  che  io  dissi quasi  nel  principio  di  questo  discorso,come  le  minacce  offendono  più  gii  prin- cipi, e sono  cagione  di  più  efficaci  con-giure che  le  offese  : da  che  un  principe si  debbe  guardare;  perchè  gli  uomini si  hanno  o a carezzare,  o assicurarsi  di loro,  e non  gli  ridurre  mai  in  termineche  gli  abbino  a pensare  che  bisogni loro  o morire,  o far  morire  altrui.Quanto  ai  pericoli  che  si  corrono  in  su la  esecuzione,  nascono  questi  o da  va-riare l’ordine,  o da  mancare  V animo a colui  che  eseguisce,  o da  errore  chelo  esecutore  faccia  per  poca  prudenza, o per  non  dar  perfezione  alla  cosa,  ri-manendo vivi  parte  di  quelli  che  si  di- segnavano  ammazzare.  Dico,  adunque,come  e'  non  è cosa  alcuna  che  faccia tanto  sturbo  o impedimento  a tutte  leazioni  degli  uomini,  quanto  è in  uno instante,  senza  aver  tempo,  avere  a va-riare un  ordine,  e pervertirlo  da  quello che  si  era  ordinato  prima.  E se  questavariazione  fa  disordine  in  cosa  alcuna, lo  fa  nelle  cose  della  guerra,  ed  in  cosesimili  a quelle  di  che  noi  parliamo;  per-chè in  tali  azioni  non  è cosa  tanto  ne-cessaria a fare,  quanto  che  gli  uomini fermino  gli  animi  loro  ad  eseguire  quellaparte  che  tocca  loro;  e se  gli  uomini hanno  volto  la  fantasia  per  più  giorniad  un  modo  e ad  uno  ordine,  e quello subito  varii,  è impossibile  che  non  siperturbino  tutti,  e non  rovini  ogni  co-sa; in  modo  ch'egli  è meglio  assai  ese-guire una  cosa  secondo  l' ordine  dato, ancora  che  vi  si  vegga  qualche  incon-veniente, che  non  è,  per  voler  cancellare quello,  entrare  in  mille  inconvenienti.Questo  interviene  quando  e’  non  si  ha tempo  a riordinarsi;  perchè  quando  siha  tempo,  si  può  1’  uomo  governare  a suo  modo.  La  congiura  de’ Pazzi  contraa Lorenzo  e Giuliano  de’  Medici,  è nota. L’ ordine  dato  era,  che  dessino  desinareal  cardinale  di  San  Giorgio,  ed  a quel desinare  ammazzargli:  dove  si  era  di-stribuito chi  aveva  a ammazzargli,  chi aveva  a pigliare  il  palazzo,  e chi  correrela  città  e chiamare  il  popolo  alla  libertà. Accadde  che  essendo  nella  chiesa  catte-drale in  Firenze  i Pazzi,  i Medici  ed  il Cardinale  ad  uno  offizio  solenne,  s’in-tese come  Giuliano  la  mattina  non  vi desinava  : il  che  fece  che  i congiuratis’adunarono  insieme,^  quello  che  gli avevano  a far  in  casa  i Medici,  dilibe-rarono di  farlo  in  chiesa.  Il  che  venne a perturbare  tutto  l’ordine;  perchè  Gio-vambatista  da  Montesecco  non  volle  con-correre all’  omicidio,  dicendo  non  lo  co-lere fare  in  chiesa:  talché  gli  ebbono  a“mutare  nuovi  ministri  in  ogni  azione;  iquali,  non  avendo  tempo  a fermare  l’ani-mo,  feci ono  tali  errori,  che  in  essa  ese-cuzione furono  oppressi.  Manca  l’animo a chi  eseguisce,  o per  riverenza,  o perpropria  viltà  dello  esecutore,  lì)  tanta  la maestà  e la  riverenza  che  si  tira  dietrola  presenza  d’uno  principe,  eh’  egli  è fa-cil  cosa  o che  mitighi  o ch’egli  sbigot-tisca uno  esecutore.  A Mario,  essendo preso  da’  Minturnesi,  fu  mandato  uno  ser-vo che  lo  ammazzasse  ; il  quale  spaventato dalla  presenza  di  quello  uomo  e dalla  me-moria del  nome  suo  divenuto  vile,  per-de ogni  forza  ad  ucciderlo.  E se  que-sta potenza  è in  uno  uomo  legato  e prigione,  ed  affogato  in  la  mala  fortuna,quanto  si  può  temere  che  la  sia  mag-giore in  un  principe  sciolto,  con  lamaestà  degli  ornamenti,  della  pompa  c della  comitiva  sua?  talché  ti  può  questapompa  spaventare,  o vero  con  qualche grata  accoglienza  raumiliare.  Congiura-rono alcuni  contro  a Sitalce  re  di  Tra- cia; deputarono  il  dì  della  esecuzione;convennono  al  luogo  deputato,  dov’ era il  principe;  nessuno  di  loro  si  mosseper  offenderlo:  Unto  che  si  partirono senza  aver  tentato  alcuna  cosa  e senzasapere  quello  che  se  gli  avesse  impediti; ed  incolpavano  1’  uno  1’  altro.  Caddonoin  tale  errore  più  volte  ; tanto  che  sco-pertasi la  congiura,  portarono  pena  diquel  male  che  poterono  e non  volleno fare.  Congiurarono  contra  Alfonso  ducadi  Ferrara  due  suoi  fratelli,  ed  usarono mezzano  Giennes  prete  e cantore  delduca;  il  quale  più  volte  a loro  richiesta, condusse  il  duca  fra  loro,  talché  gliavevano  arbitrio  di  ammazzarlo.  Nondi-meno, mai  nessuno  di  loro  non  ardì  difarlo;  tanto  che  scoperti,  portarono  la pena  della  cattività  e poca  prudenzaloro.  Questa  negligenza  non  potette  na-scere da  altro,  se  non  che  convenne  oche  la  presenza  gli  sbigottisse  o che qualche  umanità  del  principe  gli  umi-liasse. Nasce  in  tali  esecuzioni  inconve-niente o errore  per  poca  prudenza,  oper  poco  animo;  perchè  V una  e 1’  altra di  queste  due  cose  ti  ’nvasa,  e,  portatoda  quella  confusione  di  cervello,  ti  fa dire  e fare  quello  che  tu  non  debbi.  Eche  gli  uomini  invasino  e si  confondino, non  lo  può  meglio  dimostrare  Tito  Livioquando  descrive  d’  Alessameno  elolo, quando  ei  volse  ammazzare  Nabide  spar-tano^ di  che  abbiamo  di  sopra  parlato; che,  venuto  il  tempo  della  esecuzione,scoperto  che  egli  ebbe  a’  suoi  quello che  af  aveva  a fare,"  dice  Tito  Livioqueste  parole:  Collegi!  et  i psc  animunij confusimi  tanice  cogilatione  rei.  Perchègli  è impossibile  eh*  alcuno,  àncora  che di  animo  fermo,  ed  uso  alla  morte  de-gli uomini  e ad  operare  il  ferro,  non si  confonda.  Però  si  debbe  eleggere  uo-mini sperimentati  in  tali  maneggi,  ed  a nessun  altro  credere,  ancora  che  tenutoanimosissimo.  Perchè,  dello  animo  nelle cose  grandi,  senza  avere  fatto  isperien-za,  non  sia  alcuno  che  se  ne  prometta cosa  certa.  Può,  adunque,  questa  con-fusione o farti  cascare  Panni  di  mano, o farti  dire  cose  che  faccino  il  medesi-mo effetto.  Lucilla,  sorella  di  Commodo, ordinò  che  Quinziano  lo  ammazzasse.Costui  aspettò  Commodo  nella  entrata dello  anfiteatro,  c con  un  pugnale  ignudoaccosta ndosegli,  gridò:  Questo  ti  manda il  Senato:  le  quali  parole  fecero  che  fuprima  preso  eh’  egli  avesse  calato  il braccio  per  ferire.  Messer  Antonio  daVolterra,  diputato,  come  di  sopra  si disse,  ad  ammazzare  Lorenzo  de*  Medici,nello  accostategli,  disse:  Ah  traditore! la  qual  voce  fu  la  salute  di  Lorenzo,  ela  rovina  di  quella  congiura.  Può  non si  dare  perfezione  alla  cosa,  quando  sicongiura  contro  ad  un  capo,  per  le  ca-gioni delle:  ma  facilmente  non  se  le  dàperfezione  quando  si  congiura  contro  a due  capi;  anzi  è tanto  difficile,  che  gliè quasi  impossibile  eli»  la  riesca.  Per-chè fare  una  simile  azione  in  un  mede-simo tempo  in  diversi  luoghi,  è quasi impossibile;  perchè  in  diversi  tempinon  si  può  fare,  non  volendo  che  l’una guasti  1’  altra.  In  modo  clic,  se  il  con-giurare contro  ad  uu  principe  è cosa dubbia,  pericolosa  e poco  prudente  ;congiurare  contro  a due,  è al  tutto  vana e leggieri.  E se  non  fusse  la  riverenzadello  istorieo,  io  non  crederei  mai  che fusse  possibile  quello  che  Erodiano  dicedi  Plauziano,  quando  ei  commise  a Sa-turnino centurione,  che  egli  solo  am-mazzasse Severo  ed  Antonino,  abitanti in  diversi  luoghi:  perchè  la  è cosa  tantodiscosto  dal  ragionevole,  che  altro  che questa  autorità  non  me  lo  farebbe  cre-dere. Congiurarono  certi  giovani  ateniesi contra  a Diocle  ed  Ippia,  tiranni  diAlene.  Ammazzarono  Diocle;  ed  Ippia che  rimase,  Io  vendicò.  Chione  e Leo-nide, eradensi  e discepoli  di  Platone, congiurarono  contro  a Clearco  e Satiro,tiranni:  ammazzarono  Clearco;  e Satiro che  restò  vivo,  lo  vendicò.  Ai  Pazzi,  piuvolte  da  noi  allegati,  non  successe  di ammazzare  se  non  Giuliano.  In  modoche,  di  simili  congiure  contro  a più  capi se  ne  dcbbe  astenere  ciascuno,  perchènon  si  fa  bene  nè  a sè  nè  olla  patria nè  ad  alcuno:  anzi  quelli  che  riman-gono , diventano  più  insopportabili  c più  acerbi;  come  sa  Firenze,  Ateneed  Eraclea,  state  da  ine  preallegate. È vero  che  la  congiura  clic  Pelopidafece  per  liberare  Tebe  sua  patria , ebbe  tutte  le  diffìcultù;  nondimenoebbe  felicissimo  fine:  perchè  Pelopida non  solamente  congiurò  contra  a duetiranni,  ma  contra  a dieci;  non  sola-mente non  era  confidente  e non  gli  erafacile  1’  entrata  ai  tiranni,  ma  era  ri-bello: nondimeno  ei  potè  venire  iti  Te-be, ammazzare  i tiranni,  e liberare  la patria.  Pur  nondimeno  fece  lutto,  conI’  aiuto  d’  uno  Carione,  consigliere  de’ ti-ranni, dal  quale  ebbe  1’  entrata  fucilealla  esecuzione  sua.  Non  sia  alcuno,  non-dimeno, che  pigli  lo  essempio  da  co-stui : perchè  come  la  fu  impresa  impos-sibile, e cosa  maravigliosa  a riuscire,cosi  fu  ed  è tenuta  dagli  scrittori  i quali  la  celebrano  come  cosa  rara,  equasi  senza  essempio.  Può  essere  inter-rotta tale  esecuzione  da  una  falsa  im-maginazione, o da  uno  accidente  im-provviso che  nasca  in  su  M fatto.  Lamattina  che  Bruto  e gli  altri  congiurati volevano  ammazzare  Cesare,  accadde,  chequello  parlò  a lungo  con  Gneo  Popiiio Cenate,  uno  de’ congiurati  ; e vedendogli  altri  questo  lungo  parlamento,  du-bitarono che  detto  Popiiio  non  rivelassea Cesare  la  congiura.  Furono  per  ten-tare d*  ammazzare  Cesare  quivi,  e nonaspettare  che  fusse  in  Senato;  ed  areb-bonlo  fatto,  se  non  che  il  ragionamentofini,  e visto  non  fare  a Cesare  moto alcuno  straordinario,  si  rassicurarono.Sono  queste  false  immaginazioni  da  con-siderarle, ed  avervi  con  prudenza  ri-spetto ; e tanto  più,  quanto  egli  è facile ad  averle.  Perchè  chi  ha  la  sua  con-scienza  macchiata,  facilmente  crede  che si  parli  di  lui:  puossi  sentire  una  pa-rola detta  ad  un  altro  fine,  che  ti  fac-eia  perturbare  t’  animo,  e credere  cheia  sia  detta  sopra  il  caso  tuo;  e farti o con  la  fuga  scoprire  la  congiura  date,  o confondere  I'  azione  con  accelerarla fuora  di  tempo.  E questo  tanto  più  fa-cilmente nasce,  quanto  ei  sono  molti  ad esser  consci  della  congiura.  Quanto  agliaccidenti,  perchè  sono  insperati,  non  si può  se  non  con  gli  essempi  mostrargli,e fare  gli  uomini  cauti  secondo  quelli, lulio  Belanti  da  Siena,  del  quale  di  so-pra abbiamo  futto  menzione,  per  lo sdegno  aveva  contra  a Pandolfo,  che  gliaveva  tolta  la  figliuola  che  prima  gli aveva  data  per  moglie,  deliberò  d’  am-mazzarlo, ed  elesse  questo  tempo.  An-dava Pandolfo  quasi  ogni  giorno  a vi-sitare un  suo  parente  infermo,  e nello andarvi  passava  dalle  case  di  lulio.  Co-stui adunque,  veduto  questo,  ordinò d*  avere  i suoi  congiurali  in  casa  ad ordine  per  ammazzare  Pandolfo  nel  pas-sare ; e messisi  dentro  alP  uscio  armati,teneva  uno  alla  fenestra,  che,  passando Pandolfo,  quando  ci  fosse  slato  pressoall’  uscio,  facesse  un  cenno.  Accadde  che venendo  Pandolfo,  ed  avendo  fallo  coluiil  cenno,  riscontrò  uno  amico  che  Io fermò;  ed  alcuni  di  quelli  che  erano  conlui,  vennero  a trascorrere  innanti,  e veduto  e sentito  il  rornore  d’arme,  sco-persono  l’agguato;  in  modo  che  Pan- dolfo si  salvò,  e tulio  coi  compagni  s’ eh*bono  a fuggire  di  Siena.  Impedì  quello accidente  di  quello  scontro  quella  azione,e fece  a Iulio  rovinare  la  sua  impresa. Ai  quali  accidenti,  perchè  ei  sono  rari,non  si  può  fare  alcuno  rimedio.  È ben necessario  esaminare  tutti  quelli  chepossono  nascere,  e rimediarvi.  Restaci, al  presente,  solo  a disputare  de’  pericoliche  si  corrono  dopo  la  esecuzione  : i quali  sono  solamente  uno;  e questo  è,quando  e’  rimane  alcuno  che  vendichi il  principe  morto.  Possono  rimanere,adunque,  suoi  fratelli,  o suoi  figliuoli,  o altri  aderenti,  a chi  s’  aspetti  il  prin-cipato; e possono  rimanere  o per  tua. negligenza,  o per  le  cagioni  dette  di  so-pra, che  faccino  questa  vendetta:  come intervenne  a Giovannandrea  da  Lampo-gnano,  il  quale,  insieme  con  i suoi  con-giurati, avendo  morto  il  duca  di  Mi-lano, ed  essendo  rimaso  uno  suo  figliuolo c due  suoi  fratelli,  furono  a tempo  avendicare  il  morto.  E veramente,  in questi  casi  i congiurati  sono  scusati,perchè  non  ci  hanno  rimedio;  ma  quando ei  ne  ripiene  vivo  alcuno  per  poca  pru-denza, o per  loro  negligenza,  allora  è che  non  meritano  scusa.  Ammazzaronoalcuni  congiurati  Forlivesi  il  conte  Gi-rolamo loro  signore,  presono  la  moglie,cd  i suoi  figliuoli,  che  erano  piccoli  ; e non  parendo  loro  poter  vivere  sicuri  senon  si  insignorivano  della  fortezza,  e non  volendo  il  castellano  darla  loro,Madonna  Caterina  (che  così  si  chiamava la  contessa)  promise  a’  congiurati,  se  lalasciavano  entrare  in  quella,  di  farla consegnare  loro,  e che  ritenessino  ap-presso di  loro  i suoi  figliuoli  per  ista- ticiii.  Costoro  sotto  questa  fede  ve  la  la-sciarono entrare  ; la  quale  come  fu  den-tro dalie  mura  rimproverò  loro  la  mortedel  marito,  e minacciógli  d’ ogni  qua-lità di  vendetta.  B per  mostrare  chede’ suoi  figliuoli  non  si  curava,  mostrò loro  le  membra  genitali,  dicendo  cheaveva  ancora  il  modo  a rifarne.  Cosi costoro,  scarsi  di  consiglio  e tardi  av-vedutisi del  loro  errore,  con  uno  per-petuo esilio  patirono  pene  della  pocaprudenza  loro.  Ma  di  tutti  i pericoli  che possono  dopo  la  esecuzione  avvenire,non  ci  è il  più  certo,  nè  quello  che  sia più  da  temere,  che  quando  il  popolo  èamico  del  principe  che  tu  hai  morto: perchè  a questo  i congiurati  non  hannorimedio  alcuno,  perchè  e’  non  se  ne  pos- sono mai  assicurare.  In  essempio  ci  èCesare,  il  quale  per  avere  il  popolo  di Roma  amico,  fu  vendicato  da  lui;  per-chè avendo  cacciati  i congiurati  di  Ro-ma, fu  cagione  che  furono  tutti  in  varitempi  e in  vari  luoghi  ammazzati.  Le congiure  che  si  fanno  contro  alla  patriasono  meno  pericolose  per  coloro  che  le fanno,  che  non  sono  quelle  che  si  fannocontro  ai  principi:  perchè  nel  maneg-giarle vi  sono  meno  pericoli  che  inquelle;  nello  eseguirle  vi  sono  quelli medesimi;  dopo  la  esecuzione,  non  veli*  è alcuno.  Nel  maneggiarle  non  vi  è pericoli  molti:  perchè  un  cittadino  puòordinarsi  alia  potenza  senza  manifestare l’animo  e disegno  suo  ad  alcuno; e sequelli  suoi  ordini  non  gli  sono  inter- rotti; seguire  felicemente  I*  impresa  sua;se  gli  sono  interrotti  con  qualche  legge, aspettar  tempo,  ed  entrare  per  altra  via.Questo  s’ intende  in  una  repubblica  dove è qualche  parte  di  corruzione;  perchèiu  una  non  corrotta,  non  vi  avendo luogo  nessuno  principio  cattivo,  nonpossono  cadere  in  un  suo  cittadino  que- sti pensieri.  Possono,  adunque,  i cittadiniper  molti  mezzi  e molte  vie  aspirare  al principato,  dove  ei  non  portano  peri-colo d’  essere  oppressi:  si  perchè  le  re-pubbliche  sono  più  tarde  che  uno  prin-cipe, dubitano  meno,  e per  questo  sono manco  caute;  sì  perchè  hanno  più  ri-spetto  ai  loro  cittadini  grandi,  e per questo  quelli  sono  più  audaci  e più animosi  a far  loro  contro.  Ciascuno  ha letto  la  congiura  di  Catilina  scritta  daSalustio,  e sa  come  poi  che  la  congiura fu  scoperta,  Catilina  non  solamente  stettein  Roma,  ma  venne  in  Senato,  e disse villania  al  Senato  ed  al  Consolo:  tantoera  il  rispetto  che  quella  città  aveva  ai suoi  cittadini.  E partito  che  fu  di  Roma,e eh’  egli  era  di  già  in  su  gli  eserciti, non  si  sarebbe  preso  Lentolo  e quellialtri,  se  non  si  fussero  avute  lettere  di lor  mano  che  gli  accusavano  manifesta-mente. Annone,  grandissimo  cittadino in  Cartagine,  aspirando  alla  tirannide,aveva  ordinato  nelle  nozze  d’ una  sua figliuola  di  avvelenare  tutto  il  Senato,e dipoi  farsi  principe.  Questa  cosa  in- tesasi, non  vi  fece  il  Senato  altra  prov-visione che  d’  una  legge,  la  quale  po- neva  termine  alle  spese  de’ conviti  edelle  nozze:  tanto  fu  il  rispetto  die  gli ebbero  alle  qualità  sue.  È ben  vero,  chenello  eseguire  una  congiura  contra  alla patria,  Vi  è più  difficoltà  e maggioripericoli;  perchè1  rade  volte  è che  ba- stino le  tue  forze  proprie  conspirandocontra  u tanti;  e ciascuno  non  è prin-cipe d’  uno  esercito,  come  era  Cesare  oAgatocle  o Cleomene  e simili,  che  hanno ad  un  tratto  e con  la  forza  occupata  lapatria.  Perchè  a simili  è la  via  assai facile,  ed  assai  sicura;  ma  gli  altri  chenon  hanno  tante  aggiunte  di  forze,  con-viene che  faccino  la  cosa  o con  ingannoed  arte,  o con  forze  forestiere.  Quanto allo  inganno  ed  all’arte,  avendo  Pisi-strato  ateniese  vinti  i Megarensi,  e per questo  acquistata  grazia  nel  popolo,  uscìuna  mattina  fuori  ferito,  dicendo  che la  nobiltà  per  invklia  P aveva  ingiuria-to, e domandò  di  poter  menare  armati seco  per  guardia  sua.  Da  questa  auto-rità facilmente  salse  a tanta  grandezza, che  diventò  tiranno  d’ Alene.  PandolfoPetrucci  tornò  con  altri  fuorusciti  in Siena,  e gli  fu  data  la  guardia  dellapiazza  in  governo,  come  cosa  meccanica, e che  gli  altri  rifiutarono;  nondiinaneoquelli  armati,  con  il  tempo,  gli  dierono tanta  riputazione,  che  in  poco  tempone  diventò  principe.  Molti  altri  hanno tenute  altre  industrie  ed  altri  modi,  econ  ispazio  di  tempo  e senza  pericolo vi  si  sono  condotti.  Quelli  che  con  forzaloro,  o con  eserciti  esterni,  hanno  con-giurato per  occupare  la  patria,  hannoavuti  vari  eventi,  secondo  la  fortuna. Catilina  preallegato  vi  rovinò  sotto.  An-none, di  chi  di  sopra  facemmo  men- zione, non  essendo  riuscito  il  veleno,armò  di  suoi  partigiani  molte  migliaia di  persone,  e loro  ed  eglino  furono  mor-ti. Alcuni  primi  cittadini  di  Tebe  per farsi  tiranni  chiamarono  in  aiuto  unoesercito  spartano,  e presono  la  tirannide di  quella  città.  Tanto  che,  esaminatetutte  le  congiure  fatte  contro  alla  pa-Iria,  non  ne  troverai  alcuna,  o poche,che  nel  maneggiarle  siano  oppresse; ma  tutte  q sono  riuscite,  o sono  rovi-nate nella  esecuzione.  Eseguite  che  le sono,  ancora  non  portano  altri  pericoli,che  si  porti  la  natura  del  principato  in sé:  perchè  divenuto  che  uno  è tiranno,ha  i suoi  naturali  ed  ordinari  pericoli che  gli  arreca  la  tirannide,  alli  qualinon  ha  altri  rimedi  che  di  sopra  si siano  discorsi.  Questo  è quanto  mi  èoccorso  scrivere  delle  congiure;  e se  io ho  ragionato  di  quelle  che  si  fanno  conil  ferro,  e non  col  veleno,  nasce  che P hanno  tutte  un  medesimo  ordine.  Veroè che  quelle  del  veleno  sono  più  pe-ricolose, per  esser  più  incerte:  per-chè non  si  ha  comodità  per  ognuno; e bisogna  conferirlo  con  chi  la  ha  ; equesta  necessità  del  conferire  ti  fa  pe-ricolo. Dipoi,  per  molte  cagioni,  un  be-veraggio di  veleno  non  può  esser  mor-tale: come  intervenne  a quelli  che  am-mazzarono Commodo,  che,  avendo  quello ributtato  il  veleno  che  gli  avevano  dato,furono  forzati  a strangolarlo,  se  volleno che  morisse.  Non  hanno,  pertanto,  iprincipi  il  maggiore  nimico  che  la  con* giura  ; perchè  fatta  che  è una  congiuraloro  conira,  o la  gli  ammazza,  o la  gli infama.  Perchè,  se  la  riesce,  e’  muoio-no; se  la  si  scopre,  e loro  ammazzino i congiurati,  si  crede  sempre  che  lusia  stata  invenzione  di  quel  principe, per  isfogarc  1*  avarizia  e la  crudeltà  suaconira  al  sangue  ed  alla  roba  di  quelli eh’  egli  ha  morti.  Non  voglio  però  man-care di  avvertire  quel  principe  o quella repubblica  contra  a chi  fusse  congiu-rato, che  abbino  avvertenza,  quando una  congiura  si  manifesta  loro,  innanziche  faccino  impresa  di  vendicarla,  di cercare  ed  intendere  molto  bene  la  qua-lità di  essa,  e misurino  bene  le  condi- zioni de’ congiurati  e le  loro  ; c quandola  truovino  grossa  e potente,  non  la scuoprino  mai,  infimo  a tanto  che  sisiano  preparati  con  forze  sufficienti  ad opprimerla:  altrimenti  facendo,  scopri-rebbono  la  loro  rovina.  Però  debbono con  ogni  industria  dissimularla,  perchèi congiurati  veggendosi  scoperti,  cac-ciati da  necessità,  operano  sema  ris-petto. In  esseinpio  ci  sono  i Romani; i quali  aveudo  lasciate  due  legioni  disoldati  a guardia  de’  Capovani  contra ai  Sanniti,  come  altrove  dicemmo,  con-giurarono quelli  capi  delle  legioni  in-sieme di  opprimere  i Capovani:  la  qualcosa  intesasi  a Roma,  commessono  a Rutilio  nuovo  consolo  che  vi  provve-desse: il  quale,  per  addormentare  i con-giurali, pubblicò  come  il  Senato  avevaraffermo  le  stanze  alle  legioni  capovane. Il  che  credendosi  quelli  soldati,  e pa-rendo loro  aver  tempo  ad  eseguire  il disegno  loro,  non  cercarono  di  accele-rare la  cosa  ; e così  stettono  infino  che cominciarono  a vedere  che  il  Consologli  separava  1’  uno  dull’  altro  ; la  qual cosa  generato  in  loro  sospetto,  fece  chesi  scopersono,  e mandarono  ad  esecu-zionc  la  voglia  loro.  Nè  può  esserequesto  maggiore  essempio  nell’  una  e nel-Y altra  parte:  perchè  per  questo  si  vede,quanto  gli  uomini  sono  lenti  nelle  cose dove  ei  credono  avere  tempo;  e quantoei  sono  presti  dove  la  necessità  gli  cac-cia. Nè  può  uno  principe  o una  repub-blica, che  vuole  differire  lo  scoprire  una congiura  a suo  vantaggio,  usare  ter-mine migliore  che  offerire  di  prossimo occasione  con  arte  ai  congiurati,  accioc-ché aspettando  quella,  o parendo  loro aver  tempo,  diano  tempo  a quello  o aquella  a castigargli.  Chi  ha  fatto  altri-menti, ha  accelerato  la  sua  rovina:come  fece  il  duca  di  Atene  e Guglielmo de*  Pazzi.  Il  duca,  diventato  tiranno  diFirenze,  ed  intendendo  essergli  congiu-rato contro,  fece,  senza  esaminare  altri-menti la  cosa,  pigliare  uno  de’  congiu-rali: il  che  fece  subito  pigliare  V anniagli  altri  e torgli  lo  Stato.  Guglielmo, sendo  commessario  in  Val  di  Chiananel  1501,  ed  avendo  inteso  come  in Arezzo  erti  congiura  in  favore  de*  Vi-telli per  tórre  quella  terra  ai  Fiorentini, subito  se  uè  andò  in  quella  città,  esenza  pensare  alle  forze  de’ congiurati o alle  sue,  e senza  prepararsi  di  alcunaforza,  con  il  consiglio  del  Vescovo  suo figliuolo,  fece  pigliare  uno  de’ congiu-rati: dopo  la  qual  presura,  gli  altri subito  presono  1’  armi  e tolseno  In  ter-ra ai  Fiorentini;  e Guglielmo,  di  com-tnessario,  diventò  prigione.  Ma  quandole  congiure  sono  deboli,  si  possono  e debbono  senza  rispetto  opprimere.  Nonè ancora  da  imitare  in  alcun  modo  duoi termini  usati,  quasi  contrari  1’  uno  al-I’  altro  ; 1’  uno  dal  prenominato  duca d’  Atene,  il  quale,  per  mostrare  di  cre-dere d’  avere  la  benivolenza  de’  cittadini fiorentini,  fece  morire  uno  che  gli  ma-nifestò una  congiura:  l’altro  da  Dione siracusano,  il  quale,  per  tentare  1’  animodi  alcuno  ch’egli  aveva  a sospetto,  con-sentì a Callippo,  nel  quale  ei  confidava,che  mostrasse  di  fargli  una  congiura  contra.  E tutti  due  questi  capitaronomale:  perchè  l’uno  tolse  l’animo  agli accusatori,  e dettelo  a chi  volse  congiu-rare: l’altro  dette  la  via  fucile  alta morte  sua,  anzi  fu  egli  proprio  capodella  sua  congiura;  come  per  isperienza gli  intervenne,  perchè  Callippo  potendosenza  rispetto  praticare  contra  a Dione, praticò  tanto,  che  gli  tolse  lo  Stato  ela  vita. Donde  nasce  che  le  muta-zioni dalla  libertà  alla  servitù , e dallaservitù  alla  libertàj  alcuna  n'  è senza sangue , alcuna  n*  è piena.Dubiterà  forse  alcuno  donde  nasca che  molte  mutazioni  che  si  fanno  dallavita  libera  alla  tirannica  e per  contra-rio, alcuna  se  ne  faccia  con  sangue,  al-cuna senza  ; perchè,  come  per  le  istorie si  comprende,  in  simili  variazioni  alcunavolta  sono  stali  morti  infiniti  uomini, alcuna  volta  non  è stato  ingiurialo  al-cimo:  come  intervenne  nella  mutazione clic  fece  Roma  dai  Re  ai  Consoli,  dovenon  furono  cacciati  altri  die  i Tarquini, fuora  delia  offensione  di  qualunque  altro.Il  che  dipende  da  questo:  perchè  quello stato  che  si  muta,  nacque  con  violenza,o non  ; e perchè  quando  e’  nasce  con violenza,  conviene  nasca  con  ingiuria  dimolti,  è necessario  poi,  nella  rovina  sua, che  gl’ ingiuriati  si  vogliono  vendicare;e da  questo  disiderio  di  vendetta  nasce il  sangue  e la  morte  degli  uomini.  Maquando  quello  stato  è causato  da  uno comune  consenso  di  una  universalitàche  lo  lia  fatto  grande,  non  ha  cagione poi,  quando  rovina  detta  universalità,di  offendere  altri  che  il  capo.  E di  que-sta sorte  fu  lo  stato  di  Roma  e la  cac-ciata de*  Tarquini;  come  fu  ancora  in Firenze  lo  stato  de* Medici,  che  poi  nellerovine  loro  nel  1494,  non  furono  offesi altri  che  loro.  E così  tali  mutazioni  nonvengono  ad  esser  molto  pericolose  : ma son  bene  pericolosissime  quelle  che  sonofatte  da  quelli  che  si  hanno  a vendica-re; le  quali  furono  sempre  mai  di  sorte,da  fare,  non  che  altro,  sbigottire  chi le  legge.  E perchè  di  questi  essempi  ne-son  piene  l’ istorie,  io  le  voglio  lasciare indietro.Cap.  Vili.  — Chi  vuole  alterare  una  re-pubblicaj  debbo  considerare  il  sogget-to di  quella. E’  si  è di  sopra  discorso,  come  un  tri-sto cittadino  non  può  male  operare  in una  repubblica  clic  non  sia  corrotta  : laquale  conclusione  si  fortifica,  oltre  alle ragioni  che  allora  si  dissono,  con  l’es*sempio  di  Spurio  Cassio  e di  Manlio Capitolino.  11  quale  Spurio  sendo  uomoambizioso,  e volendo  pigliare  autorità istraordinaria  in  Roma,  e guadagnarsila  Plebe  con  il  fargli  molti  benefizi,  come era  di  vendergli  quelli  campi  che  i Ro-mani avevano  tolti  alt i Ernici;  fu  sco-perta dai  Padri  questa  sua  ambizione,ed  in  tanto  recata  a sospetto,  r:lie  par-lando egli  al  Popolo,  ed  offerendo  dìdargli  quelli  danari  che  s’  erano  ritratti de’  grani  che  il  pubblico  aveva  fatti  ve-nire di  Sicilia,  al  tutto  gli  recusò,  pa-rendo a quello  che  Spurio  volesse  dareloro  il  pregio  della  loro  libertà.  Ma  se tal  Popolo  fusse  stato  corrotto,  non  areb-be  recusato  detto  prezzo,  e gli  arebbe aperta  alla  tirannide  quella  via  che  glichiuse.  Fa  molto  maggiore  essempio  di questo,  Manlio  Capitolino  ; perchè  me-diante costui  si  vede  quanta  virtù  d’ani- mo e di  corpo,  quante  buone  opere  fattein  favore  della  patria,  cancella  dipoi una  brutta  cupidità  di  regnare:  la  quale,come  si  vede,  nacque  in  costui  per  la invidia  che  lui  aveva  degli  onori  eranofatti  a Cammillo;  e venne  in  tanta  cecità di  niente,  che  nou  pensando  al  mododel  vivere  della  città,  non  esaminando il  soggetto  quale  esso  aveva,  non  attoa ricevere  ancora  trista  forma,  si  mise a fare  tumulti  in  Roma  contra  al  Se-nato  e con  tra  alle  leggi  patrie.  Dove si  conosce  la  perfezione  di  quella  città,e la  bontà  della  materia  sua  : perchè nel  caso  suo  nessuno  della  Nobiltà,  an-cora che  fussino  acerrimi  difensori  l’uno deli’  altro,  si  mosse  a favorirlo  ; nessunode’ parenti  fece  impresa  in  suo  favore: e con  gli  altri  accusati  solevano  com-parire sordidati,  vestiti  di  nero,  tutti mesti,  per  cattare  misericordia  in  fa-vore dello  accusato;  e con  Manlio  non se  ne  vide  alcuno.  I Tribuni  della  plebe,che  solevano  sempre  favorire  le  cose che  pareva  venissino  in  benefizio  delPopolo  ; e quanto  erano  più  contra  ai Nobili,  tanto  piu  le  tiravano  innanzi;  inquesto  caso  si  unirono  coi  Nobili,  per opprimere  una  comune  peste.  Il  Popolodi  Roma,  disiderosissimo  dello  utile  pro-prio, ed  amatore  delle  cose  che  veniva-no contra  alla  Nobiltà,  avvenga  clic facesse  a Manlio  assai  favori;  nondi-meno, come  i Tribuni  lo  citarono,  e che rimessono  la  causa  sua  al  giudizio  delPopolo,  quel  Popolo,  diventalo  di  difen*sore  giudice,  sema  rispetto  alcuno  locondennò  a morte.  Pertanto  io  non  credo che  sia  essempio  in  questa  istoria  piùatto  a mostrare  la  bontà  di  tutti  gli ordini  di  quella  Repubblica,  quanto  èquesto  ; veggendo  che  nessuno  di  quella città  si  mosse  a difendere  un  cittadinopieno  d’  ogni  virtù,  e che  pubblicamente e privatamente  aveva  fatte  moltissimeopere  laudabili.  