Monday, July 29, 2024

Grice e Troilo

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CLASSICI  DEL  RIDERE 


Sono  pubblicati  : 

1.  G.  Boccacci     //  Decamerone  (Giornata  I;  2''  ristampa)  L.  6  — 

2.  Petronio  Arbitro  -  //  Saiurkon  (4*  ediz.)    ...»  8,50 

3.  S.  De  Maistre  -  /  viaggi  in  casa  (2*  ristampa)  .      .  »  7,50 

4.  A.  Firenzuola  -  Novelle  (2»  risUmpà)     ....  »  6  — 

5.  A.  F.  Doni  -  Scritti  vani »  7,50 

6.  EIroda  -  /  mimi »6  — 

7.  C.  Porta  -  Antologìa »6  — 

8.  G.  SwiFT  -  1  Viaggi  di  Gulliver  (2*  ediz.)   ....  8,50 

9.  G.  RaJBERTI   -  L'Arte  di  convitare »  7,50 

10.  G.  Boccacci  -  //  Decamerone  (II) »  6  — 

1 1 .  Luciano  -  /  dialoghi  delle  cortigiane »  6  — 

12.  Cyrano  -  //  pedante  gabbato,  ecc »  6  — 

13.  G.   Boccacci   -  //  Decamerone  (Ili) 6  — 

14.  e.  TiLLlER       Mio  zio  Beniamino »  9,50 

15.  Margherita  di  Navarra  -  L' Heptaméron .      .     .     .  »  10  — 

16.  N.  Machiavelli      Mandragola,  Clizia,  Belfagor.    .  »  6  — 

17.  O.   WiLDE  -  //  fantasma  di    Canterville 6  — 

18.  G.  Boccacci  -  //  Decamerone  (IV) »  6  — 

19.  C.  TiLUER       Bellapianta  e  Cornelio »  8,50 

20.  G.   Boccacci  -  //  Decamerone  (V) »  6  — 

21.  e.  De  Coster  -  La  leggenda  di  Ulenspiegel  (1)     .      .  '  9,50 

22.  Voltaire  -  La  Pulcella  d'Orléans,  trad.   dal  Monti.  »  7,50 

23.  F.   Berni  -  Le  Rime  e  la  Catrina »  6,50 

24.  D.  Batacchi  -  La  Rete  di  Vulcano  (I)      .      .      .  »  6,50 

25.  C.  De  Coster  -  La  leggenda  di   Ulenspiegel  (II)   .      .  »  9,50 

26.  G.  Boccacci  -  //  Decamerone  (VI) »  6  — 

27.  G.  Boccacci       //  Decamerone  (VII) »  6  — 

28.  G.  Boccacci  -  //  Decamerone  (VIII) »  6  — 

29.  G.   Boccacci  -   //  Decamerone  (IX) »  6  — 

30.  G.   Boccacci  -  //  Decamerone  (X) »  6  — 

31.  D.  Batacchi      La  Rete  di  VuUano  (II)     ....  »  7,50 

32.  F.  De  Quevedo       La  vita  del  Pitocco »  6  — 

33.  A.  Tassoni  -  Z-a  Secchia  Rapita »  7,50 

34.  Salom  Alechem.  Marienbad »  6  — 

35.  O.  Guerrini  e  e.  Ricci,  //  Giobbe »  6,50 

36.  V.   Marziale  -  Gli  Epigramu.i »  5.00 

37.  O.Bklzac  -  Le  sollazzevoli  historie »  7,50 

38.  W.   BVCH  -  S.  Antonio  da  Padova i  4,50 

39.  G.  Bruno  -  In  tristitia  hilaris,  in  hilaritale  tristis      .  »  9,50 


GIORDANO  BRUNO 


IN  TRISTITIA  HILARIS, 

IN  HILARITATE  TRISTIS 


LA  PROPRIETÀ  LETTERARIA  ED  ARTISTICA 

delle  versioni  onginalì,    degli  ornamenti,   delle  note  crìtiche 

pubblicate  in  questa  collezione 

SPETTA    ESCLUSIVAMENTE    ALl' EDITORE 

i!    quale,  adempiuti   i  suoi  obblighi   verso  la  legge  e  verso  gli  Autori 

eserciterà  i  suoi   diritti   contro  chiunque  e   dovunque 


Copyright  1922  by  A.   F.  Formiggini,   Rome- 


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Grafìa*  S.  A.  I.  Industrie  Grafiche  -  Roma,   Via  Federico  Cesi,  45  -   1922 


Alla  filosofia,  come  all'arte  in  genere  edalla  poesia 
in  ispecle,  è  noto,  fin  dai  primi  tempi,  il  riso;  e 
accompagnato  con  esso,  il  pianto. 

Si  tratta  di  espressioni,  e,  si  potrebbe  dire,  a  di- 
rittura, di  elementi  essenziali  dello  spirito;  e  però  la 
considerazione  filosofica,  come  la  contemplazione 
artistica,  dell'uomo  e  delle  cose,  non  poteva  pre- 
scinderne. A  traverso  il  pianto  ed  il  riso,  filosofia  ed 
arte  si  congiungono  ancora  una  volta  profondamente. 

E  se  in  quei  termini  è  d'uopo  ravvisare  non 
solo  elementi  um.ani,  sì  anche  una  delle  molte 
formie  dell'antitesi  eterna  di  Bene  e  di  Male,  non 
ristretta  al  consueto  senso  pratico  e  morale,  ma 
estesa  alla  sua  significazione  più  propriamente  teore- 
tica, non  si  può  in  alcun  modo  giustificare  e  vera- 
mente intendere  un  contrapposto  assoluto  di  filosofie 
e  di  filosofi,  a  seconda  che  essi  più  inclinino  ad 
una  visione  ilare  o  ad  una  visione  triste  del  mondo. 

La  bizzarria  di  Luciano,  che  crea  in  Democrito  il 
filosofo  ridente  e  in  Eraclito  il  filosofo  piangente,^ '^ 


(0  Luciano,  L'Asta  delle  Anime.  —  Di  Luciano  ved.  in  «  Clas- 
sici del  ridere  »  Opere  scelte,  a  cura  di  Emilio  Bodrero. 


vili  Prefazione 

si  perpetuerà  In  una  facile  opposizione,  ma  non  darà 
mal  un  legittimo  e  saldo  lineamento  di  considera- 
zione filosofica. 

La  stona  opporrà  al  paganesimo  il  cristianesimo; 
la  metafisica  costruirà  sistemi  di  ottimismo  e  di 
pessimismo;  la  indagine  psicologica  e  la  specula- 
zione filosofica  tenteranno  la  sintesi  del  Weltschmerz 
con  Schopenhauer  e  l'analisi  del  Rìdere  col  Bergson; 
ma  in  realtà  una  vera  posizione  filosofica  non  sta  nella 
rigida  antinomia  di  riso  e  pianto;  e  filosofo  non  può 
essere,  nella  sua  espressione  più  piena,  ne  chi 
dlsciolga  ed  anneghi  nel  riso,  ne  chi  conduca  a  ne- 
garsi nel  dolore,  lo  spirito  e  il  mondo. 

Si  deve  anche  dire  che  il  riso,  in  un  suo  momento 
estremo,  è  segno  quasi  sinonimo  di  pianto,  di  più 
profondo  pianto;  che  l'uno  e  l'altro  hanno  talora 
come  una  risoluzione  tragica  comune  nella  pazzia  — 
un  enigma,  appunto,  di  riso  e  di  pianto  che  scoppia 
nell'uomo,^' e  dall'uomo  si  riversa,  con  un  brivido, 
sul  mondo. 

Giordano  Bruno  npete  più  d'una  volta  la  facezia 
di  Luciano;  nel  Candelaio,  ^^^  che  è  comedia  sa- 
tirica per  eccellenza,  e  nella  Cena  delle  Ceneri,  ^^^ 
che  è  il  vibrante  dialogo  della  nuova  costituzion  e 
dell'universo:  vi  accenna  singolarmente  conl'espres- 


0)  «Considerate  chi  va,  chi  viene,  che  si  fa,  che  si  dice,  come 
s'intende,  come  si  può  intendere;  che  certo  contemplando  quest'azioni, 
e  discorsi  umani  col  senso  d'Eraclito  o  di  Democrito  avete  occasione 
di  molto  o  ridere  o  piangere  >.  Candelaio.  Proprologo. 

(2)  «  Or  eccovi...  un  convito  sì  grande,  sì  picciolo,  sì  maestrale,  si 
disciplinale,  sì  sacrilego,  si  religioso...  che  certo  credo  che  non  vi  sarà 
poca  occasione  da  divenir  eroico,  dismesso;  maestro,  discepolo;  cre- 
dente, miscredente;  gaio,  triste;...  sofista  con  Aristotele,  filosofo  con 
Pitagora,  ridente  con  Democrito,  piangente  con  Eraclito...  ».  Cena 
delle   Ceneri.  Proemiale  epistola  al  signor  di  Mauvissiero. 


Prefazione  |X 


sione  democriteggiare,  che  è  nella  satanica  Declama- 


(1) 


e    che 


zione  della  Cabala  del  Cavallo  Pegaseo, 
torna  nel  dialogo  primo  de  La  Causa  Principio  et 
Uno,  ^^^  dove  il  pensiero  va  con  ala  superba,  per 
altezze  magnifiche.  Ma  è  evidente  dal  testo  dei 
passi  stessi  accennati,  che  il  Bruno  non  intende 
affatto  stabilire  ne  una  contrapposizione  radicale 
di  riso  e  di  pianto,  ne  la  sua  posizione  propria; 
mentre  invece  egli  qui  riguarda  le  cose  dal  semplice 
punto  di  vista  esteriore  e  comune;  onde  tutto  si 
presta  alla  considerazione  dell'uno  o  dell'altro  di 
questi,  che  si  potrebbero  chiamare  anch'essi  A'jo  lo^oi 
delle  cose.  Non  senza  piegare,  sotto  questo  rispetto, 
verso  un  impetuoso  riso;  che  circola  e  guizza  in 
tutte  le  sue  opere  e  scoppia  fin  in  mezzo  agli  argo- 
menti più  gravi,  senza  sottigliezza  e  senza  ambagi, 
aperto  e  rude,  come  un  suggello  di  giudizio,  e  di 
sanzione. 

Ma  se  ben  consideriamo  la  natura  del  suo  riso, 
ci  apparirà  come  esso  non  abbia  mai  nulla  di 
esteriore  o  che  possa  farlo  considerare  quale  fine 
a  se  medesimo.  Il  comico,  in  quanto  tale,  vera- 
mente, non  c'è  in  Bruno.  In  lui  non  si  aprono  quelle 
brevi   parentesi   di  azzurro,   che,  per   esempio,   tra- 


(1)  «Chi  potrà  donar  freno  a  le  lingue,  che  non  mi  mettano  ne 
medesimo  predicamento,  come  colui  che  corre  appo  h  vestigi  degh 
altri,  che  circa  cotal  soggetto  (<\eìV asinità)  democriteggiano  ».  Cabala 
del  Caoallo  Pegaaeo.  Declamazione  allo  studioso,  divoto  e  pio  lettore. 

(2)  «  Cosi  è  disposto  il  mondo!  Noi  facciamo  il  Democrito  sopra 
li  pedanti  e  grammatisti,  li  solleciti  cortigiani  fanno  il  Democrito  sopra 
di  noi;  li  poco  pensosi  monachi  e  preti  democriteggiano  sopra  tutti; 
e  reciprocamente  li  pedanti  si  beffano  di  noi,  noi  de'  cortigiani,  tutti 
de  li  monachi,  et  in  conclusione,  mentre  l'uno  è  pazzo  o  1  altro,  verremo 
ad  esser  tutti  differenti  in  specie,  e  concordanti  in  genere  et  numero 
et  casu  ».  De  la  Causa,  Principio  et  Uno.  Dialogo  primo 


X  Prefazione 

mezzano  spesso,  con  caricature  e  disegni  umoristici, 
le  grandi  opere  di  Leonardo.  E  cade  opportuno 
notare  che,  forse,  non  furono  mai  scritti  dal 
Bruno  quei  Pensier  gai  accennati  nel  Candelaio^^^ 
in  cui  forse  si  sarebbe  potuto  avere,  a  sollazzare  la 
Signora  Morgana,  propriamente  gaiezza  e  riso.  Non 
era  fatto  per  ciò  quegli  che  nell ' /4n//pro/o^o  del 
Candelaio  stesso  dice  «  ch'ave  una  fisionomia  smar- 
rita; par  che  sempre  sii  m  contemplazione  delle  pene 
dell'inferno...  un  che  ride  sol  per  far  come  fan  gli 
altrr^^  ^^^  Il  suo  vero  riso,  è  qualche  cosa  di  singo- 
lare, che  va  assai  oltre  il  ghigno  ed  il  lazzo;  è  non 
solo  il  riso  deìV uomo  fastidito,  ma  del  pensoso  instau- 
ratore,  dell  eretico  della  Religione  e  della  Filosofìa. 
Ed  ugualmente,  e  necessariamente,  per  ciò,  la  sua 
tristezza,  che  è  stata  assomigliata  a  quella  di  Nicolò 
Machiavelli,  è  ben  più  profonda  che  non  sia  un 
miomentaneo  ripiegamento  dello  spirito;  trae  dalla 
considerazione  di  quella  medesima  realtà  umana  e 
sociale,  su  cui  si  esercita  l'aspro  e  violento  suo  riso, 
e  che  costituisce  una  specie  di  contrapposizione  alla 
realtà  ontologica,  la  quale  e  posta,  invece,  essenzial- 
m.ente  pura  e  buona.  Così  la  posizione  bruniana 
rispetto  a  questo  problema  del  riso  e  del  pianto, 
nella  considerazione  delle  cose  umane  e  delle  cose 
universali,  è  tutta  propria.  La  filosofìa,  come 
del  resto  la  vita  stessa,  non  può  abbandonarsi 
ad  esclusivismi,  o  sentimentale,  o  razionale,  e 
pratico,  in  un  senso  o  nell'altro,  con  Democrito 
o  con  Eraclito,  secondo  la  facile  e  rigida  distin- 
zione tradizionale.  Occorre  trascendere  il  riso  per  se, 


(')  Alla  signora  Morgana.  Cfr.  al  proposito  V,  SPAMPANATO,  Can- 
delaio. Bari,  Laterza,  1909,  pag.  6. 
(2)  Ibid.  pag.   19. 


Preiaz;(5ne  XI 

il  dolore  per  se,  per  poter  vedere  veramente  l'es- 
senza umana,  cogliere  e  diffondere  e  rendere  frut- 
tifero il  valore  universale  dell'uno  e  dell'altro.  Questo 
necessario  superamento  può  avere  nell'atteggiamento 
del  filosofo,  può  cioè  filosoficamente  compiersi  in 
vane  forme,  di  cui  due  sono  le  fondamentali;  la 
forma  bruniana  e  la  forma  spinoziana:  «  In  tristitia 
hilarisy  in  hilaritate  tristis  »  del  Nolano  ;  «  Non  ri- 
dere, non  lugere...^^^^^  dell'Olandese. 

Del  pensiero  spinoziano  (che  è  assolutamente 
erroneo  intendere  qual'espressione  di  indifferenza 
morale,  precorrente  m  certo  senso  il  nietzschiano  al 
di  là  del  bene  e  del  male)  non  si  deve  qui  trattare  di 
proposito.  Basti  ricordare  che  Biuno  è  la  tempesta 
nel  colmo  del  suo  impeto  travolgente;  Spinoza  è 
il  sereno  risolutivo  della  tempesta  stessa;  ^^^  e  come 
in  genere  questi  segna  il  compimento  di  tutto  il 
moto  rivoluzionano  della  Rinascenza,  cosi  m  ispecie 
la  sua  formola  indicata,  per  il  problema  di  cui  qui 
SI  discorre,  supera  sotto  l'aspetto  filosofico  la  for- 
mula e  la  posizione  bruniana. 

Ma  filosoficamente,  e  nel  senso  teoretico  e  nel 
senso  morale  e  storico,  alla  suprema  forma  di  Be- 
nedetto Spinoza  non  si  poteva  pervenire,  se  non 
per  la  forma  più  tragicamente  umana  di  Giordano 
Bruno.  ^^^  Per  andare    oltre  il   riso  ed  il   pianto,   e 


(0  Tractatus  Politicus,  Caput  I,  §  IV.  Cfr.  anche  il  frammento  di 
lettera  a  Boyle.  Opere,  Van  VloteN  et  Land,  voi.  II,  pag.  305. 

(2)  E  TroiLO,  Introduzione  alla  Filosofia  di  Benedetto  Spinoza. 
Milano,   1914. 

O)  E  però  da  notare  che  già  in  Bruno  stesso  è  un  accenno  anche 
al  superamento  di  carattere  spinoziano,  nella  considerazione  del  punto 
di  passaggio  dall'elica  subiettiva  all'elica  obiettiva,  e  precisamente  nel- 
opera  De  Vinculis.  Su  di  che  può  vedersi  la  mia  Filosofia  di  C  B.  Parte  II, 
La  Fil.  Soggettiva;  U Etica,  spec.  pagg.  124-127. 


XII 


Pref 


azione 


da  quel  supremo  punto  considerare  anche  queste 
fragili  e  terribili  manifestazioni  e  gli  eventi  che  si 
può  dire  ne  siano  materiati,  e  le  cose  cui  sono 
mescolati  (non  sono  pure  metafore  il  numeroso  riso 
dell'universo  e  le  lacrymae  rerum),  occorreva  pas- 
sare a  traverso,  e  considerare,  il  riso  che  è  pianto, 
ed  il  pianto  che  è  riso:  ed  ecco,  appunto,  la  tri' 
stitia  hilaris  e  la  hilaritas  tristis,  ed  il  filosofo  che  è 
in  hilaritate  tristis  ed  in  tristitia  hilaris. 


*  *  * 


Non  è  senza  importanza  l'accenno  alla  duplice 
espressione  della  formula;  ^'^  l'una,  la  più  nota  e  la 
più  citata,  prevalentemente  personale  e  soggettiva; 
l'altra  meno  conosciuta,  più  oggettiva,  che  trova 
riscontro  in  molte  altre  espressioni  e  proposizioni 
bruniane  delle  opere,  latine  ed  italiane,  di  filosofia 
morale  e  di  filosofia  naturale.  Ciò  sta  ad  indicare  non 
solo  un  atteggiamento  personale  del  pensatore  ma 
qualche  cosa  di  più;  quasi  una  nota  obiettiva,  una  co- 
loritura singolare  e  profonda  del  suo  pensiero  morale, 
in  connessione  con  tutti  gli  altri  aspetti  e  con  l'es- 
senza stessa  del  pensiero  filosofico  fondamentale. 

Il  motto  del  filosofo  ilare  nella  tristezza,  triste 
nella  ilarità,  apparisce  in  fronte  ad  una  delle  prime 
opere,  che  è  il  Candelaio;  e  sta,  appunto,  ad  indi- 
care non  solo  lo  spirito  informatore  di  questa  stu- 
penda comedia  di  riso  e  di  amarezza,  ma  quasi 
Io  spirito  di  tutta  l'opera,  distruttiva  e  costruttiva, 
del  filosofo. 


(1)  Candelaio.  Epigraje.  -  De  Vinculis  in  genere,  art.  IX.  Opera  lat., 
▼ol.  Ili,  ...laetiliam  trisiitiam...  fletum  et  risum.  —  De  vinciente  in 
genere;  etc 


Prefazione  XIII 

E  del  resto  il  Candelaio  stesso  è  ben  altro  che  una 
comedia  nel  senso  ordinano  della  parola;  e  la  sua 
caratteristica  non  è  solo  quella  di  allargarsi  alla  più 
vasta  materia  sociale,  come  osserva  lo  Zumbini,  ^'^ 
ma  di  riconnettersi,  secondo  gli  oscuri  accenni  del- 
l'autore, alla  sua  dottiina  filosofica  propriamente, 
sia  quando  si  avverte  che  esso  potrà  chiarire  alquanto 
certe  «  Ombre  delle  Idee  >\  ^^^  sia  quando  si  conclude 
la  dedica  dell'opera  stessa,  con  austere  parole  in  cui 
vibra  il  senso  profondo  della  nolana  filosofia.  «  // 
tempo  tutto  toglie  e  tutto  dà;  ogni  cosa  si  muta,  nulla 
s'annichila;  è  un  solo  che  non  può  mutarsi,  e  può  perse- 
verare eternamente  uno,  simile  e  medesimo.  Con  questa 
filosofia  Vanimo  mi  s'aggrandisce  e  mi  si  magnifica 
r intelletto.  ^^^  Suggestive  parole,  le  quali,  a  traverso 
la  trama  ridicola  della  favola,  a  traverso  l'ingenuità 
e  talora  la  sconcezza  degli  svolgimenti  e  degli  epi- 
sodi, costituiscono  come  un'atmosfera  di  più  pro- 
fonda meditazione,  entro  cui  si  accendono  di  opposto 
riflesso  l'ilarità  triste  e  la  tristezza  ilare  dello  psico- 
logo, del  moralista,  del  filosofo. 

Cosi,  il  riso  di  Giordano  Bruno  è  veramente  filo- 
sofico; e  però  esso  non  s'intende  nel  suo  significato 
e  nel  suo  valore,  non  s'intende  nel  suo  intimo  segreto. 


(0  Ved.  Spampanato.  Introd.  Op.  cit.,  pag.  lxiv. 

(2)  Alla  Signora  Morgana.  SPAMP.  pag.  6.  «  ...eccovi  la  candela 
che  vi  vien  porgiuta  per  questo  Candelaio  che  da  me  si  parte,  la  qual 
in  questo  paese,  ove  mi  trovo,  potrà  chiarir  alquanto  certe  Ombre  dei- 
Videe,  le  quali  invero  spaventano  le  bestie,  e  come  {ussero  diavoli  dan- 
teschi, fan  rimaner  gli  asini  lungi  a  dietro;  ed  in  cotesta  patria,  ove 
voi  siete,  potrà  far  contemplar  l'animo  mio  a  molti,  e  fargli  vedere  che 
non  è  al  tutto  smesso  >\ 

(3)  Cfr.  De  V Infinito  Universo  e  Mondi.  Wagner,  II,  pag.  12: 
«  ...Questa  è  quella  filosofia  che  apre  gli  sensi,  contenta  il  spirto,  ma^ 
gnifica  l'intelletto  e  riduce  l'uomo  alla  vera  beatitudine  ». 


XIV  Prefazione 

se  lo  si  considera  diversamente  e  sotto  gli  altri  par- 
ticolari e  più  facili  aspetti  che  può  presentare,  come 
il  letterario,  e  quello  morale,  nel  senso  più  stretto  e 
più  pratico  della  parola.  Non  che  ciò  sia  trascura- 
bile; ma  certo  non  è  tutto,  e  non  è  il  più.  Onde 
è  avvenuto  che  anche  qualche  grande  spinto, 
come  Giosuè  Carducci,  non  abbia  inteso  in  parti- 
colare il  Candelaio  ed  abbia  disconosciuto  in  gene- 
rale, nel  Bruno,  lo  scrittore.  E  che  quel  riso,  se  pur 
si  esplica  nella  forma  della  comedia  cinquecentesca 
e  della  satira;  se  nel  gonfiarsi  delle  tendenze  letterarie 
del  suo  tempo  ha  spunti  di  violento  antiaccademismo 
e  di  antipetrarchismo;  se  ritrae  i  tipi  classici  del 
pedante,  dell'avaro  libertino,  del  marito  sciocco,  dello 
scroccone,  etc,  non  è  un  riso,  per  cosi  dire,  let- 
terario; e  se  ancora  vuole,  secondo  la  massima  tra- 
dizionale, castigare  ridendo  mores,  non  è  nel  senso 
immediato  e,  diciamo,  esclusivo  della  morale. 

A  chi  studii  a  fondo  l'etica  bruniana,  appare  come 
il  riso  e  la  satira  del  Nolano  non  solo  siano  profonda- 
mente inseriti  in  essa,  ma  quasi  ne  seguano  lo  stesso 
schema  di  svolgimento. 

Sembrano  veramente  corrispondere  alle  tre  fasi  o 
aspetti  dell'Etica  (la  psicologica  e  descrittiva,  la  co- 
struttiva e,  in  certo  senso,  dialettica,  e  la  conclusiva  o 
razionale  e  filosofica  propriamente)  la  Satira  in  con- 
creto e  in  particolare,  di  vizii  e  difetti  e  debolezze  e 
sconcezze  degli  uomini;  ^'^  la  Satira  in  astratto  di 
quegli  stessi  vizi  e  difetti  e  imbecillità,  considerati 
possiamo  pur  dire  ex  altiore  causa,  criticamente  e 
simbolicamente,  in  correlazione  con  le  virtù,  negli 


O  «  Eccovi  avanti  gli  occhi  ociosi  princinii,  debili  orditure,  vani 
pensieri,  frivole  speranze,  scoppiamenti  di  petto,  scoverture  di  corde, 
falsi  presuppositi,  alienazion  di  mente,  poetici  furori,  offuscamento 


Prefazione  XV 

uomini  e  negli    dei;  la  Satira,    infine,  che  ha  vera 
e  propria    intenzione  filosofica,    nella    critica    e   nel 
sarcasmo    di   carattere    eterodosso    verso  i  tradizio- 
nali valori  scientifici,   morali,    politici   e   religiosi,  e 
che  comprendendo    e    riassumendo    anche    le   altre 
due  forme  accennate,  esplica  appieno   il  significato, 
della  tristitia  hilaris  e  della  hilaritas   tristis.  E  si   ha 
qui  una  profonda  espressione  di  quella  oppositorum 
coincidentia,    che,    formula  ricorrente    nella  filosofia 
bruniana,  assume  forse  la  sua  maggiore  consistenza 
e  significazione  precisamente  sotto  l'aspetto  morale, 
nella  caratteristica  compenetrazione  di  riso  e  pianto, 
e  nella  fase  culminante  dell'Etica  propriamente,  con 
la  trattazione,  per  quanto  frammentaria  e  balenante, 
del  problema  delle  opposizioni  e  delle  armonie  mo- 
rali.   Si    possono    distinguere,    appunto,    questi    tre 
aspetti  o  momenti  del  riso  bruniano;  ed  approssima- 
tivamente e  quasi  a  mo'  di  esemplificazione,  si   pos- 
sono riferire  al  Candelaio  (1582)  il  primo;  allo  Sphccio 
della  Bestia  trionfante  ed  al   Cantus  Circaeus  (1584) 
il  secondo;  ed  il  terzo  allo  Spaccio  stesso,  alla  Cabala 
del  Cavallo  Pegaseo  ed  a\V Asino  cillenico  (1585),  con 
i  richiami    alle    altre    opere    veramente    costruttive, 
quali  sorxO  la   Cena   delle  Ceneri,  De  la  Causa,  Prin^ 
cipio  et  Uno  (1584),  etc. 


di  sensi,  turbazion  di  fantasia,  smarrito  peregrinaggio  d'intelletto, 
fede  sfrenate,  cure  insensate,  studii  incerti,  somenze  intempestive,  e 
gloriosi  frutti  di  pazzia  ». 

«  Vedrete,  etc.  Candelaio.  Proprologo. 

E  di  fronte  a  questa  materia  di  morale  miseria,  l'A.,  nella  evidente 
contrapposizione  del  urologo  al  Proprologo,  delinea  se  medesimo,  a  L  au- 
tore, si  voi  Io  conosceste,  direste,  ch'ave  una  fisionomia  smarrita,  etc. 
...per  il  più,  lo  vedrete  fastidito,  restio  e  bizarro,  non  si  contenta 
di  nulla,  ritroso  come  un  vecchio  d'ottantanni,  fantastico  com  un  cane 
ch'ha  ricevute  mille  spellicciate,  pasciuto  di  cipolla...  ».  Ibid. 


XVI  Prefazione 

Non  sono  inutili  la  distinzione,  necessariamente 
sommaria,  ed  il  riferimento  ai  tre  gradi  progressivi, 
come  abbiamo  detto,  deWEtica;  giacche  questa  nota 
di  coincidenza  e  di  analogia  può  far  vedere  come 
il  riso  di  Giordano  Bruno  non  sia  un  episodio, 
ma  rientri  quasi  nella  linea  del  suo  pensiero  e, 
in  sostanza,  tenga  della  stessa  suggestiva  profondità 
di  tutta  la  sua  etica. 

Perciò  la  materia  di  questo  libro,  il  quale  non  è 
leggiero,  come  potrebbe  forse  apparire  a  taluno,  ma 
più  tosto  grave  e  pensoso,  pur  nella  facezia  e  nella 
licenza,  è  disposta  secondo  quella  triplice  divisione, 
che  naturalmente  segue  la  partizione  dell' etica  bru- 
niana. 

Comunque,  è  ben  certo  che  il  significato  del  ca- 
ratteristico riso  del  Bruno,  sta  nel  complesso  dei 
suoi  momenti  e  dei  suoi  aspetti.  Solo  nell'insieme, 
e  sopra  tutto  tenendo  conto  della  sua  formula  inte- 
grale, che  si  estende  alle  considerazioni  estreme  della 
filosofìa  (ma,  come  abbiamo  notato,  costituisce  pure 
il  solenne  avvertimento  ed  il  motto  del  Candelaio) 
si  può  intendere  il  suo  vero  senso  umano  ed  uni- 
versale, il  suo  valore  filosofico. 

Bisogna  tener  conto  della  formula  compiuta,  che 
esplicitamente  apposta  alla  prima  opera  italiana,  a 
quella  che  più  si  avvicina  nella  forma  e  nel  conte- 
nuto ai  molti  e  tradizionali  componimenti  morali 
del  tempo,  sta  ad  indicar  quasi  di  questo  l'avvia- 
mento verso  uno  spirito  nuovo;  e,  riprodotta  più 
oggettivamente,  in  uno  scritto,  fra  altri,  di  preva- 
lente sostanza  etica,  che  è  dei  più  personali  ed  im- 
portanti, il  De  Vinculis,  come  a  ragione  giudicava 
Felice  Tocco,  sembra  abbracciare  l'intero  sistema 
morale  e  filosofico  del  Bruno. 

A   prescindere  dagli   strani   richiami   sopra   ricor- 


Prefazione  XV I 

dati,  i  quali,  pur  facendo  la  necessaria  parte  alla 
consueta  fantastica  associazione  bruniana,  prendono 
un  significato  rilevantissimo  allorché  vediamo,  e  dob- 
biamo pur  confessare  senza  intenderne  a  pieno  il 
motivo  e  la  portata  reale,  ricongiunti  in  una  relazione 
singolare  la  luce  del  Candelaio  e  le  ombre  delle  idee, 
la  filosofia  della  Comedia  e  la  filosofia  de  V Infinito 
Universo  e  Mondi  (e  molti  altri  accenni  si  potrebbero 
trovare  ancora  nelle  altre  opere);  a  prescindere  da 
ciò,  e  ben  evidente  che  anche  un  sommario  esame 
della  formula  della  ilarità  bruniana  ci  riporta,  per 
cosi  dire,  nel  cuore  della  sua  fondamentale  inspi- 
razione filosofica 

Certo  essa  si  presta  ad  un'analisi  puramente  e 
strettamente  morale;  a  cui  è  connesso  un  atteggia- 
mento particolare  psicologico,  sentimentale  del  filo- 
sofo. Da  tal  punto  di  vista  potremo  cogliere  qualche 
lato  del  pensiero,  qualche  momento  dello  spirito  biz- 
zarro e  tempestoso  del  Bruno;  ma  se,  arrestandoci 
a  ciò,  ritenessimo  soli  o  ponessimo  definitivi  questo 
lato  e  questo  momento,  noi  non  avremmo  e  non 
intenderemmo,  affatto.  Bruno  nella  sua  interezza  e 
nella  sua  essenza,  sotto  questo  rispetto. 

Il  fastidito,  il  perseguitato,  l'insonne,  l'errante, 
il  misconosciuto,  l'odiato  può  anche  umanamente 
esprimere  un  senso  tragico,  di  riduzione  e  quasi  di 
confusione,  in  un  disprezzo  ed  in  un'amarezza  su- 
periori, della  sua  tristezza  e  del  suo  riso;  può,  sopra 
tutto,  esprimere  la  sua  forza  tremenda,  ridendo  nella 
tristezza  ed  essendo  triste  nell'ilarità;  può  anche, 
mefistofelicamente,  ridere  laddove  gli  altri  piangono 
e  piangere  laddove  gli  altri  ridono;  può,  infine,  ripor- 
tare tutto  ciò  ad  un  senso  vago  di  scetticismo  e  di 

Bruno,  In  tristitìa  hilaris,  etc.  2. 


XVlll  Prefazione 

pessimismo,  che  più  d'una  volta  pur  si  accenna  nel- 
l'opera del  Bruno;  ora  in  forma  propria,  come  per 
esempio  in  quelle  parole  del  Candelaio  dove  si  dice, 
m  conclusione...  non  esser  cosa  di  sicuro,  ma  assai  di 
negocio,  difetto  a  bastanza,  poco  di  bello  e  nulla  di 
buono,  ^^^  ora  con  qualche  formula  usuale,  come  il 
biblico  omnia  vanitas. 

Massime  la  ilarità  triste,  presa  separatamente,  si 
presta  ad  una  significazione  più  particolare,  espri- 
mendo quella  che  è  l'essenza  amara  di  ogni  satira; 
la  quale  veste  di  riso  ciò  che  in  realtà  è  solo  degno  di 
compassione  per  la  sua  debolezza,  per  la  sua  defi- 
cienza, per  la  sua  bruttura,  specialmente  nell'ordine 
umano. 

Ma  questo,  mentre  non  dà  il  lineamento  vero  ed 
intiero  del  Bruno,  riferendosi  solo  al  flusso  delle  sue 
vicende  personali,  intellettuali  e  sociali,  se  ben  si 
consideri  presuppone,  in  fondo,  una  diversa  e  supe- 
riore posizione  della  sua  stessa  personalità;  e,  ciò 
che  più  importa,  ancora,  un  diverso  e  superiore'punto 
di  vista  della  sua  speculazione  morale  propriamente 
detta  e  filosofica.  Il  che  appare  dalla  prima  parte 
della  formula,  e  più  dall'insieme. 

La  ilarità  che  è  triste  e  la  tristezza  che  è  ilare  non 
indica  un  bisticcio,  si  una  intuizione  profonda,  mo- 
rale e  filosofica;  in  quanto  non  si  limita  a  conside- 
razioni parziali  di  umanità,  ma  scende  alla  totale 
contemplazione  umana,  ed  a  questa  aggiunge,  anzi 
connette  in  un  inscindibile  complesso,  la  considera- 
zione della  realtà  universale. 


(')  PropTolo^o,  —  Sono  le  ultime  parole  che  precedono  l'entrata 
del  Bidello.  Naturalmente  qui  il  senso  è  del  tutto  particolare  e  riferito 
al  mondo  del  Candelaio,  che  sta  per  entrare  materialmente  in  iscena. 


Prefazione  XIX 

A  nessuno  più  che  a  Bruno  ripugna  la  concezione 
della  realtà  umana  staccata  ed  avulsa  dalla  realtà 
totale;  e  più  a  lui  ripugna  quella  definizione  dell'uomo, 
a  cui  accenna  non  senza  ironia  Benedetto  Spinoza, 
come  V animale  capace  di  ridere.  Qui  siamo  fuori  del 
campo  morale,  sia  che  questa  capacità  di  ridere  si 
prenda  nella  sua  espressione  più  semplice  e  primi- 
tiva, nella  sua  espressione  inferiore  e  fisiologica  — 
dove,  in  sostanza,  non  e  che  l'animalità  —  nel  senso 
preumano,  dunque;  sia  che  si  prenda  nel  senso  estremo 
opposto,  nel  senso  cioè  nietzschiano,  che  nel  Supe- 
ruomo travolge  l'Uomo. 

L'umanità  vera  ha  il  suo  segno  nel  riso  che  si  fa 
pensoso  di  tristezza  e  nella  tristezza  che  s'illumina 
in  una  visione  trascendente  di  gioia;  segno  vero  di 
umanità,  che  è  morale  ed  estetico  insieme,  e  che  ha 
in  Bruno  un  assertore  d'incomparabile  energia. 
II  quale  trae  il  motivo  e  la  forza  possente  e  luminosa 
dell'affermazione  sua,  in  un  certo  senso  nuovissima, 
non  già  da  fonti,  che  trascendono,  in  sostanza,  l'uomo 
e  la  realtà,  come  sono  propriamente  le  fonti  e  gli 
ideali  religiosi  (al  di  là,  immortalità,  ricompensa 
divina,  etc,  che  fanno  piacente  la  tristezza,  il  dolore, 
la  morte),  bensì  dalle  stesse  fonti  della  vera  umanità 
e  della  vera  realtà,  in  una  superba  considerazione 
filosofica. 

Cosi  ritroviamo  Bruno  e  cogliamo  il  vero  suo 
spirito.  Cosi,  da  un  punto  di  vista  più  particolare 
ma  non  meno  importante,  possiamo  intendere  come 
se  la  rozza  asprezza  dell'autore,  e  circostanze  spe- 
ciali della  sua  vita  e  del  suo  tempo,  lo  conducono  a 
parlar  volgare  e  sconcio,  adoperare  forme  e  figure 
licenziose  e  toccare  talora  l'oscenità,  tutto  ciò  è 
trasfigurato  e  purificato  nell'intento  profondo  che  lo 
domina:  qui  veramente  il  riso,  che  sembra  infettarsi 


XX  Pref 


azione 


di  elementi  estremi,  è  triste.  Questa  tristezza  purifica 
e  redime;  ed  accenna,  appunto,  a  qualche  cosa  di 
più  alto  a  CUI  mira  il  filosofo,  e  che  trascende  la  ilarità 
per  se  e  la  tristezza  in  se. 

Così,  la  considerazione  della  ilarità  di  Giordano 
Bruno  ci  conduce  a  veder,  sotto  nuova  luce  e  forse 
non  meno  profondamente  della  pura  indagine  spe- 
culativa, una  parte,  da  cui  non  si  può  prescindere, 
del  suo  pensiero. 

Di  là  dalla  hilaritas  tristis,  la  tristitia  hilaris 
può  riferirsi  ad  un  altro  importante  aspetto  dello 
spirito  bruniano:  l'ottimismo.  Il  quale  ha  la 
sua  vera  significazione  (che  riapparirà  con  altre 
forme,  in  altri  sistemi)  non  tanto  copie  espres- 
sione morale  per  se,  o  perchè  conferisca  una  co- 
loritura particolare  alla  visione  bruniana  del  mondo; 
ma  in  quanto  esprime,  in  certo  modo,  l'aspetto 
intrinseco  e  la  risoluzione  culminante  della  realtà 
stessa. 

L'ottimismo  morale  qui  è  coessenziale,  assoluta- 
mente, con  l'essere  e  con  l'immanente  suo  ordine 
ontologico:  il  nuovo  mondo  della  realtà  infinita  che, 
escludendo  ogni  trascendenza,  è  essere,  potenza  e 
legge  eterna  a  se,  non  può  non  essere,  per  ciò 
stesso,  che  uno  ah  solutissimo  in  cui  Ente,  Vero,  Bene 
fanno  la  medesima  cosa. 

Che  significato  possono  avere  in  questo  universo 
il  dolore,  il  brutto,  il  disordine,  il  male  e  la  morte, 
il  caso  e  la  fortuna? 

Brunianamente,  tutto  ciò  appartiene  alla  superficie, 
alla  esteriorità,  alla  contingenza  ed  alla  transitorietà 
del  mondo;  tutto  ciò  che  è  pluralità  e  particolarità 
è  la  spuma  che  si  gonfia,  scorre  e  si  frange  sulla 
realtà;  non  è  la  realtà;  tutto  ciò  è  di  ente,  non  ente. 


Prefazione  XXI 

come  dice  con  sottigliezza  grammaticale,  ma  con  pen- 
siero profondo  il  Bruno. 

Il  mondo  si  presenta,  dunque,  sotto  questi  due 
aspetti:  quello  della  totalità,  dell'unità,  dell'assoluto 
e  dell'eterno;  e  quello  del  vario,  molteplice,  fluente, 
disgregantesi  nel  tempo  e  nella  particolarità. 