Perchè  in  tutti  loro  potè più  T amore  della  patria,  che  nessuno-altro  rispetto;  e considerarono  molto più  ai  pericoli  presenti  che  da  lui  di-pendevano, che  ai  meriti  passati:  tanto che  con  la  morte  sua  e’  si  liberarono..E  Tito  Livio  dice:  Hunc  ex  itimi  habuìt vii',  nisi  in  libera  civilate  natus  esset,memorabili Dove  sono  da  considerare due  cose:  P una,  che  per  altri  modis’  ha  a cercare  gloria  in  una  città  cor-rotta, che  in  una  che  ancora  viva  poli-ticamente; V altra  (che  è quasi  quel  me-desimo che  la  prima) , che  gli  uomini nel  proceder  loro,  e tanto  più  nelle azioni  grandi,  debbono  considerare  itempi,  ed  accomodarsi  a quelli.  E coloro cbe,  per  cattiva  elezione  o per  naturaleinclinazione,  si  discordano  dai  tempi, vivono  il  più  delle  volte  infelici,  ed  hannocattivo  esito  razioni  loro;  al  contrario Y hanno  quelli  cbe  si  concordano  coltempo.  E senza  dubbio,  per  le  parole preallegate  dello  istorico  si  può  con-chiudere, che  se  Manlio  fusse  nato  ne’ tempi  di  Mario  e di  Siila,  dove  già  lamateria  era  corrotta  e dove  esso  arebbe potuto  imprimere  la  forma  dell’  ambi-zione sua,  arebbe  avuti  quelli  medesimi seguiti  e successi  cbe  Mario  e Siila,  egli  altri  poi,  che  dopo  loro  alla  tiran-nide aspirarono.  Così  medesimamente,se  Siila  e Mario  fussino  stati  ne’  tempi di  Manlio,  sarebbero  stati  intra  le  primeloro  imprese  oppressi.  Perchè  un  uomo può  bene  cominciare  con  suoi  modi  econ  suoi  tristi  termini  a corrompere  un popolo  di  uno  città,  ma  gli  è impossi-bile  che  la  vita  d*  uno  basti  a corrom- perla in  modo  che  egli  medesimo  nepossa  trai*  frutto;  e quando  bene  e’fusse  - possibile  con  lunghezza  di  tempo  che  lofacesse,  sarebbe  impossibile  quanto  al modo  del  procedere  degli  uomini,  chesono  impazienti,  e non  possono  lunga- mente differire  una  loro  passione.  Ap-presso, s’ ingannano  nelle  còse  loro,  ecl in  quelle,  massime,  che  disiderano  assai:talché,  o per  poca  pazienza  o per  in-gannarsene, entrerebbero  in  impresacontea  a tempo,  e capiterebbero  male.Però  è bisogno,  a voler  pigliare  auto-rità in  una  repubblica  e mettervi  trista forma,  trovare  la  materia  disordinatadal  tempo,  e che  a poco  a poco,  e di generazione  in  generazione,  si  sia  con-dotta al  disordine:  la  quale  vi  si  con-duce di  necessità,  quando  la  non  sia,come  di  sopra  si  discorse,  spesso  rin-frescata di  buoni  essempi,  o con  nuoveleggi  ritirata  verso  i principii  suoi.  Sa- rebbe, adunque,  stato  Manlio  un  uomoraro  e memorabile,  se  lusso  nato  in  una città  corrotta.  E però  debbono  i citta-dini che  nelle  repubbliche  fanno  alcuna impresa  o in  favore  della  libertà  o infavore  della  tirannide,  considerare  il soggetto  che  eglino  hanno,  e giudicareda  quello  la  dilficultà  delle  imprese  loro. Perchè  tanto  è diffìcile  e pericoloso  volerfare  libero  un  popolo  che  voglia  viver servo,  quanto  è voler  fare  servo  un  po-polo che  voglia  viver  libero.  E perchè di  sopra  si  dice,  che  gli  uomini  nellooperare  debbono  considerare  la  qualità de’  tempi  e procedere  secondo  quelli,  neparleremo  a lungo  nel  seguente  capi- tolo. Come  conviene  variare  coitempi , volendo  sempre  aver  buona fortuna.Io  ho  considerato  più  volte  come  la cagione  della  trista  e della  buona  for-tuna degli  uomini  è riscontrare  il  modo del  procedere  suo  coi  tempi:  perché  e’ sivede  che  gli  uomini  nell’  opere  loro  pro-cedono alcuni  con  impeto,  alcuni  conrispetto  e con  cauzione.  E perchè  nel-l’uno e nell’  altro  di  questi  modi  si  pas-sano i termini  convenienti,  non  si  po-tendo osservare  la  vera  via,  nell’uno  enell’  altro  si  erra.  Ma  quello  viene  ad errar  meno,  ed  avere  la  fortuna  pro-spera, che  riscontra,  come  io  ho  detto, con  il  suo  modo  il  tempo,  e sempre  maisi  procede,  secondo  ti  sforza  la  natura. Ciascuno  sa  come  Fabio  Massimo  proce-deva con  lo  esercito  suo  rispettivamente c cautamente,  discosto  da  ogni  impetoe da  ogni  audacia  romana;  e la  buona fortuna  fece,  che  questo  suo  modo  ris-contrò bene  coi  tempi.  Perchè,  sendo venuto  Annibaie  in  Italia,  giovine  e conuna  fortuna  fresca;  ed  avendo  già  rotto il  popolo  romano  due  volte;  ed  essendoquella  repubblica  priva  quasi  della  sua buona  milizia,  e sbigottita  ; non  potettesortire  miglior  fortuna,  che  avere  un capitano  il  quale,  con  la  sua  tardità  ecauzione,  tenesse  a bada  il  nimico.  Nè ancora  Fabio  potette  riscontrare  tempipiù  convenienti  ai  modi  suoi:  di  che nacque  che  fu  glorioso.  E che  Fabiofacesse  questo  per  natura  e non  per elezione,  si  vede,  che  volendo  Scipionepassare  in  Affrica  con  quelli  eserciti per  ultimare  la  guerra,  Fabio  la  con-tradisse assai,  come  quello  che  non  si poteva  spiccare  dai  suoi  modi  e dallaconsuetudine  sua;  talché,  se  fosse  stato, a lui,  Annibaie  sarebbe  ancora  in  Italia,come  quello  che  non  si  avvedeva  che gli  erano  mutati  i tempi,  e che  bisogna-va mutar  modo  di  guerra.  E se  Fabio fusse  stato  re  di  Roma,  poteva  facil-mente perdere  quella  guerra  : perchè non  arebbe  saputo  variare  col  proce-dere suo,  secondo  che  variavano  i tempi  : ma  sendo  nato  in  una  repubblica  doveerano  diversi  cittadini  e diversi  umori, come  la  ebbe  Fabio,  che  fu  ottimo  ne’tempi  debiti  a sostenere  la  guerra,  cosi ebbe  poi  Scipione  ne’  tempi  atti  a vin-cerla. Di  qui  nasce,  che  una  repubblica ha  maggior  vita,  ed  ha  più  lungamentebuona  fortuna  che  un  principato;  per-chè la  può  meglio  accomodarsi  alla  di-versità de’  temporali,  per  la  diversità de’ cittadini  che  sono  in  quella,  che  nonpuò  un  principe.  Perchè  un  uomo  che sia  consueto  a procedere  in  un  modo,non  si  muta  mai,  come  è detto;  e con-viene di  necessità,  quando  si  mutano  itempi  disformi  a quel  suo  modo,  che rovini.  Piero  Soderini,  altre  volte  preal-legato,  procedeva  in  tutte  le  cose  sue con  umanità  e pazienza.  Prosperò  eglie la  sua  patria  mentre  che  i tempi  fu-rono conformi  al  modo  del  procedersuo:  ma  come  vennero  dipoiìempi  dove bisognava  rompere  la  pazienza  e 1’  umi-lila, non  lo  seppe  fare;  talché  insieme con  la  sua  patria  rovinò.  Papa  lulio  11procedette  in  tutto  il  tempo  del  suo  pon- tificato con  impeto  e con  furia  ; e per-chè i tempi  l’accompagnarono  bene,  gli riuscirono  le  sue  imprese  tulle.  Ma  sefossero  venuti  altri  tempi  che  avessero ricerco  altro  consiglio,  di  necessità  ro-vinava; perchè  non  arebbe  mutato  nè modo  nè  ordine  nel  maneggiarsi.  E clicnoi  non  ci  possiamo  mutare,  ne  sono cagione  due  cose:  V una,  che  noi  non  cipossiamo  opporre  a quello  a che  c’  in-clina la  natura  ; 1*  altra,  che  avendo  unocon  un  modo  di  procedere  prosperato assai,  non  è possibile  persuadergli  chepossa  far  bene  a procedere  altrimenti: donde  ne  nasce  che  in  uno  uomo  la  for-tuna varia,  perchè  ella  varia  i tempi, ed  egli  non  varia  i modi.  Nascene  an-cora la  rovina  della  città,  per  non si  variare  gli  ordini  delle  repubblicheco’  tempi  ; come  lungamente  di  sopra  dis-corremmo : ma  sono  più  tarde,  perchèle  penano  più  a variare,  perchè  biso-gna che  venghino  tempi  che  commovinotutta  la  repubblica;  a che  un  solo  col variare  il  modo  del  procedere  non  ba-sta. E perchè  noi  abbiamo  fatto  inenzione  di  Fabio  Massimo  che  tenne  a badaAnnibale,  mi  pare  da  discorrere  nel  ca-pitolo seguente,  se  un  capitano,  volendofar  la  giornata  in  ogni  modo  col  nimico, può  essere  impedito  da  quello,  che  nonla  faccia. Che  un  capitano  non  puòfuggire  la  giornata , quando  V av-versario la  vuol  fare  in  ogni  moda.Cncus  Sulpitius  Diclator  advcrsus  Gal-lo s bcllum  trahcbal,  nolens  se  fot  tuncecoturni  Nere  ad  versus  hostentj  qucm  lem-pus  dcteriorcm  in  dieSj  et  locus  alte-rnisi faccrct.  Quando  e’ seguita  uno  er-rore dove  lutti  gli  uomini  o la  maggiorparte  s' ingannino,  io  non  credo  che  sia male  molte  volle  riprovarlo.  Pertanto,ancora  che  io  abbia  di  sopra  più  volte mostro,  quanto  le  azioni  circa  le  cosegrandi  siano  disformi  a quelle  degli antichi  tempi,  nondimeno  non  mi  parsuperfluo  al  presente  replicarlo.  Perchè, se  in  alcuna  parte  si  devia  dagli  anti-chi ordini,  si  devia  massime  nelle  azioni militari,  dove  al  presente  non  è osser-vata alcuna  di  quelle  cose  che  dagli  an-tichi erano  stimate  assai.  Ed  è natoquesto  inconveniente,  perchè,  le  repub-bliche ed  i principi  hanno  imposta  que-sta cura  ad  altrui;  e per  fuggire  i pe-ricoli, si  sono  discostati  da  questo  eser-cizio: e se  pure  si  vede  qualche  volta un  re  de’  tempi  nostri  andare  in  per  -sona, non  si  crede  però  che  da  lui  na- scano altri  modi  clic  meritino  più  laude.Perchè  quello  esercizio,  quando  pure  Io fanno,  lo  fanno  a * pompa,  e non  peralcuna  altra  laudabile  cagione.  Pure, questi  fatino  minori  errori  rivedendo  iloro  eserciti  qualche  volta  in  viso,  te-nendo appresso  di  loro  il  titolo  del-V imperio,  che  non  fanno  le  repubbli-che, e massime  le  italiane;  le  quali,  *fidandosi  d’  altrui,  nè  s’ intendendo  in alcuna  cosa  di  quello  che  appartengaalla  guerra;  e dall’  altro  canto,  volendo, per  parere  d* essere  loro  il  principe,diliberarne,  fanno  in  tale  diliberazione mille  errori.  E benché  d’  alcuno  ne  abbidiscorso  altrove,  voglio  al  presente  non ne  tacere  uno  importantissimo.  Quandoquesti  principi  ociosi,  o repubbliche  ef-feminate, mandano  fuori  un  loro  capi-tano,  la  più  savia  commissione  che  paia loro  darli,  è quando  gl*  impongono  cheper  alcun  modo  non  venga  a giornata, anzi  sopra  ogni  cosa  si  guardi  dallazuffa  ; e parendo  loro  in  questo  imitare la  prudenza  di  Fabio  Massimo,  clic  dif-ferendo il  combattere  salvò  lo  Stato a’  Romani,  non  intendono  che  la  mag-giore parte  delle  volte  questa  commis-sione è nulla  o è dannosa.  Perchè  sidebbe  pigliare  questa  conclusione:  che un  capitano  che  voglia  stare  alla  cam-pagna, non  può  fuggire  la  giornata qualunche  volta  il  nimico  la  vuole  farein  ogni  modo.  E non  è altro  questa commissione  che  dire  : fa*  la  giornata  aposta  del  nimico,  e non  a tua.  Perchè a volere  stare  in  campagna,  e non  farla  giornata,  non  ci  è altro  rimedio  si-curo che  porsi  cinquanta  miglia  almenodiscosto  al  nimico;  e dipoi  tenere  buonespie,  che  venendo  quello  verso  di  te,tu  abbi  tempo  a discostarti.  Uno  altropartito  ci  è;  rinchiudersi  in  una  città:e P uno  e P altro  di  questi  due  partitè dannosissimo.  Nel  primo  si  lascia  inpreda  il  paese  suo  al  nimico  ; ed  unoprincipe  valente  vorrà  più  tosto  tentarela  fortuna  della  zuffa,  che  allungare  la- guerra  con  tanto  danno  de’  sudditi.  Nelsecondo  partito  è la  perdita  manifesta;perchè  conviene  che,  riducendoti  conuno  esercito  in  una  città,  tu  venga  adessere  assediato,  ed  in  poco  tempo  pa-tir fame,  e venire  a dedizione.  Talchéfuggire  la  giornata  per  queste  due  vie,è dannosissimo.  Il modo che tenne Fabio Massimo  di  stare  ne’  luoghi  forti,  èbuono  quando  tu  hai  si  virtuoso  eser-cito, che  il  nimico  non  abbia  ardire  divenirti  a trovare  dentro  a’  tuoi  vantag-gi.  Nè  si  può  dire  che  Fabio  Ila  giornata,  ma  più  tosto  che  lafare  a suo  vantaggio.  Perchè  sbuie  fusse  ilo  a trovarlo,  Fabio  1aspettato,  e fatto  giornata  seAnnibale  non  ardi  mai  di  concon  lui  a modo  di  quello.  Tantigiornata  fu  fuggita  cosi  da  Acome  da  Fabio:  ma  se  unol’ avesse  voluta  fare  in  ogni  moIrò  non  vi  aveva  se  non  unorimedi;  cioè  i due  sopraddettigirsi.  Clic  questo  eh’  io  dico  sisi  vede  manifestamente  con  nsempi,  e massime  nella  guerraRomani  feciono  con  Filippo  dinia,  padre  di  Perse:  perchèseudo  assaltato  dai  Romani,non  venire  alla  zuffa;  e per  ncnire,  volle  fare  prima  come  aveFabio  Massimo  in  Italia;  e si  ;suo  esercito  sopra  la  sommilmonte,  dove  si  afforzò  assai,  giuche  i Romani  non  avessero  ardiiilare  a trovarlo.  Ma  andativi  c combat-tutolo, lo  cacciarono  di  quel  monte;  edegli  non  potendo  resistere,  si  fuggì  conla  maggior  parte  delle  genti.  E quelche  lo  salvò,  che  non  fu  consumato  intutto,  fu  la  iniquità  del  paese,  qual  feceche  i Romani  non  poterono  seguirlo.Filippo,  adunque,  non  volendo  azzuf-farsi, ed  essendosi  posto  con  il  campopresso  ai  Romani,  si  ebbe  a fuggire;ed  avendo  conosciuto  per  questa  espe-rienza, come  non  volendo  combattere,non  gli  bastava  stare  sopra  i monti,  enelle  terre  non  volendo  rinchiudersi,diliberò  pigliare  l’altro  modo,  di  starediscosto  molte  miglia  al  campo  romano.Donde,  se  i Romani  erano  in  una  pro-vincia, ei  se  ne  andava  nell’altra;  ecosì  sempre  donde  i Romani,  partivano,esso  entrava.  E veggendo,  al  fine,  comenello  allungare  la  guerra  per  questavia,  le  sue  condizioni  peggioravano,  eche  i suoi  soggetti  ora  da  lui  ora  daiminici  erano  oppressi,  diliberò  di  ten- lare  la  fortuna  della  zu(¥coi  Romani  ad  una  gioriutile,  adunque,  non  comigli  eserciti  hanno  questeaveva  1’  esercito  di  Fabicquello  di  Caio  Sulpizio:esercito  sì  buono,  che  ildisca  venirti  a trovare  <tezze  tue  ; e che  il  nimhtua  senza  avere  preso  irei  patisca  necessità  delquesto  caso  il  partito  utgioni  che  dice  Tito  Li'far lance  commi lieve  adìquem  lempus  deterioraticus  alicnuSj  faccret.  Matermine  non  si  può  fuggse  non  con  tuo  disonoreche  fuggirsi,  come  feceessere  rotto;  e con  più  vimeno  s’  è fatto  prova  dese  a lui  riuscì  salvarsi,  iad  un  altro  che  non  fuspaese  come  egli.  Che  Annmaestro  di  guerra,  nessuno  mai  non  iodirà  ; ed  essendo  allo  ’neontro  di  Sèi- pione  in  Affrica,  s’egli  avesse  vedutovantaggio  in  allungare  la  guerra,  eiFarebbe  fatto;  e per  avventura,  sendolui  buon  capitano,  ed  avendo  buonoesercito,  lo  arebbe  potuto  fare,  comefece  Fabio  in  Italia:  ma  non  l’avendofatto,  si  debbe  credere  che  qualche  ca-gione importante  lo  movesse.  Perchè  unprincipe  che  abbi  uno  esercito  messoinsieme,  e vegga  che  per  difetto  di  da-  !> nari  o di  amici  ei  non  può  tenere  lun-gamente tale  esercito,  è matto  al  tuttose  non  tenta  la  fortuna  innanzi  che  taleesercito  si  abbia  a risolvere:  perchèaspettando,  ei  perde  al  certo;  tentando,potrebbe  vincere.  Un’altra  cosa  ci  èancora  da  stimare  assai  : la  quale  è,che  si  debbe,  eziandio  perdendo,  volereacquistar  gloria;  e più  gloria  si  ha  adesser  vinto  per  forza,  che  per  altro  in-conveniente che  t’abbia  fatto  perdere.Sì  che  Annibaie  doveva  essere  constretto«la  queste  necessità.  E dìScipione,  quando  Anuibaferita  la  giornata,  e nonstalo  l’animo  andarlo  a tghi  forti,  non  pativa,  pevinto  Siface,  e acquistateAffrica,  che  vi  poteva  stacomodità  come  in  Italia,terveniva  ad  Annibaie,  qV incontro  di  Fabio  ; nèciosi,  che  erano  all’  inctzio.  Tanto  meno  ancoragiornata  colui  che  con  l’il  paese  altrui  ; perchè,trare  nel  paese  del  niiviene  quando  il  nimico  scontro,  azzuffarsi  seco;  <campo  ad  una  terra,  si più  alla  zuffa:  come  ne’  ttervenne  al  duca  Carlo  di sendo  a campo  a Moratto,zeri,  fu  da’  Svizzeri  assa come  intervenne  all’  eseeia,  che  campeggiando  P desimamentc  da’  Svizzeri. Che  chi  ha  a fare  con  assaij ancora  che  sia  inferiore,  purché  possasostenere  i primi  impeli,  vince. La  potenza  de’ Tribuni  della  plebe  nellacittà  di  Roma  fu  grande,  e fu  necessaria, come  molte  volte  da  noi  è stato  discorso;perchè  altrimenti  non  si  sarebbe  potuto por  freno  all’ambizione  della  Nobiltà,  la({«ale  arebbe  molto  tempo  innanzi  corrot-ta quella  Repubblica,  che  la  non  si  cor-ruppe. Nondimeno,  perchè  in  ogni  cosa, come  altre  volte  si  è detto,  è nascosoqualche  proprio  male, che  fa  surgere  nuo-vi accidenti,  è necessario  a questi  connuovi  ordini  provvedere.  Essendo,  per-tanto, divenuta  l’autorità  tribunizia  in-solente e formidabile  alla  Nobiltà  ed  a tutta  Roma,  e’  ne  sarebbe  nato  qualcheinconveniente  dannoso  alla  libertà  ro-mana, se  da  Appio  Claudio  non  fossestato  mostro  il  modo  con  il  quale  si avevano  a difendere  contro  all’ ambizionede’ Tribuni:  il  quale  fu sempre  infra  loro  qualci pauroso,  o corruttibile, comun  bene  ; talmenteebèad  opporsi  alla  volontà che  volessino  tirare  inn liberazione  contro  alla  i nato.  Il  quale  rimediotemperamento  a tanta  f molti  tempi  giovò  a Ron ha  fatto  considerare,volta  e’ sono  molli  poter ad  un  altro  potente,  an insieme  siano  molto  più nondimanco  si  debbpiù  in  quello  solo  ■, che  in  quelli  assai,gliardissimi.  Perchè,»  1 ulte  quelle  cose  delle  q più  die  molti  previ infinite),  sempre  occorripotrà,  usando  un  poco sunire  gli  assai,  e quel gagliardo,  far  debole.  liquesto  addurre  antichi  essempi,  che  ce ne  sarebbono  assai  j ma  voglio  mi  ba-stino  i moderni,  seguiti  ne’  tempi  no-stri. Congiurò  net  1484  tutta  Italia  con-  .tra  a’  Vinizianij  e poiché  loro  al  tutto erano  persi,  e non  potevano  stare  piùcon  1’  esercito  in  campagna,  corruppono il  signor  Lodovico  che  governava  Mi*lano;  e per  tale  corruzione  feciono  uno accordo,  ne!  quale  non  solamente  deb-bono le  terre  perse,  ma  usurparono parte  dello  Stato  di  Ferrara.  E cosi  co-loro che  perdevano  nella  guerra,  resta-rono superiori  nella  pace.  Pochi  annisono  congiurò  contea  a Francia  tutto  il mondo:  nondimeno,  avanti  che  si  ve-desse  il  fine  della  guerra,  Spagna  si ribellò  da’  confederati,  e fece  accordoseeo;  in  modo  che  gli  altri  confederati furono  constretti  poco  dipoi  ad  accor-darsi  ancora  essi.  Talché,  senza  dubbio, si  debbe  sempre  mai  fare  giudizio,quando  e’  si  vede  una  guerra  mossa  da molti  contea  ad  uno,  che  quello  unoabbia  a restar  superio»di  tale  virtù,  che  possa  se impeti,  e col  temporeggtempo.  Perchè  quando  e’ porterebbe  mille  perieoi venne  ai  Viniziani  nclPavessero  potuto  tempori esercito  francioso,  ed  i guadagnarsi  alcuni  dierano  collegati  contra,  ai quella  rovina;  ma  non  i armi  da  potere  temporegc per  questo  non  aventi a separarne  alcuno,  rovi si  vidde  che  il  papa,  1ebbe  le  cose  sue,  si  fece così  Spagna  : e molto  v e V altro  di  questi  duebono  salvato  loro  lo  Stai contea  a Francia,  per  i grande  in  Italia,  se  gli  ;Potevano,  adunque,  i parte  per  salvare  il  resti avessino  fatto  in  tempola  non  fusse  stata  necessità,  ed  innanzi ai  moti  della  guerra,  era  savissimo  par-tito; ma  in  su’ moti  era  vituperoso,  e per  avventura  di  poco  profitto.  Ma  in-uanzi  a tali  moti,  pochi  in  Yinegia de’ cittadini  potevano  vedere  il  pericolo,pochissimi  vedere  il  rimedio,  e nessuno consigliarlo.  Ma,  per  tornare  al  princi-pio di  questo  discorso,  conchiudo:  che  così  come  il  Senato  romano  ebbe  rime-dio per  la  salute  della  patria  contra  al-1'  ambizione  de’  Tribuni,  per  essere  mol-ti; così  arà  rimedio  qualunque  principe che  sia  assaltato  da  molti,  qualunquevolta  ei  sappia  con  prudenza  usare  ter- mini convenienti  a disunirgli. Come  un  capitano  prudente debbo  imporre  ogni  necessità  di  com-battere ai  suoi  soldati,  e a quelli delti  ninnici  torta.Altre  volte  abbiamo  discorso  quanto sia  utile  alle  umane  azioni  la  necessità,ed  a qual  gloria  siano  sul da  quella;  c come  da  alcunisofi  è slato  scritto,  le  mani degli  uomini,  due  nobilissimi  ia nobilitarlo,  non  arcbbero  o fellamente,  nè  condotte  l’opa quella  altezza  si  veggono  < dalla  necessità  non  fussero  spconosciuto,  adunque,  dagli  a talli  degli  eserciti  la  virtù  c sita,  e quanto  per  quellade’  soldati  diventavano  ostini battere;  facevano  ogni  oper soldati  loro  fussino  costrettiE dall’altra  parte,  usavano stria,  perchè  gli  nimiei  se sino:  e per  questo  molte  volial  nimico  quella  via  che  lor vano  chiudere  ; ed  a’  suoi  s< pri  chiusono  quella  che  pcsciare  aperta.  Quello,  adì disidera  o che  una  città  si  di natamente,  o che  uno  esercìpaglia  ostinatamente  comba sopra  ogni  altra  cosa,  ingegnarsi  dimettere  ne’  petti  di  chi  ha  a combat- lere,  tale  necessità.  Onde,  un  capitanopi  udente,  che  avesse  ad  andare  ad  una espugnazione  d’  una  città,  debbe  misu-rai e la  facilità  o la  difficultà  ilell’ espu- gnarla dal  conoscere  e considerare  qualenecessità  costringa  gli  abitatori  di  quella a difendersi:  e quando  vi  trovi  assainecessità  che  gli  constringa  alla  difesa, giudichi  la  ispugnazioue  difficile;  altri-menti la  giudichi  facile.  Di  qui  nasce che  le  terre  dopo  la  ribellione  sono  piùdifficili  ad  acquistare,  che  le  non  sono nel  primo  acquisto:  perchè  nel  princi-pio non  avendo  cagione  di  temer  di pena,  per  non  avere  offeso,  si  arrendonofacilmente;  ma  parendo  loro,  scndosi dipoi  ribellate,  avere  offeso,  e per  que- sto temendo  la  pena,  diventano  difficili ad  essere  ispugnate.  Nasce  ancora  taleostinazione  dai  naturali  odii  che  hanno i principi  vicini  e repubbliche  vicinel’uno  con  l’altro:  il  che  procede  da ambizione  di  dominare,  e gelosia  delloro  Stato,  massimamente  se  le  sono repubbliche,  come  interviene  in  Tosca-na • la  quale  gara  c contenzione  ha  fatto e farà  sempre  difficile  la  espugnatonep una  dell’  altra.  Pertanto,  chi  considerila bene  i vicini  della  città  di  Firenze  ed  ivicini  della  città  di  Yincgia,  non  si  me- ra viglierà,  come  molti  fanno,  che  Firenzeabbia  più  speso  nelle  guerre,  ed  acqui-stato meno  di  Yinegia:  perchè  tuttonasce  da  non  avere  avuto  i NmUiani  le terre  vicine  si  ostinate  alla  difesa,  quantoha  avuto  Firenze,  per  esser  state  tutte le  ciltadi  finitime  a Yinegia  use  a vi-vere sotto  un  principe,  e non  libere;  c quelli  che  sono  consueti  a servire,  sti-mano molte  volle  poco  il  mutare  pa-drone, anzi  molte  volte  lo  desiderano.Talché  Yinegia,  benché  abbia  avuti  i vicini  più  potenti  che  Firenze,  per  averetrovate  le  terre  meno  ostinate,  le  ha potute  piu  tosto  vincere,  che  non  hafatto  quella  scudo  circundala  da  tutte città  libere.  Debbe  adunque  un  capitano,per  tornare  al  primo  discorso,  quando egli  assalta  una  terra,  con  ogni  dili-genza ingegnarsi  di  levare  a*  difensori di  quella  tale  necessità,  e per  conse-guenza tale  ostinazione;  promettendo perdono,  se  gli  hanno  paura  della  pe-na ; c se  gli  avessino  paura  della  li- bertà, mostrare  di  non  andare  contraal  comune  bene,  ma  contra  a pochi ambiziosi  della  città:  la  quale  cosa  moltevolte  ha  facilitato  V imprese  e 1’  espu-gnazioni delle  terre.  E benché  simili  co-lori siano  facilmente  conosciuti,  e mas-sime dagli  uomini  prudenti;  nondimenovi  sono  spesso  ingannati  i popoli,  i quali,  cupidi  della  presente  pace,  chiug-gono  gli  occhi  a qualunque  altro  laccio che  sotto  le  larghe  promesse  si  ten-desse. E per  questa  via  infinite  città sono  diventale  serve:  come  intervennea Firenze  nei  prossimi  tempi;  e come intervenne  a Crasso  ed  allo  esercito  suo,il  quale  ancora  che  conoscesse  le  vane promesse  de’  Parti,  le  quper  tor  via  la  necessità  \del  difendersi,  nondimam tenerli  ostinati,  accecatidella  pace  che  erano  fall nimici:  come  si  vnde  p leggendo  la  vita  di  queltanto,  che  avendo  i Sano convenzione  dello  accordo zionc  di  pochi  corso  e picampi  de’ confederali  Rom dipoi  mandati  ambasciati chieder  pace,  offerendo  dcose  predate,  c di  dare  p tori  de’  tumulti  e della  \ributtati  dai  Romani:  e rinio  senza  speranza  d’ acc Ponzio,  capitano  allora de’  Sanniti,  con  una  suazionc  mostrò,  come  i Roi in  ogni  modo  guerra;  e l)<si  desiderasse  la  pace,  lafaceva  seguire  la  guerra  ; sic  parole  : Juslum  est  bi necessariuitij  et  pia  arma , quibus  ni  siin  armis  spes  est : sopra  la  qual  ne- cessità egli  fondò  con  gli  suoi  soldatila  speranza  della  vittoria.  E per  non avere  a tornare  più  sopra  questa  ma-teria, mi  pare  da  addurvi  quelli  essempiromani  che  sono  più  degni  (E  annota-zione.  Era  Caio  Manilio  con  lo  esercito alP  incontro  dei  Vcienti;  ed  essendoparte  dello  esercito  veicolano  entrato dentro  agii  steccati  di  Manilio,  corseManilio  con  una  banda  al  soccorso  di quelli;  e perchè  i Vcienti  non  potessinosalvarsi,  occupò  tutti  gli  aditi  del  cam-po: donde  veggendosi  i Veienti  rin-chiusi, cominciarono  a combattere  con tanta  rabbia,  eh’  egli  ammazzarono  Ma-nilio; ed  arebbero  tutto  il  resto  dei Romani  oppressi,  se  dalla  prudenzad*  uno  Tribuno  non  fusse  stato  loro aperta  la  via  ad  andarsene.  Dove  si  ve-de, come  mentre  la  necessità  costrinse i Veienti  a combattere,  e*  combatteronoferocissiraamente;  ma  quando  videro aperta  la  via,  pensarono  |elio  a combattere.  Erano  < sci  egli  Equi  con  gli nc*  confini  romani.  MandiI’  incontro  i Consoli.  Talcl gliare  la  zuffa,  lo  esercito del  quale  era  capo  Vettitrovò  ad  un  tratto  rinchit steccati  suoi  occupali  da P altro  esercito  romano;eome  gli  bisognava  o mor via  col  ferro,  disse  ai  suo ste  parole:  Ile  mecum  ; n< valium , armati  arinatis  obi pareSj  qii(e  ullùnum  ac  ma est,  necessitate  super ioresquesta  necessitò  è chiama vio  ultimum  ac  maximum millo  prudentissimo  di  tuiromani,  sendo  già  dentro  i Yeienti  con  il  suo  esercito, il  pigliare  quella  e torre  iultima  necessità  di  difende in  modo  che  i Yeienti  udir suno  offendesse  quelli  che  fussino  disar-mati; talché,  gittate  Tarmi  in  terra,  si prese  quella  città  quasi  senza  sangue.Il  quale  modo  fu  dipoi  da  molli  capi- tani osservato.Gap.  XIII.  — Dove  sia  più  da  confidare , o in  uno  buono  capitano  che  abbial*  esercito  debole,  o in  uno  buono esercito  che  abbia  il  capitano  debole.Essendo  diventato  Coriolano  esule  di Roma,  se  ne  andò  ai  Volsci,  dove  con-tratto uno  esercito  per  vendicarsi  con-tro ai  suoi  cittadini,  se  ne  venne  a Ro-ma ; donde  dipoi  si  parti,  più  per  pietà della  sua  madre,  che  per  le  forze  deiRomani.  Sopra  il  quale  luogo  Tito  Li-vio dice,  essersi  per  questo  conosciuto,come  la  Repubblica  romana  crebbe  più per  la  virtù  dei  Capitani,  che  de’  sol-dati; considerato  come  i Volsci  per  lo addietro  erano  stati  vinti,  e solo  poiavevano  vinto  che  Coriolano  fu  loro Capitano.  E benché  Liviopinionc,  nondimeno  si  v luoghi  della  sua  istoria  I; dati  senza  capitano  avergliose  pruove,  ed  esser  sta e più  feroci  dopo  la  nr soli  loro,  che  innanzi  clcome  occorse  nello  esercì mani  avevano  in  Ispagna pioni  ; il  quale,  morti  i <potè  con  la  virtù  sua  n salvare  sè  stesso,  ma  vin e conservare  quella  provipubblica.  Talché,  discorre troverà  molli  essempi,  dov dei  soldati  ara  vinto  lamolti  altri,  dove  solo  la pitan i ara  fatto  il  medesi modo  che  si  può  giudicarbisogno  dell’  altro,  e V a Ecci  bene  da  considerare sia  più  da  temere,  o d’  uicito  male  capitanato,  o capitano  accompagnato  d cito.  E seguendo  in  questo  1’  oppinioucdi  Cesare,  si  debbe  stimare  poco  l’uno e l’altro.  Perchè  andando  egli  in  Ispa-gna  contra  ad  Afranio  e Petreio,  che avevano  un  buono  esercito,  disse  chegli  stimava  poco,  quia  ibat  ad  exercitum sino  duce,  mostrando  la  debolezza  deicapitani.  Al  contrario,  quando  andò  in Tessaglia  conira  Pompeo,  disse:  Vadoad  ducem  sine  exerciiu.  Puossi  consi-derare un’  altra  cosa  : a quale  è più  fa-cile, o ad  uno  buono  capitano  fare  un buono  esercito,  o ad  uno  buono  eser-cito fare  un  buono  capitano.  Sopra  che dico,  che  tale  questione  pare  decisa  ;perchè  più  facilmente  molti  buoni  tro-veranno o inslruiranno  uno,  tanto  chediventi  buono,  che  non  farà  uno  molti. Lucullo,  quando  fu  mandato  contra  aMitridate,  era  al  tutto  inesperto  della guerra;  uondimanco  quel  buono  eser-cito, dove  erano  assai  ottimi  capi,  lo feciono  tosto  un  buon  capitano.  Arma-rono i Komani,  per  difetto  d’ uomini, assai  servi,  o gli  dieronon Sempronio  Gracco,  il  qi tempo  fece  un  buono  eseri ed  Epaminonda,  come  alt r<poich’egli  ebbero  tratta  T trio  della  servitù  degli  Spa: tempo  feciono  de’conladindati  ottimi,  che  poterono  n sostenere  la  milizia  spartii cerla.  Sì  clic  la  cosa  èV uno  buono' può  trovare dimeno,  un  esercito  buoni buono  suole  diventare  insricoloso;  come  diventò  l’e cedonia  dopo  la  morte  di come  erano  i soldati  velerancivili.  Tanto  che  io  credo da  confidare  assai  in  uno abbi  tempo  a instruire  utdità  di  armargli,  che  in insolente,  con  uno  capo fatto  da  lui.  Però  è da  diiria  e la  laude  a quelli  caj solamente  hanno  avuto  a mieo,  ma  prima  che  venghino  alle  manicon  quello,  è convenuto  loro  instruire l’esercito  loro  e farlo  buono:  perchèin  questi  si  mostra  doppia  virtù,  e tanto  rara,  che  se  tale  fatica  fusse  statadata  a molti,  ne  sarebbero  stimati  e ri- putati meno  ussai  che  non  sono. Le  invenzioni  nuove  che appariscono  nel  mezzo  della  zuffa,  ele  voci  nuove  che  si  odono,  quali  ef-fetti faccino.Di  quanto  momento  sia  ne*  conflitti  e nelle  zuffe  un  nuovo  occidente  che  na-sca per  cosa  che  di  nuovo  si  vegga  o oda,  si  dimostra  in  assai  luoghi,  e mas-sime per  questo  essempio  che  occorse nella  zuffa  che  i Romani  fecero  coi  Vol-sci  ; dove  Quinzio  veggendo  inclinare uno  de’  corni  del  suo  esercito,  cominciòa gridare  forte,  che  gli  stessino  saldi, perchè  1’  altro  corno  dello  esercito  era vittorioso:  con  la  qual  parola,  avendo dato  animo  a’  suoi  e sinimici,  vinse.  E se  tali  ve cito  bene  ordinato  fanno in  uno  tumultuario  e ni;fanno  grandissimi,  pere mosso  da  siinil  vento.  Io durre  uno  cssenipio  ncne’  nostri  tempi.  Era  la  ( pochi  anni  sono  divisa Oddi  e Buglioni  Questi  realtri  erano  esuli:  i qua elianti  loro  amici,  ragun ridottisi  iu  alcuna  loro  ta Perugia  con  il  favor una  notte  entrarono  in senza  essere  scoperti,  sper  pigliare  la  piazza.  F città  iu  su  tutti  i cani catene  che  la  tengono  sb;le  genti  oddesche  davani una  mazza  ferrata  romjr di  quelle,  acciocché  i C£passare;  e restandogli  i quella  che  sboccava  iu  pi;già  levato  il  romore  all7  armi,  ed  essen- do colui  che  rompeva  oppresso  dallaturba  che  gli  veniva  dietro,  nè  potendo per  questo  alzare  bene  le  braccia  perrompere  per  potersi  maneggiare  gli venne  detto:  Fatevi  indietro:  la  qualvoce  andando  di  grado  in  grado  dicendo addietro,  cominciò  a far  fuggire  gliultimi,  e di  mano  in  mano  gii  altri, con  tanta  furia,  che  per  loro  medesimisi  ruppono;  e cosi  restò  vano  il  disegno degli  Oddi,  per  cagione  di  sì  debole  acci-dente. Dove  è da  considerare,  che  non tanto  gli  ordini  in  uno  esercito  sononecessari  per  potere  ordinatamente  com- battere, quanto  perchè  ogni  minimoaccidente  non  ti  disordini.  Perchè,  non per  altro  le  moltitudini  popolari  sonodisutili  per  la  guerra,  se  non  perchè ogni  rumore,  ogni  voce,  ogni  strepitogli  altera,  e fagli  fuggire.  E però  un buon  capitano  intra  gli  altri  suoi  ordinidebbe  ordinare  chi  sono  quelli  che  ab- bino a pigliare  la  sua  voce  e rimetterlaad  altri,  ed  assuefare  i suoi  soldati  che non  credino  se  non  a quelli  suoi  capi,che  non  dichino  se  non  quel  che  da  lui è commesso  ; perchè,  non  osservata  benequesta  parte,  si  è visto  molte  volte avere  fatti  disordini  grandissimi.  Quantoal  vedere  cose  nuove,  debbe  ogni  capi-tano ingegnarsi  di  farne  apparire  al-cuna, mentre  che  gli  eserciti  sono  alle mani,  che  dia  animo  agli  suoi  e tolgaloagli  nimici;  perchè,  intra  gli  accidenti che  ti  diano  la  vittoria,  questo  è effica-cissimo. Di  che  se  ne  può  addurre  per testimone  Caio  Sulpizio  dittatore  roma-no; il  quale  venendo  a giornata  con  i Franciosi,  ormò  tutti  i saccomanni  egente  vile  del  campo;  e quelli  fatti  sa- lire sopra  i muli  ed  altri  somieri  conarmi  ed  insegne  da  parere  gente  a ca- vallo, gli  mise  dietro  a un  colle,  e co-mandò che  ad  un  segno  dato,  nel  tempo che  la  zuffa  fusse  più  gagliarda,  si  sco-prissero e mostrassiusi  a*  nimici.  La qual  cosa  così  ordinata  e fatta,  dettetanto  terrore  ai  Franciosi,  che  perita-rono la  giornata.  E però  un  buon  ca-pitano debbo  fare  due  cose:  1*  una,  di vedere  con  alcune  di  queste  nuove  in-venzioni di  sbigottire  il  nimico;  1’  altra, di  stare  preparato  che  essendo  fattedal  nimico  contro  di  lui,  le  possa  sco- prire, c fargliene  tornar  vane:  comefece  il  re  d’india  a Semiramis;  la  quale veggendo  come  quel  re  aveva  buon  nu-mero d’elefanti,  per  sbigottirlo,  e per mostrargli  che  ancora  essa  n’  era  co-piosa, ne  formò  assai  con  cuoia  di  bu-fali e di  vacche,  e quelli  messi  sopra  icammelli,  gli  mandò  davanti;  ma  cono- sciuto dal  re  1’  inganno,  gli  tornò  nonsolamente  quel  suo  disegno  vano,  ma dannoso.  Era  Mamerco  dittatore  conteaa’  Fidenati,  i quali,  per  isbigott ire  lo esercito  romano,  ordinarono  che  in  sul-P ardore  della  zuffa  uscisse  fuora  di  Fi-ttane numero  di  soldati  con  fuochi  insulle  lance,  acciocché  i Romani  occupati dalla  novità  della  cosa,  rompessino  in-Ira  lóro  gli  ordini.  Sopra  clic  è da  no-tare, che  quando  tali  invenzioni  hannopiù  del  vero  che  del  fìnto,  si  può  bene allora  rappresentarle  agli  uomini,  per-chè avendo  assai  del  gagliardo,  non  si può  scoprire  così  presto  la  debolezzaloro:  ma  quando  Y hanno  pjp  del  fìnto che  del  vero,  è bene  o non  le  fare,  o,facendole,  tenerle  discosto,  di  qualità  clic le  non  possino  essere  così  presto  sco-perte; come  fece  Caio  Sulpizio  de*  mu- lattieri. Perchè  quando  vi  è dentro  de-bolezza, appressandosi,  le  si  scuoprono tosto,  e ti  fanno  danno,  e non  favore;come  feciono  gii  elefanti  a Semiramis, e a’ Fidenali  i fuochi:  i quali  benchénel  principio  turbassino  un  poco  l’eser- cito; nondimeno  come  e’ sopravvenne  ilDittatore,  e cominciò  a sgridargli,  di- cendo che  non  si  vergognavano  a fug-gire il  fumo  come  le  pecchie,  e che  do- vessino  rivoltarsi  a loro,  gridando:  Suisflammit  deletc  FidenaSj  qnas  veslris  bc -nefìctts  placare  non  potuistis  ; tornòquello  trovato  ai  Fidenati  inutile,  e re-starono perditori  della  zuffa. Come  uno  c non  molti  sia-no preposti  ad  uno  esercito , e coinèi più  comandatovi  offendono. Essendosi  ribellati  i Fidenati,  ed  aven-do morto  quella  colonia  che  i Romani avevano  mandata  in  Fidene,  crearono  iRomani,  per  rimediare  a questo  insulto, quattro  Tribuni  con  potestà  consolare;de’ quali  lasciatone  uno  alla  guardia  di Roma,  ne  mandarono  tre  contro  ai  Fi-denati  ed  i Veienti:  i quali  per  esser divisi  intra  loro  e disuniti,  ne  riporta-rono disonore,  e non  danno.  Perchè  del disonore,  ne  furono  cagione  loro;  delnon  ricevere  danno,  ne  fu  cagione  la virtù  de*  soldati.  Donde  i Romani,  veu-gendo  questo  disordine,  ricorsono  alla creazione  del  Dittatore,  acciocché  unsolo  riordinasse  quello  che  tre  avevano disordinato.  Donde  si  conosce  la  inuti-lilà  di  molti  comandatoci  in  uno  eser-cito, o in  una  terra  die  s’abbia  a di-fendere; e Tito  Livio  11011  lo  può  più chiaramente  dire  che  con  le  infrascritteparole!  Tres  Tribuni  potcsUitc  consil- iari documento  fucre , quam  pluriumimperium  bello  inutile  esscl  ; tendendo ad  sua  quisque  consilia , cutn  aht  ali  advidereluvj  aperuerunt  ad  occasionem  lo- cum  hosti.  E beneliè  questo  sia  assaicsscmpio  a provare  il  disordine  che fanno  nella  guerra  i più  comandatori,ne  voglio  addurre  alcuno  altro,  e mo-derno ed  antico,  per  maggiore  dichia-razione. Nel  1500,  dopo  la  ripresa  che fece  il  re  di  Trancia  Luigi  XII  di  Mi-lano, mandò  le  sue  genti  a Pisa  per restituirla  ai  Fiorentini;  dove  furonomandali  commessaci  Giovambatista  Ri- dolfi  e Luca  iV  Antonio  degli  Albizi.  Eperchè  Giovambatista  era  uomo  di  ri- putazione, e di  più  tempo,  Luca  lasciavaal  tutto  governare  ogni  cosa  a lui:  e se  egli  non  dimostrava  la  sua  ambizionecon  opporseli,  la  dimostrava  col  ta- cere, e con  lo  stracurare  e vilipendereogni  cosa  in. modo,  che  non  aiutava  le azioni  dei  campo  nè  coll’  opere  nè  colconsiglio,  come  se  fosse  stato  uomo  di nessuno  momento.  Ma  si  vidde  poi  tuttoil  contrario  quando  Giovambatista,  per certo  accidente  seguito,  se  n*  ebbe  a tor-nare a Firenze;  dove  Luca,  rimasto  solo, dimostrò  quanto  con  V animo,  con  laindustria  e con  il  consiglio  valeva  : le quali  tutte  cose  mentre  vi  fu  la  com-pagnia erano  perdute.  Voglio  di  nuovo addurre  in  confirmazione  di  questo  leparole  di  Tito  Invio;  il  quale  referendo come  essendo  mandato  dai  Romani  con-tro agli  Equi  Quinzio  cd  Agrippa  suo collega,  Agrippa  volle  che  tutta  1*  am-ministrazione della  guerra  fusse  ap-presso a Quinzio,  e’  dice:  Suluberri -mum  in  adminislralione  magnarum  re-rum eilj  summam  imperii  apud  unumesse.  Il  che  è contrario  a quello  che oggi  fanno  queste  nostre  repubbliche  cprincìpi,  (li  mandare  ne’  luoghi,  per  mi- nistrargli meglio,  più  d’  un  commessa-rio e più  d’ un  capo:  il  che  fa  una inestimabile  confusione.  E se  si  cercassela  cagione  della  rovina  degli  eserciti italiani  e franciosi  ne’  nostri  tempi,  sitroverebbe  la  potissima  cagione  essere stata  questa.  E puossi  conchiudere  ve-ramente, come  gli  è meglio  mandare  in una  espedizione  un  uomo  solo  di  co-munale prudenza,  che  duoi  valentissimi uomini  insieme  con  la  medesima  au- torità. Che  la  vera  viriti  si  va ne ' tempi  difficili  a trovare  ; e ne3 tem-pi facili  non  gli  uomini  virtuosi , ma quelli  che  per  ricchezze  o per  paren-tado prcvaglionO;  hanno  più  grazia. Egli  fu  sempre,  e sempre  sarà,  chegli  uomini  grandi  e rari  in  una  repub-blica nei  tempi  pacifichi  sono  negletti  ;perchè  per  la  invidia  che  s’  ha  tiratodietro  la  riputazione  che  la  virtù  d’essi ha  dato  loro,  si  truova  in  tali  tempiassai  cittadini  che  vogliono,  non  che esser  loro  eguali,  ma  esser  loro  supe-riori. E di  questo  n’  è un  luogo  buono in  Tucidide  istorico  greco;  il  quale  mo-stra come  sendo  la  repubblica  ateniese rimusa  superiore  in  la  guerra  pelopon-nesiaca, ed  avendo  frenato  l’ orgoglio degli  Spartani,  e quasi  sottomessa  tuttala  Grecia,  satse  in  tanta  riputazione, che  la  disegnò  d’ occupare  la  Sicilia.Venne  questa  impresa  in  disputa  in Atene.  Alcibiade  e qualche  altro  citta-dino consigliavano  che  la  si  facesse, come  quelli  che  pensando  poco  al  benepubblico,  pensavano  all’  onor  loro,  di-segnando esser  capi  di  tale  impresa.Ma  Micia,  che  era  il  primo  intra  i ri- putati d’  Atene,  la  dissuadeva;  e la  mag-gior ragione  che  nel  concionare  al  po-polo, perchè  gli  fusse  prestato  fede,adducesse,  fu  questa:  clic  consigliando esso  che  non  si  facesse  questa  guerra,ci  consigliava  cosa  che  non  faceva  per lui;  perchè  stando  Atene  in  pace,  sa-peva come  v’  erano  infiniti  cittadini  che gli  volevano  andare  innanzi;  ma  facen-dosi guerra,  sapeva  che  nessuno  citta-dino gli  sarebbe  superiore,  o eguale.Vedesi,  pertanto,  come  nelle  repubbliche è questo  disordine,  di  fare  poca  stimade’  valentuomini  ne’  tempi  quieti.  La qua)  cosa  gli  fa  indeguare  in  due  modi:I’  uno  per  vedersi  mancar  del  grado loro;  l’altro  per  vedersi  fare  compagnie superiori  uomini  indegni  e di  manco sufficienza  di  loro.  11  quale  disordinenelle  repubbliche  ha  causato  di  molte rovine;  perchè  quelli  cittadini  che  ini-meritamenle  si  veggono  sprezzare,  e co- noscono clic  e’  ne  sono  cagione  i tempifacili  c non  pericolosi,  s’  ingegnano  di turbargli,  movendo  nuove  guerre  inpregiudizio  della  repubblica.  E pensan-do quali  potessino  essere  i rimedi,  cene  trovo  due:  l’uno,  mantenere  i cit-tadini poveri,  acciocché  con  le  ricchezze senza  virtù  non  potessino  corrompere ni  loro  nò  altri;  l’altro,  eli  ordinarsiin  modo  alla  guerra,  die  sempre  si  po-tesse far  guerra,  e sempre  s’avesse  bi-sogno di  cittadini  riputati,  come  fe  Ro-ma ne’  suoi  primi  tempi.  Perchè  te-nendo fuori  quella  città  sempre  eserciti, sempre  v’  era  luogo  alla  virtù  degli  uo-mini ; nè  si  poteva  torre  il  grado  .ad uno  che  lo  meritasse,  e darlo  ad  unoaltro  che  non  lo  meritasse.  Perchè  se pure  lo  faceva  qualche  volta  per  er-rore, o per  provare,  ne  seguiva  tosto tanto  suo  disordine  e pericolo,  che  laritornava  subito  nella  vera  via.  Ma  le altre  repubbliche  che  non  sono  ordinatecome  quella,  e che  fanno  solo  guerra quando  la  necessità  le  constringe,  nonsi  possono  difendere  da  tale  inconve- niente: anzi  sempre  vi  correranno  den-tro; e sempre  ne  nascerà  disordine, quando  quel  cittadino  negletto  e vir-tuoso, sia  vendicativo,  ed  abbia  nella città  qualche  riputazione  e aderenza.  E se  la  città  (ti  Roma  un  tempo  se  ne difese,  a quella  ancora,  poiché  la  ebbevinto  Cartagine  cd  Antioco  (come  al-trove si  disse),  non  temendo  più  diguerra,  pareva  poter  commettere  gli eserciti  a qualunque  la  voleva  ; non  ri-guardando tanto  alla  virtù,  quanto  alle altre  qualità  che  gli  dessino  grazia  nelpopolo.  Perchè  si  vede  che  Paulo  Emi-lio ebbe  più  volte  la  repulsa  nel  con-solato, nò  fu  prima  fatto  Consolo  che surgesse  la  guerra  macedonica  ; la  qualegiudicandosi  pericolosa,  di  consenso  di tutta  la  città  fu  commessa  a lui.  Sendonella  città  nostra  di  Firenze  seguite dopo  il  1494  di  molte  guerre,  ed  aven-do fatto  i cittadini  fiorentini  tutti  una cattiva  pruova,  si  riscontrò  la  città,  asorte,  in  uno  che  mostrò  in  che  ma-niera s’aveva  a comandare  agli  eser-citi; il  quale  fu  Antonio  Giacomini:  e mentre  che  si  ebbe  a far  guerre  peri-colose, tutta  P ambizione  degli  altri  cit-tadini cessò,  e nella  elezione  del  Com-messa  rio  e capo  degli  eserciti  non  aveva competitore  alcuno  ; ma  come  s’  ebbe  ufare  una  guerra  dove  non  era  dubbio alcuno,  ed  assai  onore  e grado,  ei  vitrovò  tanti  competitori,  che  avendosi  ad eleggere  tre  Commessa  ri  per  campeg-giar  Pisa,  fu  lasciato  indietro.  E benché e*  non  si  vedesse  evidentemente  che male  ne  seguisse  al  pubblico  per  non v’avere  inandato  Antonio,  nondimenose  ne  potette  fare  facilissima  coniettura; perchè  non  avendo  più  i Pisani  da  di-fendersi nè  da  vivere,  se  vi  fusse  stalo Antonio,  sarebbero  stati  tanto  innanzistretti,  che  si  sarebbero  dati  a discre-zione de’ Fiorentini.  Ma  sendo  loro  as-sediati da  capi  che  non  sapevano  nè stringerli  nè  sforzarli,  furono  tanto  in-trattenuti, che  la  città  di  Firenze  gli comperò,  dove  la  gli  poteva  avere  aforza.  Convenne  che  tale  sdegno  potesse assai  in  Antonio;  e bisognava  che  fussebene  paziente  e buono,  a non  dispe- rare di  vendicarsene  o con  la  rovinadella  città,  potendo,  ocon  i*  ingiuria d’  alcuno  particolare  cittadino;  da  chesi  debbe  una  repubblica  guardare;  come nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. Che  non  si  offenda  uno, e poi  quel  medesimo  si  mandi  in  am-ministrazione e governo  d*  impor-tanza. Debbe  una  repubblica  assai  conside-rare di  non  preporre  alcuno  ad  alcuna importantè  amministrazione,  al  qualesia  stato  fatto  da  altri  alcuna  notabile ingiuria.  Claudio  Nerone,  il  quale  si  part  ìdallo  esercito  che  lui  aveva  a fronte  ad Annibaie,  e con  parte  d’esso  n’andònella  Marca  a trovare  1*  altro  Consolo per  combattere  con  Asdrubale  avanti  chesi  congiungesse  con  Annibaie  ; s’ era trovato  per  lo  addietro  in  Ispagna  afronte  d’  Asdrubale,  ed  avendolo  serrato in  luogo  con  lo  esercito,  che  bisognavao che  Asdrubale  combattesse  con  suo disavvantaggio,  o si  morisse  di  fame,fu  da  Asdrubale  astutamente  tanto  in*trattenuto  con  certe  pratiche  d*  accordo,che  gli  usci  di  sotto,  e totsegli  quella occasione  d’ oppressarlo.  La  qual  cosasaputa  a Roma,  gli  dette  carico  grande appresso  al  Senato  ed  al  Popolo,  e dilui  fu  parlato  inonestamente  per  tutta quella  città,  non  senza  suo  grande  di-sonore ed  isdegno.  Ma  sendo  poi  fatto Consolo,  e inandato  all*  incontro  d’  An-nibale, prese  il  soprascritto  partito:  il quale  fu  pericolosissimo;  talmente  cheRoma  stette  tutta  dubbia  c sollevata, infino  a tanto  che  vennono  le  nuovedella  rotta  d’  Asdrubale.  Ed  essendo  do- mandato poi  Claudio  per  qual  cagioneavesse  preso  si  pericoloso  partito,  dove senza  una  estrema  necessità  egli  avevagiocata  quasi  la  libertà  di  Roma  ; ri- spose che  V aveva  fatto  perchè  sapevache,  se  gli  riusciva,  riacquistava  quella gloria  che  s'aveva  perduta  in  Ispagua;e se  non  gli  riuscivo,  e che  questo  suo partito  avesse  avuto  contrario  fine,  sa-peva come  ei  si  vendicava  contra  a (jucila  città  ed  a quelli  cittadini  clicTavevano  tanto  ingratamente  ed  indi-scretamente offeso.  E quando  questepassioni  di  tali  offese  possono  tanto  in un  cittadino  romano,  e in  quelli  tempiche  Roma  ancora  era  incorrotta,  si debbe  pensare  quanto  elle  possino  in  uncittadino  d’  una  città  che  non  sia  fatta come  era  allora  quella.  E perchè  a si-mili disordini  che  nascono  nelle  repub- bliche non  si  può  dare  certo  rimedio,ne  seguita  che  gli  è impossibile  ordi-nare una  repubblica  perpetua,  perchèper  mille  inopinate  vie  si  causa  la  sua rovina. Nessuna  cosa  è più  de-gna d*  un  capitano che  presentire  «parlili  del  nimico. Diceva  Epaminonda  tebano,  nessunacosa  esser  più  necessaria  c più  utile  ad un  capitano,  che  conoscere  le  ^libera-zioni e partiti  del  nimico.  E perchè  tale cognizione  è diffìcile,  merita  tanto  piùlaude  quello  che  adopera  in  modo  che le  conicttura.  E non  tanto  è diffìcile  in-tendere gli  disegni  del  nimico,  eh’  egli è qualche  volta  diffìcile  intendere  leazioni  sue  ; e non  tanto  le  azioni  sue che  per  lui  si  fanno  discosto,  quanto  lepresenti  e le  propinque.  Perché  molte volte  è accaduto,  che  sendo  durala  unazuffa  infino  a notte,  chi  ha  vinto  crede aver  perduto,  e chi  ha  perduto  credeaver  vinto.  11  quale  errore  ha  fatto  di- liberare cose  contrarie  alla  salute  di  co-lui che  ha  diliberato:  come  intervenne  a Bruto  e Cassio,  i quali  per  questo  er-rore perderono  la  guerra;  perchè,  aven-do vinto  Bruto  dal  corno  suo,  credetteCassio,  che  aveva  perduto,  che  tutto 1’  esercito  fusse  rotto  ; e disperatosi  perquesto  errore  della  salute,  ammazzò  «è stesso.  Nei  nostri  tempi,  nella  giornata che  fece  in  Lombardia  a Santa  Cecilia Francesco  re  di  Francia  con  i Svizzeri,sopravvenendo  la  notte,  credetleno  quella parte  dei  Svizzeri  che  erano  rimasti  in-teri aver  vinto,  non  sappiendo  di  quelli che  erano  stati  rotti  e morti:  il  qualeerrore  fece  che  loro  medesimi  non  si salvarono,  aspettando  di  ricombatterela  mattina  con  tanto  loro  disavvantag-gio ; e fecero  ancora  errare,  e per  taleerrore  presso  che  rovinare,  F esercito del  papa  e di  Spagna,  il  quale  in  sula  falsa  nuova  della  vittoria  passò  il Po,  e se  procedeva  troppo  innanzi,  re-stava prigione  de’  Franciosi  che  erano vittoriosi.  Questo  simile  errore  occorsene’  campi  romani  e in  quelli  delli  Equi. Dove,  sendo  Sempronio  consolo  conl’esercito  all’ incontro  degli  inimici,  ed appiccandosi  la  zuffa,  si  travagliò  quellagiornata  infino  a sera  con  varia  fortuna dell’  uno  e dell’altro:  e venuta  la  notte,sendo  l’ uno  e l’ altro  esercito  mezzo rotto,  non  ritornò  alcuno  di  loro  ne’ suoialloggiamenti;  anzi  ciascuno  si  ritrasse uc’  prossimi  colli,  dove  credevano  esserpiù  sicuri;  e l’esercito  romano  si  di-vise in  due  parti  : 1’  una  n’  andò  colConsolo,  1’  altra  con  un  Teinpanio  cen-turione, per  la  virtù  del  quale  1’  eser-cito romano  quel  giorno  non  era  stato rotto  interamente.  Venuta  la  mattina,il  Consolo  romano  senza  intendere  altro de’  nimici  si  tirò  verso  Roma  ; il  similefece  l’esercito  degli  Equi:  perchè  cia- scuno di  questi  credeva  che  il  nimicoavesse  vinto,  c però  ciascuno  si  ritrasse senza  curare  di  lasciare  i suoi  allog-giamenti in  preda.  Accadde  che  Tempa-nio,  eh’  era  col  resto  dello  esercito  ro-mano, ritirandosi  ancora  esso,  intese da  certi  feriti  degli  Equi,  come  i capi-tani loro  s’ erano  partiti,  cd  avevano abbandonati  gli  alloggiamenti:  dondeche  egli,  in  su  questa  nuova,  se  ne  en-trò negli  alloggiamenti  romani,  c salvò-gli;  e dipoi  saccheggiò  quelli  degli  Equi, e se  ne  tornò  a Roma  vittorioso.  Laqual  vittoria,  come  si  vede,  consistè  solo in  chi  prima  di  loro  intese  i disordinidel  nimico.  Dove  si  debbe  considerare, come  e’  può  spesso  occorrere  che  i ducieserciti  che  siano  a fronte  V uno  del-P altro,  siano  nel  medesimo  disordine,e patischino  le  medesime  necessità;  e che  quello  resti  poi  vincitore  che  è ilprimo  a intendere  le  necessità  dell’  al-tro. Io  voglio  dare  di  questo  un  essem-pio  domestico  e moderno.  Nel  1498, quando  i Fiorentini  avevano  uno  eser-cito grosso  in  quel  di  Pisa,  e stringe- vano forte  quella  città;  della  qualeavendo  presa  i Viniziani  la  protezione, non  veggeudo  altro  modo  a salvarla,diliberarono  di  divertire  quella  guerra, assaltando  da  un’altra  banda  il  domi-nio di  Firenze;  e fatto  uno  esercito  po-tente, entrarono  per  la  Val  di  Lamona,ed  occuparono  il  borgo  di  Marradi,  ed assediarono  la  ròcca  di  Castiglione,  cheè in  sul  colle  di  sopra.  Il  che  sentendo i Fiorentini,  diliberarono  soccorrer  Mar-radi, e non  diminuire  le  forze  avevano in  quel  di  Pisa;  e fatte  nuove  fanterie,ed  ordinale  nuove  genti  a cavallo,  le mandarono  a quella  volta:  delle  qualine  furono  capi  Iacopo  quarto  d’ Appiano signore  di  Piombino,  ed  il  conte  Rinuc-cio  da  Marciano.  Sendosi,  adunque,  con* dotte  queste  genti  in  sul  colle  sopraMarradi,  si  levarono  i ninnici  di  ’ntorno a Castiglione,  e ridussonsi  tutti  nel  bor-go: ed  essendo  stato  P uno  e P altro  di questi  due  eserciti  a fronte  qualchegiorno,  pativa  P uno  e l’altro  assai  di vettovaglie  e d’ogni  altra  cosa  neces-saria : e non  avendo  ardire  P uno  d*  af-frontare P altro,  nè  sappiendo  i disor-dini P uno  dell’altro,  diliberarono  in una  sera  medesima  P uno  e P altro  dilevare  gli  alloggiamenti  la  mattina  ve-gnente, e ritirarsi  in  dietro;  il  Mili-ziano verso  Berzighella  e Faenza,  il Fiorentino  verso  Casaglia  e il  Mugello.  Ve-nula adunque  la  mattina,  ed  avendo  cia-scuno de’ campi  cominciato  ad  avviare*i suoi  impedimenti;  a caso  una  donna si  partì  dal  borgo  di  Ùarradi,  e venneverso  il  campo  fiorentino,  secura  per  la vecchiezza  e per  la  povertà,  disiderosadi  vedere  certi  suoi  che  erano  in  quel campo:  dalla  quale  intendendo  i capitanidelle  genti  fiorentine,  come  il  campo  vi-niziano  partiva,  si  fecero  in  su  questanuova  gagliardi;  e mutato  consiglio, come  se  gli  avessino  disalloggiati  i ni-nnici, ne  andarono  sopra  di  loro,  e scris-sero a Firenze  avergli  ributtati,  e vintala  guerra.  La  qual  vittoria  non  nacque da  altro,  che  dallo  aver  inteso  primadei  nemici,  come  e’ se  ne  andavano:  la quale  notizia  se  fusse  prima  venuta  dal-r altra  parte,  arebbe  fatto  conira  ai  no-stri il  medesimo  effetto. Se  a reggere  una  molti-tudine è più  necessario  lo  ossequioche  la  pena. Era  la  Repubblica  romana  sollevata per  le  inimicizie  de’ Nobili  e de’ Plebei: nondimeno,  soprastando  loro  la  guerra, mandarono  fuori  con  gli  eserciti  Quin-zio ed  Appio  Claudio.  Appio,  per  essere crudele  e rozzo  nel  comandare,  fu  maleubbidito  da’ suoi;  tanto  che  quasi  rotto si  fuggì  della  sua  provincia.  Quinzio,per  esser  benigno  e di  umano  ingegno, ebbe  i suoi  soldati  ubbidienti,  e ripor-to mie  la  vittoria.  Donde  e’  pare  elle  sia meglio,  a governare  una  moltitudine,essere  umano  che  superbo,  pietoso  che crudele.  Nondimeno,  Cornelio  Tacito,  alquale  molti  altri  scrittori  acconsentono, in  una  sua  sentenza  couchiude  il  con-trario, quando  dice  : In  molliludine regenda  plus  pana,  quam  obsequiumvaici.  E considerando  come  si  possa  sal- vare I’ una  e l’altra  di  queste  oppinio-ni,  dico:  o clic  tu  bai  a reggere  uomini che  ti  sono  per  l’ordinario  compagni,o uomini  che  ti  sono  sempre  soggetti. Quando  ti  sono  compagni,  non  si  puòinteramente  usare  la  pena,  nè  quella  se- verità di  che  ragiona  Cornelio:  e perchèla  Plebe  romana  aveva  in  Roma  eguale imperio  con  la  Nobiltà,  non  poteva  unoche  ne  diventava  principe  a tempo,  con crudeltà  e rozzezza  maneggiarla.  £ moltevolle  si  vide  che  miglior  frutto  feciono i Capitani  romani  che  si  facevano  amaredagli  eserciti,  e che  con  ossequio  gli maneggiavano,  che  quelli  che  si  face-vano straordinariamente  temere;  se  già e’ non  erano  accompagnati  da  una  ec-cessiva virtù,  come  fu  Manlio  Torquato. Ma  chi  comanda  ai  sudditi,  de’  qualiragiona  Cornelio,  acciocché  non  diven- tino insolenti,  e che  per  troppa  tua  fa-cilità non  ti  calpestino,  debbe  volgersi più  tosto  alla  pena  che  allo  ossequio.Ma  questa  ancora  debbe  esser  iu  modo moderata,  che  si  fugga  l’odio;  perchèfarsi  odiare  non  torna  mai  bene  ad  al- cuno principe.  Il  modo  del  fuggirlo  èlasciar  stare  la  roba  de’ sudditi:  perchè del  sangue,  quando  non  vi  sia  sottoascosa  la  rapina,  nessuno  principe  ne è disideroso  se  non  necessitato,  c que-sta  necessità  viene  rare  volte;  ma  seti» dovi  mescolata  la  rapina,  viene  sempre,nè  mancano  mai  le  cagioni  ed  il  disi* derio  di  spargerlo:  come  in  altro  trat-tato sopra  questa  materia  s’ è larga- mente discorso.  Meritò,  adunque,  piùlaude  Quinzio  che  Appio  ; e la  sentenza di  Cornelio  dentro  ai  termini  suoi,  cnon  ne*  casi  osservati  da  Appio,  merita d*  essere  approvata.  E perchè  noi  ab-biamo parlato  della  pena  e dello  osse- quio, non  mi  pare  superfluo  mostrare,come  uno  essempio  d’  umanità  potè  ap- presso ai  Falisci  più  che  V armi. Uno  essempio  df  umanità appresso  ai  Falisci  potette  più  d*  ogniforza  romana.Essendo  Cammillo  con  V esercito  in-torno alla  città  de*  Falisci,  e quella  as-sediando,un  maestro  di  scuola  de’  più nobili  fanciulli  di  quella  città,  pensandodi  gratificarsi  Cammillo  ed  il  Popolo romano,  sotto  colore  di  esercizio  usciendocon  quelli  fuora  della  città  gli  con-dusse lutti  nel  campo  innanzi  a Cani-inilio,  e,  presentatigli,  disse,  come  me-diami loro  quella  terra  si  darebbe  nellesue  mani.  Il  quale  preseute  non  sola-mente non  fu  accettato  da  Cammillo,ma  fatto  spogliare  quel  maestro,  c lega-togli le  mani  di  dietro,  e dato  a cia-scuno di  quelli  fanciulli  una  verga  in inano,  lo  fece  da  quelli  con  di  molte  bat-titure accompagnare  nella  terra.  La  qual cosa  intesa  da  quelli  cittadini,  piacquetanto  loro  l’ umanità  ed  integrità  di Cammillo,  che  senza  voler  più  difendersi,diliberarono  di  dargli  la  terra.  Dove  è da  considerare,  con  questo  vero  essem-pio,  quanto  qualche  volta  possa  più nelli  animi  degli  uomini  un  atto  umanoe pieno  di  carità,  che  un  atto  feroce  e violento;  e come  molte  volte  quelle  pro-vincie  e quelle  città  che  le  armi,  gl’  instru- menti bellici  ed  ogni  altra  umana  forzanon  ha  potuto  aprire,  uno  essempio ti*  umanità  c di  pietà,  di  castità  o diliberalità,  ha  aperte.  Di  che  ne  sono nelle  istorie,  oltre  a questo,  molti  altriessempi.  E vedesi  come  1*  armi  romane non  potevano  cacciare  Pirro  d’ Italia,  ene  lo  cacciò  la  liberalità  di  Fabrizio, quando  li  manifestò  Y offerta  die  avevafatta  ai  Romani  quel  suo  famigliare, d’avvelenarlo.  Vedesi  ancora,  come  a Sci-pione Afifricano  non  dette  tanta  riputa-zione in  Ispagna  la  espugnazione  diCartagine  nuova,  quanto  gli  dette  quello essempio  di  castità,  d’  aver  fenduta  lamoglie  giovine,  bella  ed  intatta  al  suo marito;  la  fuma  della  quale  azione  glifece  amica  tutta  l’Ispagna.  