L'uomo  sta  di  fronte  a  questo  mondo,  spettatore 
e  partecipe,  ad  un  tempo,  della  sua  realtà  e  della 
sua  transitorietà;  di  fronte  a  questo  enorme  ritmo, 
ond'esso  quasi  sgorga  e  si  discioglie  fuori  di  se,  nel 
molteplice,  nel  disgregato  e  nel  relativo,  e  si  rituffa 
in  se  nella  pienezza  dell'essere  che  è  assolutezza 
d'eternità. 

Allora  l'uomo  che  riguarda  e  che  agisce  in  questo 
mondo,  se  si  fermi  a  ciò  che  è  particolare,  scorre  e 
cambia  volto,  può  e  deve  trovar  motivo  alla  sua  tri- 
stezza; ma  se  approfondisca  lo  sguardo  e  l'azione,  allora 
il  particolare  transfluisce  nell'universale,  il  contin- 
gente nell'infinito,  il  relativo  nell'assoluto:  la  visione  e 
la  consapevolezza  di  ciò  può  dare,  dà,  filosoficamente, 
la  tristezza  gioconda.  Questo  e  il  segno  del  consegui- 
mento della  più  alta  coscienza  e  della  più  profonda 
realtà;  questa  è  la  visione  sub  specie  aeterni,  ed  è 
quasi  comunicazione  con  l'assoluto.  Allora  la  tri- 
stezza svanisce;  alla  realtà  particolare  e  contingente 
subentra  un'altra  più  profonda  realtà.  Dileguano 
le  nubi  e  brilla  il  sole,  o  apparisce  il  cielo  stellato. 
Il  Riso  stesso  si  è  trasfigurato;  esso,  ormai  nel  campo 
della  contemplazione  e  dell'azione  più  alta,  è  dive- 
nuto  eroico  furore  e  beatitudine. 

* 

*    * 

Il  presente  volume  vuol  accogliere  quanto  di  più 
caratteristicamente  espressivo  della  ilarità  triste  e 
della     tiistezza    ilare    circola,    guizza    o     s'indugia 


XXII  Prefazione 

nella  vasta  opera  di  Giordano  Bruno,  e  le  dà  un  fa- 
scino  strano   ed  acuto. 

Forniscono  qui  la  materia  solo  gli  scritti  ita- 
liani; che  sono  più  varii  di  contenuto  e  più  vivi 
di  forma  e  quasi  più  liberamente  riflettono  l'anima 
del  filosofo  e  dell'uomo.  Laddove  i  latini  sono  o 
più  tecnici  e  scolastici,  come  quelli  che  appartengono 
ai  gruppi  delle  opere  Lulliane,  Mnemoniche,  Espo- 
sitive e  critiche;^^^  o  più  solenni  come  le  brevi,  im- 
portantissime Orazioni;  ovvero  rielaborano  più  rigi- 
damente, in  gran  parte  con  veste  poetica,  come 
De  minimo.  De  Monade  e  De  Immenso,  contenuto 
di  opere  italiane. 

(Tuttavia,  neppur  le  opere  latine  mancano  di 
qualche  sprazzo  del  pensoso  suggestivo  riso;  come 
la  prima  parte  del  Cantus  Circaeus;  la  quale,  mentre 
la  seconda  riguarda  l'arte  della  memoria,  è  di 
carattere  essenzialmente   morale). 

Forse  a  chi  guardi  le  tre  sezioni  della  raccolta 
ed  i  titoli  apposti  ai  brani  ch'esse  contengono,  non 
apparirà  chiaro  a  prima  vista  il  significato  messo  in 
rilievo  e  che  possiam  dire  ascendente,  del  riso  bru- 
niano,  secondo  lo  schema  generale  dell'etica,  che 
abbiamo  altrove  particolarmente  studiato.  ^'^  Ma  se 
ben  SI  consideri,  esso  risulterà,  in  sostanza,  non  meno 
sicuro  che  la  intima  compenetrazione  di  quel  riso 
in  tutte  le  parti  dell'opera  del  Nolano,  anche  nelle 
più  astratte,  speculative  ed  astruse;  come  là  dove 
si  tratta  dell'eroico  slancio  per  la  conoscenza  e  per 
1  ideale,  o  della  nuova  cosmologia,  dei  principii  del- 
l'universo e  della  verità. 


(')  La   Filosofia   di   G.  B.,  cit.    Parte  I,  III.  Le  opere  brunlane.  — 
Giordano  Bruno,  -  Coli.  Profili,  N"  47,  Formi'gglni,  Roma,  1917. 


Prefazione  XXI  li 

La  materia  morale  agitata  dal  filosofo  è  una; 
massa  viva  e  turbmosa  su  cui  cadono  il  suo  ghigno 
e  la  sua  tristezza,  come  gocce  di  fuoco.  Ma  non  si 
può  sconoscere  la  differenza  dell'atteggiamento  spi- 
rituale, e,  in  un  certo  senso,  del  fine  medesimo,  nel 
Candelaio,  per  esempio  (ed  anche  in  pagihe  affini  di 
altre  opere)  e  nello  Spaccio  de  la  Bestia  trionfante. 
Nell'uno  v'è,  sopra  tutto,  il  quadro  satirico,  dipin- 
tura e  constatazione  dei  vizii  e  difetti  e  debolezze 
e  sconcezze,  come  abbiam  detto,  degli  uomini;  nel- 
l'altro l'approfondimento  critico  di  tutto  questo 
mondo,  e  la  contrapposizione  fra  simbolica  e  dia- 
lettica di  corrispondenti  pregi,  virtù,  valori,  nel 
cielo   e   nella   terra,   negli   uomini  e  negli  dei. 

Nell'uno  è  la  materia  fermentante  ed  oscura  di 
Menandro  e  di  Teofrasto,  di  Plauto  e  di  Terenzio, 
di  Machiavelli  e  di  Molière;  nell'altro  la  materia 
di  Xenofane  e  di  Aristofane,  ed  è  anche  (come  non 
a  torto  è  stato  da  taluno  notato)  lo  spirito  di  Dante. 

Poiché  la  Bestia  che  si  deve  spacciare  non  è 
solo  ciò  che  d'impuro  e  triste  offende  praticamente 
l'uomo  e  il  convitto  umano,  ma  quello  altresì  che 
contamina  e  sminuisce  i  diritti,  la  libertà,  la  san- 
tità della  mente  nelle  sue  più  alte  funzioni  contem- 
plativa e  speculativa.  E,  insomma,  trattasi  dell'af- 
francazione totale  dell'uomo  e  dello  spirito,  che 
fanno  tutt'uno. 

E  come  nel  Candelaio  medesimo  (l'abbiamo  di 
proposito  avvertito)  c'è  qualche  oscuro  accenno  a 
più  profondo  intento  ed  a  relazioni  speculative,  cosi 
lo   Spaccio  de  la  Bestia   trionfante  segna  la   strada 


(1)  Op'  di..  Parte  II.    La  filosofia  soggettiva,  l'Etica-    —  Giordano 
Bruno.  Profilo  cit. 


XXIV  Prefazione 

per  la  più  completa  conquista  etica  ed  elevazione 
spirituale. 

Purgare,  liberare:  questo  è  il  motivo  dell'opera 
strana  e  stupenda  di  fantasia  e  di  riso.  Purificare 
ciò  che  è  fuori  dell'uomo  (ma  che  cosa  è  fuori  del- 
l'uomo, dal  punto  di  vista  morale?)  e  ciò  che  è 
nell'uomo:  il  mondo  superno  e  celeste,  che  la  vecchia 
scienza  teneva  incorruttibile,  e  che  al  filosofo  appar 
pieno  e  guasto  d'infinita  corruzione;  e  perfino  il 
mondo  infero,  la  sede  stessa  del  peccato  e  della 
bruttura,  che  la  credenza  a  quello  opponeva.  (Ab- 
biam  notizia  d'un  dialogo  bruniano,  //  Purgatorio 
dell  Inferno  ^^^  il  quale  nel  titolo  d'apparente  bisticcio 
ma  di  trasparente  significato,  completa  suggestiva- 
mente il  disegno  della  totale  purgazione).  Oc- 
corre, finalmente,  mondare  e  rinnovare  la  scienza 
e  la  filosofia,  la  stessa  mente  umana;  ed  a  questo 
mira,  con  passione  intensa,  con  forza  eroica,  il 
filosofo   nuovo. 

E  se  tale  opera,  che  più  propriamente  riguarda 
lo  spirito,  appare  nella  form.a  ridicola  di  quella 
vivacissima    e    scintillante    trattazione    che    ha    per 


(')  Nella  Cena  delle  Ceneri,  dialogo  quinto,  verso  la  fine,  Teofilo 
(G.  B.)  dice:  «  Non  dubitate,  Prudenzio,  perchè  del  buon  vecchio 
non  ri  si  guasterà  nulla.  A  voi,  Smitho,  manderò  quel  dialogo  del 
Nolano,  che  si  chiama  Purgatorio  de  l'Inferno,  e  ivi  vedrai  il  frutto 
della  redenzione  ». 

L'accenno  al  frutto  della  redenzione,  che  forse  rendeva  estremamente 
eterodosso  lo  scritto,  non  toglie  nulla  all'idea  dello  spaccio  dell'in- 
ferno; forse  la  rende  più  forte.  Cosi  pure,  per  essa  nulla  importa  che, 
a  quanto  pare,  il  Purgatorio  sia  stato  composto  qualche  anno  avanti 
della  Bestia  trionfante,  verso  il  1582.  L'idea  potrebbe  essere  stata  estesa 
dall'inferno  al  cielo.  Ma  l'opinione  di  D.  Berti  (Vita  di  G.  B.,  pag.  25, 
1*  ed.),  e  di  J.  Frith  (Life  of  G.  B.,  Londra  1887,  pag.  375),  i  quali 
accennano  a  quella  data,  resta  anche  da    dimostrare. 


Prefazione  XXV 

soggetto  V Asinità,  ciò  non  oscura  affatto  il  pathos 
intenso  e  puro  che  agita  ogni  fibra  dell'instauratore 
e  che  sembra  discendere  in  lui  dall'ardore  stesso  del 
divino  Platone.  Ne  la  frenesia  da  cui  si  lascia  tra- 
sportare il  Bruno  impedisce  di  scorgere,  da  ultimo, 
la  sovrana  bellezza  della  visione  che  s'apre  davanti 
al  suo  occhio  profondo,  ed  innanzi  alla  quale  egli 
stesso  rimane  estatico  e  commosso.  Così  come 
per  Xenofane  colofonio  (del  quale  v'è  qualche 
traccia  nello  spinto  del  Nolano)  ;  che  dopo  aver 
spacciato,  sia  lecito  adoperar  questa  espressione, 
gli  Dei  della  superstizione,  dell'ignoranza  e  della 
corruzione,  riguardando  nel  cielo,  purificato,  disse 
che  tutto  era  Dio.  ^'^ 

Culmina,  dunque,  la  critica,  la  satira,  la  deri- 
sione e  la  tristezza  delle  brutture  e  degli  errori 
umani,  un  mondo  morale  e  spirituale  di  bellezza,,  di 
bontà,    di    verità. 

Alla  instaurazione  cosmologica,  onde  si  rompe- 
vano e  disfacevano  i  palchi  dipinti  e  i  congegni  di 
orbi  e  di  cieli,  si  congiungono  la  instaurazione  mo- 
rale, e  la  intellettuale,  le  quali  finiscono  per  coin- 
cidere, sul  principio  dell'indissolubile  ternano  di 
Ente,  Vero  e  Bene;  che  il  Bruno  contempla,  ragiona 
e  sente  con  impeto  straordinario. 

Candelaio  e  Canto  di  Circe,  Spaccio  de  la  Bestia 
trionfante  ed  Eroici  furori.  Cena  delle  Ceneri  e  Asino 
cillenico.  Cabala  del  cavallo  pegaseo  e  Causa  Principio 
et  Uno  esprimono   e   fondono   insieme,    a     traverso 


^')  Noti  sono  i  framm.  di  Xenofane  circa  la  critica  degli  Dei.  — 
Quello  citato  è  riferito  da  Aristotele  Metafisica,  I,  5.  986^>-  10. 
Le  diverse  interpretazioni  del  passo  non  disdicono  al  concetto  fon- 
damentale  qui   adombrato. 


XXVI 


Pref 


azione 


i  momenti  che  singolarmente  rappresentano  1  nuovi 
valori  del  mondo  e  dello  spirito.  E  però,  non  illegit- 
timamente, si  chiude  questo  libro  della  ilarità  triste 
e  della  ilare  tristezza  del  Bruno  (che  speriamo  re- 
chi qualche  vantaggio,  illuminando  la  pur  sempre 
scarsamente  conosciuta  opera  del  Nolano)  con  al- 
cune fra  le  pagine  più  solenni  della  sua  filosofia, 
fra  le  parole  più  alte  della  sua  anima. 


H 


PARTE  PRIMA 


I. 

PRESENTAZIONE  E  SOGGETTO 
DEL  CANDELAIO 


IL  LIBRO 

A  GLI  ABBEVERATI  NEL  FONTE  CABALLINO. 

Voi  che  tettate  di  muse  da  mamma, 
E  che  fiatate  su  lor  grassa  broda 
Col  musso,  r eccellenza  vostra  m*oda. 
Si  fed'e  caritad'  il  cuor  v  infiamma. 

Piango,  chiedo,  mendico  un  epigramma. 
Un  sonetto,  un  encomio,  un  inno,  un  oda 
Che  mi  sii  posta  in  poppa  over  in  proda. 
Per  farmene  gir  lieto  a  tata  e   mamma. 
Eimè  ch'in  van  d'andar  vestito  bramo. 
Oimè  ch'i*  men  vo  nudo  com'un  Eia, 
E  peggio:  converrà  forse  a  me  gramo 

Monstrar  scuoperto  alla  Signora  mia 
Il  zero  e  menchia  com'il  padre  Adamo, 
Quand'era  buono  dentro  sua  badia. 

Una  pezzentaria 
Di  braghe  mentre  chiedo,  da  le  valli 
Veggio  montar  gran  furia  di  cavalli. 


6  Parte  prima 

ALLA  SIGNORA  MORGANA  B., 

SUA  SIGNORA  SEMPRE    ONORANDA. 

Ed  lo  a  chi  dedicarrò  il  mio  Candelaio?  a  chi,  o  gran 
destino,  ti  piace  ch'io  intitoli  il  mio  bel  parammfo,  il 
mio  bon  corifeo  P  a  chi  invlarrò  quel  che  dal  sino  influsso 
celeste,  in  questi  più  cuocenti  giorni,  ed  ore  più  lambic- 
biccanti,  che  dicon  caniculan,  mi  han  fatto  piovere  nel 
cervello  le  stelle  fìsse,  le  vaghe  lucciole  del  firmamento 
mi  han  crivellato  sopra,  il  decano  de'  dodici  segni  m'ha 
balestrato  in  capo,  e  ne  l'orecchie  interne  m'han  soffiato  i 
sette  lumi  erranti  P  A  chi  s'è  voltato,  — •  dico  io,  —  a  chi 
riguarda,  a  chi  prende  la  miraP  A  Sua  Santità  P  no.  A  Sua 
Maestà  Cesarea  P  no.  A  Sua  Serenità  P  no.  A  Sua  Altezza, 
Signoria  illustrissima  e  reverendissima P  non,  non.  Per 
mia  fé,  non  è  prencipe  o  cardinale,  re,  imperadore  o  papa 
che  mi  ìevarrà  questa  candela  di  m.ano,  in  questo  solen- 
nissimo  offertorio.  A  voi  tocca,  a  voi  si  dona;  e  voi  o 
l'attaccarrete  al  vostro  cabinetto  o  la  ficcarrete  al  vostro 
candeliero  in  superlativo  dotta,  saggia,  bella  e  generosa 
mia  signora  Morgana:  voi,  coltivatrice  del  campo  del- 
l'animo mio,  che,  dopo  aver  attrite  le  glebe  della  sua  du- 
rezza e  assottigliatogli  il  stile,  —  acciò  che  la  polverosa 
nebbia  sullevata  dal  vento  della  leggerezza  non  offendesse 
gli  occhi  di  questo  e  quello,  —  con  acqua  divina,  che  dal 
fonte  del  vostro  spirto  deriva,  m'abbeveraste  l'intelletto. 
Però,  a  tempo  che  ne  posseamo  toccar  la  mano,  per  la 
prima  vi  indrizzai  :  Gli  pensier  gai;  apresso:  11 
tronco  d'acqua  viva.  Adesso  che,  tra  voi  che  godete 
al  seno  d'Abraamo,  e  me  che,  senza  aspettar  quel  tuo  soc- 
corso che  solea  rifrigerarmi  la  lingua,  desperatamente  ardo 
e  sfavillo,  intermezza  un  gran  caos,  pur  troppo  invidioso 
del  mio  bene,  per  farvi  vedere  che  non  può  far  quel  mede- 
simo caos,  che  il  mio  am.ore,  con  qualche  proprio  ostaggio  e 
material  presente,  non  passe  al  suo  marcio  dispetto,  eccovi 
la  candela  che  vi  vien  porgiuta  per  questo  Candelaio 


I.   -  Presentanzione  e  soggetto  del  Candelaio  7 

che  da  me  si  parte,  la  qual  in  questo  paese,  ove  mi  trovo, 
p otrà  chiarir  alquanto  certe  Ombre  dell'idee  le  quali 
in  vero  spaventano  le  bestie  e,  come  fussero  diavoli  dan- 
teschi, fan  rimanere  gli  asmi  lungi  a  dietro,  ed  in  cotesta 
patria,  ove  voi  siete,  potrà  far  contemplar  l'animo  mio  a 
molti,  e  fargli  vedere  che  non  è  al  tutto  smesso. 

Salutate  da  mia  parte  quell'altro  Candelaio  di  carne  ed 
ossa,  delle  quali  è  detto  che  «  Regnum  Dei  non  posside- 
hunt  )';  e  ditegli  che  non  goda  tanto  che  costì  si  dica  la  mia 
memoria  esser  stata  strapazzata  a  forza  di  pie  di  porci  e 
calci  d'asini:  perchè  a  quest'ora  a  gli  asini  son  mozze  l'o- 
r  ecchie,  ed  i  porci  qualche  decembre  me  la  pagarranno. 
E  che  non  goda  tanto  con  quel  suo  detto:  «  Abiit  in  regio- 
nem  longinquam  »;  perchè,  si  avverrà  giamai  ch'i  cieli  mi 
concedano  ch'io  effettualmente  possi  dire:  «  Surgam  et 
ibo  »,  cotesto  vitello  saginato  senza  dubbio  sarrà  parte 
della  nostra  festa.  Tra  tanto,  viva  e  si  governe,  ed  attenda 
a  farsi  più  grasso  che  non  è;  perchè,  dall'altro  canto,  io 
spero  di  ricovrare  il  lardo,  dove  ha  persa  l'erba,  si  non 
sott'un  mantello,  sotto  un  altro,  si  non  in  una,  in  un'altra 
vita.  Ricordatevi,  Signora,  di  quel  che  credo  che  non 
bisogna  insegnarvi:  —  Il  tempo  tutto  toglie  e  tutto  dà; 
ogni  cosa  si  muta,  nulla  s'annichila;  è  un  solo  che  non  può 
mutarsi,  un  solo  è  eterno,  e  può  perseverare  eternamente 
uno,  simile  e  medesimo.  — ■  Con  questa  filosofia  l'animo 
mi  s'aggrandisse,  e  me  si  magnifica  l'intelletto.  Però,  qua- 
lunque sii  il  punto  di  questa  sera  ch'aspetto,  si  la  muta- 
zione è  vera,  io  che  son  ne  la  notte,  aspetto  il  giorno,  e 
quei  che  son  nel  giorno,  aspettano  la  notte:  tutto  quel  ch'è, 
o  è  qua  o  là,  o  vicino  o  lungi,  o  adesso  o  poi,  o  presto  o 
tardi.  Godete,  dunque,  e,  si  possete,  state  sana,  ed  amate 
chi  v'ama. 

ARGUMENTO  ED  ORDINE  DELLA  COMEDIA. 

Son  tre  materie  principali  intessute  insieme  ne  la  pre- 
sente comedia:  l'amor  di  Bonifacio,  l'alchimia  di  Barto- 
lomeo e  la  pedantaria  di  Manfuno.  Però,  per  la  cognizion 

Bruno.   In  tristitia  hilaris,  etc  3. 