Vedesi  ancora questa  parte  quanto  la  sia  disideratadai  popoli  negli  uomini  grandi,  c quanto sia  laudata  dagli  scrittori  ; e da  quelliche  descrivono  la  vita  dei  principi,  e da  quelli  che  ordinano  come  debbonovivere.  Intra  i quali  Senofonte  s'  affatica assai  in  dimostrare  quanti  onori,  quantevittorie,  quanta  buona  fama  arrecasse  a Ciro  l’essere  umano  ed  affabile;  c nondare  alcuno  essempio  di  sè  nè  di  su-perbo, nè  di  crudele,  nè  di  lussurioso,nè  di  nessuno  altro  vizio  che  macelli la  vita  degli  uomini.  Pur  nondimeno,veggendo  Annibaie  con  modi  contrari a questi  avere  conseguito  gran  fama  egrandi  vittorie,  mi.  pare  da  discorre* re  nel  seguente  capitolo,  donde  questonacque. Donde  nacque  che  Annibaie con  diverso  modo  dì  procedere  daScipionCj  fece  quelli  medesimi  effetti in  Italia  che  quello  in  I spugna.Io  stimo  che  alcuni  si  potrebbono meravigliare  veggendo  qualche  capitano,nonostante  eh’  egli  abbia  tenuta  contra-ria via,  aver  nondimeno  fatti  simili  ef-fetti a coloro  che  sono  vissuti  nel  modo soprascritto  : talché  pare  che  la  cagionedelle  vittorie  non  dipenda  dalle  predette cause;  anzi  pare  che  quelli  modi  nonfi  rechino  nè  più  forza  nè  più  fortuna, potendosi  per  contrari  modi  acquistaregloria  e riputazione.  E per  non  mi  par-tire dagli  uomini  soprascritti,  e perchiarir  meglio  quello  che  io  ho  voluto dire;  dico  come  e’  si  vede  Scipioneentrare  in  Ispagna,  c con  quella  sua umanità  e pietà  subito  farsi  amica  quellaprovincia,  e adorare  ed  ammirare  dai popoli.  Vedesi,  all*  incontro,  entrare  An-nibaie in  balia,  e con  modi  tutti  con-trari, cioè  con  violenza  e crudeltà  erapina  ed  ogni  ragione  d’ infedeltà,  fa-re il  medesimo  effetto  che  aveva  fattoScipione  in  Ispagna;  perchè  ad  Annibaie si  ribellarono  tutte  le  città  d’ Italia,  tuttii popoli  lo  seguirono.  E pensando  donde questa  cosa  possa  nascere,  ci  si  veggonodentro  più  ragioni.  La  prima  è,  che  gli uomini  sono  disiderosi  di  cose  nuove;in  tanto  che  cosi  desiderano  il  più  delle volte  novità  quelli  che  stanno  bene,  comequelli  che  stanno  male  : perchè  come  altra volta  si  disse,  ed  è il  vero,  gli  uomini  sistuccano  nel  bene,  e nel  male  s’  afflig-gono. Fu,  adunque,  questo  disiderio  apri-re le  porle  a ciascuno  che  in  una  pro-vincia si  fa  capo  d’  una  innovazione;  es’  egli  è forestiero,  gli  corrono  dietro; s’  egli  è provinciale,  gli  sono  intorno,angumentanlo  e favoriscono:  lalmente- cliè,  in  qualunque  modo  che  egli  pro-ceda, gli  riesce  il  fare  progressi  grandi in  quelli  luoghi.  Oltre  a questo,  gliuomini  sono  spinti  da  due  cose  princi-pali ; o dallo  amore,  o dal  timore:  tal-ché cosi  gli  comanda  chi  si  fa  amare, come  colui  che  si  fa  temere;  anzi,  ilpiù  delle  volte  è seguito  ed  ubbidito  più chi  si  fa  temere,  che  chi  si  fa  amare.Imporla,  pertanto,  poco  ad  un  capitano, per  quaiunehe  di  queste  vie  ei  si  cam-mini, purché  sia  uomo  virtuoso,  e che quella  virtù  lo  faccia  riputato  intra  gliuomini.  Perchè,  quando  la  è grande, come  la  fu  in  Annibaie  ed  in  Scipione,ella  cancella  tutti  quelli  errori  che  si fanno  per  farsi  troppo  amare,  o perfarsi  troppo  temere.  Perchè  dell’  uno  c delP  altro  di  questi  duoi  modi  possono nascere  inconvenienti  grandi,  ed  atti a far  rovinare  un  principe  : perchè  co-lui che  troppo  disidera  esser  amato, ogni  poco  che  si  parte  dalla  vera  via,diventa  disprezzabile:  quell’ altro  che disidera  troppo  d’ esser  temuto,  ognipoco  ch’egli  eccede  il  modo,  diventa odioso.  E tenere  la  via  del  mezzo,  nonsi  può  appunto,  perchè  la  nostra  natura non  ce  io  consente:  ma  è necessarioqueste  cose  che  eccedono  mitigare  con una  eccessiva  virtù,  come  faceva  Anni-baie  e Scipione.  Nondimeno  si  vede  co-me l’  uno  e l’ altro  furono  offesi  da  questiloro  modi  di  vivere,  e così  furono  es-saltati.  La  essudazione  di  tutti  due  s’èdetta.  La  offesa  quanto  a Scipione  fu, che  gl»  suoi  soldati  in  Ispagna  se  gliribellarono  insieme  con  pai*te  degli  suoi amici:  la  qual  cosa  non  nacque  da  altroche  da  non  lo  temere;  perchè  gli  uomini sono  tanto  inquieti,  che  ogni  poco  diporta  clic  si  apra  loro  all’ambizione, dimenticano  subito  ogni  amore  ch’egliavessero  posto  al  principe  per  la  umanità sua;  come  fecero  i soldati  ed  amicipredetti:  tanto  che  Scipione,  per  rime- diare a questo  inconveniente,  fu  con-stretto usare  parte  di  quella  crudeltà che  egli  aveva  fuggita.  Quanto  ad  Au-nihaie,  non  ci  è essempio  alcuno  parti- colare, dove  quella  sua  crudeltà  e pocafede  gli  nocesse:  ma  si  può  bene  pre- supporre che  Napoli  e molte  altre  terre,che  stettero  in  fede  del  Popolo  romano, stessero  per  paura  di  quella.  Vedcsibene  questo,  che  quel  suo  modo  di  vi- vere impio,  lo  fece  più  odioso  al  Popoloromano,  che  alcuno  altro  nimico  che avesse  mai  quella  Repubblica:  in  modoche  dove  a Pirro,  mentre  che  egli  era con  lo  esercito  in  Italia,  manifestaronoquello  che  lo  voleva  avvelenare,  ad  An- nibaie mai,  ancora  che  disarmalo  edisperso,  perdonarono,  tanto  che  lo  fe- ciono  morire.  Nacquero,  dunque,  adAnnibaie,  per  essere  tenuto  impio  e rom-pitore  di  fede  e crudele,  queste  incomo-dità; ma  gliene  risultò  all’ incontro  una comodità  grandissima,  la  quale  è am-mirata da  tutti  gli  scrittori:  clic  nel suo  esercito,  ancoraché  composto  divarie  generazioni  d’ uomini,  non  nacque mai  alcuna  dissensione,  nè  infra  loromedesimi,  nè  contra  di  lui.  Il  che  non potette  derivare  da  altro,  che  dal  ter-rore che  nasceva  dalla  persona  sua:  il quale  era  tanto  grande,  mescolato  conla  riputazione  che  gli  dava  la  sua  vir-tù, che  teneva  gli  suoi  soldati  quieti  eduniti.  Conchiudo,  adunque,  come  e’  non importa  molto  in  qual  modo  un  capi-tano si  proceda,  purché  in  esso  sia  virtù grande,  che  condisca  bene  l’uno  e l’al-tro modo  di  vivere:  perchè,  come  è detto,  nell’uno  e nell’ altro  è difetto  epericolo,  quando  da  una  virtù  istraor- dinaria  non  sia  corretto.  C se  Annibaiee Scipione,  l’uno  con  cose  laudabili, l’altro  con  detestabili,  feciono  il  mede-simo  effetto;  non  mi  pare  ila  lasciar indietro  il  discorrere  ancora  di  duoicittadini  romani,  che  conseguirono  con diversi  modi,  ma  tutti  duoi  laudabili,una  medesima  gloria. Cap.  XXII.  — Come  la  durezza  di  Man-lio Torquato  e T umanità  di  Valerio' Corvino  acquistò  a ciascuno  la  mede-sima gloria. E*  furono  in  Roma  in  un  medesimotempo  due  capitani  eccellenti,  Manlio Torquato  e Valerio  Corvino:  i quali  dipari  virtù,  di  pari  trionfi  e gloria,  vis-sono  in  Roma;  e ciascuno  di  loro,  inquanto  s’ apparteneva  al  nimico,  con pari  virtù  l’acquistarono;  ma  quantos’apparteneva  agli  eserciti  ed  agl’ in-trattenimenti de’  soldati,  diversissima-mente procederono:  perchè  Manlio  con ogni  generazione  di  severità,  senza  in-termettere ai  suoi  soldati  o fatica,  o pe-na, gli  comandava:  Valerio,  dall’ altraparte,  con  ogni  modo  e termine  umano, e pieno  d’ una  famigliare  dimestichezzagl’ intratteneva.  Perchè  si  vede,  che  per aver  1’  ubbidienza  dei  soldati,  1’  uno  ani'mazzo  il  figliuolo,  e 1’  altro  non  offese mai  alcuno.  Nondimeno,  in  tanta  diver-sità di  procedere,  ciascuno  fece  il  me-desimo frutto,  e contro  a’  nimici,  ed  infavore  della  Repubblica  e suo.  Perchè nessuno  soldato  non  mai  o detratto  lazuffa,  o si  ribellò  da  loro,  o fu  in  alcuna parte  discrepante  dalla  voglia  di  quel! i ;quantunque  gl’  imperii  di  Manlio  fussino si  aspri,  che  tutti  gii  altri  imperii  cheeccedevano  il  modo,  erano  chiamati  man liana  imperia.  Dove  è da  considerareprima  donde  nacque  che  Manlio  fu  co- stretto procedere  sì  rigidamente;  l’al-tro, donde  avvenne  che  Valerio  potette procedere  si  umanamente;  l’altro,  qualcagione  fe  che  questi  diversi  modi  faces-sero il  medesimo  effetto;  ed  in  ultimo,quale  sia  di  loro  meglio  e più  utile  imita-re. Se  alcuno  considera  bene  la  natura  diManlio  dall’ora  che  Tilo  Livio  nc  comin-cia a far  menzione,  lo  vedrà  uomo  fortissi-mo, pietoso  verso  il  padre  e verso  la  pa-tria, e reverentissimo  a’  suoi  maggiori.Queste  cose  si  conoscono  dalla  morte  di quel  Francioso;  dalla  difesa  del  padrecontea  al  Tribuno; e come  avanti  ch'egli andasse  alla  zuffa  del  Francioso,  ein’andò  al  Consolo  con  queste  parole: Injussu  tuo  adversus  hoslem  nunquampugnalo,  non  si  ccrtam  victoriam  vi- dcam.  Venendo,  adunque,  un  uomo  cosìfatto  a grado  che  comandi,  desidera  di trovare  tutti  gli  uomini  simili  a sè;  e l’animo  suo  forte  gli  fa  comandare  cose forti;  e quel  medesimo,  comandate  chele  sono,  vuole  si  osservino.  Ed  è una regola  verissima,  che  quando  si  coman-da cose  aspre,  conviene  con  asprezza farle  osservare:  altrimenti,  te  ne  tro-veresti ingannato.  Dove  è da  notare, clic  a voler  essere  ubbidito,  è necessariosaper  comandare  : e coloro  sanno  co- mandare, che  fanno  comparazione  dellaqualità  loro  a quelle  ili  dii  ha  a ubbi- dire; e quando  vi  veggnino  proporzio-ne, allora  comandino;  quando  spropor-zione, se  ne  astenghino.  E però  dicevaun  uomo  prudente,  che  a tenere  una repubblica  con  violenza,  conveniva  fusseproporzione  da  chi  sforzava  a quel  ch’ero sforzato.  E qualunque  volta  questa  pro-porzione v’  era,  si  poteva  credere  che quella  violenza  fusse  durabile:  ma  quan-do il  violentato  era  più  forte  del  violen-tante, si  poteva  dubitare  che  ogni  giornoquella  violenza  cessasse.  Ma  tornando  al discorso  nostro,  dico  che  a comandarele  cose  forti,  conviene  esser  forte;  e quello  che  è df  questa  fortezza  e che  lecomanda,  non  può  poi  con  dolcezza  farle osservare.  Ma  chi  non  è di  questa  for-tezza d’animo,  si  debbe  guardare  da-gl’imperii  istraordinari,  e negli  ordi-nari può  usare  la  sua  umanità:  perchè le  punizioni  ordinarie  non  sono  impu-tate al  principe,  ma  alle  leggi  ed  agli ordini.  Debbesi,  adunque,  credere  che Manlio  fosse  costretto  procedere  si  ri-gidamente dagli  istraordinari  suoi  im-perii, ai  fjuali  lo  inclinava  la  sua  natu-ra: i quali  sono  utili  in  una  repubblica,perchè  e’  riducono  gli  ordini  di  quella verso  il  principio  loro,  e nella  sua  an-tica virtù.  E se  una  repubblica  fussc  si felice,  eh*  ella  avesse  spesso,  come  disopra  dicemmo,  citi  con  io  esseinpio  suo le  rinnovasse  le  leggi;  e non  solo  la  ri-tenesse che  la  non  corresse  alla  rovi-na, ma  la  ritirasse  indietro;  la  sarebbeperpetua.  Si  che  Manlio  fu  uno  di  quelli che  con  l’asprezza  de’ suoi  i inperii  ri-- tenne  la  disciplina  mUitarc  in  Roma, constretto  prima  dalla  natura  sua,  dipoidal  desiderio  che  aveva  s’ osservasse quello  che  il  suo  naturale  appetito  giiaveva  fatto  ordinare.  Dall’  altro  canto, Valerio  potette  procedere  umanamente,come  colui  a cui  bastava  s’  osservassino le  cose  consuete  osservarsi  negli  esercitiromani.  La  qual  consuetudine,  perchè era  buona,  bastava  ad  onorarlo,  c nonera  faticosa  ad  osservarla,  e non  neces-sitava Valerio  a punire  i transgressori;si  perchè  e’ non  ve  n’  erano;  sì  perchè quando  e*  ve  ne  Tassino  stati,  imputa-vano, come  è detto,  la  punizione  loro agli  ordini,  c non  alla  crudeltà  del  prin-cipe. In  modo  che,  Valerio  poteva  far nascere  da  lui  ogni  umanità,  dalla  qualeei  potesse  acquistare  grado  con  i solda-ti, e la  contentezza  loro.  Donde  nacque,che  avendo  l’uno  e l’altro  la  medesima ubbidienza,  poterono,  diversamente  ope-rando, fare  il  medesimo  effetto.  Possono quelli  che  volessero  imitar  costoro,  ca-dere in  quelli  vizi  di  dispregio  e d*  odio che  io  dico  di  sopra  d’ Annibaie  e diScipione:  il  che*  si  fugge  con  una  virtù eccessiva  che  sia  in  te,  e non  altrimenti.Resta  ora  considerare  quale  di  questi modi  di  procedere  sia  più  laudabile.  Ilche  credo  sia  disputabile,  perchè  gli scrittori  lodano  l’ un  modo  e l’ altro.Nondimeno,  quelli  che  scrivono  come un  principe  s’ abbia  a governare,  siaccostano  piu  a Valerio  che  a Manlio  ; c Senofonte,  preallegato  da  me,  dandodi  molti  essempi  della  umanità  di  Ciro, si  conforma  assai  con  quello  che  dicedi  Valerio  Tito  L.  Perchè,  sendo  fatto Consolo  contro  i Sanniti,  e venendo  ildì  che  doveva  combattere,  parlò  ai  suoi soldati  con  quella  umanità  con  la  qualeei  si  governava  ; e dopo  tal  parlare, Tito  Livio  dice  queste  parole:  Nonalias  militi  familiarior  dux  fuit , inter infimos  militimi  omnia  hauti  gravatemunia  obcuntlo.  In  ludo  praterea  mili-tari, cum  velocitatis  viriumquc  in  ter  secequales  cer lamina  ineuntj  comiler  faci-lis vincere  ac  vinci,  nulla  eodcm  ; necqucmquam  aspcrnari  parem  qui  se  offer-ret  ; factis  benignus  prò  re;  clic  ti  shauti  minus  libertalis  aliena  , quam  sua dignilatis  memor  ; et  (quo  nihil  popu-lariit8  est)  quibus  artibus  pelierat  magi-strati^, iisdem  gerebat.  Parla  medesi-mamente di  Manlio  Tito  Livio  onorévol-mente, mostrando  che  la  sua  severitànella  mol  te  del  figliuolo  fece  tanto  ub-bidiente l' esercito  al  Consolo,  che  fucagione  delia  vittoria  che  il  Popolo  ro-mano ebbe  contro  ai  Latini  ; ed  in  tantoprocede  in  laudarlo,  che  dopo  tal  vit-toria, descritto  eh’  egli  ha  tutto  1’  ordinedi  quella  zuffa,  e mostri  tutti  i pericoli che  ’1  Popolo  romano  vi  corse,  e le  dif-ficoltà che  vTTurono  a vincere,  fa  questa conclusione:  che  solo  la  virtù  di  Manliodette  quella  vittoria  ai  Romani.  E facen-do comparazione  delle  forze  dell’ uno  .edell’  altro  esercito,  afferma  come  quella parte  arebbe  vinto  che  avesse  avuto  perConsolo  Manlio:  talché,  considerato  tutto quello  che  gli  scrittori  ne  parlano,  sa-rebbe difficile  giudicarne.  Nondimeno, per  non  lasciare  questa  parte  indecisa,dico,  come  in  un  cittadino  che  viva sotto  le  leggi  d’  una  repubblica,  credosia  piu  laudabile  c meno  pericoloso  il procedere  di  Manlio;  perchè  questo  modotutto  è in  favore  del  pubblico,  e non risguarda  in  alcuna  parte  all’  ambizioneprivata;  perchè  per  tale  modo  non  si può  acquistare  partigiani,  mostrandosisempre  aspro  a ciascuno,  ed  amando solo  il  ben  comune;  perchè  chi  fa  que-sto, non  s’ acquista  particolari  amici, quali  noi  chiamiamo,  come  di  soprasi  disse,  partigiani.  Talmentechè,  simil modo  di  procedere  non  può  esser  piùutile  nè  più  desiderabile  in  una  repubblica; non  mancando  in  quello  l’ utilitàpubblica,  e non  vi  potendo  essere  alcun sospetto  della  potenza  privata.  Ma  nelmodo  di  procedere  di  Valerio  è il  con-trario: perchè  se  bene  in  quanto  alpubblico  si  fanno  i medesimi  effetti, nondimeno  vi  surgono  molte  dubitazioni,per  la  particolar  benivolenza  che  colui s’  acquista  con  i soldati,  da  fare  in  unlungo  imperio  cattivi  effetti  contra  alla libertà.  E se  in  Publicola  questi  cattivieffetti  non  nacquero,  ne  fu  cagione  non essere  ancora  gli  animi  dei  Romani  cor-rottile quello  non  esser  stato  lun-gamente e continovamente  al  governoloro.  Ma  se  noi  abbiamo  a considerare un  principe,  come  considera  Senofonte,noi  ci  accosteremo  al  tutto  a Valerio,  e lasceremo  Manlio;  perchè  un  principedebbe  cercare  nei  soldati  e nei  sudditi 1*  ubbidienza  e 1’  amore.  1/  ubbidienzagli  dà  lo  essere  osservatore  degli  ordini, Tesser  tenuto  virtuoso:  lo  amore  glidà  P affabilità,  P umanità,  la  pietà  e quell'  altre  parli  che  erano  in  Valerio,e che  Senofonte  scrive  essere  state  in Ciro.  Perchè  lo  essere  un  principe  ben^voluto  particolarmente,  ed  avere  lo  eser-cito suo  partigiano,  si  conforma  contutte  P altre  parti  dello  Stato  suo:  ma in  un  cittadino  che  abbia  P esercito  suopartigiano,  non  si  conforma  già  questa parte  con  P altre  sue  parti,  che  P hannoa far  vivere  sotto  le  leggi,  ed  ubbidire ai  magistrali.  Leggesi  intra  le  cose  an-tiche della  Repubblica  viniziana,  come essendo  le  galee  viniziane  tornate  inVinegia,  e venendo  certa  differenza  intra quelli  delle  galee  ed  il  popolo,  dondesi  venne  al  tumulto  ed  all’ armi;  nè  si potendo  la  cosa  quietare  nè  per  forzadi  ministri,  nè  per  reverenza  de’  citta-dini, nè  timore  di  magistrati;  subitoche  a quelli  marinari  apparve  innanzi un  gentiluomo  che  era  1’  anno  davantistato  capitano  loro,  per  amore  di  quello si  partirono  e lasciarono  la  zuffa.  Laqual  ubbidienza  generò  tanta  sospizioue al  Senato,  che  poco  tempo  dipoi  i Vini-ziani,  o per  prigione  o per  morte,  se ne  assicurarono.  Conchiudo  pertanto,  ilprocedere  di  Valerio  essere  utile  in  uno principe,  e pernizioso  in  un  cittadino;non  solamente  alia  patria,  ma  a sè:  a lei,  perchè  quelli  modi  preparano  la  viaalla  tirannide;  a sè,  perchè  in  sospet-tando la  sua  città  del  modo  del  proce-dere suo  è costretta  assicurarsene  con suo  danno.  E così,  per  il  contrario,  af-fermo il  procedere  di  Manlio  in  un  prin-cipe esser  dannoso,  ed  in  uno  cittadinoutile,  e massime  alla  patria:  ed  aneora rare  volte  offende;  se  già  questo  odioclic  ti  tira  dietro  la  tua  severità  non  è accresciuto  da  sospetto  che  1’  altre  tuevirtù  per  la  gran  riputazione  ti  arrecas-sino:  come  di  sotto  di  Cammillo  si  di-scorrerà. Per  quale  cagione  Cammillo fosse  cacciato  di  Roma.Noi  abbiamo  conchiuso  di  sopra,  come procedendo  come  Valerio,  si  nuoce  allapatria  ed  a sè;  c procedendo  come Manlio,  si  giova  alia  patria,  e nuocesiqualche  volta  a sè.  Il  che  si  pruova  assai bene  per  lo  essempio  di  Cammillo,il  quale  nel  procedere  suo  simigliava più.  tosto  Manlio  che  Valerio.  DondeTito  Livio,  parlando  di  lui,  dice,  come ejus  virlutem  mililes  odorante  et  mira-banlur . Quello  che  lo  faceva  tenere  me-raviglioso, era  la  sollicitudine,  la  pru-denza, la  grandezza  dell’  animo,  il  buono ordine  che  lui  servava  nello  adoperarsie nel  comandare  agli  eserciti:  quello che  lo  faceva  odiare,  era  essere  piu  se-vero nel  gastigargli,  che  liberale  nel  ri-munerargli. G Tito  Livio  ne  adduce  diquesto  odio  queste  cagioni:  la  prima, che  i danari  che  si  trassero  de*  benidei  Veienti  che  si  venderono,  esso  gli applicò  al  pubblico,  e non  gli  divise  conla  preda  : V altra,  che  nel  trionfo  ei  fece tirare  il  suo  carro  trionfale  da  quattrocavagli  bianchi,  dove  essi  dissero  che per  superbia  ei  s’  era  voluto  agguagliareal  sole  : la  terza,  che  fece  voto  di  dare ad  Apolline  la  decima  parte  della  predadei  Veienti,  la  quale,  volendo  satisfare al  voto,  s’  aveva  a trarre  dalle  mani  deisoldati  che  l’ avevano  di  già  occupata. Dove  si  notano  bene  e facilmente  quellecose  che  fanno  un  principe  odioso  appresso il  popolo;  delle  quali  la  princi-pale è privarlo  d’  uno  utile.  La  qual  co-sa è di  importanza  assai;  perchè  le  coseche  hanno  in  sè  utilità,  quando  I’  uomo n*  è privo,  non  le  dimentica  mai,  edogni  minima  necessità  te  ne  fa  ricorda-re;  e perchè  le  necessità  vengono  ognigiorno,  tu  te  ne  ricordi  ogni  giorno. L’altra  cosa  è lo  apparire  superbo  edenfiato;  il  che  non  può  essere  più  odioso ai  popoli,  e massime  ai  liberi.  E ben-ché da  quella  superbia  e da  quel  fasto non  ne  nascesse  loro  alcuna  incomodi-tà, nondimeno  hanno  in  odio  chi  l’usa: da  che  un  principe  si  debbe  guardarecome  da  uno  scoglio;  perchè  tirarsi odio  addosso  senza  suo  profitto,  è altutto  partito  temerario  e poco  pru-dente.  La  prolungazionedegl*  imperi  fece  serva  Roma. Se  si  considera  bene  il  procederedella  Repubblica  romana,  si  vedrà  due cose  essere  state  cagione  della  resolu-zione di  quella  Repubblica:  l’una  fu-rono le  contenzioni  che  nacquero  dallalegge  agraria;  l’altra  la  prolungazione degli  imperi:  le  quali  cose  se  fussinostale  conosciute  bene  da  principio,  e fattivi  debiti  rimedi,  sarebbe  stato  il  vi-ver libero  più  lungo,  e per  avventura più  quieto.  C benché,  quanto  alia  pro-lungazione dello  imperio,  non  si  vegga che  in  Roma  nascesse  mai  alcuno  tu-multo; nondimeno  si  vedde  in  fatto, quanto  noce  alla  città  quella  autoritàche  i cittadini  per  tali  diliberazioni  pre-sono. E se  gli  altri  cittadini  a chi  eraprorogato  il  magistrato,  fussino  stali savi  e buoni  come  fu  Lucio  Quinzio,non  si  sarebbe  incorso  in  questo  incon-veniente. La  bontà  del  quale  è d’  unoessempio  notabile;  perchè,  sendosi  fatto intra  la  Plebe  ed  il  Senato  convenzioned’  accordo,  ed  avendo  la  Plebe  prolun-gato in  uno  anno  V imperio  ai  Tribuni,giudicandogli  atti  a poter  resistere  al-l’ambizione dei  Nobili,  volle  il  Senato,per  gara  della  Plebe  e per  non  parere da  meno  di  lei,  prolungare  il  consolatoa Lucio  Quinzio:  il  quale  al  tutto  negò questa  diliberazionc,  dicendo  che  i cat-livi  essempi  si  volevano  cereare  ili  spe-gnergli, non  di  accrescergli  con  uno  al-tro più  cattivo  essempio;  e volle  si  fa-cessino  nuovi  Consoli.  La  qual  bontà  eprudenza  se  fusse  stata  in  tutti  i citta-dini romani,  non  arebbe  lasciata  intro-durre quella  consuetudine  di  prolungare i magistrati,  e da  quella  non  si  sarebbevenuto  alla  prolungazione  delti  imperi: la  qua!  cosa,  col  tempo,  rovinò  quellaRepubblica.  Il  primo  a eli i fu  proro-gato l’imperio,  fu  Publio  Pilone;  ilquale  essendo  a campo  alla  città  di  Pa-lepoli,  e venendo  la  line  del  suo  conso-lato, e parendo  al  Senato  ch’egli  avesse in  mano  quella  vittoria,  non  gli  manda-rono il  successore,  ma  lo  fecero  Procon-solo; talché  fu  il  primo  Proconsolo.  Laqual  cosa,  ancora  che  mossa  dal  Senato per  utilità  pubblica,  fu  quella  che  conil  tempo  fece  serva  Roma.  Perchè,  quanto più  i Romani  si  discostaron  con  le  ar-mi, tanto  più  pareva  loro  tale  proroga-zione necessaria,  e più  P usarono.  Laqual  cosa  fece  due  inconvenienti:  l’uno che  meno  numero  di  uomini  si  eserci-tarono negl’imperi;  e si  venne  per questo  a ristringere  la  reputazione  inpochi:  l’altro,  che  stando  un  cittadino assai  tempo  comandatole  d’  uno  eserci-to, se  lo  guadagnava,  e facevaselo  par-tigiano; perchè  quello  esercito  col  tem-po dimenticava  il  Senato,  e riconosceva quello  capo.  Per  questo  Siila  e Mario  po-terono trovare  soldati  che  contea  al  bene pubblico  gli  seguitassino  : per  questo  Ce-sare potette  occupare  la  patria.  Che  se mai  i Romani  non  avessiuo  prolungati  imagistrati  e gli  imperi,  se  non  venivano si  tosto  a tanta  potenza,  e se  fussinostati  più  tardi  gli  acquisti  loro,  sarebbe-ro ancora  venuti  più  tardi  nella  servitù. Della  povertà  di  Cincinnato , e di  molti  cittadini  romani.; Noi  abbiamo  ragionato  altrove,  come la  più  ulil  cosa  che  si  ordini  in  un  vi-ver  libero  è che  si  mantenghino  i citta-dini poveri.  E benché  iti  Roma  non  ap-parisca quale  ordine  fusse  quello  che facesse  questo  effetto,  avendo,  massime,la  legge  agraria  avuta  tanta  oppugna-zione; nondimeno  per  esperienza  si  vid-de,  ' che  dopo  quattrocento  anni  che Roma  era  stata  edificata,  v’era  una  gran-dissima povertà  ;**nè  si  può  credere  che altro  ordine  maggiore  facesse  questo  ef-fetto, che  vedere  come  per  la  povertà non  t’ era  impedita  la  via  a qualunquegrado  ed  a qualunque  onore,  e come s’  andava  a trovare  la  virtù  in  qualun-que casa  l'abitasse.  11  qual  modo  di vivere  faceva  manco  disperabili  le  ric-chezze. Questo  si  vede  manifesto;  per-chè essendo  Minuzio  consolo  assediatocon  lo  esercito  suo  dagli  Equi,  si  empiè di  paura  Roma,  che  quello  esercito  nonsi  perdesse;  tanto  che  ricorsero  a creare il  Dittatore,  ultimo  rimedio  nelle  lorocose  afflitte.  E crearono  Lucio  Quinzio Cincinnato,  il  quale  allora  si  trovava«ella  sua  piccola  villa,  la  quale  lavora-va di  sua  mano.  La  qual  cosa  con  pa-role auree  è celebrala  da  Tito  L.,  di-cendo: Opera  precium  est  audire,  quiomnia  prue  divifiis  Humana  spera  uni,ncque  honori  magno  locum,  neque  tir-tuli  putanl  esse,  nisi  effuse  affluant opes.  Arava  Cincinnato  la  sua  piccolavilla,  la  quale  non  trapassava  il  termi-ne di  quattro  iugeri,  quando  da  Romavennero  i Legati  del  Senato  a signifi*Carli  la  elezione  della  sua  dittatura,  eda mostrarli  in  quale  pericolo  si  trovava la  romana  Repubblica.  Egli,  presa  la  suatoga,  venuto  in  Roma  e ragunato  uno esercito,  n’andò  a liberar  Minuzio;  edavendo  rotti  e spogliati  i nimici,  e libe-rato quello,  non  volle  che  1’  esercito  as-sediato fusse  partecipe  della  preda,  di-cendogli queste  parole:  Io  non  voglioche  tu  participi  della  preda  di  coloro de’ quali  tu  sei  stato  per  essere  preda;— e privò  Minuzio  del  consolato,  e fe-eclo  Legato,  dicendogli:  Starai  tanto  inquesto  grado,  che  tu  impari  a sapere essere  Consolo.  — Aveva  fatto  suo  Maestrode’  cavalli  Lucio  Tarquiuio,  il  quale  per la  povertà  militava  a piede.  Notasi,  co-me è detto,  T onore  che  si  faceva  in Roma  alla  povertà;  e come  ad  uno  uo-mo buono  e valente,  quale  era  Cincin-nato, quattro  iugeri  di  terra  bastavanoa nutrirlo.  La  quale  povertà  si  vede  co-me era  ancora  nei  tempi  di  Marco  Re-golo; perchè  sendo  in  Affrica  con  gli eserciti,  domandò  licenzia  al  Senato  perpoter  tornare  a custodire  la  sua  villa, la  quale  gli  era  guasta  da’ suoi  lavora-tori. Dove  si  vede  due  cose  notabilissi-me : 1*  una  la  povertà,  e come  vi  sta-vano dentro  contenti,  e come  bastava  a quelli  cittadini  trarre  della  guerra  ono-re, e l’ utile  tutto  lasciavano  al  pub-blico. Perchè,  s’ egli  avessero  pensatod’arricchire  della  guerra,  gli  sarebbe dato  poca  briga,  che  i suoi  campi  fus-sino  stati  guasti.  L’  altra  è,  considerare la  generosità  dell’ animo  di  quelli  citta-dini,  i quali  preposti  ad  uno  esercito, saliva  la  grandezza  dell’animo  loro  so-pra ogni  principe;  non  stimavano  i re, non  le  repubbliche  ; non  gli  sbigottivanè  spaventava  cosa  alcuna;  e tornati dipoi  privati,  diventavano  parchi,  umili,curatori  delle  piccole  facultà  loro,  ubbi-dienti ai  magistrati,  reverenti  alti  loromaggiori:  talché  pure  impossibile  che uno  medesimo  animo  patisca  tanta  mu-tazione. Durò  questa  povertà  ancora  to-sino ai  tempi  di  Paulo  Emilio,  che  fu-rono quasi  gli  ultimi  felici  tempi  di quella  Repubblica,  dove  un  cittadino  checol  trionfo  suo  arricchì  Roma,  nondi-meno mantenne  povero  sè.  E cotanto  sistimava  ancora  la  povertà,  che  Paulo nell’  onorare  chi  s’ era  portato  benenella  guerra,  donò  a un  suo  genero  una tazza  d’ oriento,  il  quale  fu  il  primooriento  che  fusse  nella  sua  casa.  E potrebbesi  con  un  lungo  parlare  mostrarequanti  migliori  frutti  produca  la  po-vertà che  la  ricchezza,  e come  V una  haonorato  le  città,  le  provincia,  le  sètte; c l’altra  V ha  rovinate;  se  questa  ma-teria nou  fusse  stata  molte  volte  da  al-tri uomini  celebrata. Come  per  cagione di  femmine  si  rovina  uno  Slato.Nacque  nella  città  d’ Ardea  intra  i pa-trizi e i plebei  una  sedizione  per  ca-gione d’  un  parentado,  dove  avendosi  a maritare  una.  femmina  erede,  la  doman-darono parimente  un  plebeo  ed  un  nobile; e non  avendo  quella  padre,  i tu-tori la  volevano  congiugnere  al  plebeo, la  madre  al  nobile:  di  che  nacque. tantotumulto,  che  si  venne  all’  armi  ; dove tutta  la  Nobiltà  s’ armò  in  favore  delnobile,  e tutta  la  Plebe  in  favore  del plebeo.  Talché  essendo  superata  la  Ple-be, s’  uscì  d’  Ardea,  e mandò  ai  Yolsci per  aiuto:  i nobili  mandarono  a Roma.Furono  prima  i Volsci,  e,  giunti  intorno ad  Ardea,  s’accamparono.  Sopravvenne-ro  i Romani,  e rinchiusone  i Volsci  in- fra ia  terra  e loro;  tanto  che  gli  co;slrinsono,  essendo  stretti  dalla  fame,  a darsi  a discrezione.  Ed  entrati  i Romaniin  Ardea,  e morti  lutti  i capi  della  se-dizione, composono  le  cose  di  quellacittà.  