8  Parte  prima 

distinta  de'  suggetti,  ragglon  dell'ordine  ed  evidenza  del- 
l'artificiosa testura,  rapportiamo  prima,  da  per  lui,  l'in- 
sipido amante,  secondo  il  sordido  avaro,  terzo  il  goffo 
pedante:  de'  quali  l'insipido  non  è  senza  goffaria  e  sordi- 
tezza,  il  sordido  è  parimenti  insipido  e  goffo,  ed  il  goffo 
non  è  men  sordido  ed  insipido  che  goffo. 


ANTIPROLOGO. 

Messer  sì,  ben  considerato,  bene  appuntato,  bene  or- 
dinato. Forse  che  non  ho  profetato  che  questa  comedia 
non  si  sarebbe  fatta  questa  sera.^  Quella  bagassa  che  è 
ordinata  per  rapresentar  Vittoria  e  Carubina,  ave  non  so 
che  mal  di  madre.  Colui  che  ha  da  rappresentar  il  Boni- 
facio, è  imbnaco  che  non  vede  ciel  né  terra  da  mezzodì  in 
qua;  e,  come  non  avesse  da  far  nulla,  non  si  vuol  alzar  di 
letto;  dice:  «  Lasciatemi,  lasciatemi  che  in  tre  giorni  e 
mezzo  e  sette  sere,  con  quattro  dui  rimieri,  sarrò  tra  par- 
glioni  e  pipistregli:  sia,  voga;  voga,  sia  >k  A  me  è  stato 
commesso  il  prologo;  e  vi  giuro  eh 'è  tanto  intricato  ed 
mdiavolato,  che  son  quattro  giorni  che  vi  ho  sudato  sopra, 
e  dì  e  notte,  che  non  bastan  tutti  trombetti  e  tamburini 
delle  Muse  puttane  d'Elicona  a  ficcarmene  una  pa- 
gliusca  dentro  la  memoria.  Or,  va'  fa  il  prologo:  su 
battello  di  questo  barconaccio  dismesso,  scasciato,  rotto, 
mal'impeciato,  che  par  che,  co  crocchi,  rampini  ed  arpa- 
goni, sii  stato  per  forza  tirato  dal  profondo  abisso;  da 
molti  canti  gli  entra  l'acqua  dentro,  non  è  punto  spal- 
mato; e  vuol  uscire  e  vuol  fars' in  alto  mareP  lasciar 
questo  sicuro  porto  del  Mantraccio.^  far  partita  dal 
Molo  del   silenzio? 

L'autore,  si  voi  lo  conosceste,  dirreste  ch'ave  una 
fisionomia  smarrita:  par  che  sempre  sii  in  contempla- 
zione delle  pene  dell'inferno,  par  sii  stato  alla  pressa 
ccome  le  barrette  :  un  che  ride  sol  per  far  comme  fan 
gli  altri:  per  il  più,  lo  vedrete  fastidito,  restio  e  bizarro, 
non     si     contenta     di    nulla,   ritroso   come    un    vecchio 


I.   -  Presentazione  e  soggetto  del  Candelaio  9 

d'ottant'annl,  fantastico  com'un  cane  ch'ha  ricevute 
mille  spellicciate,  pasciuto  di  cipolla.  Al  sangue,  non 
voglio  dir  de  chi,  lui  e  tutti  quest'altri  filosofi,  poeti  e 
pedanti  la  più  gran  nemica  che  abbino  è  la  ricchezza  e 
beni:  de  quali  mentre  col  lor  cervello  fanno  notomia, 
per  tema  di  non  essere  da  costoro  da  dovero  sbranate, 
squartate  e  dissipate,  le  fuggono  come  centomila  dia- 
voli, e  vanno  a  ritrovar  quelli  che  le  mantengono  sane  ed 
m  conserva.  Tanto  che  io,  con  servir  simil  canaglia,  ho 
tanta  de  la  fame,  tanta  de  la  fame,  <  he  si  me  bisognasse 
vomire,  non  potrei  vomir  altro  ch'i^  spirto;  si  me  fusse 
forza  di  cacare,  non  potrei  cacar  altro  che  l'anima, 
com'un  appiccato.  In  conclusione,  io  voglio  andar  a 
farmi  frate;  e  chi  vuol  far  il  prologo,  sei  faccia. 


PROPROLOGO. 

Dove  è  ito  quel  furfante,  schena  da  bastonate,  che  deve 
far  il  prologo.^  Signori,  la  comedia  sarrà  senza  prologo; 
e  non  importa,  perchè  non  è  necessario  che  vi  sii:  la  ma- 
teria, il  suggetto,  il  modo  ed  ordine  e  circostanze  di  quella, 
vi  dico  che  vi  si  farran  presenti  per  ordine,  e  vi  sarran 
poste  avanti  a  gli  occhi  per  ordine:  il  che  è  molto  meglio 
che  si  per  ordine  vi  fussero  narrati.  Questa  è  una  specie 
di  tela,  ch'ha  l'ordimento  e  tessitura  insieme:  chi  la  può 
capir,  la  capisca;  chi  la  vuol  intendere,  l'intenda.  Ma  non 
lascerò  per  questo  di  avvertirvi  che  dovete  pensare  di 
essere  nella  regalissima  città  di  Napoli,  vicino  al  seggio 
di  Nilo.  Questa  casa  che  vedete  equa  formata,  per  questa 
notte  servirrà  per  certi  barn,  furbi  e  marioli,  — ■  guarda- 
tevi, pur  voi,  che  non  vi  faccian  vedovi  di  qualche  cosa 
che  portate  addosso:  — •  equa  costoro  stenderranno  le  sue 
rete,  e  zara  a  chi  tocca.  Da  questa  parte,  si  va  alla 
stanza  del  Candelaio,  id  est  messer  Bonifacio,  e  Carubina 
moglie,  ed  a  quella  di  messer  Bartolomeo;  da  quest'al- 
tra, si  va  a  quella  della  signora  Vittoria,  e  di  Gio.  Ber- 
nardo pittore  e  Scaramuré  che  fa  del  necromanto;  per 


IO  Parte  prima 

questi  contorni,  non  so  per  qualoccasioni,  molto  speso 
si  va  rimenando  un  sollennissimo  pedante,  detto  Manfu- 
rio.  Io  mi  assicuro  che  le  vedrete  tutti:  e  la  ruffiana  Lucia 
per  le  molte  faccende  bisogna  che  non  poche  volte  vada 
e  vegna;  vedrete  Pollula  col  suo  Magister  per  il  più,  — • 
queste  un  scolare  da  inchiostro  nero  e  bianco;  — •  ve- 
drete il  paggio  di  Bonifacio,  Ascanio,  — •  un  servitore 
da  sole  e  da  candela.  Mochione,  garzone  di  Bartolom.eo, 
non  è  caldo  né  freddo,  non  odora  ne  puzza;  in  Sanguino, 
Barra,  Marca  e  Corcovizzo  contemplarrete,  in  parte,  la 
destrezza  della  mariolesca  disciplina;  conoscerrete  la 
forma  dell'alchimici  barrane  in  Cencio:  e  per  un  pas- 
satempo vi  si  farrà  presente  Consalvo  speciale,  Marta, 
moglie  di  Bartolomeo,  ed  il  facetissimo  signor  Ottaviano. 
Considerate  chi  va  chi  viene,  che  si  fa  che  si  dice,  come 
s'intende  come  si  può  intendere:  che  certo,  contemplando 
quest'azioni  e  discorsi  umani  col  senso  d'Eraclito  o  di  De- 
mocrito,  arrete  occasion  di  molto   o  ridere  o  piangere. 

Eccovi  avanti  gli  occhii  ociosi  pnncipii,  debili  orditure, 
vani  pensieri,  frivole  speranze,  scoppiamenti  di  petto, 
scoverture  di  corde,  falsi  presuppositi,  alienazion  di 
mente,  poetici  furori,  offuscamento  di  sensi,  turbazion 
di  fantasia,  smarrito  peregnnaggio  d'intelletto,  fede  sfre- 
nate, cure  insensate,  studi  incerti,  somenze  intempestive 
e  gloriosi  frutti  di  pazzia. 

Vedrete  in  un  amante  suspir,  lacrime,  sbadacchia- 
menti,  tremori,  sogni,  rizzamenti,  e  un  cuor  rostito  nel 
fuoco  d'amore;  pensamenti,  astrazioni,  colere,  manin- 
conie,  invidie,  querele,  e  men  sperar  quel  che  più  si  desia. 
Qui  trovarrete  a  l'animo  ceppi,  legami,  catene,  cattività, 
priggioni,  eterne  ancor  pene,  martiri  e  morte;  alla  ri- 
tretta  del  core,  strali  dardi,  saette,  fuochi,  fiamme,  ar- 
dori, gelosie,  suspetti,  dispetti,  ritrosie,  rabbie  ed  oblii, 
piaghe,  ferite,  omei,  folli,  tenaglie,  incudini  e  martelli; 
l'archiero  faretrato,  cieco  e  ignudo;  l'oggetto  poi  del 
core,  un  cuor  mio,  mio  bene,  mia  vita,  mia  dolce  piaga 
e  morte,  dio,  nume,  poggio,  riposo,  speranza,  fontana, 
spirto,  tramontana  stella,  ed  un  bel  sol  ch'a  l'alma  mai 


1.   —  Presentazione  e  soggetto  del  Candelaio  1  I 

tramonta;  ed  a  l'incontro  ancora,  crudo  cuore,  salda  co- 
lonna, dura  pietra,  petto  di  diamante,  e  cruda  man  ch'ha 
chiavi  del  mio  cuore,  e  mia  nemica,  e  mia  dolce  guer- 
riera, versaglio  sol  di  tutti  miei  pensieri,  e  bei  son  gli 
amor  miei  non  quei   d'altrui. 

Vedrete  in  una  di  queste  f emine  sguardi  celesti,  su- 
spiri  infocati,  acquosi  pensamenti,  terrestri  desiri  e 
aerei  fottimenti:  — •  co  riverenza  de  le  caste  orecchie,  — • 
è  una  che  sei  prende  con  pezza  bianca  e  netta  di  bu- 
cata. La  vedrete  assalita  da  un  amante  armato  di 
voglia  che  scalda,  desir  che  cuoce,  carità  ch'accende, 
amor  ch'infiamma,  brama  ch'avvanpa,  e  avidità  ch'ai 
cielo  mica  e  sfavilla.  Vedrete  ancora,  —  a  fin  che 
non  temiate  diluvio  universale,  —  l'arco  d'amore  il 
quale  è  simile  a  l'arco  del  sole,  che  non  è  visto  da  chi  vi 
sta  sotto,  ma  da  chi  n'è  di  fuori:  perchè  de  gli  amanti  l'uno 
vede  la  pazzia  dell'altro  e  nisciun  vede  la  sua.  Vedrete 
un'altra  di  queste  femine,  priora  delle  repentite  per  l'om- 
missione  di  peccati  che  non  fece  a  tempo  ch'era  verde, 
adesso  dolente  come  l'asino  che  porta  il  vino;  ma  cheP 
un'angela,  un'ambasciadora,  secretaria,  consigliera,  refe- 
rendaria, novellerà,  venditrice,  tessitrice,  fattrice,  nego- 
ciante  e  guida:  mercantessa  di  cuori  e  ragattiera  che 
le  compra  e  vende  a  peso,  misura  e  conto,  quella  eh  in- 
trica e  strica,  fa  lieto  e  gramo,  impiaga  e  sana,  sconforta  e 
riconforta,  quando  ti  porta  o  buona  nova  o  ria,  quando 
porta  de  polli  magri  o  grassi:  advocata,  intercessora,  man- 
tello, rimedio,  speranza,  mediatrice,  via  e  porta,  quella  che 
volta  l'arco  di  Cupido,  conduttrice  del  strai  del  dio  d'amo- 
re, nodo  che  lega,  vischio  ch'attacca,  chiodo  ch'accoppia, 
onzonte  che  gionge  gli  emisferi.  Il  che  tutto  viene  a  effet- 
tuare mediantibus  finte  bazzane,  grosse  panzanate,  suspiri 
a  posta,  lacrime  a  comandamento,  pianti  a  piggione,  sin- 
gulti che  si  muoiono  di  freddo,  berte  masculine,  baie  illu- 
minate, lusinghe  affamate,  scuse  volpine,  accuse  lupine, 
e  giuramenti  che  muoion  di  fame,  lodar  presenti,  biasmar 
assenti,  servir  tutti,  amar  nisciuno:  t'aguzza  l'apetito  e  poi 
digiuni. 


12  Parie  prima 

Vederete  ancor  la  prosopopeia  e  maestà  d'un  omo 
masculini  generis:  un  che  vi  porta  certi  suavioli  da  far 
sdegnar  un  stomaco  di  porco  o  di  gallina,  un  instaurator 
di  quel  Lazio  antiquo,  un  emulator  demostenico,  un 
che  ti  suscita  Tullio  dal  più  profondo  e  tenebroso  centro, 
concinitor  di  gesti  de  gli  eroi.  Eccovi  presente  un'acutezza 
da  far  lacrimar  gli  occhi,  gricciar  i  capelli,  stuppefar 
i  denti,  petar,  rizzar,  tussir  e  starnutare;  eccovi  un  di  com- 
positor  di  libri  benemeriti  di  republica,  postillatori,  glo- 
satori,  construttori,  metodici,  additori,  scoliatori,  tradut- 
tori,^ interpreti,  compendiarii,  dialetticarii  novelli,  appa- 
ntori  con  una  grammatica  nova,  un  dizionario  novo,  un 
lexicon,  una  varia  lectio,  un  approvator  d'autori,  un  appro- 
vato autentico,  con  epigrammi  greci,  ebrei,  latini,  italiani, 
spagnoli,  francesi,  posti  in  fronte  libri.  Onde  l'uno,  e 
l'altro,  e  l'altro  e  l'uno  vengono  consecrati  all'immorta- 
lità, come  benefattori  del  presente  seculo  e  futuri,  obli- 
gati  per  questo  a  dedicarli  statue  e  colossi  ne'  mediter- 
ranei mari  e  nell'oceano  ed  altri  luochi  inabitabili  de  la 
terra.  La  lux  perpetua  vien  a  fargli  di  sberrettate,  e  con 
profonda  riverenza  se  gl'inchina  il  saecula  saeculorum; 
obligata  la  fama  di  farne  sentir  le  voci  a  l'uno  e  l'altro 
polo,  e  d'assordir  co  i  cridi,  strepiti  e  chiassi  il  Borea 
e  l'Austro,  ed  il  mar  Indo  e  Mauro.  Quanto  cam.- 
peggia  bene  —  mi  par  veder  tante  perle  e  margarite  in 
campo  d'oro  —  un  discorso  latino  in  mezzo  l'italiano,  un 
discorso  greco  in  mezzo  del  latino;  e  non  lasciar  passar 
un  foglio  di  carta  dove  non  appaia  al  meno  una  dizionetta, 
un  versetto,  un  concetto  d'un  peregrino  carattere  ed  idio- 
ma. Oimè  che  mi  danno  la  vita,  quando,  o  a  forza  o  a  buona 
voglia,  e  parlando  e  scrivendo,  fanno  venir  a  proposito 
un  versetto  d'Omero,  d'Esiodo,  un  stracciolin  di  Plato 
o  Demosthenes  greco.  Quanto  ben  dimostrano  che  essi 
son  quelli  soli  a'  quai  Saturno  ha  pisciato  il  giudizio  in 
testa,  le  nove  damigelle  di  Pallade  un  cornucopia  di 
vocaboli  gli  han  scarcato  tra  la  pia  e  dura  matre:  e  però 
è  ben  conveniente  che  sen  vadino  con  quella  sua  prosopo- 
peia, con  quell'incesso  gravigrado,  busto  ritto,  testa  salda 


I.  -   Presentazione  e  soggetto  del  Candelaio  13 

ed  occhii  in  atto  di  una  modesta  altiera  circumspezione. 
Voi  vedrete  un  di  questi  che  mastica  dottrina,  olface  opi- 
nioni, sputa  sentenze,  minge  autontadi,  eructa  arcani, 
exuda  chiari  e  lunatici  inchiostri,  semina  ambrosia  e 
nectar  di  giudicii,  da  farne  la  credenza  a  Ganimede  e 
poi  un  brindes  al  fulgorante  Giove.  Vedrete  un  pubercola 
sinonimico,  epitetico,  appositono,  suppositorio,  bidello  di 
Minerva,  amostante  di  Pallade,  tromba  di  Mercurio,  pa- 
triarca di  Muse  e  dolfino  del  regno  apollinesco,  —  poco 
mancò  ch'io  non  dicesse  polledresco. 

Vedrete  ancor  in  confuso  tratti  di  marioli,  stratagemme 
di  barri,  imprese  di  furfanti;  oltre,  dolci  disgusti,  piaceri 
amari,  delerminazion  folle,  fede  fallite,  zoppe  speranze 
e  caritadi  scarse;  giudicii  grandi  e  gravi  in  fatti  altrui,  poco 
sentimento  ne'  propri;  f emine  virile,  effeminati  maschii: 
tante  voci  di  testa  e  non  di  petto;  chi  più  di  tutti  crede, 
più  s'inganna;  e  di  scudi  l'amor  universale.  Quindi  pro- 
cedeno  febbre  quartane,  cancheri  spirituali,  pensieri  man- 
chi di  peso,  sciocchezze  traboccanti,  intoppi  baccellieri, 
granchiate  maestre  e  sdrucciolate  da  fìaccars'  il  collo;  oltre, 
il  voler  che  spinge,  il  saper  ch'appressa,  il  far  che  frutta, 
e  diligenza  madre  de  gli  effetti.  In  conclusione,  vedrete 
in  tutto  non  esser  cosa  di  sicuro,  ma  assai  di  negocio,  difet- 
to a  bastanza,  poco  di  bello  e  nulla  di  buono.  — 
Mi  par  udir  i  personaggi;  a  dio. 


BIDELLO. 

Prima  ch'i'  parie,  bisogna  ch'i'  m'iscuse.  Io  credo  che, 
si  non  tutti,  la  maggior  parte  al  meno  mi  dirranno:  —  Can- 
caro  vi  mangie  il  naso!  dove  mai  vedeste  comedia  uscir 
col  bidello  .3  — •  Ed  io  vi  rispondo:  —  Il  mal'an  che  Dio  vi 
dia!  prima  che  fussero  comedie,  dove  mai  furono  viste 
comedie.^  e  dove  mai  fuste  visti,  prim.a  che  voi  fusteP  E 
pare  a  voi  ch'un  suggetto,  come  questo  che  vi  si  fa  presente 
questa  sera,  non  deve  venir  fuori  e  comparire  con  qualche 


14 


Parte  prima 


privilegiata  particularitàP  Un  eteroclito  babbuino,  un 
naturai  coglione,  un  moral  menchione,  una  bestia  tropo- 
logica, un  asino  anagogico  come  questo,  vel  farro  degno 
d'un  connestable,  si  non  mei  fate  degno  d'un  bidello . 
Volete  ch'io  vi  dica  chi  è  luiP  voletelo  sapere P  desiderate 
ch'io  vel  faccia  intendere  P  Costui  è  —  vel  dirrò  piano: 
—  il  Candelaio.  Volete  ch'io  vel  dimostri P  desiderate  ve- 
derlo P  Eccolo:  fate  piazza;  date  luoco;  retiratevi  dalle  ban" 
de,  si  non  volete  che  quelle  corna  vi  faccian  male,  che 
fan  fuggir  le  genti  oltre  gli  monti. 


II. 