Sono  in  questo  testo  più  cose  da notare.  Prima  si  vede,  come  le  donnesono  state  cagioni  di  molte  rovine,  ed hanno  fatti  gran  danni  a quelli  che  go-vernano una  città,  ed  hanno  causato  di molte  divisioni  in  quella  : e,  come  si  èveduto  in  questa  nostra  istoria,  V eccesso fatto  contra  a Lucrezia  tolse  lostato  ai  Tarquini;  quell’ altro  fatto  contra a Virginia  privò  i Dieci  dell’  auto-rità loro.  Ed  Aristotele  intra  le  prime cose  che  mette  della  rovina  dei  tiranni,è V avere  ingiuriato  altrui  per  conto  di donne,  o con  stuprarle,  o con  violarle,o corrompere  i matrimoni  ; come  di  questa parte,  nel  capitolo  dove  noi  trat-tammo delle  congiure,  largamente  si parlò.  Dico,  adunque,  come  i principiassoluti  ed  i governatot  i delle  repubbliche  non  hanno  a tenere  poco  contodi  questa  parte  ; ma  debbono  considerare i disordini  clic  per  tuie  accidentepossono  nascere,  e rimediarvi  in  tempo che  il  rimedio  non  sia  con  danno  e vi-tuperio delio  Stato  loro  o della  loro  re? pubblica:  come  intervenne  agli  Ardenti,i quali  per  avere  lasciato  crescere  quella gara  intra  i loro  cittadini,  si  condusso-tio  a dividersi  infra  loro;  e volendo  riunirsi, ebbono  a mandare  per  soccorsiesterni  : il  che  è un  gran  principio  d’una propinqua  servitù.  Ma  vegniamo  all’ al-tro notabile  del  modo  del  riunire  le  città, del  quale  nel  futuro  capitolo  parleremo. Come  e*  si  ha  a unire una  città  divisa  ; c come  quella  oppi-nionc  non  è vera , che  a tenere  le  città bisogna  tenerle  disunite.Per  lo  essempio  dei  Consoli  romani che  riconciliarono  insieme  gli  Ardeati,si  nota  il  modo  come  si  debbe  comporre una  citta  divisa:  il  quale  non  è altro,nè  altrimenti  si  debbe  medicare,  clic ammazzare  i capi  de’  tumulti.  Perchégli  è necessario  pigliare  uno  de’  tre modi  : o ammazzargli,  come  fecero  co-storo ; o rimuovergli  della  città;  o far loro  far  pace  insieme,  sotto  obblighi  dinon  si  offendere.  Di  questi  tre  modi, questo  ultimo  è più  dannoso,  men  cer-to e più  inutile.  Perchè  gli  è impossibile, dove  sia  corso  assai  sangue,  o al-tre simili  ingiurie,  che  una  pace  fatta per  forza  duri,  riveggendosi  ogni  di  in-sieme in  viso;  ed  è difficile  che  si  asten-gano dallo  ingiuriare  V uno  V altro,  po-tendo nascere  infra  loro  ogni  dì,  per  la conversazione,  nuove  cagioni  di  querele.Sopra  che  non  si  può  dare  il  migliore essempio  che  la  città  di  Pistoia.  Era  di-visa quella  città,  come  è ancora,  quin-dici anni  sono,  in  Panciatichi  e Cancel-lieri ; ma  allora  era  in  sull’  orme,  ed oggi  V ha  posate.  E dopo  molte  disputeinfra  loro,  vennero  al  sangue,  alla  rovina delle  case,  al  predarsi  la  roba,  ead  ogni  altro  termine  di  nimico.  Ed  i Fiorentini,  che  gli  avevano  a comporre,sempre  vi  usarono  quel  terzo  modo;  e sempre  ne  nacquero  maggiori  tumultic maggiori  scandali:  tanto  che,  strac-chi, si  venne  al  secondo  modo,  di  ri-muovere i capi  delle  parli;  de’ quali  al-cuni messono  in  prigione,  alcuni  altriconfinarono  in  vari  luoghi:  tanto  che 1’  accordo  fatto  potette  stare,  ed  è statoinfino  a oggi.  Ma  senza  dubbio  più  si-curo saria  stato  il  primo.  Ma  perchèsimili  esecuzioni  hanno  il  grande  ed  il generoso,  una  repubblica  debole  non  lesa  fare,  ed  ènne  tanto  discosto,  che  a fatica  la  si  conduce  al  rimedio  secondo.E questi  sono  di  quelli  errori  che  io dissi  nel  principio,  che  fanno  i principidei  nostri  tempi,  che  hanno  a giudicare le  cose  grandi;  perchè  doverebbouo  vo-ler vedere,  come  si  sono  governati  co-loro che  hanno  avuto  a giudicare  auti-canìcole  simili  casi.  Ma  la  debolezza de’  presenti  uomini,  causala  dalla  deboleeducazione  loro  e dalla  poca  notizia delle  cose,  fa  che  si  giudichino  i giudiziantichi  parte  inumani,  parte  impossibili. Ed  hanno  certe  loro  moderne  oppinionidiscoste  al  tutto  dal  vero;  corn’è  quella che  dicevano  i savi  della  nostra  città,un  tempo  è:  che  bisognava  tener  Pistoia con  le  parti j e Pisa  con  le  fortezze ; e non  s’avveggono,  quanto  runa e l’ altra  di  queste  due  cose  è inutile. Io  voglio  lasciare  le  fortezze,  perchè  di sopra  ne  parlammo  a lungo;  e vogliodiscorrere  la  inutilità  che  si  trae  dai tenere  le  terre,  che  tu  hai  iu  governo,divise.  In  prima,  c impossibile  che  tu  ti mantenga  tutte  due  quelle  parti  amicheo principe  o repubblica  che  le  governi. Perchè  dalla  natura  è dato  agli  uominipigliar  parte  in  qualunque  cosa  divisa, e piacergli  più  questa  che  quella.  Tal-ché, avendo  una  parte  di  quella  terra malcontenta,  fa  che  lu  prima  guerra  cheviene,  tu  la  perdi  ; perchè  gli  è impos-sibile guardare  una  città  che  abbia  ini  mici  fuori  e dentro.  Se  la  è una  re-pubblica che  la  governi,  non  ci  è il  piùbel  modo  a far  cattivi  i tuoi  cittadini cd  a far  dividere  la  tua  città,  clic  averein  governo  una  città  divisa;  perchè  cia-scuna parte  cerca  d’aver  favori,  ciascu-na si  fa  amici  con  varie  corruttele  : tal-ché ne  nasce  due  grandissimi  inconve-nienti; l’uno,  che  tu  non  to  gli  fai  mai amici,  per  non  gli  poter  governar  bene,variando  il  governo  spesso,  ora  con l’uno,  ora  con  l’altro  umore;  l’altro,clic  tale  studio  di  parte  divide  di  neces-sità la  tua  repubblica.  Ed  il  Biondo,parlando  dei  Fiorentini  c de’  Pistoiesi, ne  fa  fede,  dicendo:  Mentre  che  i Fio-ventini  disegnavano  di  riunir  PistoiaJ divisano  se  medesimi.  Pertanto,  si  puòfacilmente  considerare  il  male  che  da questa  divisione  nasca.  Nel  1501,  quan-do si  perdè  Arezzo,  c tutto  Val  di  Tevere e Val  di  Chiana,  occupatoci  daiVitelli  e dal  duca  Valentino,  venne  un monsignor  di  Lant,  mandato  dal  re  diFrancia  a fare  restituire  ai  Fiorentini tutte  quelle  terre  perdute;  e trovandoLant  in  ogni  castello  uomini  die,  nel visitarlo,  dicevano  che  erano  della  partedi  Marzocco,  biasimò  assai  questa  divi-sione: dicendo,  che  se  in  Francia  uuodi  quelli  sudditi  del  re  dicesse  d’essere della  parte  del  re,  sarebbe  gastigato,perchè  tal  voce  non  significherebbe  al-tro, se  non  che  in  quella  terra  fussegente  nimica  del  re  ; e quel  re  vuole che  le  terre  tutte  siano  sue  amiche,  uni-te, e senza  parti.  Ma  tutti  questi  modi e queste  oppinioni  diverse  dalla  veritànascono  dalla  debolezza  di  chi  sono  si-gnori; i quali,  veggendo  di  non  potertenere  gli  Stati  con  forza  e con  virtà,  si voltano  a simili  industrie:  le  quali  qual-che volta  nei  tempi  quieti  giovano  qual-che cosa;  ma  come  e’  vengono  l’avver-sità ed  i tempi  forti,  le  mostrano  la fallacia  loro. Gap.  XXVIII.  — Che  si  debbe  por  mentealle  opere  de*  cittadini , perchè  molte volte  sotto  un'opera  pia  si  nascondeun  principio  di  tirannide. Essendo  la  città  di  Roma  aggravata dalla  fame,  e non  bastando  le  provvi-sioni pubbliche  a cessarla,  prese  animo uno  Spurio  Melio,  essendo  assai  riccosecondo  quelli  tempi,  di  far  provvisione di  frumento  privatamente,  e pascernecon  suo  grado  la  Plebe.  Per  la  qual  cosa egli  ebbe  tanto  concorso  di  popolo  insuo  favore,  che  ’l  Senato  pensando  al-P inconveniente  che  di  quella  sua  libe-ralità poteva  nascere,  per  opprimerla avanti  che  la  pigliasse  più  forze,  glicreò  un  Dittatore  addosso,  e fecelo  morire. Qui  è da  notare,  come  molle  volteP opere  che  paiono  pie  c da  non  le  potere ragionevolmente  dannare,  diventanocrudeli,  e per  una  repubblica  sono  pericolosissime, quando  non  siano  a buo-n*  oi  a corrette.  E per  discorrere  questa cosa  più  particolarmente,  dico  che  unarepubblica  senza  cittadini  riputati  non può  stare,  nè  può  governarsi  in  alcunmodo  bene.  Dall’  altro  canto,  la  ripu-tazione de’  cittadini  è cagione  della  ti-rannide delle  repubbliche.  E volendo  re-golare questa  cosa,  bisogna  talmenteordinarsi,  che  i cittadini  sieno  riputati di  riputazione  che  giovi,  c non  nuoca,alla  città  ed  alla  libertà  di  quella.  E però  si  debbe  esaminare  i modi  con  iquali  ei  pigliano  riputazione  j che  sono in  effetto  due:  o pubblici  o privati.  Imodi  pubblici  sono,  quando  uno  consi-gliando bene,  e operando  meglio  in  be-nefìzio comune,  acquista  riputazione.  A questo  onore  si  debbe  aprire  la  via  aicittadini,  e proporre  prèmi  ed  ai  con- sigli ed  all’ opere,  talché  se  n’abbinoad  onorare  e satisfare.  E quando  queste riputazioni  prese  per  queste  vie,  sianoschiette  e semplici,  non  saranno  mai pericolose:  ina  quando  le  sono  preseper  vie  private,  che  è l’altro  modo  preal-legato, sono  pericolosissime  ed  in  tuttonocive.  Le  vie  private  sono,  facendo  be-nefizio a questo  ed  a quell’ altro  privato,con  prestargli  danari,  maritargli  le  fi-gliuole, difendendolo  dai  magistrali,  efacendogli  simili  privati  favori,  i quali si  fanno  gli  uomini  partigiani,  e dannoanimo  a chi  è cosi  favorito  di  poter corrompere  il  pubblieoe  sforzar  le  leggi.Debbe,  pertanto,  una  repubblica  bene ordinata  aprire  le  vie,  come  è detto,  achi  cerca  favori  per  vie  pubbliche,  e chiuderle  a chi  li  cerca  per  vie  private;come  si  vede  che  fece  Roma:  perchè  in premio  di  chi  operava  bene  per  il  pubbli-co, ordinò  i trionfi  c tutti  gli  altri  onori che  la  dava  ai  suoi  cittadini  ; ed  in  dannodi  chi  sotto  vari  colori  per  vie  private cercava  di  farsi  grande,  ordinò  l’accuse;e quando  queste  non  bastassero,  per èssere  accecato  il  popolo  da  una  speziedi  falso  bene,  ordinò  il  Dittatore,  il  quale con  il  braccio  regio  facesse  tornare  den-tro  al  seguo  chi  ne  fusse  uscito,  come la  fece  pei*  punir  Spurio  Melio.  Ed  unache  di  queste  cose  si  lasci  impunita,  è atta  a rovinare  una  repubblica;  perchèdifficilmente  con  quello  essempio  si  ri-duce dipoi  in  la  vera  via. Che  gli  peccali  dei  popoli nascono  dai  principi.Non  si  dolghino  i principi  d’ alcuno peccato  che  faccino  i popoli  €11’  egli  ab-biano in  governo  ; perchè  tali  peccali conviene  che  naschino  o per  sua  negli-genza, o per  esser  lui  macchialo  di  simili errori.  E chi  discorrerà  i popoliche  nei  nostri  tempi  sono  stati  tenuti pieni  di  ruberie  e di  simili  peccati,  ve-drà che  sarà  al  tutto  nato  da  quelli  che gli  governavano,  che  erano  di  similenatura.  La  Romagna,  innanzi  che  in quella  fossero  spenti  da  papa  Alessan-dro \ 1 quelli  signori  che  la  comanda-vano, era  uno  essempio  d’ ogni  seclle-ratissima  vita,  perchè  quivi  si  vedeva per  ogni  leggiere  cagione  seguire  occi-sioni  e rapine  grandissime.  Il  che  na-sceva dalla  tristizia  di  quei  principi  $non  dalla  natura  trista  degli  uomini, come  loro  dicevano.  Perchè  sendo  quelliprincipi  poveri,  e volendo  vivere  da  ric-chi, erano  forzati  volgersi  a molte  ra-pine, e quelle  per  vari  modi  usare.  Ed intra  Poltre  disoneste  vie  che  e’ tene-vano, facevano  leggi,  e proibivano  alcuna azione;  dipoi  erano  i primi che davanocagione della inosservanza d’esse, nè inai  punivano  gli  inosservanti,  se  nonpoi  quando  vedevano  esser  incorsi  assai in  simile  pregiudizio;  ed  allora  si  vol-tavano alla  punizione,  non  per  zelo  della legge  fatta,  ma  per  cupidità  di  riscuo-ter la  pena.  Donde  nascevano  molti  inconvenienti, e sopra  tutto  questo:  che  ipopoli  si  impoverivano,  e non  si  cor-reggevano; e quelli  che  erano  impove-riti, s’ ingegnavano  contra  ai  meno  po-tenti di  loro  prevalersi.  Donde  surgevanotutti  questi  mali  che  di  sopra  si  dicono, de’  quali  era  cagione  il  principe.  E chequesto  sia  vero,  lo  mostra  Tito  Livio quando  ei  narro,  che  portando  i Legatiromani  il  dono  della  preda  dei  Veienti ad  Apolline,  furono  presi  dai  corsari  di Lipari  in  Sicilia,  e condotti  in  quella terra  : ed  inteso  Timasiteo  loro  principe che  dono  era  questo,  dove  egli  andavae chi  lo  mandava,  si  portò,  quantunque nato  a Lipari,  come  uomo  romano,  emostrò  al  popolo  quanto  era  impio  oc-cupare simil  dono;  tanto  che,  con  il  con-senso dell*  universale,  ne  lasciò  andare i Legati  con  tutte  le  cose  loro.  E le  pa-role dello  istorieo  sono  queste:  Tima-sitheus  muhitudinem  religione  impleviljguoe  seniper  regenti  est  similis.  E Lorenzo dei  Medici,  a con  Orinazione  di  questasentenza,  dice  :u E quel  che  fa  il  signor,  fanno  poi  molti  ; Chè  nel  signor  son  tutti  gli  occhi  volti.  „Cap.  XXX.  — Ad  uno  cittadino  che  t co-glia nella  sua  repubblica  far  di  suaautorità  alcuna  opera  buona , è neces-sario prima  spegnere  /*  invidia:  c co-me, venendo  il  nimico j s'  ha  a ordi-nare la  difesa  dJ  una  città. Intendendo  il  Senato  romano  come  laToscana  tutta  aveva  fatto  nuovo  deletto per  venire  a' danni  di  Roma;  e corne iLatini  e gli  Ernici,  stati  per  lo  addietro amici  del  Popolo  romano,  s’  erano  acco-stati coi  Volaci,  perpetui  nimici  di  Roma ; giudicò  questa  guerra  dovere  esserpericolosa.  E trovandosi  Cnnimilio  tribuno di  potestà  consolare,  pensò  che  sipotesse  fare  senza  creare  il  Dittatore, quando  gli  altri  Tribuni  suoi  collegllivolessino  cedergli  la  somma  dello  imperio. Il  che  detti  Tribuni  fecero  volonta-riamente: nec  quicquam  (dice  Tito  Livio) de  majestate  sua  delractum  crcdcbant,rjund  ma j està  li  ejus  concessissent.  Onde Cammillo,  presa  a parole  questa  ubbi-dienza, comandò  che  si  scrivessino  tre eserciti.  Del  primo  volse  esser  capo  lui,per  ire  eontra  i Toscani.  Del  secondo fece  capo  Quinto  Servilio,  il  quale  vollestesse  propinquo  a Roma,  per  ostare  ai Latini  ed  agli  Ernici,  se  si  movessino.Al  terzo  esercito  prepose  Lucio  Quinzio, il  quale  scrisse  per  tenere  guardata  lacittà,  e difese  le  porte  e la  curia,  in ogni  caso  che  nascesse.  Oltre  a questoordinò  che  Orazio,  uno  de’ suoi  colleglli, provvedesse  1*  arme,  ed  il  frumento,  el’ altre  cose  che  richieggono  i tempi della  guerra.  Prepose  Cornelio,  ancorasuo  collega,  al  Senato  ed  al  pubblico consiglio,  acciocché  potesse  consigliarele  azioni  che  giornalmente  s’  avevano  a fare  ed  eseguire.  Iu  questo  modo  furo-no quelli  Tribuni,  in  quelli  tempi,  per la  salute  della  patria  disposti  a coman-dare e ad  ubbidire.  Notasi  per  questo testo,  quello  che  faccia  uno  uomo  buonoe savio,  e di  quanto  bene  sia  cagione, c quanto  utile  ei  possi  fare  alla  sua  pa-tria, quando,  mediante  la  sua  bontà  e virtù,  egli  ba  spenta  l’ invidia  ; la  qualeè molte  volte  cagione  che  gli  uomini rton  possono  operar  bene,  non  permet-tendo detta  invidia  che  gli  abbino  quella autorità  la  quale  è necessaria  averenelle  cose  d’ importanza.  Spegnesi  questa invidia  in  duoi  modi:  o per  qualcheaccidente  forte  e difficile,  dove  ciascuno veggendosi  perire,  posposta  ogni  ambi-zione, corre  volontariamente  ad  ubbidire a colui  che  crede  che  con  la  suavirtù  lo  possa  liberare:  come  intervenne a Cammillo;  il  quale  avendo  dato  disè  tanti  saggi  d’  uomo  eccellentissimo, ed  essendo  stato  tre  volte  Dittatore,  edavendo  amministrato  sempre  quel  grado ad  utile  pubblico,  e non  a propria  uti-lità, aveva  fatto  che  gli  uomini  non  te-mevano della  grandezza  sua  ; e per  essertanto  grande  e tanto  ripututo,  non  sti-mavano cosa  vergognosa  essere  inferio-re a lui.  E però  dice  Tito  Livio  saviamente  quelle  parole:  JSep  quicquam  eie.In  un  altro  modo  si  spegne  l’invidia, quando  o per  violenza  o per  ordine  na-turale muoiono  coloro  che  sono  stati tuoi  concorrenti  nel  venire  a qualcheriputazione  ed  a qualche  grandezza  ; i quali  veggendoti  riputato  più  di  loro,  èimpossibile  che  mai  acquieschino,  e stiano pazienti.  E quando  sono  uomini  eh»siano  usi  a vivere  in  una  citta  corrotta, dove  la  educazione  non  abbia  fattoin  loro  alcuna  bontà,  è impossibile  che per  accidente  alcuno  mai  si  indichino;e per  ottenere  la  voglia  loro,  e satisfare alla  loro  perversità  d’animo,  sarebberocontenti  vedere  la  rovina  della  loro  patria. A vincer  questa  invidia  non  ci  èaltro  rimedio  che  la  morte  di  coloro che  l’hanno;  e quando  la  fortuna  ètanto  propizia  a quell’  uomo  virtuoso, che  si  muoiano  ordinariamente,  diventasenza  scandalo  glorioso,  quando  senza ostacolo  e senza  offesa  ei  può  mostrarela  sua  virtù:  ma  quando  ei  non  abbi questa  ventura,  gli  conviene  pensare  perogni  via  torsegli  dinanzi;  e prima  che ei  facci  cosa  alcuna,  gli  bisogna  teneremodi  eli*  ei  vinca  questa  difTìcultà.  E chi legge  la  Bibbia  sensatamente,  vedràMoisè  essere  stato  sforzato,  a volere  che le  sue  leggi  e gli  suoi  ordini  andasseroinnanzi,  ad  ammazzare  infiniti  uomini, ì quali,  non  mossi  da  altro  che  da  in-vidia, si  opponevano  a*  disegni  suoi. Questa  necessità  conosceva  benissimofrate  Girolamo  Savonarola;  conoscevala ancora  Pietro  Soderini,  gonfaloniere  diFirenze.  V uno  non  potette  vincerla,  per non  avere  autorità  a poterlo  fare  (chefu  il  frate),  e per  non  essere  inteso  be-ne da  coloro  che  lo  seguitavano,  che  nearebbono  avuto  autorità.  Nondimeno  per lui  non  rimase,  e le  sue  prediche  sonopiene  d’  accuse  dei  savi  del  mondo,  e di invettive  contro  a loro;  perchè  chiama-va così  questi  invidi,  e quelli  che  si  opponevano agli  ordini  suoi.  Quell’ altrocredeva  col  tempo,  con  la  bontà,  con  la fortuna  sua,  con  beneficarne  alcuno,  spe-gner questa  invidia  ; vedendosi  d*  assai fresca  età,  e con  tanti  nuovi  favori  chegli  arrecava  il  modo  del  suo  procedere, che  credeva  poter  superare  quelli  tantiche  per  invidia  se  gli  opponevano,  senza alcuno  scandalo,  violenza  e tumulto  : enon  sapeva  che  M tempo  non  si  può aspettare,  la  bontà  non  basta,  la  fortu-na varia,  e la  malignità  non  trova  dono che  la  plachi.  Tanto  che  V uno  e l’altrodi  questi  due  rovinarono,  e la  rovina loro  fu  causata  da  non  aver  saputo  opotuto  vincere  questa  invidia.  1/  altro notabile  è 1’  ordine  che  Cammillo  dettedentro  e fuori  per  la  salute  di  Roma. E veramente,  non  senza  cagione,  gli  isto-rici buoni,  com’ è questo  nostro,  metto-no particolarmente  e distintamente  certicasi,  acciocché  i posteri  imparino  come gli  abbino  in  simili  accidenti  a difen-dersi. E debbesi  in  questo  testo  notare, che  non  è la  più  pericolosa  nè  la  piùinutile  difesa,  che  quella  che  si  fa  tu-multuariamente  e senza  ordine.  E que-sto si  mostra  per  quello  terzo  esercito che  Carminilo  fece  scrivere  per  lasciarloin  Roma  a guardia  della  città  : perchè molti  arebbero  giudicato  e giudichereb-bono  questa  parte  superflua,  scudo  quel popolo  per  1’  ordinario  armato  e belli-coso; e per  questo,  che  non  gli  biso-gnasse di  scriverlo  altrimente,  ma  ba-stasse farlo  armare  quando  il  bisogno venisse.  Ma  Cammillo,  e qualunche  fussesavio  come  era  esso,  la  giudica  altri-mente;  perchè  non  permette  mai  cheuna  moltitudine  pigli  1’  arme,  se  non  cou certo  ordine  e certo  modo.  E però,  iusu  questo  essempio,  uno  che  sia  preposto a guardia  d’  una  città,  debbe  fug-gire come  uno  scoglio  il  fare  armare gli  uomini  tumultuosamente;  ma  dcbbcprima  avere  scritti  e scelti  quelli  che voglia  s’  armino,  chi  gli  abbino  a ubbi-dire, dove  a convenire,  dove  andare;  ed a quelli  che  non  sono  scritti,  comanda-re che  stiano  ciascuno  alle  case  sue  a guardia  di  quelle.  Coloro  che  terrannoquesto  ordine  in  uiia  città  assaltata,  fa-cilmente si  potranno  difendere:  chi  faràaltrimenti,  non  imiterà  Cammillo,  e non si  difenderà. Le  repubbliche  forti  e gli uomini  eccellenti  ritengono  in  ognifortuna  il  medesimo  animo  e la  loro medesima  dignità.Intra  1*  altre  magnifiche  cose  che  il nostro  istorico  fa  dire  e fare  a Cammil-lo, per  mostrare  come  debbo  esser  fatto un  uomo  eccellente,  gii  mette  in  boccaqueste  parole:  iSec  mi  hi  diclattira  ani mo8  fecilj  nec  exilium  ademil.  Per  lequali  parole  si  Yede,  come  gli  uomini grandi  sono  sempre  io  ogni  fortunaquelli  medesimi  ; e se  la  varia,  ora  con esaltargli  ora  con  opprimergli,  quellinon  variano,  ma  tengono  sempre  P ani- mo fermo,  ed  in  tal  modo  congiuntocon  il  modo  del  vivere  loro,  che  fncil-mente  si  conosce  per  ciascuno,  la  for-tuna non  aver  potenza  sopra  di  loro. Altrimenti  si  governano  gli  uomini  de-boli; perchè  invaniscono  ed  inebriano nella  buona  fortuna,  attribuendo  tuttoil  bene  che  gli  hanno  a quelle  virtù  che' non  conobbero  mai.  D’onde  nasce  chediventano  insopportabili  ed  odiosi  a tutti coloro  che  gli  hanno  intorno.  Da  chepoi  dipende  la  subita  variazione  della sorte;  la  quale  come  veggono  in  viso,caggiono  subito  nell’  altro  difetto,  e diventano vili  ed  abietti.  Di  qui  nasce  chei principi  così  fatti  pensano  nella  avversità più  a fuggirsi  che  a difendersi,come  quelli  che  per  aver  male  usata  la buona  fortuna,  sono  ad  ogni  difesa  im-preparati. Questa  virtù  e questo  vizio, eh’  io  dico  trovarsi  in  uno  uomo  solo,  sitrova  ancora  in  una  repubblica:  ed  in fessempio  ci  sono  i Romani  ed  i Vini-ziani.  Quelli  primi,  nessuna  cattiva  sorte gli  fece  mai  divenire  abietti,  nè  nessu-na buona  fortuna  gli  fece  mai  essere  in-solenti;  come  si  vidde  manifestamentedopo  la  rotta  eli’  egli  ebbouo  a Canile, e dopo  la  vittoria  eli’  egli  ebbono  con-tea ad  Antioco;  perchè  per  quella  rot-ta, ancora  che  gravissima  per  esserstata  la  terza,  non  invilirono  mai;  e mandarono  fuori  eserciti;  non  vollenoriscattare  i loro  prigioni  contra  agli  or-dini loro;  non  mandarono  ad  Annibaieo a Cartagine  a chiedere  pace  : ma,  la-sciate stare  tutte  queste  cose  abiette  in-dietro, pensarono  sempre  alla  guerra  ; armando,  per  carestia  d’  uomini,  i vec-chi ed  i servi  loro.  La  qual  cosa  conosciuta da  Annoile  cartaginese,  come  disopra  si  disse,  mostrò  a quel  Senato quanto  poco  conto  s’ aveva  a teneredella  rotta  di  Canne.  E così  si  vidde come  i tempi  difficili  non  gli  sbigottiro-no, nè  gli  renderono  umili.  Dall’  altra parte,  i tempi  prosperi  non  gli  feceroinsolenti;  perchè  mandando  Antioco  oratori a Scipione  a chiedere  accordo,avanti  che  fussino  venuti  alla  giornata, e eh'  egli avesse perduto, Scipione glidelle certe condizioni della pace; quali erano  che  si  ritirasse  dentro  alla  Siria,ed  il  resto  lasciasse  nello  arbitrio  de’ Romani. Il  quale  accordo  ricusando  Antio-co, e venendo  alla  giornata,  e perdendola, rimandò  ambasciadori  a Scipione,con  commissione che pigliassero  tutte quelle  condizioni  erano  date  loro  da)vincitore:  ai  quali  non  propose  altri patti  che  quelli  s’avesse  offerti  innanziche  vincesse;  soggiungendo  queste  parole: quod  Romani j si  vincunluVj  nonminuunlur  animi s ; ncc  si  vincimi insolescere  solent.  Al  contrario  appunto  diquesto  s’è  veduto  fare  ai  Yiniziani:  i quali  nella  buona  fortuna,  parendo  loroaversela  guadagnata  con  quella  virtù  che non  avevano,  erano  venuti  a tanta  inso-lenza, che  chiamavano  il  re  di  Francia figliuolo  di  San  Marco;  non  stimavanola Chiesa  ; non  capivano  in  modo  alcuno in  Italia;  e avevansi  presupposto  nel-1’  animo  d’ aver  a fare  una  monarchia simile  alla  romana.  Dipoi,  come  la  buo-na  sorte  gli  abbandonò,  e eli’  egli  eb*bero  una  mezza  rotta  a Vaila  dal  re  diFrancia,  pcrderono  non  solamente  tutto lo  Stato  loro  per  ribellione,  ma  buonaparte  ne  dettero  ed  al  papa  ed  al  redi Spagna  per  viltà  ed  abiezione  d’animo;ed  in  tanto  invilirono,  che  mandarono nmbasciadori  allo  imperadore  a farsi(libatori;  e scrissono  al  papa  lettere piene  di  viltà,  e di  sommissione  permuoverlo  a compassione.  Alla  quale  in* felicità  pervennero  in  quattro  giorni,  edopo  una  mezza  rotta:  perchè  avendo combattuto  il  loro  esercito,  nel  ritirarsivenne  a combattere  ed  essere  oppresso circa  la  metà;  in  modo  che,  l’uno  de’provveditori  che  si  salvò,  arrivò  a Verona con  più  di  venticinquemila  soldati,intra  piè  e cavallo.  Talmentechè,  se  a Vinegia  e negli  ordini  loro  fusse  stataalcuna  qualità  di  virtù,  facilmente  si  po-tevano rifare,  e dimostrare  di  nuovo  ilviso  alla  fortuna  ed  essere  a tempo  o a vincere,  o a perdere  più  gloriosamente,o ad  avere  accordo  più  onorevole.  Ma  la viltà  dell’  animo  loro,  causata  dalla  qualità de’  loro  ordini  non  buoni  nelle  cose della  guerra,  gli  fece  ad  un  tratto  per-dere lo  Stato  e 1’  animo.  E sempre  intervewà  così  a qualunque  si  governi come  loro.  Perchè  questo  diventare  in-solente nella  buona  fortuna  ed  abiettonella  cattiva,  nasce  dal  modo  del  proceder tuo,  e dalla  educazione,  nella  qualetu  sei  nudrito:  la  quale  quando  è debole c vana,  ti  rende  simile  a sè:  quan-do-è stata  altrimenti,  ti  rende  ancora d’  un’  altra  sorte;  e facendoli  miglioreconoscitore  del  mondo,  ti  fa  meno  rallegrare del  bene,  e meno  rattristare  delmale.  E quello  che  si  dice  d’  un  solo,  si dice  di  molti  che  vivono  in  una  repubblica medesima;  i quali  si  fanno  di quella  perfezione,  che  ha  il  modo  del vivere  di  quella.  E benché  altra  volta  sisia  detto,  come  il  fondamento  di  tutti gli  Stali  è la  buona  milizia  ; e come  dove  non  è questa,  non  possono  essere  nè leggi  buone,  nè  alcuna  altra  cosa  buona ; non  mi  pare  superfluo  replicarlo  : perchè  ad  ogni  punto  nel  leggere  questa istoria  si  vede  apparire  questa  necessità; e si  vede  come  la  milizia  nonpuote  essere  buona,  se  la  non  è «ecci-tata; e come  la  non  si  può  esercitare,se  la  non  è composta  di  tuoi  sudditi. Perchè  sempre  non  si  sta  in  guerra,  nèsi  può  starvi  ; però  conviene  poterla  cser-, citare  a tempo  di  pace:  e con  altri  checon  sudditi  non  si  può  fare  questo  esercizio, rispetto  alla  spesa.  Era  Cammilloandato,  come  di  sopra  dicemmo,  con l’esercito  conira  ai  Toscani;  ed  avendoi suoi  soldati  veduto  la  grandezza  dello esercito  dei  nimici,  s’  erano  tutti  sbigot-titi, parendo  loro  essere  tanto  inferio-ri da  non  poter  sostenere  l’ impeto  diquelli.  E pervenendo  questa  mala  dispo-sizione del  campo  agli  orecchi  di  Cam-millo, si  mostrò  fuora,  ed  andando  par-lando per  il  campo  a questi  ed  a quellisoldati,  trasse  loro  del  capo  quella  op-pinione;  e nell’ultimo,  senza  ordinarealtrimenti  il  campo,  disse:  Quod  qinsque didicit,  aiti  consucvilj  facict.  E chi  con-sidererà bene  questo  termine,  e le  pa-role disse  loro,  per  inanimarli  a ire  con-tro al  nimici,  considererà  come  e’  non si  poteva  nè  dire  nè  far  fare  alcuna  diquelle  cose  ad  uno  esercito  che  prima non  fusse  stalo  ordinato  ed  esercitatoed  in  pace  ed  in  guerra.  Perchè  di  quelli soldati  che  non  hanno  imparato  a farcosa  alcuna,  non  può  un  capitano  fidar-si. e credere  che  faccino  alcuna  cosa  chestia  bene;  e se  gli  comandasse  un  nuo-vo Annibaie,  vi  rovinerebbe  sotto.  Per-chè, non  potendo  un  capitano  essere mentre  si  fa  la  giornata  in  ogni  parte,se  non  ha  prima  in  ogni  parte  ordinato di  potere  avere  uomini  che  abbino  lospirito  suo,  e bene  gli  ordini  ed  i modi del  procedere  suo,  conviene  di  necessitàche  ci  rovini.  Se,  adunque,  una  città sarà  armata  ed  ordinata  come  Roma;  cche  ogni  dì  ai  suoi  cittadini,  ed  in  par*ticolare  ed  in  pubblico,  tocchi  a fareisperienza  c della  virtù  loro,  e delia  po-tenza della  fortuna;  interverrà  sempreche  in  ogni  condizione  di  tempo  e’  siano dei  medesimo  animo,  e manterranno  lamedesima  loro  degnila:  ma  quaudo  e’  sia-no disarmati,  e che  si  appoggerannosolo  olii  impeti  della  fortuna,  e non  alla propria  virtù,  varieranno  col  variare  diquella,  e daranno  sempre  di  loro  quello essempio  che  hanno  dato  i Viniziani. Quali  modi  hanno  tentili alcuni  a turbare  una  pace.Essendosi  ribellate  dal  Popolo  romano Circe»  e V elitre,  due  sue  colonie,  sottosperanza  d’ esser  difese  dai  Latini;  ed essendo  dipoi  vinti  i Latini,  e mancandodi  quelle  speranze;  consigliavano,  assai cittadini  che  si  dovesse  mandare  a Romaoratori  a raccomandarsi  al  Senato  : il qual  partilo  fu  turbato  da  coloro  cheerano  stali  autori  della  ribellione,  i quali temevano  che  tutta  la  pena  non  si  vol- tasse sopra  le  teste  loro.  