L"  INNAMORATO 
E  LE  ARTI  MAGICHE  D'AMORE 


Bonifacio,  solo  ^^> 

L^arte  supplisce  al  difetto  della  natura,  Bonifacio. 
Or,  poi  ch'a  la  mal'ora  non  posso  far  che  questa  tradi- 
tora  m'ame,  o  che  al  meno  mi  remiri  con  un  simulato 
amorevole  sguardo  d'occhio,  chi  sa,  forse  quella  che  non 
han  mossa  le  paroli  di  Bonifacio,  l'amor  di  Bonifacio, 
il  veder  spasmare  Bonifacio,  potrà  esser  forzata  con  que- 
sta occolta  filosofìa.  Si  dice  che  l'arte  magica  è  di  tanta 
importanza  che  contra  natura  fa  ritornar  gli  fiumi  a 
dietro,  fissar  il  mare,  muggire  i  monti,  intonar  l'abisso, 
proibir  il  sole,  despiccar  la  luna,  sveller  le  stelle,  toglier 
il  giorno  e  far  fermar  la  notte:  però  l'Academico  di  nulla 
academia,  in  quell'odioso  titolo  e  poema  smarrito,  disse: 

Don    a    rapidi  fiumi  in  su  ritorno. 
Smuove  de  Volto  del  V aurate  stelle. 
Fa  sii  giorno  la  notte,  e  notfil  giorno. 
E  la  luna  da  lorhe  proprio  svelle 
E  gli  cangia  in  sinistro  il  destro  corno, 
E  del  mar  Fonde  ingonfia  e  fissa  quelle. 
Terra,  acqua,  fuoco  ed  aria  despiuma, 
Ed  al  voler  uman  fa  cangiar  piuma. 


0)  Candelaio,  Atto  I,  Scene  !I,  III  e  X. 


16  Parte  prima 

Di  tutto  si  potrebbe  dubitare;  ma,  circa  quel  ch'ulti- 
mamente dice  quanto  all'efifetto  d'amore,  ne  veggiamo 
l'esperienza  d'ogni  giorno.  Lascio  che  del  magistero  di 
questo  Scaramurè  sento  dir  cose  maravlgliose  a  fatto. 
Ecco:  vedo  un  di  quei  che  rubbano  la  vacca  e  poi  donano  le 
corna  per  l'amor  di  Dio.  Veggiamo  che  porta  di  bel  novo. 

M.  Bonifacio,  M.  Bartolomeo  ragionano;  Pollulo  e 
Sanguino,  occoltì,  ascoltano. 

Bart.  Crudo  amore,  essendo  tanto  ingiusto  e  tanto 
violento  il  regno  tuo,  che  voi  dir  che  perpetua  tanto  P 
perchè  fai  che  mi  fugga  quella  ch'io  stimo  e  adoro P  per- 
chè non  è  lei  a  me,  come  io  son  cossi  strettissimamente 
a  lei  legato  P  si  può  imaginar  questo  P  ed  è  pur  vero.  Che 
sorte  di  laccio  è  questa P  di  dui  fa  l'un  incatenato  a  l'altro, 
e  l'altro  più  che  vento  libero  e  sciolto. 

BoN.  Forse  ch'io  son  soloP  uh,  uh  uh. 

Bart.  Che  cosa  avete,  messer  Bonifacio  mioP  pian- 
gete la  mia  penaP 

BoN.  Ed  il  mio  martire  ancora.  Veggo  ben  che  sete 
percosso,  vi  veggio  cangiato  di  colore,  vi  ho  udito  adesso 
lamentare,  intendo  il  vostro  male,  e,  come  partecipe  di 
medesma  passione  e  forse  peggior,  vi  compatisco.  Molti 
sono  de'  giorni  che  ti  ho  visto  andar  pensoso  ed  astratto, 
attonito,  smarrito  —  come  credo  eh  altri  mi  veggano,  — 
scoppiar  profondi  suspir  dal  petto,  co  gli  occhi  molli  — 
Diavolo!  —  dicevo  io  —  a  costui  non  è  morto  qualche 
propinquo,  familiare  e  benefattore;  non  ha  lite  in  corte; 
ha  tutto  il  suo  bisogno,  non  se  gli  minaccia  male,  ogni 
cosa  gli  va  bene;  io  so  che  non  fa  troppo  conto  di  soi  pec- 
cati; ed  ecco  che  piange  e  plora,  il  cervello  par  che  gli  stii 
in  cimhalis  male  sonantibus:  dunque  è  inamorato,  dunque 
qualche  umore  flemmatico  o  colerico  o  sanguigno  o  melan- 
colico  —  non  so  qual  sii  questo  umor  cupidinesco  — 
gli  è  montato  su  le  testa.  —  Adesso  ti  sento  proferir 
queste  dolce  parole:  conchiudo  più  fermamente  che  di 
quel  tossicoso  mele  abbi  il  stomaco  ripieno. 


II.  -  L'innamorato  e  le  arti  magiche  d'amore  1  7 


Bari.  Oimè,  ch'io  son  troppo  crudamente  preso  dai 
suoi  sguardi!  Ma  di  voi  mi  maraviglio,  messer  Bonifacio, 
non  di  me  che  son  di  dui  o  tre  anni  più  giovane,  ed  ho 
per  moglie  una  vecchia  sgrignuta  che  m'avanza  di  più 
d'otto  anni:  voi  avete  una  bellissima  mogliera,  giovane  di 
venticinque  anni,  più  bella  della  quale  non  è  facile  trovar 
in  Napoli;  e  sete  inamoratoP 

BoN.  Per  le  paroli  che  adesso  voi  avete  detto,  credo  che 
sappiate  quanto  su  imbrogliato  e  spropositato  il  regno 
d'amore.  Si  volete  saper  l'ordine,  o  disordine,  di  miei 
amori,  ascoltatemi,  vi  priego. 

Bart.  Dite,  messer  Bonifacio,  che  non  siamo  come  le 
bestie  ch'hanno  il  coito  servile  solamente  per  l'atto  della 
generazione,  —  però  hanno  determinata  legge  del  tempo 
e  loco,  come  gli  asini  a  i  quali  il  sole,  particulare  o  princi- 
palemente  il  maggio,  scalda  la  schena,  ed  in  climi  caldi  e 
temperati  generano,  e  non  in  freddi,  come  nel  settimo  cli- 
ma ed  altre  parti  più  vicine  al  polo;  —  noi  altri  in  ogni 
tempo  e  loco. 

BoN.  Io  ho  vissuto  da  quarantadue  anni  al  mondo  tal- 
mente, che  con  mulieribus  non  sum  coinquinato;  gionto  che 
fui  a  questa  etade  nelle  quale  cominciavo  ad  aver  qualche 
pelo  bianco  in  testa,  e  nella  quale  per  l'ordinario  suol  in- 
freddarsi l'amore  e  cominciar  a  venir  meno... 

Bart.  In  altri  cessa,  in  altri  si  cangia. 

BoN.  ...suol  cominciar  a  venir  meno,  com'il  caldo  al 
tempo  de  l'autunno,  allora  fui  preso  da  l'amor  di  Caru- 
bina.  Questa  mi  parve  tra  tutte  l'altre  belle  bellissima; 
questa  mi  scaldò,  questa  m'accese  in  fiamma  talmente, 
che  mi  bruggiò  di  sorte,  che  son  dovenuto  esca.  Or,  per 
la  consuetudine  ed  uso  continuo  tra  me  e  lei,  quella  prima 
fiamma  essendo  estinta,  il  cuor  mio  è  rimasto  facile  ad 
esser  acceso  da  nuovi  fuochi... 

Bart.  S'il  fuoco  fusse  stato  di  meglior  tempra,  non  t'ar- 
rebbe  fatto  esca  ma  cenere;  e  s'io  fusse  stato  in  luoco 
di  vostra  moglie,  arrei  fatto  cossi. 

BoN.  Fate  ch'io  finisca  il  mio  discorso,  e  poi  dite  quel 
che  vi   piace. 


18  Parte  prima 

Bart.  Seguite  quella  bella  similitudine. 

BoN.  Or,  essendo  nel  mio  cor  cessata  quella  fiamma  che 
l'ha  temprato  in  esca,  facilmente  fui  questo  aprile  da 
un'altra  fiamma   acceso. 

Bart.  In  questo  tempo  s'mamorò  il  Petrarca,  e  gli  asini 
anch'essi,  cominciano  a  rizzar  la  coda. 

BoN.  Come  avete  detto  .^ 

Bart.  Ho  detto  che  in  questo  tempo  s'inamorò  il  Pe- 
trarca, e  gli  animi,  anch'essi,  si  drizzano  alla  contempla- 
zione: perchè  i  spirti  ne  l'inverno  son  contratti  per  il 
freddo,  ne  l'estade  per  il  caldo  son  dispersi,  la  primavera 
sono  in  una  mediocre  e  quieta  tempratura  onde,  l'animo 
è  piij  atto,  per  la  tranquillità  della  disposizion  del  corpo, 
che  lo  lascia  libero  alle  sue  proprie  operazioni. 

BoN.  Lasciamo  queste  filastroccole,  venemo  a  propo- 
sizio.  Allora,  essendo  io  ito  a  spasso  e  Pusilipo  da  gli 
sguardi  della  signora  Vittoria  fui  sì  profondamente  saet- 
tato, e  tanto  arso  da'  suoi  lumi,  e  talmente  legato  da  sue 
catene,  che  oimè.... 

Bart.  Questo  animale  che  chiamano  amore,  per  il  più 
suole  assalir  colui  ch'ha  poco  da  pensare  e  manco  da  fare: 
non  eravate  voi  andato  a  spasso  ? 

BoN.  Or  voi  fatemi  intendere  il  versaglio  dell'amor 
vostro,  poi  che  m'avete  donata  occasion  di  discuoprirvi 
il  mio.  Penso  che  voi  ancora  deviate  prendere  non  poco 
refrigerio,  confabulando  con  quelli  che  patiscono  del  me- 
desmo  male,  si  pur  male  si  può  dir  l'amare. 

Bart.  Nominativo:  la  signora  Argenteria  m'affligge,  la 
signora  Orelia  m'accora. 

BoN.  Il  mal'an  che  Dio  dia  a  te,  e  a  lei  ed  a  lei. 

Bart.  Genitivo:  della  signora  Argenteria  ho  cura,  della 
signora  Orelia  tengo  pensiero. 

BoN.  Del  cancaro  che  mange  Bartolomeo,  Aurelia  ed 
Argentina. 

Bart.  Dativo:  alla  signora  Argenteria  porto  amore,  alla 
signora  Orelia  suspiro;  alla  signora  Argenteria  ed  Orelia 
comunmente  mi  raccomando. 

BoN.  Vorrei  saper  che  diavol  ha  preso  costui. 


II.  -  L'innamorato  e  \s  arti  magiche  d'amore  19 

Bari.  Vocativo:  o  signora  Argenteria,  perchè  mi  lasci? 
o  signore  Orelia,  perchè  mi   fuggi  P 

BoN.  Fuggir  ti  possano  tanto,  che  non  possi  aver  mai 
bene!  va'  col  diavolo,  tu  sei  venuto  per  burlarti  di  me! 

Bari.  E  tu  resta  con  quel  dio  che  t'ha  tolto  il  cervello, 
se  pur  è  vero  che  n'avesti  giamai.  Io  vo  a  negociar  per  le 
mie  padrone. 

BoN.  Guarda,  guarda  con  qual  tiro,  e  con  quanta  fa- 
cilità, questo  scelerato  me  si  ha  fatto  dir  quello  che  meglio 
sarrebbe  stato  dirlo  a  cinquant'altri.  Io  dubito  con  questo 
amore  di  aver  sin  ora  raccolte  le  primizie  della  pazzia. 
Or,  alla  mal'ora,  voglio  andar  in  casa  ad  ispedir  Lucia. 
Veggo  certi  furfanti  che  ridono:  sùspico  ch'avranno  udito 
questo  diavol  de  dialogo,  anch'essi.  Amor  ed  ira  non  si 
puot'ascondere. 

ScARAMURÈ,  Bonifacio,  Ascanio, 

ScAR.  Ben  trovato,  messer  Bonifacio. 

BoN.  Siate  il  molto  ben  venuto,  signor  Scaramurè,  spe- 
;anza  della  mia  vita  appassionata. 

ScAR.  Signum  affecti  animi. 

BoN.  Si  V.  S.  non  rimedia  al  mio  male,  io  son 
morto. 

SvAR.  Sì  come  io  vedo,  voi  sete  inam.orato. 

BoN.  Cossi  è:  non  bisogna  ch'io  vi  dica  più. 

ScAR.  Come  mi  fa  conoscere  la  vostra  fisionomia,  il 
computo  di  vostro  nome,  di  vostri  parenti  o  progenitori, 
la  signora  della  vostra  natività  fu  «  Venus  retrograda  in 
signo  masculino;  et  hoc  f or  tasse  in  G  eminibus  vigesimo  se- 
ptimo  grada:  »  che  significa  certa  mutazione  e  conversione 
nell'età  di  quarantasei  anni,  nella  quale  al  presente  vi 
ritrovate. 

BoN.  A  punto,  io  non  mi  ricordo  quando  nacqui;  ma, 
per  quello  che  da  altri  ho  udito  dire,  mi  trovo  da  quaran- 
tacinque anni  in  circa. 

ScAR.  Gli  mesi,  giorni  ed  ore  computare  ben  io  piìi  di- 
stintamente, quando  col  compasso  arò  presa  la  propor- 


20  Parte  prima 

zlone  dalla  latitudine  dell'unghia  maggiore  alla  linea  vi- 
tale, e  distanza  dalla  summità  dell'annulare  a  quel  termine 
del  centro  della  mano,  ove  è  designato  il  spacio  di  Marte; 
ma  basta  per  ora  aver  fatto  giudicio  cossi  universale  et 
in  communi.  Ditemi,  quando  fùstivo  punto  dall'amor 
di  colei  per  averla  guardato,  a  che  sito  ti  stava  ellaP  a  de- 
stra o  a  sinistra P 

BoN.  A  sinistra. 

ScAR.  Arduo  opere  nanciscenda.  —  Verso  mezzogiorno 
o  settentrione,  oriente  o  occidente,  o  altri  luoghi  mtra 
questi  P 

BoN.  Verso  mezzogiorno. 

ScAR.  Oportet  advocare  septentrionales.  —  Basta,  basta: 
qui  non  bisogna  altro;  voglio  effectuare  il  tuo  negocio 
con  magia  naturale,  lasciando  a  maggior  opportunità  le 
superstizioni  d'arte  più  profonda. 

BoN.  Fate  di  sorte  ch'io  accape  il  negocio,  e  sii  come 
si  voglia. 

ScAR.  Non  vi  date  impaccio,  lasciate  la  cura  a  me.  La 
cosa  già  fu  per  fascinazione P 

BoN.  Come  per  fascinazione  P  io  non  intendo. 

ScAR.  Idest,  per  averla  guardata,  guardando  lei  anco 

VOI. 

BoN.  Sì,  signor  sì,  per  fascinazione. 

ScAR.  Fascinazione  si  fa  per  la  virtù  di  un  spirito  lucido 
e  sottile,  dal  calor  del  core  generato  di  sangue  più  puro, 
il  quale,  a  guisa  di  raggi,  mandato  fuor  de  gli  occhi  aperti, 
che  con  forte  imaginazion  guardando,  vengono  a  ferir 
la  cosa  guardata,  toccano  il  core  e  sen  vanno  ad  afficere 
l'altrui  corpo  e  spirto  o  di  affetto  di  amore  o  di  odio  o  di 
invidia  o  di  maninconla  o  altro  simile  geno  di  passibili 
qualità.  L'esser  fascinato  d'amore  adviene,  quando,  con 
frequentissimo  over,  benché  istantaneo,  intenso  sguardo 
un  occhio  con  l'altro,  e  reciprocamente  un  raggio  visual 
con  l'altro  si  rincontra,  e  lume  con  lume  si  accopula.  Al- 
lora si  gionge  spirto  a  spirto;  ed  il  lume  superiore,  incul- 
cando l'inferiore,  vengono  a  scintillar  per  gli  occhi,  cor- 
rendo e  penetrando  el  spirto  interno  che  sta  radicato  al 


II.  —  L'innamorato  e  le  arti  magiche  d'amore  21 


cuore;  e  cossi  commuoveno  amatorio  incendio.  Però,  chi 
non  vuol  esser  fascinato,  deve  star  massimamente  cauto 
e  far  buona  guardia  negli  occhi,  li  quali,  in  atto  d'amore, 
principalmente  son  fenestre  dell'anima:  onde  quel  detto: 
«  Averte,  averte  oculos  tuos  ».  —  Questo,  per  il  presente, 
basti;  noi  ci  revedremo  a  più  bell'aggio,  provedendo  alle 
cose  necessarie. 

BoN.  Signor,  si  questa  cosa  farete  venir  al  butto,  vi  ac- 
corgerete di  non  aver  fatto  servizio  a  persona  ingrata. 

ScAR.  Misser  Bonifacio,  vi  fo  intender  questo:  che  voglio 
io  prima  esser  grato  a  voi,  e  poi  son  certo,  si  non  mi  sa- 
rete grato,  mi  doverete  essere. 

BoN.  Comandatemi,  che  vi  sono  affezionatissimo,  ed  ho 
gran  speranza  nella  prudenza  vostra. 

AscANio,  ScARAMURÈ,  Bonifacio.  ^'> 

Asc.  Oh,  ecco  messer  Bonifacio  mio  padrone.  Misser, 
siamo  qui  con  il  Signor  eccellentissimo  e  dottissimo,  il 
signor  Scaramurè. 

BoN.  Ben  venuti.  Avete  dato  ordine  alla  cosaP  è  tempo 
di  far  nulla  P 

ScAR.  Come  nulla P  ecco  qui  la  imagine  di  cera  ver- 
gine, fatta  m  suo  nome;  ecco  qui  le  cinque  aguglie  che 
gli  devi  piantar  in  cinque  parti  della  persona.  Questa  par- 
ticulare,  pili  grande  che  le  altre,  li  pungerà  la  sinistra 
mammella:  guarda  di  profondare  troppo  dentro,  perchè 
fareste  morir  la  paziente. 

BoN.  Me  ne  guardarò  bene. 

ScAR.  Ecco,  ve  là  dono  in  mano;  non  fate  che  da  ora 
avanti  la  tenga  altro  che  voi.  Voi,  Ascanio,  siate  secreto, 
non  fate  che  altra  persona  sappia  questi  negocii. 

BoN.  Io  non  dubito  di  lui:  tra  noi  passano  negocii  più 
secreti  di  questo. 

ScAR.  Sta  bene.  Farete,  dunque,  far  il  fuoco  ad  Ascanio 
di  legne  di  pigna  o  di  oliva  o  di  lauro,  si  non  possete  farlo 


(1)  Atto   III.   Scena   III. 


22  Parte  prima 

di  tutte  tre  materie  insieme.  Poi  arrete  d'incenso,  alcuna- 
mente esorcizato  o  incantato;  co  la  destra  mano  lo  getta- 
rete  al  fuoco;  direte  tre  volte:  «/4urum  thus  »;  e  cossi  ver- 
rete ad  incensare  e  fumigare  la  presente  imagine,  la  qual 
prendendo  in  mano  direte  tre  volte:  «  Sine  quo  nihil  »; 
oscltarete  tre  volte  co  gli  occhii  chiusi,  e  poi,  a  poco  a  poco, 
svoltando  verso  il  caldo  del  fuoco  la  presente  imagine,  — 
guarda  che  non  si  liquefacela,  perchè  morrebbe  la  pa- 
ziente, —  ... 

BoN.  Me  ne  guardar©  bene. 

ScAR.  ...la  farrete  tornare  el  medesmo  lato  tre  volte, 
insieme  insieme  tre  volte  dicendo:  «  Zalarath  Zhalaphar 
nectere  vincula:  Caphure,  Mìrion,  sarcha  Vitloriae  »,  come 
sta  notato  in  questa  cartolina.  Poi,  mettendovi  al  contrarlo 
sito  del  fuoco  verso  l'occidente,  svoltando  la  imagine  con 
la  medesma  forma,  quale  è  detta,  dirrete  pian  piano:  «  Fe- 
laphthon  disamis  festino  barocco  daraphti.  Celantes  dahitis 
fapesmo  frises  omorum  '>K  II  che  tutto  avendo  fatto  e  detto, 
lasciate  ch'il  fuoco  si  estingua  da  per  lui;  e  locarrete  la 
figura  in  luoco  secreto,  e  che  non  su  sordido,  ma  onore- 
vole ed  odorifero. 

BoN.   Farro  cossi  a  punto. 

ScAR.  Sì,  ma  bisogna  ricordarsi  ch'ho  spesi  cinque 
scudi  alle  cose  che  concorreno  al  far  della  imagine. 

BoN.  Oh,  ecco,  li  sborso.  Avete  speso  troppo. 