E per  tor  via ogni  ragionamento  di  pace,  incitarono la  moltitudine  ad  armarsi,  ed  a correr sopra  i confini  romani.  E veramente,quando  alcuno  vuole  o che  uno  popolo o un  principe  levi  al  tutto  1’  animo  dauno  accordo,  non  ci  è altro  modo  più vero  nè  più  stabile,  che  fargli  usarequalche  grave  scelleratezza  contro  a co-lui con  il  quale  tu  non  vuoi  che  l’ac-cordo si  faccia  : perchè  sempre  lo  terrà discosto  quella  paura  di  quella  pena  chea lui  parrà  per  lo  errore  commesso aver  meritata.  Dopo  la  prima  guerrache  i Cartaginesi  ebbono  coi  Romani, quelli  soldati  che  dai  Cartaginesi  eranostati  adoperati  in  quella  guerra  in  Si*cilia  ed  in  Sardigna,  fatta  che  fu  la  pa-ce, se  ne  andarono  in  Affrica;  dovè  non essendo  satisfatti  del  loro  stipendio,  mos-sono  l’armi  contra  ai  Cartaginesi;  e fatti  di  loro  due  capi,  Nato  e Spendio,occuparono  molte  terre  ai  Cartaginesi, e molte  ne  saccheggiarono.  I Cartagine-si, per  tentare  prima  ogni  altra  via  che la  zuffa,  mandarono  a quelli  ainbascia-dore  Asdrubale  loro  cittadino,  il  quale pensavano  avesse  alcuna  autorità  conquelli,  essendo  stato  per  lo  addietro  lor capitano.  Ed  arrivato  costui,  e volendoSpendio  e .Muto  obbligare  tutti  quelli  sol-dati a non  sperare  d’  aver  mai  più  pacecoi  Cartaginesi,  e per  questo  obbligarli alla  guerra;  persuasono  loro,  ch’egliera  meglio  ammazzare  costui,  con  lutti i cittadini  cartaginesi,  quali  erano  ap-presso loro  prigioni.  Donde,  non  sola-mente gli  ammazzarono,  ma  con  millesupplizii  in  prima  gli  straziarono  ; ag-giungendo a questa  scelleratezza  unoeditto,  che  tutti  i Cartaginesi  che  per  lo avvenire  si  pigliassino,  si  dovessino  insimil  modo  oecidere.  La  qual  dilibera-zione ed  esecuzione  fece  quello  esercitocrudele  ed  ostinato  contra  ai  Cartagi-nesi. Egli  è necessario , a vo-ler vincere  una  giornalaj  fare  lJ  eser-cito confidente  ed  infra  lorOj  e con  ilcapitano. A volere  che  uno  esercito  vinca  una giornata,  è necessario  farlo  confidente,in  modo  che  creda  dovere  in  ogni  modo vincere.  Le  cose  che  lo  fanno  confi-dente sono:  che  sia  armato  ed  ordinato bene;  conoschinsi  l’uno  1’ altro.  Nè  puònascer  questa  confidenza  o questo  ordi-ne, se  non  in  quelli  soldati  che  sononati  e vissuti  insieme.  Conviene  che  ’l capitano  sia  stimato,  di  qualità  che  con-fidino nella  prudenza  sua:  e sempre confideranno,  quando  lo  vegghino  ordi-nato, sollecito  ed  animoso,  e che  tenga bene  e con  riputazione  la  maestà  del grado  suo:  c sempre  la  manterrà,  quan-do gli  punisca  degli  errori,  e non  gli affatichi  invano;  osservi  loro  le  promes- se; mostri  facile  la  via  del  vincere; quelle  cose  che  discosto  potessino  mo-strare i pericoli,  le  nasconda,  le  alleggerisca. Le  quali  cose  osservate  bene,  sonocagione  grande  che  P esercito  confida,  e confidando  vince.  Usavano  i Romani  difar  pigliare  agli  eserciti  loro  questa  confidenza per  via  di  religione:  donde  na-sceva, che  con  gli  augurii  ed  auspizii creavano  i Consoli,  facevano  il  dcletto,partivano  con  li  eserciti,  e venivano  alla giornata:  e senza  aver  fatto  alcuna  diqueste  cose,  non  inai  arebbe  un  buon capitano  e savio  tentata  alcuna  fazione,giudicando  d’  averla  potuta  perdere  facilmente, se  i suoi  soldati  non  avesseroprima  inteso  gli  dii  essere  dalla  parte loro.  E quando  alcuno  Consolo,  o altroloro  capitano,  avesse  combattuto  contra agli  auspizii,  P arebbero  punito;  comee*  punirono  Claudio  Pulero.  E benché questa  parte  in  tutte  P istorie  romanesi  conosca,  nondimeno  si  pruova  più certo  per  le  parole  che  L.  usa  nellabocca  di  Appio  Claudio;  il  quale,  dolen-dosi  col  popolo  della  insolenza  de’ Tri-buni della  plebe,  e mostrando  che  me-diatiti quelli,  gli  auspizii  e 1’ altre  cosepertinenti  alla  religione  si  corrompeva-no, dice  così  : Etudaut  nttnc  licet  reli -gionem.  Quid  cnim  interest , si  pulii  non pasccnlur , si  ex  cavea  tardine  rxierint ,si  occinuerit  avis  ? Parva  sunt  hcec ; sed parva  isla  non  contemnendoj  major  e*nostri  maximam  Itane  Rcmpublicam  fe-cerunt.  Perchè  in  queste  cose  piccole  èquella  forza  di  tenere  uniti  e confidenti i soldati:  la  qual  cosa  è prima  cagioned’  ogni  vittoria.  Nondi  manco,  conviene con  queste  cose  sia  accompagnata  lavirtù:  altrimenti,  le  non  vogliono.  I Pre- nestini,  avendo  contra  ai  Romani  fuoriil  loro  esercito,  se  n*  andarono  ad  al-loggiare in  sul  fiume  d’  Allia,  luogo  do-ve i Romani  furono  vinti  da*  Franciosi  ; il  che  fecero  per  metter  fiducia  nei  lorosoldati,  e sbigottire  i Romani  per  la fortuna  del  luogo.  E benché  questo  loropartito  fusse  probabile,  per  quelle  ra-gioni  che  di  sopra  si  sono  discorse  ;nientedimeno  il  (ine  della  cosa  mostrò, che  la  vera  virtù  non  teme  ogni  mini-mo accidente.  Il  che  l’ istorico  benissi-mo dice  con  queste  parole,  in  bocca  po-ste del  Dittatore,  che  parla  così  al  suo Maestro  de’  cavagli  : Vides  tu,  fortunaillos  fvelos  ad  Alliam  conscdisse  ; al  tu, frelus  armis  animisque,  invade  medianiacietn.  Perchè  una  vera  virtù,  un  ordi-ne buono,  una  sicurtà  presa  da  tantevittorie,  non  si  può  con  cose  di  poco momento  spegnere;  nè  una  cosa  vanafa  lor  paura,  nè  un  disordine  gli  offen-de: come  si  vede  certo,  che  essendo  dueManlii  consoli  contra  ai  Volsci,  per  aver mandato  temerariamente  parte  del  cam-po a predare,  ne  seguì  che  in  un  tem-po e quelli  che  erano  iti,  e quelli  cheerano  rimasti,  si  trovarono  assediati; dal  qual  pericolo  non  la  prudenza  deiConsoli,  ma  la  virtù  de’ propri  soldati gli  liberò.  Dove  Tito  Livio  dice  questeparole:  Militimi,  etiam  sine  reclorc , sta -bilia  virtus  lutala  est.  Non  voglio  lascia-re indietro  un  termine  usato  da  Fabio, sendo  entrato  di  nuovo  con  V esercitoin  Toscana,  per  farlo  confidente;  giudi-cando quella  tal  fidanza  esser  più  ne-cessaria per  averlo  condotto  in  paese nuovo,  e contra  a ninnici  nuovi  : che,parlando  avanti  la  zuffa  ai  soldati,  e detto  eli*  ebbe  molte  ragioni,  mediantele  quali  e’  potevano  sperare  la  vittoria, disse  che  potrebbe  ancora  loro  dire  certecose  buone,  e dove  e’  vedrebbono  la  vit-toria certa,  se  non  fusse  pericoloso  il  ma-nifestarle. Il  qual  modo  come  fu  savia-mente usato,  così  merita  d’essere  imitato. XXXIV.  — Quale  fama  o voce  o oppiatone  fa  che  il  popolo  comincia a favorire  un  cittadino:  e se  ei  di-stribuisce i magistrati  con  maggior prudenza  che  un  principe. Altra  volta  parlammo  come  Tito  Manlio, clic  fu  poi  detto  Torquato,  salvò  Lu-ciò  Manlio  suo  padre  da  una  accusa  clic gli  aveva  fatta  Marco  Pomponio  tribuno della  plebe.  E benché  il  modo  del  salvarlo fusse  alquanto  violento  ed  istraor-dinario,  nondimeno  quella  Oliale  pietà verso  del  padre  fu  tanto  grata  all’uni-versale, che  non  solamente  non  nc  furipreso,  ma  avendosi  a fare  i Tribuni delle  legioni,  fu  fatto  Tito  Manlio  nelsecondo  luogo.  Per  il  quale  successo, credo  che  sia  bene  considerare  il  modoche  tiene  il  popolo  a giudicare  gli  uo-mini nelle  distribuzioni  sue;  e che  perquello  noi  veggiamo,  se  egli  è vero  quanto di  sopra  si  conchiuse,  che  il  popolo  siamigliore  distributore  che  un  principe. Dico,  adunque,  come  il  popolo  nel  suodistribuire  va  dietro  a quello  che  si  dice d’uno  per  pubblica  voce  e fama,  quandoper  sue  opere  note  non  lo  conosce  al-trimenti; o per  presunzione  o oppinioneche  s’ ha  di  1 ni.  Le  quali  due  cose  sono causate  o dai  padri  di  quelli  tali,  cheper  esser  stati  grandi  uomini  e valenti nelle  città,  si  crede  che  i figliuoli  deb-bino esser  simili  a loro,  infino  a tanto che  per  l’ opere  di  quelli  non  s’intendeil  contrario;  o la  è causata  dai  modi che  tiene  quello  di  chi  si  parla.  I modimigliori  che  si  possono  tenere,  sono  : avere compagnia  d’uomini  gravi,  di  buoni  co-stumi, e riputati  savi  da  ciascuno.  E per-chè nessuno  indizio  si  può  aver  mag-giore d’uii  uomo,  che  le  compagnie  con quali  egli  usa;  meritamente  uno  che  usacon  compagnia  onesta,  acquista  buon nome,  perchè  è impossibile  che  non  ab-bia qualche  similitudine  con  quella.  0 veramente  s’  acquista  questa  pubblicafama  per  qualche  azione  istraordinaria e notabile,  ancora  che  privata,  la  qualeti  sia  riuscita  onorevolmente.  E di  tutte tre  queste  cose  che  danno  nel  principiobuoua  riputazione  ad  uno,  nessuna  la dà  maggiore  che  questa  ultima  : perchèquella  prima  de’  parenti  e de’  padri  è sì  fallace,  che  gli  uomini  vi  vanno  arilento  ; ed  in  poco  si  consuma,  quando la  virtù  propria  di  colui  che  ha  ad  es-sere giudicato  non  I’  accompagna.  La seconda  che  ti  fa  conoscere  per  via  dellepratiche  tue,  è miglior  della  prima,  ma è mollo  inferiore  alla  terza  ; perchè,  in-fino a tanto  che  non  si  vede  qualche segno  che  nasca  da  te,  sta  la  riputa-zione tua  fondata  in  su  V oppili  ione,  la quale  è facilissima  a cancellarla.  Maquella  terza,  essendo  principiata  e fon-data in  su  le  opere  lue,  ti  dà  nel  prin-cipio tanto  nome,  che  bisogna  bene  che tu  operi  poi  molte  cose  contrarie  a questo, volendo  annullarla.  Debbono,  adun-que, gli  uomini  che  nascono  in  unarepubblica  pigliare  questo  verso,  ed  in- gegnarsi con  qualche  operazione  istraor-dinaria  cominciare  a rilevarsi.  Il  che molti  a Roma  in  gioventù  feciono  o conil  promulgare  una  legge  che  venisse  in comune  utilità  ; o con  accusare  qualchepytente  cittadino  come  transgressore delle  leggi;  o col  fare  simili  cose  nota-bili c nuove,  di  che  s’  avesse  a parlare. Nè  solamente  sono  necessarie  simili  coseper  cominciare  a darsi  riputazione,  ma sono  ancora  necessarie  per  mantenerlaed  accrescerla.  Ed  a voler  fare  questo, bisogna  rinnovarle;  come  per  tutto  iltempo  della  sua  vita  fece  Tito  Manlio: perchè,  difeso  eh’  egli  ebbe  il  padretanto  virtuosamente  e straordinariamen-te, e per  questa  azione  presa  la  primareputazione  sua,  dopo  certi  anni  com-battè con  quel  Francioso,  e morto  glitrasse  quella  collana  d’oro  che  gli  dette il  nome  di  Torquato.  Non  bastò  questo,che  dipoi,  già  in  età  matura,  ammazzò il  figliuolo  per  aver  combattuto  senzalicenza,  ancora  ch’egli  avesse  superato il  nimico.  Le  quali  tre  azioni  allora  glidettono  più  nome  e per  tutti  i secoli  lo fanno  più  celebre,  che  non  lo  fece  alcunotrionfo,  alcuna  vittoria,  di  che  egli  fu  or-natoquanto alcun  altro  Romano.  E la  ca-gione è perchè  in  quelle  vittorie  Manlio ebbe  moltissimi  simili;  in  queste  partico-lari azioni  n’ebbe  o pochissimi  o nessuno.  A Scipione  maggiore  non  arrecaronotanta  gloria  tutti  i suoi  trionfi,  quanto gli  dette  l'avere,  ancora  giovinetto,  insul  Tesino  difeso  il  padre;  e l’aver,  dopo la  rotta  di  Canne,  animosamente  con  laspada  sguainata  fatto  giurare  più  gio-veni  romani,  che  ei  non  abbandonerei)-bono  Italia,  come  di  già  intra  loro  ave-vano diliberato:  le  quali  due  azioni  fu-rono principio  alla  riputazione  sua,  e gli  fecero  scala  ai  trionfi  della  Spagnae dell’  Affrica.  La  quale  oppinione  da  lui fu  ancora  accresciuta,  quando  ei  ri-mandò la  figliuola  al  padre  e la  moglie al  marito  in  Ispagna.  Questo  modo  delprocedere  non  è necessario  solamente a quelli  cittadini  che  vogliono  acqui-star fama  per  ottenere  gli  onori  nella loro  repubblica,  ma  è ancora  necessa-rio ai  principi  per  mantenersi  la  riputazione nel  principato  loro  : perchè nessuna  cosa  gli  fa  tanto  stimare,  quanto dare  di  sè  rari  esempi  con  qualche fatto  o detto  raro,  conforme  al  bene comune,  il  quale  mostri  il  signore  o magnanimo  o liberale  o giusto,  e che sia  tale  che  si  riduca  come  in  proverbio intra  i suoi  soggetti.  Ma,  per  tornare donde  noi  cominciammo  questo discorso,  dico  come  il  popolo  quando ei  comincia  a dare  un  grado  ad  un  suo cittadino,  fondandosi  sopra  quelle  tre cagioni  soprascritte,  non  si  fonda  male; ma  quando  poi  gli  assai  essempi  de’  buoni portamenti  d’uno  lo  fanno  più  noto, si  fonda  meglio,  perchè  in  tal  caso  non può  essere  che  quasi  mai  s’ inganni,  lo parlo  solamente  di  quelli  gradi  che  si danno  agli  uomini  nel  principio,  avanti che  per  ferma  isperienza  siano  conosciuti, o che  passano  da  una  azione  ad un’altra  dissimile:  dove,  e quanto  alia falsa  oppinione,  e quanto  alla  corruzione, sempre  fanno  minori  errori  che i principi.  E perchè  e’  può  essere  che  i popoli  s’  ingannerebbono  della  fama, della  oppinione  e delle  opere  d’  uno uomo  stimandole  maggiori  che  in  verità non  sono;  il  che  non  interverrebbe  aduno  principe,  perchè  gli  sarebbe  detto, e sarebbe  avvertito  da  chi  lo  consiglias-se : perchè  ancora  i popoli  non  manchino di  questi  consigli,  i buoni  ordi-natori delle  repubbliche  hanno  ordinalo che,  avendosi  a creare  i supremi  gradinelle  città,  dove  fusse  pericoloso  mettervi uomini  insufficienti,  e reggendosila  voglia  popolare  esser  diritta  a creare alcuno  che  fusse  insuffiziente,  sia  lecitoad  ogni  cittadino,  e gli  sia  imputato  a gloria,  di  pubblicare  nelle  concioni  i di-fetti di  quello,  acciocché  il  popolo,  non mancando  della  sua  conoscenza,  possameglio  giudicare.  E che  questo  si  usasse a Roma,  ne  rende  testimonio  la  ora-zione di  Fabio  Massimo,  la  quale  ei  fece al  Popolo  nella  seconda  guerra  punica,quando  nella  creazione  dei  Consoli  i favori  si  volgevano  a creare  Tito  Otta-cilio;e  giudicandolo  Fabio  insuffiziente a governare  in  quelli  tempi  il  consolato, gli  parlò  contro,  mostrando  la  insuffi*ziciua  sua  ; tanto  che  gli  tolse  quel  grado, e volse  i favori  del  Popolo  a chi più  lo  meritava  che  lui.  Giudicano,  adunque, i popoli  nella  elezione  a’ magistrati secondo  quei  contrassegni  che  degli  uo- mini si  possono  aver  più  veri;  e quando ei  possono  esser  consigliati  come  i principi, errano  meno  che  i principi;  e quel cittadino  che  voglia  cominciare  ad  avere i favori  del  popolo,  debbe  con  qualche fatto  notabile,  come  fece  Tito  Manlio, guadagnarseli. Quali  perìcoli  si  portino nel  farsi  capo  a consigliare  una  cosa  ;e quanto  ella  ha  più  dello  straordinario,  maggiori  pericoli  vi  si  corrono. Quanto  sia  cosa  pericolosa  farsi  capo d’  una  cosa  nuova  che  appartenga  a molti,  e quanto  sia  difficile  trattarla  ed a condurla  ; e condotta,  a mantenerla, sarebbe  troppo  lunga  e troppo  alta  maleria  a discorrerla:  però,  riserbandola a luogo  più  conveniente,  parlerò  solo  di quelli  pericoli  che  portano  i cittadini,  o quelli  che  consigliano  uno  principe  a farsi  capo  d’ una  diliberazione  grave  ed importante,  in  modo  che  tutto  il  consi-glio d’  essa  sia  imputato  a lui.  Perchè, giudicando  gli  uomini  le  cose  dal  fine, tutto  il  male  che  ne  risulta,  s’ imputa all’autore  del  consiglio;  e se  ne  risulta bene,  ne  è commendato:  ma  di  lunga  il premio  non  contrappesa  il  danno.  Il  pre-sente Sultan  Sali,  dello  Gran  Turco,  essendosi preparato  (secondo  che  uè  ri- feriscono alcuni  che  vengono  de’  suoi paesi)  di  fare  l’ impresa  di  Soria  e di Egitto,  fu  confortato  da  un  suo  Rascia, quale  ei  teneva  ai  confini  di  Persia,  d’an-dare contea  al  Sofi:  dal  quale  consiglio mosso,  andò  con  esercito  grossissimo  a quella  impresa;  ed  arrivando  in  paese larghissimo,  dove  sono  assai  deserti  e le  fiumare  rade,  e trovandovi  quelle diflìculta  che  già  fecero  rovinare  molli eserciti  romani,  fu  in  modo  oppressalo da  quelle,  che  vi  perdè  per  fame  e per peste,  ancora  che  nella  guerra  fusse  superiore, gran  parte  delle  sue  genti  : tal- ché irato  contro  all’autore  del  consiglio, l’ammazzò.  Leggesi,  assai  cittadini  stati confortatori  d’  una  impresa,  e per  avere avuto  quella  tristo  fine,  essere  stati  man- dati in  esilio.  Fecionsi  capi  alcuni  cittadini romani,  che  si  facesse  in  Roma il  Consolo  plebeo.  Occorse  che  il  primo che  uscì  fuori  con  gli  eserciti,  fu  rotto  ; onde  a quelli  consigliatori  sarebbe  avvenuto qualche  danno,  se  non  fusse  stata tanto  gagliarda  quella  parte,  in  onore della  quale  tale  diliberazione  era  venuta. È cosa  adunque  certissima,  che  quelli che  consigliano  una  repubblica,  e quelli che  consigliano  un  principe,  sono  posti intra  queste  angustie,  che  se  non  con-sigliano le  cose  che  paiono  loro  utili,  o per  la  città  o per  il  principe,  senza  ri-spetto, ei  mancano  dell’ uffìzio  loro;  se le  consigliano,  egli  entrano  nel  pericolo della  vita  e dello  Stato:  essendo  lutti gli  uomini  in  questo  ciechi,  di  giudi-care i buoni  e cattivi  consigli  dal  fine. E pensando  in  che  modo  ei  potessino fuggire  o questa  infamia  o questo  pericolo, non  ci  veggo  altra  via  che  pi- gliar le  cose  moderatamente,  e non  ne prendere  alcuna  per  sua  impresa,  e dire V oppinione  sua  senza  passione,  e senza passione  con  modestia  difenderla  : in  modo che,  se  la  città  o il  principe  la  segue, (die  la  segua  volontario,  e non  paia  che vi  venga  tirato  dalla  tua  importunità. Quando  tu  faccia  così,  non  è ragione- vole che  un  principe  ed  un  popolo  del tuo  consiglio  ti  voglia  male,  non  essendo seguito  contra  alla  voglia  di  molti  : perchè quivi  si  porta  pericolo  dove  molti  han- no contradetto,  i quali  poi  nello  infelice fine  concorrono  a farti  rovinare.  E se in  questo  caso  si  manca  di  quella  gloria che  si  acquista  nell’  esser  solo  contra molti  a consigliare  una  cosa,  quando ella  sortisce  buon  fine,  ci  sono  al  riucontro  due  beni  : il  primo,  di  mancare del  pericolo  ; il  secondo,  che  se  tu  con- sigli una  cosa  modestamente,  e per  la contradizione  il  tuo  consiglio  non  sia preso,  e per  il  consiglio  d’altrui  ne  seguiti qualche  rovina,  ne  risulta  a te grandissima  gloria.  E benché  la  gloria che  s’acquista  de’ mali  che  abbia  o la tua  città  o il  tuo  principe,  non  si  possa godere,  nondimeno  è da  tenerne  qualcheconto.  Altro  consiglio  non  credo  si  possa dare  agli  uomini  in  questa  parte:  per-chè consigliandogli  che  tacessino,  e non dicessino  I’  oppinione  loro,  sarebbe  cosainutile  alla  repubblica  o ai  loro  principi, e non  fuggirebbono  il  pericolo  ; perchèin  poco  tempo  diventerebbono  sospetti: e ancora  potrebbe  loro  intervenire  co-me a quelli  amici  di  Perse  re  dei  Macedoni, il  quale  essendo  stato  rotto  daPaulo  Emilio,  c fuggendosi  con  pochi amici,  accadde  che  nel  replicar  le  cosepassate,  uno  di  loro  cominciò  a dire  a Perse  molti  errori  fatti  da  lui,  che  eranostati  cagione  della  sua  rovina;  al  quale Perse  rivoltosi,  disse:  Traditore,  si  chetu  hai  indugiato  a dirmelo  ora  ch’io non  ho  più  rimedio;  e sopra  queste  pa-role, di  sua  mano  l’ammazzò.  E cosi colui  portò  la  pena  d’essere  stato  chetoquando  ci  doveva  parlare,  e d’aver  parlato quando  ei  doveva  tacere;  nè  fuggiil  pericolo  per  non  avere  dato  il  consiglio. Però  credo  che  sia  da  tenere  edosservare  i termini  soprascritti.   La  cagione  perchè  « Fran-ciosi sono  stali  e sono  ancora  giudicati nelle  zuffe  da  principio  più  cheuomini j e dipoi  meno  che  femmine. La  ferocità  di  quel  Francioso  che  pro-vocava qualunque  Romano  appresso  al Piume  Aniene  a combatter  seco,  dipoila  zuffa  falla  intra  lui  e Tito  Manlio, mi  fa  ricordare  di  quello  che  Tito  Liviopiù  volte  dice,  che  i Franciosi  sono  ne principio  della  zuffa  più  che  uomini,  enel  successo  di  combattere  riescono  poi meno  che  femmine.  E pensando  dondequesto  nasca,  si  crede  per  molti  che  sia la  natura  loro  così  fatta:  il  che  credosia  vero;  ma  non  è per  questo,  che questa  loro  natura  che  gli  fa  feroci  nelprincipio,  non  si  potesse  in  modo  con I*  arte  ordinare,  che  la  gli  mantenesseferoci  infino  nell’  ultimo.  Ed  a voler provare  questo,  dico  come  e’  sono  di  treragioni  eserciti:  V uno  dove  è furore  ed ordine;  perchè  dall’  ordine  nasce  il  furo-re e la  virtù,  come  era  quello  dei  Romani: perchè  si  vede  in  tutte  l’ istorie,clic  in  quello  esercito  era  uno  ordine buono,  che  v’  aveva  introdotto  una  di-sciplina militare  per  lungo  tempo.  Perchè in  uno  esercito  bene  ordinato,  nes-suno debbe  fare  alcuna  opera  se  non regolato:  e si  troverà  per  questo,  chenello  esercito  romano,  dal  quale,  avendo egli  vinto  il  mondo,  debbono  prendereessempio  tutti  gli  altri  eserciti,  non  si mangiava,  non  si  dormiva,  non  si  mer-calava,  non  si  faceva  alcuna  azione  o militare  o domestica  senza  l'ordine  delconsolo.  Perchè  quelli  eserciti  che  fanno altrimenti,  non  sono  veri  eserciti;  c sefanno  alcuna  pruova,  la  fanno  per  furore e per  impeto,  non  per  virtù.  Mudove  è la  virtù  ordinata,  usa  il  furore suo  coi  modi  e co’ tempi;  nè  diflicultàveruna  lo  invilisce,  nè  gli  fa  mancare l'animo:  perchè  gli  ordini  buoni  glirinfrescano  l’ animo  ed  il  furore,  nutriti dalla  speranza  del  vincere;  la  qualemai  non  manca,  infìno  a tanto  che  gli ordini  stanno  saldi.  Al  contrario  inter-viene in  quelli  eserciti  dove  è furore  c non  ordine,  come  erano  i franciosi  : iquali  tuttavia  nel  combattere  mancavano; perchè  non  riuscendo  loro  col  primoimpeto  vincere,  e non  essendo  sostenuto da  una  virtù  ordinata  quello  loro  furorenel  quale  egli  speravano,  nè  avendo  fuori di  quello  cosa  in  la  quale  ei  confidassi-no,  come  quello  era  raffreddo,  mancavano. Al  contrario  i Romani,  dubitandomeno  dei  pericoli  per  gli  ordini  loro buoni,  non  diffidando  della  vittoria,  fer-mi ed  ostinali  combattevano  col  medesimo animo  e con  la  medesima  virtùnel  fine  che  nel  principio:  anzi,  agitati dall’  arme,  sempre  s’ accendevano.  Laterza  qualità  d’eserciti,  è,  dove  non  è furore  naturale,  nè  ordine  accidentale:come  sono  gli  eserciti  nostri  italiani de’  nostri  tempi,  i quali  sono  al  tuttoinutili;  e se  non  si  abbattono  ad  uno esercito  che  per  qualche  accidente  sifugga,  mai  non  vinceranno.  E senza  addurne altri  essempi,  si  vede  ciascunodi  come  ei  fanno  pruove  di  non  avere alcuna  virtù.  E perchè  con  il  testimonio di  Tito  Livio  ciascuno  intenda  come debbe  esser  fatta  la  buona  milizia,e come  è fatta  la  rea;  io  voglio  addurre le  parole  di  Papirio  Cursore,  quando  eivoleva  punire  Fabio  maestro  de’ cavalli, quando  disse:  Nano  hominum y nanoDeorum  verecundiam  hubcat  ; non  cdù da  impcralorum^  non  auspicio,  obser-ventar:  sine  commenta , vagì  tnililcs  in pacato , in  hostico  errcnt;  immcmoressacramenti , se  ubi  velini  exauctorenl /infrequentia  deserant  tigna ; ncque  con -veniant  ad  edictum,  nec  discernant  interdiuj  nodo  ; (equo,  iniquo  loco,  jussu,injussu  imperatorie  pugncnt  ; et  non sigila,  non  ordines  serventi  lalroctntimodo,  cieca  et  fortuita,  prò  solcami  et sacrala  rnilitia  sit.  Puossi  per  questotesto,  adunque,  facilmente  vedere,  se  la milizia  de’  nostri  tempi  è cieca  e fortuita,o sacrata  e solenne  j e quanto  le  manca  ad esser  simile  a quella  die  si  può  chiamarmilizia  ; e quanto  ella  è discosto  da. essere furiosa  ed  ordinala  come  la  roma-na, o furiosa  solo  come  la  franciosa. Se  le  piccole  battaglieinnanzi  alla  giornata  sono  necessarie, e come  si  debbe  fare  a conoscere  unnimico  nuovo , volendo  fuggire  quelle. E’  pare  che  nelle  azioni  degli  uomini,come  altre  volte  abbiamo  discorso,  si tvuovi,  oltre  all’  altre  diftìcultà,  nel  vo-ler condurre  la  cosa  olla  sua  perfezione, che  sempre  propinquo  al  bene  siaqualche  male,  il  quale  con  quel  bene  sì facilmente  nasce,  che  pare  impossibilepoter  mancare  dell’  uno  volendo  I’  altro. E questo  si  vede  in  tutte  le  cose  chegli  uomini  operano.  E però  s’  acquista il  bene  con  diftìcultà,  se  dalla  fortunatu  non  se’  aiutato  in  modo,  che  ella  con la  sua  forza  vinca  questo  ordinario  enaturale  inconveniente.  Di  questo  mi  ha fatto  ricordare  la  zuffa  di  Manlio  Tor-quato e dei  Fraucioso,  dove  Tito  Livio dice:  Tanti  ca  dimicatio  ad  universibelli  eventtim  momenti  fuitj  ut  Gallorum excrciluSj  relictis  trepide  castri s,in  Tiburlem  agrum , inox  in  Campaniam transierit.  Perchè  io  considero  dall’  uncanto,  che  un  buon  capitano  debbe  fuggire al  tutto  di  operare  alcuna  cosa  che,essendo  di  poco  momento,  possa  fare cattivi  effetti  nel  suo  esercito:  perchècominciare  una  zuffa  dove  non  si  opel ino  tutte  le  forze  e vi  si  arrisichi  tuttala  fortuna,  è cosa  al  tutto  temeraria; come  io  dissi  di  sopra,  quando  io  dan-nai il  guardare  de’  passi.  Dall’  altra  parte io  considero  come  capitani  savi,  quandoei  vengono  all’  incontro  d’  un  nuovo  nimico, e che  sia  riputato,  ei  sono  neces-sitati, prima  che  venghino  alia  giornata, far  provare  con  leggieri  zuffe  ai  lorosoldati  tali  nimici;  acciocché  cominciandogli a conoscere  c maneggiare,  perdinoquel  terrore  che  la  fama  e la  riputazione aveva  dato  loro.  E questa  partein  un  capitano  è importantissima  ; perchè ella  ha  in  sé  quasi  una  necessità  cheti  constringe  a farla,  parendoti  andare ad  una  manifesta  perdita,  senza  averprima  fatto  con  piccole  isperienze  deporre ai  tuoi  soldati  quello  terrore  chela  riputazione  del  nimico  aveva  messo negli  animi  loro.  Fu  Valerio  Corvinomandato  dai  Romani  con  gli  eserciti contro  ai  Sanniti,  nuovi  nimici,  e cheper  lo  addietro  mai  non  avevano  provate  1*  arme  1’  uno  dell’  altro;  dove  diceTito  Livio,  che  Valerio  fece  fare  ai  Romani coi  Sanniti  alcune  leggieri  zuffe:jV©  eos  novum  bellutn , ne  novus  hoslis . lerreret.  Nondimeno  è pericolo  grandis-simo, che  restando  i tuoi  soldati  in  quelle battaglie  vinti,  la  paura  e la  viltà  noncresca  loro,  e ne  conseguitino  contrari effetti  ai  disegni  tuoi;  cioè  che  tu  glisbigottisca,  avendo  disegnalo  d’  assicurarli: tanto  che  questa  è una  di  quellecose  che  ha  il  male  sì  propinquo  al  bene, e tanto  sono  congiunti  insieme,  che  gliè facil  cosa  prendere  l’ uno  credendo pigliar  P altro.  Sopra  che  io  dico,  che• un  buon  capitano  debbo  osservare  con ogni  diligenza,  che  non  surga  alcunacosa  che  per  alcuno  accidente  possa  torre Panimo  alP  esercito  suo.  Quello  che  glipuò  torre  P animo  è cominciare  a perdere; e però  si  debbe  guardare  dallezuffe  piccole,  e non  le  permettere  se non  con  grandissimo  vantaggio  e concerta  speranza  di  vittoria  ; non  debbo fare  impresa  di  guardar  passi,  dovenon  possa  tenere  tutto  l’esercito  suo: non  debbe  guardare  terre,  se  non  quelleche  perdendole  di  necessità  ne  seguisse la  rovina  sua;  e quelle  che  guar-da, ordinarsi  in  modo,  e con  le  guardie d’  esse  e con  l’esercito,  clic  trat-tandosi della  espugnazione  di  esse,  ei possa  adoperare  tutte  le  forze  sue;P altre  debbe  lasciare  indifese.  Perchè ogni  volta  che  si  perde  una  cosa  che  siabbandoni,  e P esercito  sia  ancora  insieme, e’  non  si  perde  la  riputazione  dellaguerra,  nè  la  speranza  di  vincerla:  ma quando  si  perde  una  cosa  che  tu  haidisegnata  difendere,  e ciascuno  crede  che tu  la  difenda,  allora  è il  danno  e la  per-dita ; ed  hai  quasi,  come  i Franciosi,  con una  cosa  di  piccolo  momento  perduta  laguerra.  Filippo  di  Macedonia  padre  di Perse,  uomo  militare  e di  gran  condizione ne’  tempi  suoi,  essendo  assaltato dai  Romani;  assai  de’  suoi  paesi,  i qualiei  giudicava  non  potere  guardare,  abbandonò  e guastò  scoine  quello  che,  peressere  prudente,  giudicava  più  pernicioso perdere  la  riputazione  col  non  potere difendere  quello  che  si  metteva  a difendere,  che  lasciandolo  in  preda  alnimico,  perderlo  come  cosa  negletta.  