ScAR.  E  bisogna  ricordarvi  di  me. 

BoN.  Eccovi  questo  per  ora;  e  poi  farò  di  ventaggio  assai, 
si  questa  cosa  verrà  a  perfezione. 

ScAR.  Pazienza  !  Avertite,  messer  Bonifacio,  che, 
si  voi  non  la  spalmarete  bene,  la  barca  correrà  mala- 
mente. 

BoN.  Non  intendo. 

ScAR.  Vuoi  dire  che  bisogna  onger  ben  bene  la  mano: 
non  sapete  P 

BoN.  In  nome  del  diavolo,  lo  procedo  per  via  d'in- 
canti, per  non  aver  occasione  di  pagar  troppo!  Incanti  e 
contanti. 

ScAR.  Non  indugglate.  Andate  presto  a  far  quel  che  vi 


II.  -   L'innamorato  e  ]s  arti  magiche  d'amore  23 

è  ordinato,  perchè  Venere  è  circa  l'ultimo  grado  di  Pesci; 
fate  che  non  scorra  mezza  ora,  che  son  trenta  minuti  di 
Ariete. 

BoN.  A  Dio,  dunque,  Andiamo,  Ascanlo.  Cancaro  a 
Venere,  e... 

ScAR.  Presto,  a  la  buon'ora,  caldamente! 

Bonifacio,  solo.  (^> 

Per  quel  che  costei  me  dice,  io  credo  di  avere  approssi- 
mata le  imagine  tanto  presso  al  fuoco,  che  quasi  si  sarebbe 
liquefatta:  penso  d'averla  troppo  scaldata.  Guarda  come 
la  povera  donna  viene  tormentata  dall'amore:  per  mia 
fé,  che  non  ho  possuto  contener  le  lacrime.  Si  messer 
Scaramurè,  —  che  Dio  li  dia  il  bon  giorno  e  la  buona 
sera,  che  adesso  conosco  per  propria  esperienza  che  è  un 
galantissimo  uomo,  —  non  mi  avesse  avertito  con  dirmi 
—  Guarda  che  non  si  liquefaccia;  —  io  certamente  arrei 
fatta  qualche  pazzia  ch'io  non  ardisco  tra  me  stesso  dirla. 
Or,  va'  numera  l'arte  maggica  tra  le  scienze  vane! 


(1)  Atto  IV.  Scena  VII 


Bruno.  In  tristiUa  hilaris,  etc. 


III. 

ARTI  E  DEBOLEZZE  DI  DONNE 


Signora  VITTORIA,  sola.   (') 

Aspettare  e  non  venire  è  cosa  da  morire.  Si  se  farà 
troppo  tardi,  non  si  potrà  far  nulla  per  questa  volta;  e  non 
so  SI  se  potrà  di  bel  nuovo  offrirsi  tale  occasione,  come 
si  presenta  questa  sera,  di  far  che  questa  pecoraccia  rac- 
coglia  1  frutti  degni  del  suo  amore.  Quando  mi  credevo  di 
guadagnar  una  dote  co  l'amor  di  costui,  sento  dir  che 
cerca  d'affatturarmi,  con  l'avermisi  formata  in  cera.  E 
potrebbe  giamai  l'unita  forza,  fatta  del  profondo  inferno, 
giunta  alla  efficacia  che  si  trova  ne'  spirti  de  l'aria  e  l'ac- 
qui, far  ch'io  possa  amar  un  che  non  è  soggetto  amoroso? 
Si  fusse  il  Dio  d'amore  istesso,  bello  quanto  si  voglia,  si 
sarà  egli  povero  o  ver  —  che  tutto  viene  ad  uno  — 
avaro,  ecco  lui  morto  di  freddo;  e  tutto  il  mondo  agghiac- 
ciato per  lui.  Certo,  quel  dir  povero,  over  avaro,  è  un  mi- 
serabile e  svergognatissimo  epiteto,  che  fa  parer  brutti  i 
belli,  ignobili  i  nobili,  ignoranti  i  savii,  ed  impotenti  i 
forti.  Tra  noi  che  si  può  dir  più  che  reggi,  monarchi  ed 
imperadon?  questi  pure,  si  non  arran  de  quibus,  si  non 
farran  correre  gli  de  quibus,  saran  come  statue  vecchie  d'al- 
tari sparati,  a'  quali  non  è  chi  faccia  riverenza.  Non  pos- 
siamo non  far  differenza  tra  il  culto  divino  e  quello  di 
mortali.  Adoriamo  le  sculture  e  le  imagini,  ed  onoriamo 
il    nome   divino    scritto,    drizzando   l'intenzione    a    quel 


(I)  Candelaio,  Atto   IV.  Scena    1. 


III.   -  Arti  e  debolezze  di  donne  23 

che  vive.  Adoramo  ed  onoramo  questi  altri  Dei,  driz- 
zando la  intenzione  e  supplice  devozione  alle  lor  imagini 
e  sculture,  perchè,  mediante  queste,  premiino  i  vir- 
tuosi, inalzino  i  degni,  defendano  gli  oppressi,  dilatino  i 
lor  confini,  conservino  i  suoi,  e  si  faccino  temere  de- 
l'aversarie  forze:  il  re,  dunque,  ed  imperator  di  carne 
ed  ossa,  si  non  corre  sculpito,  non  vai  nulla.  Or,  che  dun- 
que sarà  di  Bonifacio,  che,  come  non  si  trovassero  uomini 
al  mondo,  pensa  d'essere  amato  per  gli  belli  occhii  suoi  P 
Vedete  quanto  può  la  pazzia  !  Questa  sera  intenderà  che 
possan  far  contanti;  questa  sera  spero  che  vedrà  l'effetto 
della  sua  incantazione. 

Marta,  sola,  ^i) 

Meschina  me  !  io  lo  dico,  io  lo  so,  io  l'esperimento. 

Ero  più  contenta,  quando  questo  zarrabuino  di  mio  ma- 
nto non  avea  tanto  da  spendere,  che  non  potrei  essere  al 
dì  d'oggi.  Allora  giocavamo  a  gamba  a  collo,  alla  stret- 
tola, a  infilare,  a  spaccafico,  al  sorecillo,  alla  zoppa,  alla 
sciancata,  a  retoncunno,  a  spacciansieme,  a  quattro  spinte, 
quattro  botte,  tre  pertosa,  ed  un  buchetto.  Con  queste 
ed  altre  devozioni  passavamo  la  notte  e  parte  del  giorno. 
Adesso,  perchè  ha  scudi  di  vantaggio  per  la  eredità  di  Puc- 
ciolo  —  che  gli  sii  maledetta  l'anima,  anco  si  fusse  in 
seno  di  Abrammo!  —  ecco  lui  posto  in  pensiero,  angosce, 
travagli,  tema  di  fallire,  suspicion  d'esser  rubbato,  ansia 
di  non  essere  ingannato  da  questo,  assassinato  da  quello 
altro;  e  va  e  viene,  e  trotta  e  discorre,  e  sbozza  ed  imbozza, 
e  macina  e  cola,  e  soffia  vintiquattro  ore  del  giorno.  Tra 
tanto,  oggi,  gran  mercè  a  Barra,  che,  se  lui  non  fusse,  po- 
trei giurare,  che  più  dì  sette  mesi  sono,  che  non  me  ci  ha 
piovuto.  Ieri,  feci  dir  la  messa  di  Sant'Elia  contro  la  sic- 
cità; questa  mattina,  ho  speso  cinque  altre  grana  de  li- 
mosina per  far  celebrar  quella  di  S.  Gioachimo  ed  Anna, 


(1)  Atto   IV    Scena  IX. 


26  Parte  prima 

la  quale  è  miracolosissima  a  riunir  il  marito  co  la  moglie. 
Si  non  è  difetto  di  devozione  dal  canto  del  prete,  io  spero 
di  ricevere  la  grazie,  benché  ne  veggo  mala  vegilia:  che, 
in  loco  di  lasciar  la  fornace  e  venirme  in  camera,  oggi  è 
uscito,  più  del  dover,  di  casa,  che  mi  bisogna  a  questa 
ora  di  andarlo  cercando.  Pure,  quando  men  la  persona  si 
pensa,  le  gracie  si  adempiscono. 

Gio.  Bernardo  e  Carubina.  (') 

Carubina Olmè,  messer  Gio.  Bernardo,  io  ho  ben 

tenero  il  core!  Facilmente  credo  quel  che  dite,  benché 
siino  in  proverbio  le  lusinghe  d'amanti.  Però  desidero  ogni 
consolazion  vostra;  ma,  dal  canto  mio,  non  é  possibile 
senza  pregiudizio  del  mio  onore. 

Gio.  B.  Vita  della  mie  vita,  credo  ben  che  sappiate  che 
cosa  è  onore,  e  che  cosa  anco  su  disonore.  Onore  non  é 
altro  che  una  stima,  una  riputazione;  però  sta  sempre 
intatto  l'onore,  quando  la  stima  e  riputazione  persevera 
la  medesma.  Onore  è  la  buona  opinione  che  altri  abbian 
di  noi:  mentre  persevera  questa,  persevera  Tonore.  E  non 
è  quel  che  noi  siamo  e  quel  che  noi  facciamo,  che  ne  rendi 
onorati  o  disonorati,  ma  sì  ben  quel  che  altri  stimano,  e 
pensano  di  noi. 

CaR.  Sii  che  si  vogli  de  gli  omini,  che  dirrete  in  con- 
spetto de  gli  angeli  e  de'  santi,  che  vedeno  il  tutto,  e  ne 
giudicano  P 

Gio.  B.  Questi  non  vogliono  esser  veduti  più  di  quel  che 
si  fan  vedere;  non  vogliono  esser  temuti  più  di  quel  che  si 
fan  temere;  non  vogliono  esser  conosciuti  più  di  quel  che 
si  fan  conoscere. 

Car.  Io  non  so  quel  che  vogliate  dir  per  questo;  queste 
paroli  io  non  so  come  approvarle,  né  come  riprovarle: 
pur  hanno  un  certo  che  d'impietà. 

Gio.  B.  Lasciamo  le  dispute,  speranza  dell'anim.a  mia. 
Fate,  vi  priego,  che  non  in  vano  v'abbia  prodotta  cossi 


(I)  Atto  V.  Scena  XI. 


III.   -  Arti  e  debolezze  di  donne  27 

bella  il  cielo:  11  quale,  benché  di  tante  fattezze  e  grazie  vi 
sii  stato  liberale  e  largo,  è  stato  però,  dall'altro  canto,  a 
voi  avaro,  con  non  giongervi  ad  uomo  che  facesse  caso  di 
quelle,  ed  a  me  crudele,  col  farmi  per  esse  spasimare,  e 
mille  volte  il  giorno  morire.  Or,  mia  vita,  più  dovete  cu- 
rare di  non  farmi  morire,  che  temer  in  punto  alcuno,  che 
si  scemi  tantillo  del  vostro  onore.  Io  liberamente  mi  uc- 
ciderrò  —  si  non  sarrà  potente  il  dolore  a  farmi  morire, 
—  si,  avendovi  avuta,  come  vi  ho,  comoda  e  tanto  presso, 
di  quel,  che  mi  è  pm  caro  che  la  vita,  dalla  crudel  fortuna 
rimagno  defraudato.  Vita  di  questa  alma  afflitta,  non 
sarrà  possibile  che  sia  in  punto  leso  il  vostro  onore,  de- 
gnandovi di  darmi  vita;  ma  si  ben  necessario  ch'io  muoia 
essendomi  voi  crudele. 

Car.  Di  grazia,  andiamo  in  luoco  più  remoto,  e  non 
parliamo  qui  di  queste  cose. 


IV. 
IN  TAVERNA 


Barra,  Marca.  ('> 

Marc.  0  vedi  il  mastro  Manfurio  che  sen  va.^ 
Bar.   Lascialo  col  diavolo!  Seguite  il  proposito  inco- 
minciato: fermamoci  qua. 

Marc.  Or  dunque,  ier  sera,  all'osteria  del  Cerriglio, 
dopo  che  ebbemo  benissimo  mangiato,  sin  tanto  che  non 
avendo  lo  tavernaio  del  bisogno,  lo  mandaimo  a  procacciar 
altrove  per  fusticelli,  cocozzate,  cotugnate,  ed  altre  bagat- 
telle da  passar  il  tempo.  Dopo  che  non  sapevamo  che  più 
dimandare,  un  di  nostri  compagni  fìnse  non  so  che  debi- 
lità; e  Toste  essendo  corso  con  l'aceto,  io  dissi:  «  Non  ti 
vergogni,  uomo  da  poco!  camina,  prendi  dell'acqua  namfa, 
di  fiori  di  cetrangoli,  e  porta  della  malvasia  di  Candia  ». 
Allora  il  tavernaio  non  so  che  si  rinegasse  egli,  e  poi  co- 
mincia a  cridare,  dicendo:  «  In  nome  del  diavolo,  sete 
voi  marchesi  o  duchi?  sete  voi  persone  di  aver  speso  quel 
che  avete  speso  ?  Non  so  come  la  farremo  al  far  del  conto. 
Questo  che  dimandate,  non  è  cosa  da  osteria  ».  «  Furfante, 
ladro,  mariolo»,  dissi  io,  «pensi  ad  aver  a  far  con  pan 
tuoi?  tu  sei  un  becco  cornuto,  svergognato  ».  «  Hai  men- 
tito per  cento  canne  »,  disse  lui.  Allora,  tutti  insieme, 
per  nostro  onore,  ci  alzaimo  di  tavola,  ed  acciaffaimo, 
ciascuno,  un  spedo  di  que'  più  grandi,  lunghi  da  diece 
palmi... 


(1)  Candelaio.  Atto   III,   Scena  Vili. 


IV.  -  In  taverna  29 

Bar.  Buon  principio,  messere. 

Marc.  ...li  quali  ancor  aveano  la  provisione  infilzata; 
ed  il  tavernaio  corre  a  prendere  un  partesanone;  e  dui  di 
suoi  servitori  due  spadi  rugginenti.  Noi,  benché  fussimo 
sei  con  sei  spedi  più  grandi  che  non  era  la  partesana, 
presimo  delle  caldaia,  per  servirne  per  scudi  e  rotelle... 

Bar.  Saviamente. 

Marc.  ...Alcuni  si  puosero  certi  lavezzi  di  bronzo  in 
testa  per  elmetto  over  celata... 

Bar.  Questa  fu  certo  qualche  costellazione  che  puose 
in  esaltazione  i  lavezzi,  padelle  e  le  caldaie. 

Marc.  ...E  cossi  bene  armati,  reculando,  ne  andevamo 
defendendo  e  retirandoci  per  le  scale  in  giù,  verso  la  porta, 
benché  facessimo  fìnta  di  farci  avanti.... 

Bar.  «  Bel  combattere!  un  passo  avanti  e  dui  a  dietro, 
un  passo  avanti  e  dui  a  dietro  ":  disse  il  signor  Cesare  da 
Siena. 

Marc.  ...Il  tavernaio  quando  ci  vedde  molto  più  forti 
e  timidi  più  del  dovero,  in  loco  di  gloriarsi,  come  quel  che 
si  portava  valentemente,  entrò  in  non  so  che  suspizione:... 

Bar.  Ci  sarebbe  entrato  Scazzolla. 

Marc.  ...per  il  che,  buttata  la  partesana  in  terra,  co- 
mandò a  sua  servitori  che  si  retirassero,  che  non  volea  di 
noi  vendetta  alcuna... 

Bar.  Buon'anima  da  canonizzare. 

Marc.  E  voltato  a  noi  disse:  «  Signori  gentiluomini, 
perdonatime,  io  non  voglio  offendervi  de  dovero!  di  grazia, 
pagatemi  ed  andiate  con  Dio!  )\ 

Bar.  AUor  sarrebbe  stata  bene  qualche  penitenza  con 
l'assoluzione. 

Marc.  «  Tu  ci  voi  uccidere,  traditore  »:  dissi  io;  e  con 
questo  puosemo  i  piedi  fuor  de  la  porta.  Allora  l'oste  de- 
sperato, accorgendosi  che  non  accettavamo  la  sua  cortesia 
e  devozione,  riprese  il  partesanone,  chiamando  aggiuto 
di  servi,  figli  e  moglie.  Bel  sentire!  l'oste  cridava:  «  Paga- 
temi, pagatemi  »;  gli  alti  stridevano:  «  A'  marioli,  a'  ma- 
rioli! ah,  ladri  traditori!  ».  Con  tutto  ciò,  nisciun  fu  tanto 
pazzo  che  ne  corresse  a  dietro,  perché  l'oscurità  della 


30  Parte  prima 

notte  faurlva  più  noi  che  altro.  Noi,  dunque,  temendo 
il  sdegno  ostile,  idest  de  l'oste,  fuggivimo  ad  una  stanza 
apresso  li  Carmini,  dove,  per  conto  fatto,  abbiamo  ancor 
da  farne  le  spese  per  tre  giorni. 

Bar.  Far  burla  ad  osti  è  far  sacrifìcio  a  Nostro  Signore; 
rubbare  un  tavernaio  è  far  una  limosina;  in  batterlo  bene 
consiste  il  merito  di  cavar  un'anima  di  purgatorio!  — 
Dimmi,  avete  saputo  poi  quel  che  seguitò   nell'ostariaP 

Marc.  Concorsero  molti,  de  quali  altri  pigliandosi 
spasso  altri  attristandosi,  altri  piangendo,  altri  ridendo, 
questi  consigliando,  quelli  sperando,  altri  facendo  un  viso, 
altri  un  altro,  altri  questo  linguaggio  ed  altri  quello:  era 
veder  insieme  comedia  e  tragedia  e  chi  sonava  a  gloria  e 
chi  a  mortoro.  Di  sorte  che,  chi  volesse  vedere  come  sta 
fatto  il  mondo,  derebbe  desiderare  d'esservi  stato  pre- 
sente. 

Bar.  Veramente  la  fu  buona.  —  Ma  io  che  non  so  tanto 
di  rettorica,  solo  soletto,  senza  compagnia,  l'altr'ieri,  ve- 
nendo da  Nola  per  Pumigliano,  dopoi  ch'ebbi  mangiato , 
non  avendo  tropo  buona  fantasia  di  pagare,  dissi  al  ta- 
vernaio: «  Messer  osto,  vorrei  giocare  ».  «  A  qual  gioco  )>, 
disse  lui,  «  volemo  giocare .3  qua  ho  de  tarocchi  ».  Risposi: 
«  A  questo  maldetto  gioco  non  posso  vencere,  perchè  ho 
una  pessima  memoria  ».  Disse  lui:  «  Ho  di  carte  ordinarie  ». 
Risposi:  «  Saranno  forse  segnate,  che  voi  le  conoscerete. 
Avetele  che  non  siino  state  ancor  adoperate?  »  Lui  ri- 
spose de  non.  «  Dunque,  pensiamo  ad  altro  gioco  ».  «  Ho 
le  tavole,  sai.^  ».  «  Di  queste  non  so  nulla  ».  «  Ho  de  scac- 
chi, sai?»  «Questo  gioco  mi  farebbe  rinegar  Cristo». 
Allora,  gli  venne  il  senapo  in  testa:  «  A  qual,  dunque, 
diavolo  di  gioco  vorrai  giocar  tu?  proponi  ».  Dico  io: 
«  A  stracquare  a  palle  maglio  ».  Disse  egli:  «  Come,  a 
pall'e  maglio  P  vedi  tu  qua  tali  ordegni  P  vedi  luoco  da 
posservi  giocare?»  Dissi:  «A  la  mirella?  »  «Questo  è 
gioco  da  fachini,  bifolchi  e  guardaporci  ».  «  A  cinque 
dadi»?  «Che  diavolo  di  cinque  dadi?  mai  udivi  di  tal 
gioco.  Si  vuoi,  giocamo  a  tre  dadi  ».  Io  gli  dissi,  che  a  tre 
dadi  non  posso  aver  sorte.  «  Al  nome  di  cinquantamila 


In  taverna  31 

diavoli  »,  disse  lui,  «  si  vuoi  giocare,  proponi  un  gioco  che 
possiamo  farlo  e  voi  ed  io  ».  Gli  dissi:  «  Giocamo  a  spac- 
castrommola  ».  «  Va'  »,  disse  lui,  «  che  tu  mi  dai  la  baia: 
questo  è  gioco  da  putti,  non  ti  vergogni?  »  «  Or  su,  dun- 
que^», dissi,  «  giocamo  a  correre  ».  «  Or,  questa  è  falsa  » 
disse  lui.  Ed  io  soggionsi:  «  Al  sangue  dell'Intemerata, 
che  giocarai!  »  «Vuoi  far  bene»,  disse,  «pagami;  e  si 
non  vuoi  andar  con  Dio,  va'  col  prior  de'  diavoli!  ».  Io 
dissi :_«  Al  sangue  delle  scrofole,  che  giocarai!  »  «  E  che 
non  gioco?  »_diceva.  «E  che  giochi?»  dicevo.  «E  che 
mai  mai  vi  giocai P  ».  «  E  che  vi  giocarrai  adesso.^  ».  «  E  che 
non  voglio?  »  «  E  che  vorrai  ?  »  In  conclusione,  comincio 
io  a  pagarlo  co  le  calcagne,  ideste  a  correre;  ed  ecco  quel 
porco  chepoco  fa  diceva  che  non  volea  giocare,  e  giurò 
che  non  volea  giocare,  e  giocò  lui,  e  giocorno  dui  altri 
suoi  guattari:  di  sorte  che,  per  un  pezzo  correndomi  a 
presso  mi  arrivorno  e  giunsero...  co  le  voci.  Poi,  ti  giuro, 
per  la  tremenda  piaga  di  S.  Rocco,  che  né  io  l'ho  più  uditi, 
né  essi  mi  hanno  più  visto. 


V-VI. 
CASTIGO  E  BEFFE  —  PLAUDITE 


Barra,    Marca,    Corcovizzo,    Manfurio,    Sanguino, 

ASCANIO.    (') 

Bar.  Quell'altro  è  ispedito.  Che  vogliam  far  di  costui, 
del  domino  Magister  ? 

Sang.  Questo  porta  sue  colpa  su  la  fronte  non  vedi  c'hè 
stravestito?  non  vedi  che  quel  mantello  è  stato  rubbato  a 
Tiburolo?  Non  l'hai  visto  che  fugge  la  corte? 

Marc.  E  vero;  ma  apporta  certe  cause  verisimile. 

Bar.  Per  ciò  non  deve  dubitare  d'andar  priggione. 

Manf.  Verum;  ma  cascarrò  in  derisione  app>o  miei 
scolastici  e  di  altri  per  i  casi  che  me  si  sono  aventati  al 
dorso. 

Sang.  Intendete  quel  che  vuol  dir  costui? 

Corc.  Non  l'intenderebbe  Sansone. 

Sang.  Or  su,  per  abbreviarla,  vedi,  Magister,  a  che  cosa 
ti  vuoi  resolvere:  si  volete  voi  venir  piggione,  over  donar 
la  bona  mano  alla  compagnia  di  que'  scudi  che  ti  son  ri- 
masti dentro  la  giornea,  perchè,  come  dici,  il  mariolo  ti 
tolse  sol  quelli  ch'avevi  in  mano  per  cambiarli. 

Mane.  Minime,  io  non  ho  altrimente  veruno.  Quelli 
che  avevo,  tutti  mi  furon  tolti,  ita,  mehercle,  per  lovem, 
per  Altitonantem,  vos  sidera  testar. 


(1)   Candelaio,   Atto  V.  Scene  XXV,  XXVI. 


V.-VI.  -  Castigo  e  beffe  -  Plaudite  33 

Sang.  Intendi  quel  che  ti  dico.  Si  non  voi  provar  il 
stretto  della  Vicaria,  e  non  hai  moneta,  fa'  elezione  d  una 
de  le  altre  due:  o  prendi  diece  spalmate  con  questo  ferro  di 
correggia  che  vedi,  o  ver  a  brache  calate  arrai  un  cavallo 
de  cmquanta  staffilate:  che  per  ogni  modo  tu  non  ti  par- 
tirrai  da  noi,  senza  penitenza  di  tui  falli. 

Manf.  «  Duobus  propositis  malis  minus  est  tolerandum, 
sìcut  duobus  propositis  bonis  melius  est  eligendum  »:  dicit 
Peripateticorum  princeps, 

Asc.  Maestro,  parlate  che  siate  inteso,  perchè  queste 
son  gente  sospette. 

Bar.  Può  esser  che  dica  bene  costui,  allor  che  non  vuol 
esser  inteso? 

Manf.  Nil  mali  vobis  imprecar:  io  non  vi  impreco 
male. 

Sang.  Pregatene  ben  quanto  volete,  che  da  noi  non 
sarrete  essaudito. 

CoRC.  Elegetevi  presto  quel  che  vi  piace,  o  vi  legar- 
remo  meglio  e  vi  menarremo. 

Manf.  Minus  pudendum  erit  palma  feriri,  quam  quod 
congerant  in  veteres  flagella  nates:  id  non  puerile  est. 

Sang.  Che  dite  voi?  che  dite,  in  vostra  mal'ora? 

Manf.  Vi  offro  la  palma. 

Sang.  Tocca  Uà,  Corcovizzo,  da'  fermo. 

CoRC.  Io  do.  Taf,  una. 

Manf.  Oimmè,  lesus,  of! 

Coro.  Apri  bene  l'altra  mano.  Taf,  e  due. 

Manf.  Of,  of,  lesus  Maria. 

CoRC.  Stendi  ben  la  mano,  ti  dico;  tienla  dritta  cossi. 
Taff,  e  tre. 

Manf.  Oi  oi,  oimmè,  uf,  of  of  of,  per  amor  della  Pas- 
sion  del  nostro  Signor  Jesus.  Potius  fatemi  alzar  a  cavallo 
perchè  tanto  dolor  suffrir  non  posso  nelle  mani. 

Sang.  Orsù,  dunque.  Barra,  prendilo  su  le  spalli;  tu. 
Marca,  tienlo  fermo  per  i  piedi,  che  non  si  possa  movere; 
tu,  Corcovizzo,  spuntagli  le  brache  e  tienle  calate  ben 
bene,  a  basso;  e  lasciatelo  strigliar  a  me;  e  tu.  Maestro, 
conta  le  staffilate,  ad  una  ad  una,  ch'io  t'intenda,  e  guarda 


34  Parte  pritra 

ben.  che  si  farrai  errore  nel  contare,  che  sarrà  bisogno  di 
ricominciare;  voi,  Ascanio,  vedete  e  giudicate. 

Mar.  Tutto  sta  bene.  Cominciatelo  a  spolverare,  e 
guardatevi  di  far  male  a  i  drappi  che  non  han  colpa. 

Sang.  Al  nome  di  Santa  Scoppettella,  conta:  toff. 

Manf.  Tof,  una;  tof,  oh  tre;  tof,  oh  oi,  quattro;  toff, 
cime,  oimè...;  tof,  oi,  oimè...;  tof,  oh,  per  amor  de  Dio, 
sette! 

Sang.  Cominciamo  da  principio,  un'altra  volta.  Ve- 
dete si  dopo  quattro  son  sette.  Dovevi  dir  cinque. 

Manf.  Oimè,  che  farro  ioP  erano  in  rei  ventate  sette. 

Sang.  Dovevi  contarle  ad  una  ad  una.  Or  su,  via  di 
novo:  toff. 

Manf.  Toff,  una;  toff,  una;  toff,  oimè,  due;  toff,  toff, 
toff,  tre,  quattro;  toff,  toff,  cinque,  oimè;  toff,  toff,  sei. 
0  per  l'onor  di  Dio,  toff  non  piìj,  toff,  toff,  non  più,  che 
vogliamo,  toff,  toff,  veder  nella  giornea,  toff,  che  vi  saran 
alquanti  scudi. 

Sang.  Bisogna  contar  da  capo,  che  ne  ha  lasciate  molte, 
che  non  ha  contate. 

Bar.  Perdonategli,  di  grazia,  signor  Capitano,  perchè 
vuol  far  quell'altra  elezione  di  pagar  la  strana. 

Sang.  Lui  non  ha  nulla. 

Manf.  Ita,  ita,  che  adesso  mi  ricordo  aver  più  di  quattro 
scudi. 

Sang.  Ponetelo  abasso,  dunque,  vedete  che  cosa  vi  è 
dentro  la  giornea. 

Bar.  Sangue  di...,  che  vi  sono  più  di  sette  de  scudi, 

Sang.  Alzatelo,  alzatelo  di  bel  novo  a  cavallo:  per  la 
mentita  ch'ha  detta,  e  falsi  giuramenti  ch'ha  fatti,  bisogna 
contarle,  fargli  contar  settanta. 

Manf.  Misericordia!  prendetevi  gli  scudi,  la  giornea, 
e  tutto  quanto  quel  che  volete,  dimittam  vobis. 

Sang.  Or  su,  pigliate  quel  che  vi  dona,  e  quel  mantello 
ancora  che  è  giusto  che  sii  restituito  al  povero  padrone. 
Andiamone  noi  tutti:  bona  notte  a  voi,  Ascanio  mio. 

Asc.  Bona  notte  e  mille  bon'anni  a  V.  S.,  signor  Capi- 
tani©, e  buon  prò  faccia  al  Maestro. 


V.-VI.  -  Castigo  e  beffe  -  Plaudite  35 


Manfurio,  Ascanio. 

Manf.  Ecquis  erit  modus. 

Asc.   Olà,  mastro  Manfurio,  mastro  Manfurio. 

Mane,  Chi  è,  chi  mi  conosce?  chi  in  questo  abito  e 
fortuna  mi  distmgue?  chi  per  nome  mio  proprio  m'ap- 
pella ? 

Asc.  Non  ti  curar  di  questo,  che  t'importa  poco  o  nulla: 
apri  gli  occhi,  e  guarda  dove  sei,  mira  ove  ti  trovi. 

Mane.  Quo  melius  videam,  per  corroborar  l'intuito  e 
fìrm.ar  l'acto  della  potenza  visiva,  acciò  l'acie  de  la  pupilla 
più  efficacemente  per  la  linea  visuale,  emittendo  il  radio 
a  l'obiecto  visibile,  venghi  ad  introdur  la  specie  di  quello 
nel  senso  interiore,  idesi,  mediante  il  senso  comone,  col- 
locarla nelle  cellula  de  la  fantastica  facultade,  voglio  appli- 
carmi gli  oculari  al  naso.  —  Oh,  veggio  di  molti  specta- 
tori  la  corona. 

Asc.  Non  vi  par  esser  entro  una  comedia? 

Mane.  Ita  sane. 

Asc.  Non  credete  d'esser  in  scena? 

Mane.  Omni  procul  duhio, 

Asc.  A  che  termine  vorreste  che  fusse  la  com.edia? 

Mane.  In  calce,  in  fine:  ncque  enim  et  ego  risu  ilia  tendo. 

Asc.  Or  dunque,  fate  e  donate  il  Plaudite. 

Mane.  Quam  male  possum  plaudere, 

Tentatus  pacientia, 
Nam  plausus  per  me  factus  est 
lam  dudum  miserabilis. 
Et  natibus  et  manibus 
Et  aureorum   sonitu.  Amen. 


VII. 
AVVENTURE  LONDINESI  <" 


Teofilo...  —  0,  di  grazia,  dissero,  presto,  senza  dimora 
andiamo,  che  vi  aspettano  tanti  cavallieri,  gentilomini  e 
dottori,  e  tra  gli  altri  ve  n'è  un  di  quelli  ch'hanno  a  dispu- 
tare; il  quale  è  di  vostro  cognome.  —  Noi  dunqne,  disse  il 
Nolano,  non  ne  potremo  far  male.  Sin  adesso  una  cosa  m'è 
venuta  m  fallo,  ch'io  sperava  di  far  questo  negocio  a  lume 
di  sole,  e  veggio,  che  si  disputarà  a  lume  di  candela.  — 
Iscusò  meastro  Guin  per  alcuni  cavallieri,  che  deside- 
ravano esser  presenti:  non  han  possuto  essere  al  desinare, 
e  son  venuti  a  la  cena.  —  Orsù,  disse  il  Nolano,  andiamo 
e  preghiamo  Dio,  che  ne  faccia  accompagnare  in  questa 
sera  oscura,  a  sì  lungo  camino,  per  sì  poco  sicure  strade. 

Or,  benché  fussemo  ne  la  strada  diritta,  pensando  di 
far  meglio,  per  accortar  il  camino,  divertimmo  verso  il 
fiume  Tamesi,  per  ritrovar  un  battello,  che  ne  conducesse 
verso  il  palazzo.  Giunsemo  al  ponte  de  palazzo  del  milord 
Beuckhurst;  e  quinci,  cridando  e  chiamando  oares  {idest, 
gondolieri),  passammo  tanto  tempo,  quanto  arrebe  ba- 
stato a  bell'agio  di  condurne  per  terra  al  loco  determinato, 
e  avere  spedito  ancora  qualche  piccolo  negozio.  Risposero 
al  fine  de  lungi  dui  barcaroli;  e  pian  pianino,  come  venes- 
sero  ad  appiccarsi,  giunsero  a  la  riva;  dove,  dopo  molte 


(I)  Cena  delle  Ceneri,   Dialogo   II.   —    Teofilo   (G.  B.)    narra  le    peripezie 
occorse  a  lui,   a  messer  Florio  e  maestro  Guin  (Gwinnc). 


VII.  -  Avventure  londinesi  37 


interrogazioni  e  risposte  del  donde,  dove,  e  perchè,  e  come, 
e  quanto,  approssimorno  la  proda  a  l'ultimo  scahno  del 
ponte.  Ed  ecco  di  dui,  che  v'erano,  un,  che  pareva  il  noc- 
chier  antico  del  tartareo  regno,  porse  la  mano  al  Nolano, 
e  un  altro,  che  penso  ch'era  il  figlio  di  quello,  benché 
fusse  uomo  di  sessanta  cinque  anni  in  circa,  accolse  noi 
altri  appresso.  Ed  ecco  che,  senza  che  qui  fusse  entrato 
un  Ercole,  un  Enea,  o  ver  un  re  di  Sarza,  Rodomonte. 

gemuit  sub  pondere  cymba 
Sutilis,  et  multam  accepit  limosa  paludem. 

Udendo  questa  musica,  il  Nolano:  —  Piaccia  a  Dio, 
disse,  che  questo  non  sii  Caronte;  credo,  che  questa  è 
quella  barca  chiamata  l'emula  de  la  lux  perpetua:  questa 
può  sicuramente  competere  in  antiquità  con  l'arca  di 
Noè:  e  per  mia  fé,  per  certo,  par  una  delle  reliquie  del  di- 
luvio. —  Le  parti  di  questa  barca  ti  rispondevano,  ovon- 
que  la  toccassi,  e  per  ogni  minimo  moto  risuonavano  per 
tutto.  —  Or  credo,  disse  il  Nolano,  non  esser  favola, 
che  le  muraglia,  si  ben  mi  ricordo,  di  Tebe  erano  vocali, 
e  che  talvolta  cantavano  a  raggion  di  musica.  Si  noi  cre- 
dete, ascoltate  gli  accenti  di  questa  barca,  che  ne  sembra 
tanti  pifferi  con  que'  fischi,  che  fanno  udir  le  onde  quando 
entrano  per  le  sue  fessure  e  rime  d'ogni  canto.  —  Noi 
risemo,  ma  Dio  sa  come. 

Annibal,  quando  a  Vimperio  afflitto 
Vedde  farsi  fortuna  sì  molesta. 
Rise  tra  gente  lacrimosa  e  mesta. 

Prudenzio.  Risus  sardonicus. 

Teo.  Noi,  invitati  sì  da  quella  dolce  armonia,  come  da 
amor  gli  sdegni,  i  tempi  e  le  staggioni,  accompagnammo  i 
suoni  con  i  canti.  Messer  Florio,  come  ricordandosi  dei 
suoi  amori,  cantava  il  Dove,  senza  me,  dolce  mia  vita.  Il 
Nolano  ripigliava:  //  Saracin  dolente,  o  femenil  ingegno,  e  va 
discorrendo.  Cossi  a  poco  a  poco,  per  quanto  ne  permet- 
tea  la  barca,  che  (benché  dalle  tarle  e  il  tempo  fusse  ri- 


38  Parte  prima 

dutta  a  tale,  ch'arrebe  possuto  servir  per  subero)  parca 
col  suo  festina  lente  tutta  di  piombo,  e  le  braccia  di  quei 
dua  vecchi  rotte;  i  quali,  benché  col  rimenar  della  persona 
mostrassero  la  misura  lunga,  nulla  di  meno  coi  remi  fa- 
ceano  i  passi  corti. 

Pru.  Optime  descriptum  illud:  festina,  con  il  dorso  fret- 
toloso di  marinai;  lente,  col  profìtto  de'  remi,  qual  mali 
operarli  del  dio  degli  orti. 

Teo.  a  questo  modo,  avanzando  molto  di  tempo  e  poco 
di  camino,  non  avendo  già  fatta  la  terza  parte  del  viaggio, 
poco  oltre  il  loco,  che  si  chiama  il  Tempio,  ecco  che  i  no- 
stri patrini,  in  vece  d'affrettarsi,  accostano  la  proda  verso 
il  lido.  Dimanda  il  Nolano:  —  Che  voglion  far  costoro? 
voglion  forse  riprendere  un  po'  di  fiato?  —  E  gli  venne 
interpretato,  che  quei  non  erano  per  passar  oltre;  perchè 
quivi  era  la  lor  stanza.  Priega  e  ripriega,  ma  tanto  peggio; 
perchè  questa  è  una  specie  de  rustici,  nel  petto  de'  quali 
spunta  tutti  i  sui  strali  il  dio  d'amor  del  popolo  villano. 

Pru.  Principio  cmni  rusticorumg  eneri  hoc  est  a  natura 
tributum,  ut  nihil  virtuiis  amore  faciant,  et  vix  quicquam 
formidine  poenae. 

Frulla.  E  un  altro  proverbio  anco  in  proposito  di  cia- 
schedun  villano: 

Rogatus  tumet, 
Pulsatus  rogat, 
Pugnis  concisus  adorat. 

Teo.  In  conclusione,  ne  gittarono  là;  e,  dopo  pagategli 
e  resegli  le  grazie  (perchè  in  questo  loco  non  si  può  far 
altro,  quando  se  riceve  un  torto  da  simil  canaglia),  ne  mo- 
strorno  il  diritto  camino  per  uscire  a  la  strada.  Or  qua  te 
voglio,  dolce  Mafelina,  che  sei  la  musa  di  Merlin  Cocaio. 
Questo  era  un  camino,  che  cominciò  da  una  buazza,  la 
quale,  né  per  ordinario,  né  per  fortuna,  avea  divertigli©. 
Il  Nolano,  il  quale  ha  studiato  ed  ha  pratticato  ne  le  scuole 
più  che  noi,  disse:  —  Mi  par  veder  un  porco  passaggio; 
però  seguitate  a  me.  —  Ed  ecco,  non  aveva  finito  quel 
dire,  che  vien  piantato  lui  in  quella  fanga  di  sorte,  che 


VII.  -  Avventure  londinesi  39 

non  possea  ritrarne  fuora  le  gambe;  e  cossi,  agglutando 
l'un  l'altro,  vi  demmo  per  mezzo,  sperando  che  questo 
purgatorio  durasse  poco.  Ma  ecco  che,  per  sorte  iniqua 
e  dura,  lui  e  noi,  noi  e  lui  ne  ritrovammo  ingolfati  dentro 
un  limoso  varco,  il  qual,  come  fusse  l'orto  de  la  gelosia 
o  il  giardin  de  le  delizie,  era  terminato  quinci  e  quindi  da 
buone  muraglia;  e  perchè  non  era  luce  alcuna  che  ne  gui- 
dasse, non  sepeamo  far  differenza  dal  camino  ch'aveam 
fatto,  e  quello  che  doveam  fare,  sperando  ad  ogni  passo 
il  fine:  sempre  spaccando  il  liquido  limo,  penetravamo 
sin  alla  misura  delle  ginocchia  verso  il  profondo  e  tene- 
broso averno.  Qua  l'uno  non  possea  dar  conseglio  a  l'altro; 
non  sapevam  che  dire,  ma  con  un  muto  silenzio  chi  sibilava 
per  rabbia,  chi  faceva  un  bisbiglio,  chi  sbruffava  co'  le 
labbia,  chi  gittava  un  suspiro  e  si  fermava  un  poco,  chi 
sotto  lengua  bestemmiava;  e  perchè  gli  occhi  non  ne  ser- 
veano,  i  piedi  faceano  la  scorta  ai  piedi,  un  cieco  era  con- 
fuso in  far  più  guida  a  l'altro.  Tanto  che, 

Qual  uom,  che  giace  e  piange  lungamente 
Sul  duro  letto  il  pigro  andar  de  l'ore. 
Or  pietre,  or  carme,  or  polve,  ed  or  liquore 
Spera,  ch'uccida  il  grave  mal,  che  sente: 

Ma,  poi  cKa  lungo  andar  vede  il  dolente. 
Ch'ogni  rimedio  è  vinto  dal  dolore. 
Disperando  s'acqueta;  e,  se  ben  more, 
Sdegna  cKa  sua  salute  altro  si  tente; 

cossi  noi,  dopo  aver  tentato  e  ritentato,  e  non  vedendo 
rimedio  al  nostro  male,  desperati,  senza  più  studiar  e  bec- 
carsi il  cervello  in  vano,  risoluti  ne  andavamo  a  guazzo  a 
guazzo  per  l'alto  mar  di  quella  liquida  bua,  che  col  suo 
lento  flusso  andava  del  profondo  Tamesi  a  le  sponde. 