I Romani,  quando  dopo  la  rotta  di  Cannele  cose  loro  erano  afflitte,  negarono  a molti  loro  raccomandati  e sudditi  li  aiuti,commettendo  loro  che  si  difendessino  il meglio  potessino.  I quali  partiti  sonomigliori  assai,  che  pigliare  difese,  e poi non  le  difendere:  perchè  in  questo  par-tito si  perde  amici  e forze;  in  quello, amici  solo.  Ma  tornando  alle  piccole  zuffe, dico  che  se  pure  un  capitano  è costretto per  la  novità  del  nimico  far  qualche  zuffa, debbe  farla  con  tanto  suo  vantaggio,  che non  vi  sia  alcun  pericolo  di  perderla  : o veramente  far  come  Mario  (il  che  è migliore  partito),  il  quale  andando  contro ai  Cimbri,  popoli  ferocissimi,  che venivano  e predare  Italia,  e venendo  con uno  spavento  grande  per  la  ferocità  e moltitudine  loro,  e per  avere  di  già  vinto un  esercito  romano  ; giudicò  Mario  esser necessario,  innanzi  che  venisse  alla  zuffa, operare  alcuna  cosa  per  la  quale  l’ esercito suo  deponesse  quel  terrore  che  la paura  del  nimico  gli  aveva  dato;  e,  come prudentissimo  capitano,  più  che  una volta  collocò  l’esercito  suo  in  luogo  donde i Cimbri  con  1*  esercito  loro  dovessino passare.  E così,  dentro  alle  fortezze  del suo  campo,  volle  che  i suoi  soldati  gli vedessino,  ed  assuefacessino  gli  occhi alla  vista  di  quello  nimico  ; acciochè,  vedendo una  moltitudine  inordinata,  piena di  impedimenti,  con  arme  inutili,  e parte disarmati,  si  rassicurussino,  e diventassino  disiderosi  della  zuffa.  11  quale  partito come  fu  da  Mario  saviamente  preso, così  dagli  altri  debbe  essere  diligentemente imitato,  per  non  incorrere  in quelli  pericoli  che  io  di  sopra  dico,  e non  avere  a fare  come  i Franciosi,  qui ob  rem  parvi  ponderis  trepidi iti  Tiburietn  agrum  et  in  Campaniam  transierunt.  E perchè  noi  abbiamo  allegato in  questo  discorso  Valerio  Corvino,  voglio, mediatiti  le  parole  sue,  nel  seguente capitolo,  come  debbe  esser  fatto  un  capitano, dimostrare. Come  debbe  esser  fatto un  capitano  nel  quale  V esercito  suo possa  confidare. Era,  come  di  sopra  dicemmo,  Valerio Corvino  con  1’  esercito  contea  ai  Sanniti,  *nuovi  nimici  del  Popolo  romano:  donde che,  per  assicurare  i suoi  soldati,  e per fargli  conoscere  i nimici,  fece  fare  ai suoi  certe  leggieri  zuffe  j nè  gli  bastando questo,  volle  avanti  alla  giornata  parlar loro,  e mostrò  con  ogni  efficacia  quanto e'  dovevano  stimare  poco  tali  nimici,  al-legando la  virtù  de’ suoi  soldati  e la  propria. Dove  si  può  notare,  per  le  parole che  Livio  gli  fa  dire,  come  debbe  essere fatto  un  capitano  in  chi  I’  esercito  abbia a confidare  j le  quali  parole  sono  queste: Tutti  ctiam  intuerì  cujtis  ductu  auspi- cioque  ineunda  pugna  sii:  ulritm  qui audtcndus  dumlaxat  magnifìcus  adhor- tator  sit,  ver  bis  tantum  ferox , operimi mililarium  expers  ; an  qui,  et  ipsc  tela frodare,  procedere  ante  signa,  versavi media  in  mole  pugna  sciai.  Facla  mea, non  dieta  vos  militcs  sequi  volo  ; nec disciplinavi  modo,  sed  cxcmplum  ctiam a me  potere , qui  hac  dextra  tnihi  tres consulalus,  summamque  laudem  pepcri. Le  quali  parole  considerate  bene,  insegnano a qualunque,  come  ei  debbe  procedere a voler  tenere  il  grado  del  capitano : e quello  che  sarà  fatto  altrimenti, troverà,  con  il  tempo,  quel  grado,  quando per  fortuna  o per  ambizione  vi  sia  con- dotto, torgli  e non  dargli  riputazione; perchè  non  i titoli  illustrano  gli  uomini, ma  gli  uomini  i titoli.  Debbesi  ancora dal  principio  di  questo  discorso  consi-derare, che  se  i capitani  grandi  hanno usato  termini  istraordinari  a fermare gli  animi  d’uno  esercito  veterano  quando coi  nimici  inconsueti  debbe  affrontarsi  ; quanto maggiormente si abbia ad usare l’ industria  quando  si  comandi  uno  esercito  nuovo,  che  non  abbia  mai  veduto il  nimico  in  viso.  Perchè,  se  lo  inusitato nimico  allo  esercito  vecchio  dà  terrore, tanto  maggiormente  lo  debbe  dare  ogni nimico  ad  uno  esercito  nuovo.  Pure,  s’ò veduto  molte  volte  dai  buoni  capitani tutte  queste  diflìcultù  con  somma  pru- denza esser  vinte:  come  fece  quel  Gracco romano,  ed  Epaminonda  tebano,  de’quali altra  volta  abbiamo  parlato,  che  con eserciti  nuovi  vinsono  eserciti  veterani ed  esercitatissimi.  I modi  che  tenevano, erano:  parecchi  mesi  esercitargli  in  bat-taglie fìnte;  assuefargli  alla  ubbidienza ed  all’ ordine:  e da  quelli  dipoi,  con massima  confidenza,  nella  vera  zuffa  gli adoperavano.  Non  si  debbe,  adunque, diffidare  alcuno  uomo  militare  di  non poter  fare  buoni  eserciti,  quando  non gli  manchi  uomini  ; perchè  quel  principe che  abbonda  d’  uomini  e manca  disoldati,  debbe  solamente,  non  della  viltà degli  uomini,  ma  della  sua  pigrizia  e e poca  prudenza  dolersi. Che  un  capitano debbe  esser  conoscitore  dei  eiti. Intra  1’  altre  cose  che  sono  necessarie ad  un  capitano  d’ eserciti,  è la  cognizione dei  sili  e de’ paesi;  perchè  senza questa  cognizione  generale  e particolare, un  capitano  d’  eserciti  non  può  be-ne operare  alcuna  cosa.  E perchè  tutte le  scienze-  vogliono  pratica  a voler  per- fettamente possederle,  questa  è una  che ricerca  pratica  grandissima.  Questa  pratica, ovvero  questa  particolare  cognizione, s’ acquista  più  mediatiti  le  cacce, che  per  verun  altro  esercizio.  Però  gli antichi  scrittori  dicono,  che  quelli  ^roi che  governarono  nel  loro  tempo  il  mondo, si  nutrirono  nelle  selve  e nelle  cac- ce; perchè  la  caccia,  oltre  a questa  cognizione, ti  insegna  infìttile  cose  che sono  nella  guerra  necessarie.  E Senofonte,  nella  vita  di  Ciro,  mostra  che andando  Ciro  od  assaltare  il  re  d’  Armenia, nel  divisare  quella  fazione,  ricordòa quelli  suoi,  che  questa  non  era  altro che  una  di  quelle  cacce  le  quali  mollevolte  avevano  fatte  seco.  E ricordava  a quelli  che  mandava  in  aguato  su  i monti, che  gli  erano  simili  a quelli  eh’ andavano a tendere  le  reti  in  su  i gioghi;  eda quelli  che  scorrevano  per  il  piano,  che erano  simili  a quelti  che  andavano  a levare  del  suo  covile  la  fera,  acciocché, cacciata,  desse  nelle  reti.  Questo  si  dice per  mostrare  come  le  cacce,  secondo  che Senofonte  appruova,  sono  una  immagine d’  una  guerra:  e per  questo  agli  uomini grandi  tale  esercizio  è onorevole  e necessario. Non  si  può  ancora  imparare questa  cognizione  de’  paesi  in  altro  comodo modo  che  per  via  di  caccia;  perchè la  caccia  fa  a colui  che  1’  usa  sapere come  sta  particolarmente  quel  paese dove  ei  1*  esercita.  E fatto  che  uno  s’  è familiare  bene  una  regione,  con  facilità comprende  poi  tulli  i paesi  nuovi  j per-chè ogni  paese  ed  ogni  membro  di  quelli hanno  insieme  qualche  conformità,  in modo  clic  dalla  cognizione  d’  uno  facilmente si  passa  alla  cognizione  dell’  altro. Ma  chi  non  ne  ha  ancora  bene  pratico uno,  con  difficoltà,  anzi  non  mai  se non  con  un  lungo  tempo,  può  conoscer 1’  altro.  E chi  ha  questa  pratica,  in  unvoltar  d’ occhio  sa  come  giace  quel  piano, come  surge  quel  monte,  dove  arriva quella  valle,  e tutte  l*  altre  simili  cose, di  che  ei  ha  per  lo  addietro  fatto  una ferma  scienza.  E che  questo  sia  vero,  ce lo  mostra  Tito  Livio  con  lo  essempio di  Publio  Decio;  il  quale  essendo  Tribuno de’  soldati  nello  esercito  che  Cornelio consolo  conduceva  contro  ai  Sanniti, ed  essendosi  il  Consolo  ridotto  in una  valle,  dove  l’ esercito  dei  Romani poteva  dai  Sanniti  esser  rinchiuso,  evedendosi  in  tanto  pericolo,  disse  al  Consolo : Vtdes  tuj  Aule  Corneli,  cacume»iilud  supra  hostcm ? arx  ilici  est  spei salutisquc  nostra,  si  eam  fquoniam  caarcliquerc  SamnitesJ  impigre  capimus.  Ed innanzi  a queste  parole  dette  da  Decio,Tito  L.  dice:  Publtus  Dcctus,  tribùnus  militimi , unum  editum  in  saltu  collenij  immincnteni  hostium  castns , adilu arduum  impedito  agmini,  expeditis  hauddifficilcm.  Donde,  essendo  stato  mandatosopra  esso  dal  Consolo  con  tremila  soldati,ed  avendo  salvo  l’esercito  romano  j e dise-gnando, venendo  la  notte,  di  partirsi  e sal-vare ancora  sè  ed  i suoi  soldati,  gii  fa  direqueste  parole:  Ite  niecum,  ut  dum  lucisaliquid  superest,  quibus  locts  hostesprcesidia ponant,  qua  palcat  hinc  exitus,exploremus.  Hcec  ornnta  sagulo  militariamiclus,  ne  ducem  circuire  hostes  no-larentj  perlustrarli.  Chi  considererà,adunque,  tutto  questo  testo,  vedrà  quantosia  utile  e necessario  ad  un  capitanosapere  la  natura  de’ paesi:  perché  seDecio  non  gli  avesse  saputi  e conosciuti,non  arebbe  potuto  giudicare  qual  utilefaceva  pigliare  quel  colle  allo  esercitoromano;  uè  arebbe  potuto  conoscere  didiscosto,  se  quel  colle  era  accessibile  ono  ; e condotto  che  si  fu  poi  sopra  esso,volendosene  partire  per  ritornare  al  Con-solo, avendo  i nimici  intorno,  non  arebbedal  discosto  potuto  speculare  le  vie  delloandarsene,  e li  luoghi  guardati  dai  ni-mici. Tanto  che,  di  necessità  conveniva,che  Decio  avesse  tale  cognizione  per-fetta: la  qual  fece  che  con  il  pigliarequel  colle,  ei  salvò  l’esercito  romano;dipoi  seppe,  scndo  assedialo,  trovare  lavia  a salvare  sè  e quelli  che  erano  statiseco. Come,  usare  la  fraudenel  maneggiare  la  guerra  è cosa  gloriosa.Ancoraché  usare  la  fraude  in  ogniazione  sia  detestabile,  nondimanco  nelmaneggiar  la  guerra  è cosa  laudabile  egloriosa;  e parimente  è laudato  coluiche  con  fraude  supera  il  nimico,  comequello  che  M supera  con  le  forze.  E ve-desi  questo  pei*  il  giudizio  che  ne  fannocoloro  che  scrivono  le  vite  degli  uominigrandi,  i quali  lodano  Annibaie  e gli* altri  che  sono  stati  notabilissimi  in  si-mili modi  di  procedere.  Di  che  per  leg-gersi assai  essempi,  non  ne  replicheròalcuno.  Dirò  solo  questo,  che  io  nonintendo  quella  fraudo  essere  gloriosa,che  ti  fa  rompere  la  fede  data  ed  i pattifatti;  perchè  questa,  ancora  che  la  tiacquisti  qualche  volta  stalo  e regno,  co-me di  sopra  si  discorse,  la  non  ti  acqui-sterà mai  gloria.  Ma  parlo  di  quella  fraudoche  si  usa  con  quel  nimico  che  non  sifida  di  te,  e che  consiste  proprio  nelmaneggiare  la  guerra  : come  fu  quellad’Annibale,  quando  in  sul  lago  di  Peru-gia simulò  la  fuga  per  rinchiudere  ilConsolo  e lo  esercito  romano;  e quando,per  uscire  di  mano  di  Pabio  Massimo,accese  le  corna  dello  armento  suo.  Allequali  fraudi  fu  simile  questa  che  usòPonzio  capitano  dei  Sanniti,  per  rin-chiudere  1’  esercito  romano  dentro  alleforche  Caudine-.  i(  quale  avendo  messolo  esercito  suo  a' ridosso  dei  monti,  mandòpiù  suoi  soldati  sotto  vesti  di  pastori  conassai  armento  per  il  piano;  i quali  sen--do  presi  dai  Romani,  e domandati  doveera  l’esercito  dei  Sanniti,  convennerotutti,  secondo  1’  ordine  dato  da  Ponzio,a dire  come  egli  era  allo  assedio  di  No-terà. La  qual  cosa  creduta  dai  Consoli, fece  eh’  ei  si  rinchiusero  dentro  ai  balzicaudini;  dove  entrati,  furono  subito  as-sediati dai  Sanniti.  E sarebbe  stata  que-sta vittoria,  avuta  per  fraude,  glorio-sissima a Ponzio,  se  egli  avesse  seguitatii consigli  del  padre  ; il  quale  voleva  chei Romani  o si  salvassino  liberamente,  osi  ammazzassino  tutti,  e che  non  si  pi-gliasse la  via  del  mezzo,  qu ce  neque  ami-co* parai , ncque  inimicos  tollil.  La  qualvia  fu  sempre  perniziosa  nelle  cose  diStato;  come  di  sopra  in  altro  luogo  sidiscorse. Che  la  patria  si  debbo  di-fendere o con  ignominia  o con  glo-ria; ed  in  qualunque  modo  è ben  di-fesa.Era,  come  di  sopra  s’è  dello,  il  Con-solo e l’esercito  romano  assedialo  daiSanniti:  i quali  avendo  proposto  ai  Ro-mani condizioni  ignominiosissime;  comeera,  volergli  mettere  sotto  il  giogo,  edisarmati  mandargli  a Roma:  e per  que-sto stando  i Consoli  come  attoniti,  e tuttol’esercito  disperato;  Lucio  Lentolo  le-gato romano  disse,  che  non  gli  parevache  fusse  da  fuggire  qualunque  partitoper  salvare  la  patria:  perchè,  consisten-do la  vita  di  Roma  nella  vita  di  quelloesercito,  gli  pareva  da  salvarlo  in  ognimodo;  e che  la  patria  è ben  difesa  inqualunque  modo  la  si  difende,  o conignominia,  o con  gloria  : perchè  salvandosi quello  esercito,  Roma  era  a tempo  a cancel-lare l’ignominia:  non  si  salvando,  ancorache  gloriosamente  morisse,  era  perdutaKoma  e la  libertà  sua.  E così  fu  seguitato il  suo  consiglio.  La  qual  cosa  me-rita d’  esser  notata  ed  osservata  da  qua-lunque cittadino  si  truova  a consigliarela  patria  sua:  perchè  dove  si  diliberaal  tutto  della  salute  della  patria,  nonvi  debbe  cadere  alcuna  considerazionenè  di  giusto  nè  di  ingiusto,  nè  di  pie-toso, nè  di  crudele,  nè  di  laudabile,  nèdi  ignominioso;  anzi,  posposto  ogni  al-tro rispetto,  seguire  al  tutto  quel  par-tito che  li  salvi  la  vita,  e mantenghile  lalibertà.  La  qualcosa  è imitata  con  i detti  econ  i fatti  dai  Franciosi,  per  difendere  lamaestà  del  loro  re  e la  potenza  del  lororegno;  perchè  nessuna  voce  odono  piùimpazientemente  che  quella  che  dicesse:il  tal  partito  è ignominioso  per  il  re;perchè  dicono  che  il  loro  re  non  puòpatire  vergogna  in  qualunque  sua  dili-berazione, o in  buona  o in  avversa  for-tuna: perchè  se  perde  o se  vince,  tuttodicono  esser  cosa  da  re.Cap.  XLII.  — Che  le  promesse  fatteper  forza  non  si  debbono  osservare.♦ »Tornati  i Consoli  con  1’  esercito  di-sarmato e con  la  ricevuta  ignominia  aRoma,  il  primo  che  in  Senato  disseche  la  pace  fatta  a Cuudo  non  si  do-veva osservare,  fu  il  consolo  Spurio  Po-stumio;  dicendo,  come  il  Popolo  romanonon  era  obbligato,  ma  eh’  egli  era  beneobbligato  esso,  e gli  altri  che  avevanopromesso  la  pace  : e però  il  Popolo  vo-lendosi liberare  da  ogni  obbligo,  avevaa dar  prigione  nelle  mani  dei  Sannitilui  e tutti  gli  altri  che  V avevano  pro-messa. E con  tanta  ostinazione  tenne  questa conclusione,  che  il  Senato  ne  fu  contento; e mandando  prigioni  lui  e gli altri  in  Sannio,  protestarono  ai  Sanniti,la  pace  non  valere.  E tanto  fu  in  questo caso  a Postumio  favorevole  la  fortuna, che  i Sanniti  non  lo  ritennero;  e ritornato  in  Roma,  fu  Postumio  appresso.ai  Romani  più  glorioso  per  avere  perduto, che  non  fu  l’onzio  appresso  ai  Sanniti per  aver  vinto.  Dove  sono  da  no-tare due  cose  ; 1*  una,  che  in  qualunque azione  si  può  acquistar  gloria,  perchènella  vittoria  s’  acquista  ordinariamente; nella  perdita  s’  acquista  o col  mostrare tal  perdita,  non  esser  venuta  per  tua colpa,  o per  far  subito  qualche  azione virtuosa  che  la  cancelli  : 1’  altra  è,  che non  è vergognoso  non  osservare  quelle promesse  che  ti  sono  state  fatte  promettere per  forza  ; e sempre  le  promesseforzate  che  riguardano  il  pubblico,  quando e’  manchi  la  forza,  si  romperanno, e fia  senza  vergogna  di  chi  le  rompe. Di  che  si  leggono  in  tutte  l’ istorie  variessempi,  e ciascuno  dì  ne’  presenti  tempi se  ne  veggono.  E non  solamente  non  siosservano  intra  i principi  le  promesse forzate,  quando  e*  manca  la  forza  ; ma non  si  osservano  ancora  tutte  \*  altre promesse,  quando  e’  mancano  le  cagioni che  le  fanno  promettere.  Il  che  se  è cosa laudabile  o no,  o se  da  un  principe  si debbono  osservare  simili  modi  o no, largamente  è disputato  da  noi  nel  nostro trattato  del  Principe;  però  al  presente lo  taceremo. Che  gli  uomini  che  nascono in  una  provincia , osservano  per lutti  i tempi  quasi  quella  medesima natura.Sogliono  dire  gli  uomini  prudenti,  e non  a caso  nè  immeritamente,  che  cbi vuol  veder  quello  che  ha  ad  essere,  consideri quello  che  è stato;  perchè  tutte  le cose  del  mondo,  in  ogni  tempo,  hanno il  proprio  riscontro  con  gli  antichi  tempi. Il che nasce perchè essendo quelle operate  dagli  uomini  che  hanno  ed  ebbero sempre  le  medesime  passioni,  conviene di  necessità  che  le  sortischino  il medesimo  effetto.  Vero  è,  che  le  sono P opere  loro  ora  in  questa  provincia  più virtuose  che  in  quella,  ed  in  quella  più che  in  questa,  secondo  la  forma  delia educazione  nella  quale  quelli  popoli  hanno preso  il  modo  del  viver  loro.  Fa  ancorafacilità  il  conoscere  le  cose  future  per le  passate;  vedere  una  nazione  lungo tempo  tenere  i medesimi  costumi,  essendo o continovamente  avara, o continovamente  fraudolenta,  o avere  alcun  altro  si* mile  vizio  o virtù.  E chi  leggerà  le  cose passale  della  nostra  città  di  Firenze,  e considererà  ancora  quelle  che  sono  ne*prossimi  tempi  occorse,  troverà  i popoli tedeschi  e franciosi  pieni  d’ avarizia,  disuperbia,  di  ferocia  e di  infcdelità;  perchè tutte  queste  quattro  cose  in  diversi tempi  hanno  offeso  molto  la  nostra  città. E quanto  alla  poca  fede,  ognuno  sa  quante volte  si  dette  danari  al  re  Carlo  Vili,  ed egli  prometteva  rendere  le  fortezze  di Pisa,  c non  mai  le  rendè.  In  che  quel re  mostrò  la  poca  fede,  e la  assai  avarizia sua.  Ma  lasciamo  andare  queste cose  fresche.  Ciascuno  può  avere  inteso quello  che  segui  nella  guerra  che  feceil  popolo  fiorentino  contea  ai  Visconti duchi  di  Milano;  che  essendo  Firenze privo  degli  altri  espedienti,  pensò  dicondurre  T iroperadore  in  Italia,  il  quale con  la  riputazione  e forze  sue  assaltassela  Lombardia.  Promise  l’ imperadore  venire con  assai  gente,  e far  quella  guerra contra  ai  Visconti,  e difendere  Firenze dalla  potenza  loro,  quando  i Fiorentini gli  dessino  centomila  ducati  per  levarsi, e centomila  poi  che  fusse  in  Italia.  Ai quali  patti  consentirono  i Fiorentini;  e pagatogli  i primi  danari,  e dipoi  i secondi, giunto  che  fu  a Verona,  se  ne  tornò indietro  senza  operare  alcuna  cosa,  causando esser  restato  da  quelli  che  non avevano  osservato  le  convenzioni  erano fra  loro.  In  modo  che,  se  Firenze  non fusse  stata  o constretla  dalla  necessitào vinta  dalla  passione,  ed  avesse  letti  e conosciuti  gli  antichi  costumi  de’borbari,non  sarebbe  stata  nè  questa  nè  molte altre  volte  ingannata  da  loro;  essendoloro  stati  sempre  a un  modo,  ed  avendo in  ogni  parte  e con  ognuno  usati  i me-desimi termini.  Come  e' si  vede  eh’ e’ fecero anticamente  ai  Toscani  ; i qualiessendo  oppressi  dui  Romani,  per  essere stati  da  loro  più  volte  messi  in  fuga  erotti;  e veggendo  mediami  le  loì*  forze non  poter  resistere  aìr  impeto  di  quelli;convennero  con  i Franciosi  che  di  qua dall'  Alpi  abitavano  in  Italia,  di  dar  lorosomma  di  danari,  e che  fussino  obbligati congiugnere  gli  eserciti  con  loro,ed  andare  contea  ai  Romani:  donde  ne seguì  che  i Franciosi,  presi  i danari,non  volleno  dipoi  pigliare  l’ arme  per loro,  dicendo  averli  avuti  non  per  farguerra  coi  loro  nimici,  ma  perchè  s’astenessino  di  predare  il  paese  toscano.  E così  i popoli  toscani,  per  l’ avarizia  e poca  fede  dei  Franciosi,  rimasono  ad  untratto  privi  de'  loro  danari,  e degli  aiuti che  gli  speravano  da  quelli.  Talché  sivede  per  questo  essempio  dei  Toscani antichi,  e per  quello  de’  Fiorentini,  iFranciosi  avere  usati  i medesimi  termini;  e per  questo  facilmente  si  può  con-ielturare,  quanto  i principi  si  possono fidare  di  loro. E'  si  ottiene  con  V impetoc con  lJ  audacia  molte  volte  quello  che con  modi  ordinari  non  si  otterrebbe mai. Essendo  i Sanniti  assaltati  dallo  esercito di  Roma,  e non  polendo  con  l’esercito loro  stare  alla  campagna  a petto ai  Romani,  diliberarono,  lasciate  guardate le  terre  in  Sannio,  di  passare  con tutto  V esercito loro in Toscana, la quale era in triegua coi Romani;  e vedere  permtal  passata,  se  ei  potevano  con  la  presenza dello  esercito  loro  indurre  i Toscani a ripigliar  1’  arme  ; il  che  avevano fregato  ai  loro  ambasciadori.  E nel  parlare che  feeiono  i Sanniti  ai  Toscani, nel  mostrar,  massime,  qual  cagione  gli aveva  indotti  a pigliar  1*  arme,  usarono un  termine  notabile,  dove  dissono  : Rebollasse j quod  pax  sci'vicnlibus  gravior t quam  liboris  bcllum  esset.  E cosi,  parie con  le  persuasioni,  parte  con  la  presenza dello  esercito  loro,  gli  indussono a pigliar  1*  arme.  Dove  è da  notare,  che quando  un  principe  disidera  d’ ottenere una  cosa  da  un  altro,  debbe,  se  l’ occasione lo  patisce,  non  gli  dare  spazio a diliberarsi,  e fare  in  modo  ch’ei  vegga la  necessità  della  presta  diliberazione: la  quale  è quando  colui  che  è domandato vede  che  dal  negare  o dal  differirene  nasca  una  subita  e pericolosa  inde-gnazione.  Questo  termine  s’  è vedutobene  usare  nei  nostri  tempi  da  papalulio  con  i Franciosi,  eda  monsignordi  Fois  capitano  del  re  di  Francia  colmarchese  di  Mantova  : perchè  papa  luliovolendo  cacciare  i Bentivogli  di  Bologna,e giudicando  per  questo  aver  bisognodelle  forze  franciose,  e che  i Yinizianistessino  neutrali  j ed  uvendone  ricercoF uno  e I’  altro,  e traendo  da  loro  ri-sposta dubbia  e varia  j diliberò  col  nondare  lor  tempo  far  venire  I’  uno  e l’al-tro nella  sentenza  sua  : e,  partitosi  daRoma  con  quelle  tante  genti  cli’ei  potòraccozzare,  n’  andò  verso  Bologna,  eda’Viniziani  inandò  a dire  che  stessinoneutrali,  ed  ai  re  di  Francia  che  glimandasse  le  forze.  Talché,  rimanendotutti  ristretti  dal  poco  spazio  di  tempo,e veggeudo  come  nel  papa  doveva  na-scere una  manifesta  indegnazione  difle-rendo  o negando,  cederono  alle  vogliesue;  ed  il  re  gli  mandò  aiuto,  ed  i Vi*uiziani  si  steltono  neutrali.  Monsignordi  Fois,  ancora,  essendo  con  l’esercitoili  Bologna,  ed  avendo  intesa  la  ribellione di  Brescia,  e volendo  ire  alla  ri-cuperazione di  quella,  aveva  due  vie  ;F una  per  il  dominio  del  re,  lunga  etediosa;  l’altra  brievc  per  il  dominiodi  Mantova:  e non  solamente  era  neces-sitato passare  per  il  dominio  di  quelmarchese,  ina  gli  conveniva  entrare  percerte  chiuse  intra  paludi  e laghi,  di  cheè piena  quella  regione,  le  quali  con  for-II  acuì  avelli,  Discorsi.  — 1.  49lezzo  cd  altri  modi  erano  serrate  c guar-dale da  lui.  Onde  che  Pois,  diliberalod*  andare  }>er  la  più  corta,  e per  vin-cere ogni  di  (Tic  ulta  nè  dar  tempo  al  mar-chese a diliberarsi,  ad  un  tratto  mossele  sue  genti  per  quella  via,  cd  al  mar-chese significò  gli  mandasse  le  chiavi  diquel  passo.  Talché  il  marchese,  occu-pato da  questa  subita  diliberazione,  glimandò  le  chiavi:  le  quali  mai  gli  arebbemandate  se  Pois  più  lepidamente  si  fusscgovernato,  essendo  quel  marchese  in  legaeoi  papa  e coi  Viniziani,  ed  avendo  uusuo  figliuolo  nelle  mani  del  papa;  lequali  cose  gli  davano  molte  oneste  scusea negarle.  Ma  assaltato  dal  subito  par-tito, per  le  cagioni  che  di  sopra  si  di-cono, le  concesse.  Cosi  feciono  i Toscanieoi  Sanniti,  avendo  per  la  presenza  del-T esercito  di  Sannio  preso  quelle  armeche  gli  avevano  negato  per  altri  tempipigliare.Cap.  XLV.  — Qual  sia  miglior  partitonelle  giornale , o sostenere  lf  impetode*  nimicij  c sostenuto  urtargli  ; ov-vero dapprima con furia assaltargli. Erano  Decio  e Fabio,  consoli  romani,con  due  eserciti  all’  incontro  degli  eser-citi dei  Sanniti  e dei  Toscani;  e venendoalla  zuffa  ed  alla  giornata  insieme,  è danotare  in  tal  fazione,  quale  di  due  di-versi modi  di  procedere  tenuti  dai  dueConsoli  sia  migliore.  Perchè  Decio  conogni  impeto  e cor»  ogni  suo  sforzo  as-saltò il  nimico;  Fabio  solamente  lo  so-stenne, giudicando  V assalto  lento  es-sere più  utile,  riserbando  l' impeto  suonell’  ultimo,  quando  il  nimico  avesseperduto  il  primo  ardore  del  combat-tere, e come  noi  diciamo,  la  sua  foga.Dove  si  vede,  per  il  successo  della  eosa,che  a Fabio  riuscì  molto  meglio  il  di-segno che  a Decio  : il  quale  si  straccònei  primi  impeti  ; in  modo  che,  veden-do  la  banda  sua  piuttosto  in  volta  diealtrimenti,  per  acquistare  con  la  mortequella  gloria  alla  quale  con  la  vittorianon  aveva  potuto  aggiungere,  ad  imita-zione del  padre  sacrificò  sè  stesso  perle  romane  legioni.  La  qual  cosa  intesada  Fabio,  per  non  acquistare  manco  ono-re vivendo,  che  s’avesse  il  suo  collegaacquistato  morendo,  spinse  innanzi  tuttequelle  forze  che  s’  aveva  a tale  necessitàriservate  ; donde  ne  riportò  una  felicis-sima vittoria.  Di  qui  si  vede  che  ’l  mododel  procedere  di  Fubio  è più sicuro e più  imitabile. Donde  nasce  che  una  fa-mìglia iìi  una  città  tiene  un  tempo  imedesimi  costumi. E’  pare  clic  non  solamente  1’  una  cittàdall*  altra  abbi  certi  modi  ed  institutidiversi,  e procrei  uomini  o più  duri  opiù  effeminati;  ma  nella  medesima  cittàsi  vede  tal  differenza  esser  nelle  fumi-glie  I’  una  dall’  altra.  H che  si  riscontraessere  vero  in  ogni  città,  e nella  cittàili  Roma  se  ne  leggono  assai  essempi  :perché  e’  si  vede  i Manlii  essere  statiduri  ed  ostinati,  i Pubi icoli  uomini  be-nigni ed  amatori  del  popolo,  gli  Appiiambiziosi  e ni  mici  della  Plebe:  e cosimolte  altre  famiglie  avere  avute  ciascunale  qualità  sue  spartite  dall’  altre.  La  qualcosa  non  può  nascere  solamente  dal  san-gue, perchè  e’ conviene  eh’ ei  varii  me-diante la  diversità  dei  matrimoni;  maè necessario  venga  dalla  diversa  educa-zione che  ha  una  famiglia  dall’  altra.Perchè  gl’  importa  assai  che  un  giova-netto dai  teneri  anni  cominci  a sentirdire  bene  o male  di  una  cosa;  perchèconviene  che  di  necessità  ne  faccia  im-pressione, e da  quella  poi  regoli  il  mododel  procedere  in  tutti  i tempi  della  vitasua.  E se  questo  non  fosse,  sarebbe  im-possibile che  tutti  gli  Appii  avessinoavuta  la  medesima  voglia,  c Rissino  statiagitati  dalle  medesime  passioni,  comenota  Tilo  Livio  in  molti  di  loro:  e perultimo,  essendo  uno  di  loro  fatto  Censore, ed  avendo  il  suo  collega  alla  finede*  diciotto  mesi,  come  ne  disponeva  lalegge,  deposto  il  magistrato,  Àppio  nonlo  volle  deporre,  dicendo  che  lo  potevatenere  cinque  anni  secondo  la  primalegge  ordinata  dai Censori. E benchésopra  questo  se  ne  facessero  assai  con-cioni, e se  ne  generassino  assai  tumulti,non  pertanto  ci'  fu  mai  rimedio  che  vo-lesse deporlo,  conira  alla  volontà  delPopolo  e della  maggior  parte  del  Senato.E chi  leggerà  P orazione  che  gli  fececontro  Publio  Sempronio  tribuno  dellaplebe,  vi  noterà  tutte  l’ insolenze  oppiane,e tulle  le  bontà  ed  umanità  usale  da  in-finiti cittadini  per  ubbidire  alle  leggi  edagli  auspicii  della  loro  patria. Che  un  buon  cittadinoper amore della patria debbo dimenticare l’ingiurie’ private.Era  Manlio  consolo  con  l’esercito  con-ira ai  Sanniti*  ed  essendo  stato  in  unazuffa  ferito,  e per  questo  portando  legenti  sue  pericolo,  giudicò  il  Senato  es-ser necessario  mandarvi  Papirio  Cur-sore dittatore,  per  sopplire  ai  difetti  delConsolo.  Ed  essendo  necessario  che  ’lDittatore  fusse  nominato  da  Fabio,  ilquale  era  con  gli  eserciti  in  Toscana;  edubitando,  per  essergli  nimico,  che  nonvolesse  nominarlo;  gli  mandarono  i Senatori due  ambasciadori  a pregarlo,  che,posti  da  parte  gli  privati  odii,  dovesseper  benefìzio  pubblico  nominarlo.  Il  cheFabio  fece,  mosso  dalla  carità  della  pa-tria; ancora  che  col  tacere  e con  mol-ti altri  modi  facesse  segno  che  talenominazione  gli  premesse.  Dal  qualedebbono  pigliare  essempio  tutti  quelli,che  cercano  d*  essere  tenuti  buoni  cit-tadini.  Quando  si  vede  fareuno  errore  grande  ad  un  nimico ,si  debbe  credere  che  vi  sia  sono  in-ganno.Essendo  rintaso  Fulvio  Legato  nelloesercito  che  i Romani  avevano  in  To-scana, per  esser  ito  il  Consolo  per  al-cune cerimonie  a Roma;  i Toscani,  pervedere  se  potevano  avere  quello  allatratta,  posono  un  aguato  propinquo  aicampi  romani,  e mandarono  alcuni  sol-dati con  veste  di  pastori  con  assai  ar-mento, e gli  feciono  venire  alla  vista dello  esercito  romano:  i quali  così  tra-vestiti si  accostarono  allo  steccato  delcampo;  onde  il  Legato  meravigliandosidi  questa  loro  presunzione,  non  gli  pa-tendo ragionevole,  tenne  modo  ch’egliscoperse  la  fraude;  e cosi restò il di*>igno de Toscani rotto. Qui si può comoramente  notare,  che  un  capitano  dieserciti  non  debbe  prestar  fede  ad  unoerrore  che  evidentemente  si  vegga  fareal  nimico:  perchè  sempre  vi  sarà  sottofronde,  non  sendo  ragionevole  che  gliuomini  siano  tanto  incauti.  Ma  spesso  ildisiderio  del  vincere  acceca  gli  animi degli  uomini,  che  non  veggono  altro  chequello  pare  facci  per  loro.  I Franciosi avendo  vinti  i Romani  ad  Allia,  e venendo a Roma,  e trovando  le  porte  aperte e senza  guardia,  stettero  tutto  quel  giorno e la  notte  senza  entrarvi,  temendo  di fraude,  e non  potendo  credere  clic  fusse tanta  viltà  c tanto  poco  consiglio  ne’ petti  romani,  che  gli  nbbandonassino  la patria.  Quando  nel  4508  s’andò  per  gli Fiorentini  a Risa  a campo,  Alfonso  del Mutolo,  cittadino  pisano,  si  trovava  prigione dei  Fiorentini,  e promise  che  s’egli era  libero,  darebbe  una  porta  di  Pisa all’esercito  fiorentino.  Fu  costui  libero. Dipoi,  per  praticare  la  cosa,  venne  molte volte  a parlare  coi  mandati  dc’commissari;  e veniva  non  di  nascosto,  ma  scoperto, ed  accompagnato  da’ Pisani;  i quali  lasciava  da  parte,  quando  parlava eoi  Fiorentini.  Talmentechè  si  poteva conietturare  il  suo  animo  doppio  ; perchè non  era  ragionevole,  se  la  pratica fussc  stata  fedele,  eh’  egli  1’  avesse  trattata sì  alla  scoperta.  .Ma  il  disiderio  che s*  aveva  d’  aver  Pisa,  accecò  in  modo  i Fiorentini,  che  condottisi  con  l’ ordine suo  alla  porta  a Lucca,  vi  lasciarono più  loro  capi  ed  .altre  genti  con  disonore loro,  per  il  tradimento  doppio  che fece  detto  Alfonso. Una  repubblica,  a volerla mantenere  libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti  ; e per guali  meriti  Quinto  Fabio  fu  chiamato Massimo.  E di  necessità,  come  altre  volte  s’  è «letto,  che  ciascuno  dì  in  una  città  grande 'taschino'  accidenti  che  abbino  bisogno elei  medico  ; e secondo  che  gli  importano più,  conviene  trovare  il  medico  più  savio. E se  in  alcune  città  nacquero  mai  simili accidenti,  nacquero  in  t\oma  e strani ed  insperati;  come  fu  quello  quando  e’parve  cha  tutte  le  donne  romane  avessino congiurato  contra  ai  loro  maritid’  ammazzargli  :  tante  se  ne  trovò  clicgli  avevano  avvelenati,  e tante eh’ ave-vano preparato il veleno per avvelenargli. Come  fu  ancora  quella  congiura  de’Baccanali,  clic  si  scopri  nel  tempo  dellaguerra  macedonica,  dove  erano  già  in-viluppati molti  migliaia  d’  uomini  e didonne;  e se  la  non  si  scopriva,  sarebbestata  pericolosa  per  quella  città  ; o sep-pure i Romani  non  fussino  stati  con-sueti a gasligare  le  muititudiui  degli  uo-mini erranti:  perchè,  quando  e’  non  sivedesse  per  altri  infiniti  segni  la  gran-dezza di  quella  Repubblica,  e la  potenzadelle  esecuzioni  sue,  si  vede  per  la  qua-lità della  pena  che  la  imponeva  a chi errava.  Nè  dubitò  far  morire  per  via  digiustizia  una  legione  intera  per  volta,ed  una  città  tutta;  e di  confinare ottoo diecimila  uomini  con  condizioni  straor-dinarie, da  non  essere  osservate  da  unsolo,  non  che  da  tanti:  come  intervennea quelli  soldati  che infelicemente  ave-vano combattuto  a Canne,  i quali  con-finò in  Sicilia,  c impose  loro che  nonalkergassino  in  terre,  e che  mangias-sino  ritti.  Ma  di  tutte  1’  altre  esecuzioniera  terribile  il  decimare  gli  eserciti,  dovea scorte  da  tutto  uno  esercito  era  mortod’ogni  dieci  uno.  Nè  si  poteva,  a gasli-gare  una  multit udine,  trovare più  spa-ventevole punizione  di  questa.  Perchè quando  una  moltitudine  erra,  dove  nonsia  1’  autore  certo,  tutti  non  si  possonogastigare,  per  esser  troppi;  punirneparte  e parte  lasciare  impuniti,  si  fa-rebbe torto  a quelli  che  si  punissino,  egli  impuniti  arebbono  animo  di  errareun’  altra  volta.  Ma  ammazzare  la  decimaparte  a sorte,  quando  lutti  la  meritano,0,1  ' è punito  si  duole  della  sorte;  ehinon  è punito,  ha  paura  che  un’  altravolta  non  tocchi  a lui,  c guardasi  di  er-rare. Furono  punite,  adunque,  le  vene-fiche e le  baccanali  secondo  che  meri-tavano i peccali  loro.  K. benché  questi morbi  in  una  repubblica  faccino  cattivieffetti,  non  sono  a morte,  perchè  semprequasi  s’  ha  tempo  a correggerli  : ma  nons’  ha  già  tempo  in  quelli  che  riguardanolo  Stato,  i quali  se  non  sono  da  un  pru-dente corretti,  rovinano  la  città.  Eranoin  Roma,  per  la  liberalità  che  i Romaniusavano  di  donare  la  civilità  a’ forestieri,nate  tante  genti  nuove,  che  le  comin-ciavano avere  tanta  parte  ne’ suffragi,che  ’l  governo  cominciava  a variare,  epartivasi  da  quelle  cose  e da  quelli  uo-mini dove  era  consueto  andare.  Di  cheaccorgendosi  Quinto  Fabio  che  era  Cen-sore, messe  tutte  queste  genti  nuoveda  chi  dipendeva  questo  disordine  sot-to quattro  Tribù,  acciocché  non  potessino,  ridotte  in  si  piccioli  spazi,corrompere  tutta  Roma.  Fu  questa  cosaben  conosciuta  da  Fabio,  e postovi  sen*za  alterazione  conveniente  rimedio;  ilquale  fu  tanto  accetto  a quella  civi-lità,  che  meritò  d’esser  chiamato  Mas*sirno Niccolò  Machiavelli  a Zanobi  Buondel-monti  e Cosimo  Rucellai  salute.  Quali  siano  stati  universalmente  iprincipii  di  qualunque  città,  e qualefosse  quello  di  Roma Di  quanto  spezie  sono  le  repubbliche,e di  quale  fu  la  Repubblica  Romana.  Quali  accidenti  facessino  creare  inRoma  i Tribuni  della  plebe;  il  chefece  la  Repubblica  più  perfetta  ...Che  la  disunione  della  Plebe  e delSenato  romano'  fece  libera  e potentequella  Repubblica ; . . . Dove  più  securamente  si  ponga  laguardia  della  libertà,  o nel  Popolo  one’ Grandi;  e quali  hanno  maggiorecagione  di  tumultuare,  o chi  vuoleacquistare  o chi  vuole  mantenere.  . . Se  in  Roma  si  poteva  ordinare  unoStato  che  togliesse  via  le  inimicizieintra  il  Popolo  ed  il  Senato Quanto  siano  necessarie  in  una  Re-pubblica le  accuse  per  mantenere  lalibertà Quanto  lo  accuse  sono  utili  allerepubbliche,  tanto  sono  perniziose  lecalunnie.  hiIX.  Come  egli  ènecessario  esser  soloavolere  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  oal  tutto  fuori  delli  antichisuoi  ordini  riformarla 68X.  Quanto  sono  laudabili  i fondatorid’una  repubblica  o d’uno  regno,  tantoquelli  d’ una  tirannide  sono  vitupera-bili Della  religione  de’  Romani 8*2XII.  Di  quanta  importanza  sia  teneroconto  della  religione,  e come  la  Italiaper  esserne  mancata  mediante  la  Chie-sa romana,  è rovinata Come  i Romani  si  servirono  dellareligione  per  ordinare  la  città,  e per seguire  le  loro  imprese  e fermare  itumulti . .I Romani  interpretavano  gli  auspicii  secondo  la  necessità,  o con  la prudenza  mostravano  di  osservare  la religione,  quando  forzati  non  1‘  osser-vavano; e se  alcuno  temerariamentela  dispregiava,  lo  punivano 100dio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsonoalla  religione ~Un  popolo  USO  a vivere  sotto  unprincipe,  se  per  qualche  accidente  diventa libero,  con  difficult-à  mantienela  libertà.  . ^ag.  Uno  popolo  corrotto,  venuto  in  li-bertà, si  può  con  dit'ticnltà  grandissima mantenere  libero   In  che  modo  nelle  città  corrotte si  potesse  mantenere  uno  Stato  libero,essendovi;  o non  essendovi,  ordinarvelo Dopo  uno  eccellente  principe  si  puòmantenere  un  principe  debole;  madopo  un  debole,  non  si  può  con  unaltro  debole  mantenere  alcun  regno.Due  continove  successioni  di  principi virtuosi  fanno  grandi  effettivecome  le  repubbliche  bene  ordinatehanno  di  necessità  virtuose  successioni: e però  gli  acquisti  ed  augu-menti  loro  sono  grandi Quanto  biasimo  meriti  quel  prin-cipe e quella  repubblica  che  mancad"armi  proprie Quello  che  sia  da  notare  nel  casodei  tre  Orazi  romani,  e dei  tre  Curiazalbani Che  non  si  debbe  mettere  a pericolo tutta  la  fortuna  e non  tutte le  forze;  e per  questo,  spesso  il  guardare i passi  è dannoso  Le  repubbliche  bene  ordinatecostituiscono  premii  e pene  a'  loro cittadini,  nè  compensano  mai  P uno con  r altro Chi  mole  riformare  nno  Stato antico  in  una  città  libera,  ritenga  almeno V ombra  desmodi  antichi  Un  principe  nnoro,  in  nna  cittào provincia  presa  da  Ini,  debbo  faro ogni  cosa  nnova Sanno  rarissime  volte  gli  nomi-ni essere  al  tutto  tristi  o al  tatto buoni.  IniPer  qual  cagione  i Romani  fu-rono meno  ingrati  agli  loro  cittadini che  gli  Ateniesi Quale  sia  più  ingrato,  o un  po-polo, o un  principe Quali  modi  debbe  usare  un  prìncipe o nna  repubblica  per  fuggirò  questo vizio  della  ingratitudine;  e qnali quel  capitano  o quel  cittadino  per  non essere  oppresso  da  quella Che  i capitani  romani  per  errore commesso  non  furono  mai  istraordi- nariamente  puniti;  nè  furono  inai  an-cora puniti  quando,  per  la  ignoranza loro  o tristi  partiti  presi  da  loro»  ne fussino  seguiti  danni  alla  repubblica,  lfil Una  repubblica  o nno  principenon  dobbe  differire  a beneficare  gli uomini  nelle  sue  necessitati.  Quando  uno  inconveniente  è cresciuto  o in  uno  Stato  o contra  ad uno  Stato,  è più  salutifero  partito  temporeggiarlo che  urtarlo P&g» L'autorità  dittatoria  fece  tene,e non  danno,  alla  repubblica  romana  :o come  lo  autorità  che  i cittadini  si  toPgono,  non  quelle  che  sono  loro  dai suffragi  liberi  date,  sono  alla-  vita  ci^vile  perniciose La  cagione  perchè  in  Roma  la creazione  del  decemvirato  fu  nociva alla  libertà  di  quella  repubblica,  non ostante  che  fosse  creato  per  suffragi pubblichi  e liberi Non  debbono  i cittadini  che hanno  avuti  i maggiori  onori,  sdegnarside'  minoriQuali  scandali  partorì  in  Roma la  legge  agraria:  e come  fare  una legge  in  una  repubblica  che  risguardi assai  indietro,  e sia  contra  ad  unaconsuetudine  antica  della  città,  èscandolosissimo Le  repubbliche  deboli  sonomale  risolute,  e non  si  sanno  delibe-rare; e se  le  pigliano  mai  alcuno  par-tito, nasce  più  da  necessità  che  daelezione  In  diversi  popoli  si  veggonospesso  i medesimi  accidenti . . rrr~.  m.  La  creazione  del  decemvirato  inRoma,  e quello  che  in  essa  è da  no-tare:  dove  si  considera,  intra  moltealtre  cose,  come  si  può  salvare  persimile  accidente,  o oppressare  una  re-pubblica  Saltare  dalla  urailità  alla  superbia, dalla  pietà  alla  crudeltà,  senza  debiti mezzi,  è cosa  imprudente  ed  inutile. Quanto  gli  uomini  facilmente  si possono  corrompere . Quelli  che  combattono  per  la  gloria propria,  sono  buoni  e fedeli  soldati  Una  moltitudine  senza  capo  èinutile:  e non  si  debbe  minacciare prima,  e poi  chiedere  P autorità  È cosa  di  malo  esempio  non  osservare una  legge  fatta,  e massimedallo  autore  d'essa:  e rinfrescare  ogni dì  nuove  ingiurie  in  una  città,  è a chi  la  governa  dannosissimo Gli  uomini  salgono  da  un'  ambizione ad  un'altra;  e prima  si  cercanon  essere  offeso,  dipoi  di  offendere altrui Gli  uomini,  ancora  che  si  ingannino ne’ generali,  nei  particolari  non si  ingannano  Chi  vuolo  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad  un  tristo, lo  facci  domandare  o ad  un troppo  vile  e troppo  tristo,  o ad  uno troppo  nobile  e troppo  buono Se  quelle  città  che  hanno  avuto il  principio  libero,  come  Roma,  hanno difficoltà  a trovare  leggi  che  le  mantenghino;  quelle  che  lo  hanno  immediate servo,  ne  hanno  quasi  una impossibilita L.  Non  debbo  uno  consiglio  o uno  magistrato potere  fermare  le  azioni  della città LT.  Una  repubblica  o uno  principe  debbo mostrare  di  fare  per  liberalità  quello a che  la  necessità  lo  constringe  A reprimere  la  insolenza  di  uno che  sorga  in  una  repubblica  potente, non  vi  è piu  securo  e meno  scando- loso  modo,  che  preoccuparli  quelle  vie per  lo  quali  o’vieno  a quella  potenza.  Il  popolo  molte  volto  desidera  la rovina  sua,  ingannato  da  una  falsa spezie  di  bene  : e come  le  grandi  speranze e gagliardo  promesse  facilmente lo  muovono 25S Quanta  autorità  abbia  uno  uomo grande  a frenare  una  moltitudine Quanto  facilmente  si  conduchino  le cose  in  quella  città  dove  la  moltitu-dine non  è corrotta:  e che  dove  è eqnalità,  non  si  può  faro  principato;e dove  la  non  è,  non  si  può  far  re-pubblica   26SLVI.  Innanzi  che  seguino  i grandi  acci-denti in  una  città  o in  una  provin-eia,  vengono  segui  che  gli  pronosti-cano, o Domini  che  gli  predicono.  PLa  plebe  insieme  è gagliarda;  diper  se  è deboleLa  moltitudine  è più  savia  e piùcostante  che  un  principe altri  si  può  più  fidare;  o di  quellafatta  con  una  repubblica,  o di  quellafatta  con  nno  principe Come  il  consolato  o qualunque  altro magistrato  in  Roma  si  dava  senzarispetto  di  età Quale  fu  più  cagione  dello  imperioche  acquistorono  i Romani,  o la  virtù,o la  fortuna Con  quali  popoli  i Romani  ebbero  acombattere,  e come  ostinatamentequelli  difendevano  la  loro  libertà.  . Roma  divenne  grande  città  rovi-nando le  città  circonvicine,  e rice-vendo i forestieri  facilmente  a'  suoionori Le  repubbliche  hanno  tenuti  tre  modicirca  lo  ampliare lingue,  insieme  con  1~ accidente  de-1  diluvi o delle  pesti,  spegno  la  memo-ria dello  cose,  . Come  i Romani  procedevano  nel  farela  guerra Quanto  terreno  i Romani  davanoper  colono La  cagione  perchè  i popoli  si  par-tono da’ luoghi  patrii,  ed  inondano  ilpaose  altrui Quali  cagioni  comunemente  faccinoX.  I danari non sono  il  nervo  dellaguerra,  secondo  elio  è la  comune  op-pinone Non  è partito  prudento  fare  amici-zia con  un  principe  che  abbia  piùoppinione  che  forze assaltato,  inferire,  o aspettare  laguerra Che  si  viene  (li  bassa  a gran  for-tuna più  con  la  fraude,  che  con  laforza t Ingannansi  molte  volto  gli  uomini,credendo  con  la  nmilità  vincere  la  su-perbia  Gli  Stati  deboli  sempre  fieno  ambi-gui nel  risolversi:  e sempre  le  deli-berazioni lente  sono  nocive Quanto  i soldati  ne’  nostri  tempi si  disformino  dalli  antichi  ordini  . Quanto  si  debbino  stimare  daglieserciti  ne’  presenti  tempi  le  artiglie-rie  ; e se  quella  oppinione  che  se  neha  in  universale,  è vera Come  per  I’  autorità  de*  Romani,e per  lo  essempio  della  antica  mili-zia, si  debbe  stimare  più  le  fanterieche  i cavagli . Che  gli  acquisti  nelle  repubbli-che non  bene  ordinate  e che  secondola  romana  virtù  non  procedono,  sonoa rovina,  non  a esaltazione  di  esse  .Quale  pericolo  porti  quel  principeo quella  repubblica  che  si  vale  dellamilizia  ausiliare  a mercenaria Il  primo  Pretore  che  i Romanimandarono  in  alcun  luogo,  fu  a Capo-va,  dopo  quattrocento  anni  che  co-minciarono a far  guerra Quanto  siano  false  molte  volte  leoppinioni  degli  uomini  nel  giudicarele  cose  grandi Quanto  i Romani  nel  giudicarei sudditi  per  alcuno  accidente  che  ne-cessitasse tal  giudizio,  fuggivano  lavia  del  mezzo Le  fortezze  generalmente  sonomolto  più  dannose  che  utili Che  Io  assaltare  una  città  disu-nita,  per  occuparla  mediante  la  suadisunione,  è partito  contrario.  . . . Il  vilipendio  e l’improperio  ge-nera odio  contra  a coloro  che  l’usa-no, senza  alcuna  loro  utilità Ai  principi  e repubbliche  pru-denti debbe  bastare  vincere  ; perchè  ilpiù  delle  volte,  quando  non  basti,  siperde  Quanto  sia  pericoloso  ad  unarepubblica  o ad  uno  principe  non  ven-dicare una  ingiuria  fatta  contra  alpubblico  o contra  al  privato La  fortuna  accieca  gli  animi  de-gli uomini,  quando  la  non  vuole  chequelli  si  opponghino  a’  disegni  suoi Le  repubbliche  e gli  principi  ve-ramente potenti  non  comperano  l' ami-cizie con  danari,  ma  con  la  virtù  econ  la  riputazione  delle  forzo  .... Quanto  sia  pericoloso  credere  agli sbanditi In  quanti  modi  i Romani  occu-pavano le  terre Come  i Romani  davano  agliloro  capitani  degli  eserciti  le  commis-sioni libere A volere  che  una  setta  o una  repub-blica viva  lungamente,  è necessarioritirarla  spesso  verso  il  suo  principio.  Come  gli  è cosa  sapientissima  simu-lare in  tempo  la  pazzia 5Come  egli  è necessario,  a volermantenere  una  libertà  acquistata  dinuovo,  ammazzare  i figliuoli  di  Bru-to   Pag-Non  vive  sicuro  un  principe  in  unprincipato,  mentre  vivono  coloro  chene  sono  stati  spogliati Quello  che  fa  perdere  uno  regno  aduno  re  che  sia  ereditario  di  quello  . Delle  congiure Donde  nasce  che  le  mutazioni  dallalibertà  alla  servitù,  e dalla servitùalla libertà,  alcuna  n1  è senza  sangue,alcuna  n"  è piena Chi vuole  alterare  una  repubbli-ca, debbo  considerare  il  soggetto  diquella Come  conviene  variare  coi  tempi,volendo  sempre  aver  buona  fortuna  . Che  uu  capitano  non  può  fuggire  lagiornata,  quando  1’  avversario  la  vuolfare  in  ogni  modo Che  chi  ha  a fare  con  assai,  an-cora Che  sia  inferiore,  purché  possasostenere  i primi  impeti,  vince.  . . . Come  un  capitano  prudente  debboimporre  ogni  necessità  di  combattereai  suoi  soldati,  e a quelli  delli  minicitorla golP0Ye  8*a  Più  confidare,  o innuo  buono  capitano  che  abbia  l;eser-cp°  debole,  o in  uno  buono  esercitoche  abbia  il  capitano  debole. Le  invenzioni  nuove  che  appari-scono nel  mezzo  della  zuffa,  e le  vocinuove  che  si  odono,  quali  effetti  fac-cino   Come  uno  e non  molti  siano  preposti ad  uno  esercito,  o come  i piùcomandatori  offendono Che  la  vera  virtù  si  va  ne' tempidifficili  a trovare;  e ne*  tempi  facilinon  gli  uomini  virtuosi,  ma  quelliche  per  ricchezze  o per  parentado  pre-vagliono,  hanno  più  graziaChe  non  si  offenda  uno,  e poiquel  medesimo  si  mandi  in  ammini-strazione e governo  d’ importanza. Nessuna  cosa  è più  degna  d' uncapitano, che presentire i partiti  delnimico.  Se  a reggere  una  moltitudine  èpiù  necessario  lo  ossequio  che  la  pena. Uno  essempio  d'umanità  appresso ai  Falisci  potette  più  d' ogni  forza romana Donde nasce che Annibale con diverso modo di procedere da Scipione,  fa  quelli  medesimi  effetti  in Italia  che  quello  in  Ispagna. Come  la  durezza  di  Manlio  Torquato e l’umanità  di  Valerio  Corvino acquistò  a ciascuno la medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse cacciato di Roma. La prolungazione degl’imperi  fa  serva  Roma. Della  povertà di Cincinnato,  e dimolti  cittadini  romani. Come per cagione di femmine si rovina uno Stato . Come  e'  si  ha  a nnire  una  città divisa;  e come  quella  oppinione  non è vera,  che  a tenere  le  città  bisogna tenerle  disunite. Che si debbe  por  mente  alle opere  de’  cittadini,  perchè  molte  volte sotto  un’opera  pia  si  nasconde  un  principio di  tirannide. Che gli peccati dei popoli nascono dai  principi. Ad  uno  cittadino  che  voglia  nella sua  repubblica  far  di  sua  autorità  alcuna opera  buona,  è necessario  prima spegnere l’invidia:  e come,  venendo il  nimico,  s’ha  a ordinare  la  difesa d’una  città  Le  repubbliche  forti  o gli  uomini eccellenti  ritengono  in  ogni  fortuna il  medesimo  animo  e la  loro  medesima dignità. Quali  modi  hanno  tenuti  alcuni a turbare  una  paco. Egli  è necessario,  a voler  vincere una  giornata,  fare l’esercito  conattente  ed  infra  loro,  e con  il  capittano. Quale  fama  o voce  o oppinione fa  che  il  popolo  comincia  a favorire un  cittadino:  e se  ei  distribuisce  I magistrati  con  maggior  prudenza  che un  principe. Quali  pericoli  si  portino  nel  farsi capo  a consigliare  una  cosa; e quanto ella  ha  più  dello  straordinario,  maggiori pericoli  vi  si  corrono  .  La  cagione  perchè  i Franciosi sono  stati  e sono  ancora  giudicati nelle  zuffe  da  principio  più  che  uomini, e dipoi  meno  che  femmine . Se  le  piccolo  battaglie  innanzi alla  giornata  sono  necessarie,  e come si  debbo  fare  a conoscere  un  nimico nuovo,  volendo  fuggire  quelle  . Come  debbe  esser  fatto  un  capitano nel  quale  1’esercito  suo  possa confidare Che  un  capitano  debbe  esser conoscitore  dei  siti   Come  usare  la  fraudo  nel  maneggiare la  guerra  è cosa  gloriosa.  . Che la patria si debbe difendere o con  ignominia  o con  gloria;  ed  in qualunque  modo  è ben  difesa Che  le  promesse  fatte  per  forza non  si  debbono  osservare Clie  gli  uomini  che  nascono  in una  provincia,  osservano  per  tutti  I tempi  quasi  quella  medesima  natura  E’  si  ottiene  con  l'impeto  e con 1’audacia  molte  volte  quello  che  con modi  ordinari  non  si  otterrebbe  mai  . Qual sia miglior  partito  nelle  giornate, o sostenere  l'impeto  de'  nimici, e sostenuto  urtargli;  ovvero  dapprima con  furia  assaltargli  Donde  nasce  che  una  famiglia  in una  città  tiene  un  tempo  i medesimi costumi Che un buon cittadino per amore della patria debbe dimenticare l’ingiurie private. Quando  si vede fare uno errore, grande ad un nimico,  si debbe credere die  vi  sia  sotto  inganno. Una  repubblica,  a volerla  mantenere libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti;  e per  quali meriti  Quinto  Fabio  è  chiamato  Massimo. Tito Livio. Keywords: filosofia romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livio” – The Swmming-Pool Library, Villa Speranza. For H. P. G. Grice’s Gruppo di Gioco. 
Tito Livio.

 

Grice e Lodovici: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della virtù – verso la meta – la meta è l’origine -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. – Grice: “I like Emanuele Samek Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is good!” -- samek lodovici -- one of the two. Il suo pensiero d'impronta metafisica si oppone al materialismo e al riduzionismo. Esperto della filosofia di Plotino, Sant'Agostino e Marx, si occupa dello gnosticismo che a suo parere si trova ripresentato in diverse filosofie e ideologie dell'età moderna e contemporanea. Figlio del bibliotecario e bibliografo Sergio Samek Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello maggiore, noto medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi vivere sempre a Milano. Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga, quando dopo il naufragio di un'imbarcazione carica di bambini era stato inserito nel gruppo delle piccole salme, ma il tempestivo intervento di un medico lo salvò. Di formazione e cultura cattoliche, studia a Milano dove si laurea con «Filosofia classica e spiritualità cristiana nel Commento di Sant'Agostino al Vangelo di San Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due monografie, una su Agostino (con il contributo del C.N.R.), e l'altra sulla gnosi moderna, che gli valsero la cattedra di Filosofia a Trieste.  In una lettera Noce si riferiva così. Nella prima delle sue due opere fondamentali, Dio e mondo, inizia considerando la grave accusa rivolta da Heidegger alla metafisica, ovvero di non aver compreso che cos'è l'«essere» e di aver reificato Dio, di averlo cioè reso una «cosa». Questa critica può essere legittima ma non nei riguardi della metafisica neoplatonica nella forma in cui è stata mediata da Agostino. Individua il fulcro di tale metafisica nella dottrina della «partecipazione» delle idee col mondo, in forza della quale il rapporto di Dio col mondo è una relazione sostanziale e non oggettualità.  In Metamorfosi della gnosi, delinea una fenomenologia della cultura come influenzata da una mentalità inconsciamente gnostica. Tale mentalità ha assunto in sé le tesi dello gnosticismo antico, ovvero la sostanziale negatività del mondo, la possibilità di redenzione dalla oscurità del mondo attraverso un sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di un redenzione del mondo realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla sola azione dell'uomo tramite la politica e/o la scienza.  Così nel pensiero gnostico la finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e rifiutate, con l'ambizione di creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena. Insomma, sintesi del pensiero gnostico è quella formulazione che trova il proprio culmine nel «rifiuto di non poter essere Dio»; in tal modo nella visione gnostica non è più Dio, ma l'uomo gnostico a identificarsi con l'infinito, sgravato com'è da qualsiasi limite.  Da ciò appaiono evidenti gli obiettivi polemici e critici di ogni metamorfosi dello gnosticismo rappresentato nelle forme del riduzionismo antireligioso, del prometeismo marxista, della filosofia radical-relativista diffusa attraverso i media, della corruzione della memoria storica attuata anche attraverso la corruzione del linguaggio ed infine nella strategia della distruzione della famiglia, che è stata potentemente colpita in particolare con la rivoluzione sessuale e con alcuni tipi di femminismo.  Per quanto riguarda la sua pars construens, Safferma che proprio a partire dalla post-marxistica crisi del pensiero secolarista gnostico si deve delineare la necessità di ritornare alla tradizione metafisica, da lui indicata sulla linea di Platone, Plotino e soprattutto Agostino.  In sintonia con l'ermeneutica contemporanea, e pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura storicamente condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della conoscenza, secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non ha le cose», e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa del linguaggio per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo con cui l'uomo storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio stesso (i baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che  «ha affermato la libertà politica da ogni autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»  Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la religione, per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le risposte prime ed ultime.  Tipica poi del suo pensiero  è la «cultura del ricordo», intesa come cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che  «mi rende migliore di quello che sono».  La riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che, per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò «non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente, come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “ Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in  Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino, in  Questioni di storiografia filosofica, La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in, Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli,  La felicità e la crisi della cultura radicale ed illuministica, in  La crisi della coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e mondo: relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares,  Dominio dell'istante, dominio della morte. Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il gusto del sapere  Estratti di L'arte di non disperare  M.  Picker, Il mio professore di filosofia, Studi Cattolici, Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo, Catania. Giacomo L., Profili. L., Studi Cattolici, Sciffo, Le maschere della gnosi, «Avvenire», Barbiellini Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza., in «Corriere della Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles, La battaglia di Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Fumagalli, L. e Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/ tesi.pdf  Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre, una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivio Storico Articolo-emanuele-samek- lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il ritorno della gnosi, in «Avvenire», Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano.  Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu   su Santi, beati e testimoni, santiebeati.  Il gusto del sapere Universitas, Documentazione interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione nell'analisi” Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la gnosi come vero avversario della verità di Restelli, sito "Cultura Cattolica. Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale, il sessuale – la sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir, virile, virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The Swimming-Pool Library.

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