Pru.  0  bella  clausola  ! 

Teo.  Tolta  ciascun  di  noi  la  risoluzione  del  tragico  cieco 
d'Epicuro: 

Dov'il  fatai  destin  mi  guida  cieco. 
Lasciami  andar,  e  dove  il  pie  mi  porta; 
Né  per  pietà  di  me  venir  più  meco 

Bruno,  In  tristHia  hilaris  etc.  5. 


40  Parte  prima 

Trovare  forse  un  fosso,  un  speco,  un  sasso 
Piatoso  a  trarmi  fuor  di  tanta  guerra. 
Precipitando  in  loco  cavo  e  basso; 

ma,  per  la  grazie  degli  Dei  (perchè,  come  dice  Aristotele, 
non  datur  infinitum  in  actu),  senza  Incorrer  peggior  male, 
ne  ritrovammo  al  jfine  ad  un  pantano;  il  quale,  benché 
ancor  lui  fusse  avaro  d'un  poco  di  margine  per  darne  la 
strada,  pure  ne  relevò  con  trattarci  più  cortesemente, 
non  inceppando  oltre  i  nostri  piedi;  sin  tanto  che,  mon- 
tando noi  più  alto  per  il  sentiero,  ne  rese  a  la  cortesia  d'una 
lava  la  quale  da  un  canto  lasciava  un  sì  petroso  spazio  per 
porre  i  piedi  in  secco,  che  passo  passo  ne  fé'  cespitar  come 
ubriachi,  non  senza  pencolo  di  romperne  qualche  testa 
o  gamba. 

Pru.  Conclusio,  conclusio! 

Teo.  In  conclusione,  tandem  laeta  arva  tenemus:  ne 
parve  essere  ai  campi  Elisii,  essendo  arrivati  a  la  grande  e 
ordinaria  strada;  e  quivi  da  la  forma  del  sito,  considerando 
dove  ne  avesse  condotti  quel  maladetto  divertiglio,  ecco 
che  ne  ritrovammo  poco  più  o  meno  di  vintidui  passi  di- 
scosti de  onde  eravamo  partiti  per  ritrovar  gli  barcaroli, 
vicino  a  la  stanza  del  Nolano.  0  vane  dialettiche,  o  no- 
dosi dubii,  o  importuni  sofismi,  o  cavillose  capzioni,  o 
scuri  enigmi,  o  intricati  leberinti,  o  indiavolate  sfìnge, 
risolvetevi,  o  fatevi  risolvere. 

In  questo  bivio,  in  questo  dubbio  passo, 
Che  debbo  far,  che  debbo  dir,  ahi  lasso  ? 

Da  qua  ne  richiamava  il  nostro  allogiamento;  perchè 
ne  avea  sì  fattamente  imbottati  maestro  Buazzo  e  maestro 
Pantano,  ch'a  pena  posseamo  movere  le  gambe.  Oltre,  la 
regola  de  la  odomantia  e  l'ordinario  degli  augurii  impor- 
tunamente ne  consegliavano  a  non  seguitar  quel  viaggio. 
Li  astri,  per  esserne  tutti  ricoperti  sotto  l'oscuro  e  tene- 
broso manto,  e  lasciandoci  l'aria  caliginosa  ne  forzavano 
al  ritorno.  Il  tempo  ne  dissuadeva  l'andar  sì  lungi  avante 
ed  essortava  a  tornar  quel  pochettino  a  dietro.  Il  loco  vi- 


VII.  -  Avventure  londinesi  41 

cino  applaudeva  benignamente.  L'occasione,  la  quale  con 
una  mano  ci  avea  risospinti  sin  qua,  adesso  con  dui  piìi 
forti  pulsi  facea  il  maggior  empito  del  mondo.  La  stan  - 
chezza,  al  fine,  non  meno  ch'una  pietra  da  l'intrinseco 
principio  e  natura  è  mossa  verso  il  centro,  ne  mostrava 
il  medesmo  camino,  e  ne  fea  inchinar  verso  la  destra. 
Da  l'altro  canto  ne  chiamavano  le  tante  fatiche,  travagli  e 
disagi,  i  quali  sarrebono  stati  spesi  in  vano.  Ma  il  ver- 
mine de  la  conscienza  diceva:  se  questo  poco  di  camino 
n'ha  costato  tanto,  che  non  è  vinticinque  passi,  che  sarà  di 
tanta  strada  che  ne  resta  ?  Mejor  es  perder  que  mas  perder. 


vili. 

BOTTEGARI,  SERVI,  FURFANTI*" 


Eccovi  proposta  avanti  gli  occhi  un'altra  parte,  che, 
quando  vede  un  forastiero,  sembra,  per  Dio,  tanti  lupi, 
tanti  orsi,  che  con  suo  torvo  aspetto  gli  fanno  quel  viso, 
che  saprebe  far  un  porco  ad  un  che  venesse  a  torgli  il  ti- 
nello d'avanti.  Questa  ignobilissima  porzione,  per  quanto 
appartiene  al  proposito,  è  divisa  in  due  specie; 

Prudenzio.  Omnis  divisio  debet  esse  bimembris,  vel  re- 
ducibilis  ad  bimem.br em. 

Teofilo  —  de  quali  l'una  è  de  l'arteggiani  e  bottegari, 
che,  conoscendoti  in  qualche  foggia  forastiero,  ti  torceno  il 
musso,  ti  ridono,  ti  ghignano,  ti  petteggiano  co'  la  bocca, 
ti  chiamano,  in  suo  lenguaggio,  cane,  traditore,  straniero; 
e  questo  appresso  loro  è  un  titolo  ingiuriosissimo,  e  che 
rende  il  supposito  capace  a  ricevere  tutti  i  torti  del  mondo, 
sia  pur  quanto  si  voglia  uomo  giovane  o  vecchio,  togato 
o  armato,  nobile  o  gentiluomo.  Or  qua,  se  per  mala  sorte 
ti  vien  fatto  che  prendi  occasione  di  toccarne  uno,  o  porre 
mano  a  l'armi,  ecco  in  un  punto  ti  vedrai,  quanto  è  lunga 
la  strada,  in  mezzo  d'uno  esercito  di  coteconi;  i  quali  più 
di  repente  che,  come  fìngono  i  poeti,  da'  denti  del  drago 
seminati  per  lasone  risorsero  tanti  uomini  armati,  par  che 
sbuchino  da  la  terra,  ma  certissimamente  esceno  dalle 
botteghe;  e  facendo  una  onoratissima  e  gentilissima  pro- 
spettiva de  una  selva  de  bastoni,  pertiche  lunghe,  alebarde, 


(I)   Cena  dille  Ceneri.  —   Ibid. 


vili.  -  Bottegari,  Servi,   Furfanti  43 

partesane  e  forche  rugginenti  (le  quali,  benché  ad  ottimo 
uso  gli  siamo  state  concesse  del  prencipe,  per  questa  e 
simili  occasioni  han  sempre  apparecchiate  e  pronte); 
cossi  con  una  rustica  furia  te  le  vedrai  avventar  sopra, 
senza  guardare  a  chi,  perchè,  dove,  e  come,  senza  ch'un 
se  ne  referisca  a  l'altro:  ognuno,  sfogando  quel  sdegno 
naturale,  c'ha  contra  il  forastiero,  ti  verrà  di  sua  propria 
mano  (se  non  sera  impedito  da  la  calca  degli  altri,  che  po- 
neno  in  effetto  simil  pensiero)  e  con  la  sua  propria  verga, 
a  prendere  la  misura  del  saio;  e  se  non  sarai  cauto,  a  sal- 
darti ancora  il  cappello  in  testa.  E  se  per  caso  vi  fusse 
presente  qualch'uomo  de  bene,  o  gentiluomo,  al  quale 
simil  villania  dispiaccia,  quello,  ancor  che  fusse  il  conte  o 
il  duca,  dubitando,  con  suo  danno,  senza  tuo  profìtto, 
d'esserti  compagno  (perchè  questi  non  hanno  rispetto 
a  persona,  quando  si  veggono  in  questa  foggia  armati), 
sarà  forzato  a  rodersi  dentro  ed  aspettar,  stando  discosto, 
il  fine.  Or,  al  tandem,  quando  pensi  che  ti  sii  lecito  d'an- 
dar a  trovar  il  barbiere,  e  riposar  il  stanco  e  mal  trattato 
busto,  ecco  che  trovarai  quelli  medesimi  esser  tanti  birri 
e  zaffi,  i  quali,  se  potran  fengere  che  tu  abbi  tocco  alcuno, 
potreste  aver  la  schena  e  gambe  quanto  si  voglia  rotte, 
come  avessi  gli  talari  di  Mercurio,  o  fussi  montato  sopra 
il  cavallo  Pegaseo,  o  premessi  la  schiena  al  destrier  di 
Perseo,  o  cavalcassi  l'ippogrifo  d'Astolfo,  o  ti  menassi 
il  dromedario  di  Madian,  o  ti  trottasse  sotto  una  delle 
ciraffe  degli  tre  Magi,  a  forza  di  bussate  ti  faran  correre, 
aggiutandoti  ad  andar  avanti  con  que'  fieri  pugni,  che 
meglio  sarrebe  per  te  fussero  tanti  calci  di  bue,  d'asino 
o  di  mulo:  non  ti  lasciaranno  mai,  sin  tanto  che  non 
t'abbiano  ficcato  dentro  una  priggione;  e  qua,  me  Uhi  co- 
mendo. 

Pru.  a  fulgure  et  tempestate,  ab  ira  et  indignatione, 
malitia,  terdatione  et  furia  rusticorum 

Fru.  libera  nos,  domine. 

Teo.  Oltre  a  questi  s'aggionge  Tordine  di  servitori. 
Non  parlo  de  quelli  de  la  prima  cotta,  i  quali  son  genti- 
luomini de'  baroni,  e  per  ordinario  non  portano  impresa 


44  Parte  prima 

o  marca,  se  non  o  per  troppa  ambizione  degli  uni,  o 
per  soverchia  adulazlon  degli  altri:  tra  questi  se  ritrova 
civiltà. 

Pru.  Omnis  regala  exceptionem  patitur. 

Teo.  Ma,  eccettuando  però  di  tutte  specie  alcuni, 
che  vi  posson  essere  men  capaci  di  tal  censura,  parlo 
de  le  altre  specie  di  servitori;  de'  quali  altri  sono  de  la 
seconda  cotta;  e  questi  tutti  portano  la  marca  affibbiata 
a  dosso.  Altri  sono  de  la  terza  cotta,  li  padroni  de*  quali 
non  son  tanto  grandi,  che  li  convenga  dar  marca  ai 
servitori,  o  pur  essi  son  stimati  indegni  e  incapaci  di  por- 
tarla. Altri  sono  de  la  quarta  cotta;  e  questi  siegueno  gli 
marcati  e  non  marcati,  e  son  servi  de'  servi. 

Pru.  Servus  servo^um  non  est  malus  titulus  usquequaque. 

Teo.  Quelli  de  la  prima  cotta  son  i  poveri  e  bisognosi 
gentiluomini,  li  quali,  per  dissegno  di  robba  o  di  favore, 
se  riducono  sotto  l'ali  di  maggiori;  e  questi  per  il  più 
non  son  tolti  da  sua  casa,  e  senza  indignità  seguitano  i 
sui  milordi,  son  stimati  e  fauriti  da  quelli.  Quelli  de  la 
seconda  cotta  sono  de'  mercantuzzi  falliti,  o  arteggiani, 
o  quelli  che  senza  profitto  han  studiato  a  leggere,  scrivere, 
o  altra  arte;  e  questi  son  tolti  o  fuggiti  da  qualche  scuola, 
fundaco  o  bottega.  Quelli  de  la  terza  cotta  son  que'  pol- 
troni, che,  per  fuggir  maggior  fatica  han  lasciato  più  libero 
mestiero;  e  questi  o  son  poltroni  acquatici,  tolti  da'  bat- 
telli; o  son  poltroni  terrestri,  tolti  dagli  aratri.  Gli  ultimi, 
de  la  quarta  cotta,  sono  una  mescuglia  di  desperati,  di  di- 
sgraziati da  lor  padroni,  de  fuor  usciti  da  tempeste,  de 
pelegrini,  de  disutili  ed  inerti,  di  que'  che  non  han  più 
comodità  di  rubbare,  di  que'  che  frescamente  son  scam- 
pati di  priggione,  di  quelli  che  han  disegno  d  ingannar 
qualcuno,  che  le  viene  a  torre  da  là.  E  questi  son  tolti 
da  le  colonne  de  la  Borsa,  e  da  la  porta  di  San  Paolo.  De 
simili,  se  ne  vuoi  a  Parigi,  ne  trovarai  quanti  ti  piace  a  la 
porta  del  Palazzo;  in  Napoli,  alle  grade  di  San  Paolo;  in 
Venezia,  a  Rialto;  in  Roma,  al  Campo  di  Flora.  De  le 
tre  ultime  specie  sono  quei,  che,  per  mostrar  quanto 
siino  potenti  in  casa  sua,  e  che  sono  persone  di  buon 


vili.  -  Bottegari,  Servi,    Furfanli  45 

stomaco,  son  buoni  soldati  e  hanno  a  dispreggio  il  nnondo 
tutto,  ad  uno,  che  non  fa  mina  di  volergli  dar  la  piazza 
larga,  gli  donaranno  con  la  spalla,  come  con  un  sprone 
di  galera,  una  spinta,  che  lo  faran  voltar  tutto  ritondo, 
facendogli  veder  quanto  siino  forti,  robusti  e  possenti, 
e  ad  un  bisogno  buoni  per  rompere  un  armata.  E  se 
costui,  che  si  farà  incontro,  sarà  un  forastiero,  donigli 
pur  quanto  si  voglia  di  piazza,  che  vuole  per  ogni  modo 
che  sappia  quanto  san  far  il  Cesare,  l'Anniballe,  l'Ettorre 
ed  un  bue  che  urta  ancora.  Non  fanno  solamente  come 
l'asino,  il  quale,  massimamente  quando  è  carco,  si  con- 
tenta del  suo  diritto  camino  per  il  filo;  d'onde,  se  tu  non 
ti  muovi,  non  si  moverà  anco  lui,  e  converrà  che  o  tu  a 
esso,  o  esso  a  te  doni  la  scossa;  ma  fanno  cossi  questi, 
che  portan  l'acqua,  che  se  tu  non  stai  in  cervello,  ti  farran 
sentir  la  punta  di  quel  naso  di  ferro,  che  sta  a  la  bocca 
de  la  giarra.  Cossi  fanno  ancora  color  che  portan  birra  e 
ala,  i  quali,  facendo  il  corso  suo,  se  per  sua  inavertenza 
te  si  avventaranno  sopra,  te  faran  sentir  l'empito  de  la 
e  arca  che  portano,  e  che  non  solamente  son  possentia 
portar  su  le  spalli,  ma  ancora  a  buttar  una  casa  innante 
e  tirar,  se  fusse  un  carro,  ancora.  Questi  particolari  per 
l'autorità,  che  tegnono  in  quel  caso  che  portano  la  som.a, 
son  degni  d'escusazione,  perchè  hanno  più  del  cavallo, 
mulo  ed  asino,  che  de  l'uomo;  ma  accuso  tutti  gli  altri, 
li  quali  hanno  un  pochettino  del  razionale,  e  sono,  più 
che  gli  predetti,  ad  imagine  e  similitudine  de  l'uomo:  ed 
in  luoco  di  donarte  il  buon  giorno,  o  buona  sera  dopo 
averti  fatto  un  grazioso  volto,  come  ti  conoscessero  e  ti 
volessero  salutare,  ti  verranno  a  donar  una  scossa  be- 
stiale. Accuso,  dico,  quell'altri,  i  quali  tal  volta  fìngendo 
di  fuggire,  o  voler  perseguitare  alcuno,  o  correre  a 
q  ualche  negocio  necessario,  se  spiccano  da  dentro  una 
bottega;  e  con  quella  furia  ti  verranno  da  dietro  o  da  costa 
a  donar  quella  spinta,  che  può  donar  un  toro  quando  è 
stizzato,  come,  pochi  mesi  fa,  accadde  ad  un  povero 
messer  Alessandro  Citolino;  al  quale,  in  cotal  modo, 
con  riso  e  piacer  di  tutta  la  piazza,  fu  rotto  e  fracassato 


46  Parie  prima 

un  braccio;  al  che  volendo  poi  provedere  il  magistrato, 
non  trovò  manco  che  tal  cosa  avesse  possuto  accadere 
in  quella  piazza.  Sì  che,  quando  ti  piace  uscir  di  casa, 
guarda  prima  di  farlo  senza  urgente  occasione,  che  non 
pensassi  come  di  voler  andar  per  la  città  a  spasso.  Poi 
segnati  col  segno  de  la  santa  croce,  armati  di  una  cor- 
razza  di  pazienza,  che  possa  star  a  prova  d'archibugio,  e 
disponeti  sempre  a  comportar  il  m.anco  male  liberamente, 
se  non  vuoi  comportar  il  peggio  per  forza. 

Ma  di  che  devi  lamentarti,  ahi  lasso  P  Ti  par  ignobiltà 
l'essere  un  animale  urtativoP  Non  ti  ricordi.  Nolano,  di 
quel  ch'è  scritto  nel  tuo  libro  intitolato  L'  a  r  e  a  di 
Noè?  Ivi,  mentre  si  dovean  disponere  questi  animali 
per  ordine,  e  doveasi  terminar  la  lite  nata  per  le  pre- 
cedenze, in  quanto  pencolo  è  stato  l'Asino  di  perdere 
la  preeminenza,  che  conslstea  nel  seder  in  poppa  de  l'arca, 
per  essere  un  animai  più  tosto  di  calci,  che  di  urti?  Per 
quali  animali  si  rapresenta  la  nobiltà  del  geno  umano 
nell'orrido  giorno  del  giudizio,  eccetto  che  per  gli  agnelli  e 
gli  capretti?  Or  questi  son  que'  virili,  intrepidi  ed  animosi, 
de'  quali  gli  uni  de  gli  altri  non  saran  divisi,  come 
oves  ab  haedis,  ma,  qual  più  venerandi,  feroci  ed  urtativi, 
saran  distinti,  come  gli  padri  degli  agnelli  da'  padri 
di  capretti.  Di  questi  però  i  primi  nella  corte  celestiale 
hanno  quel  favore,  che  non  hanno  gli  secondi;  e  se  non 
il  credete,  alzate  un  poco  gli  occhi,  e  guardate  chi  è  stato 
posto  per  capo  de  la  vanguardia  di  segni  celesti:  chi  è 
quello,  che  con  la  sua  cornipotente  scossa  ne  apre  l'anno? 

pRU.  Aries  primo;  post  ipsum,   Taurus. 

Teo.  Appresso  a  questo  gran  capitano  e  primiero 
prencipe  de  le  mandre,  chi  è  stato  degno  d'essergli  pros- 
simo e  secondo,  eccetto  ch'il  gran  duca  degli  armenti, 
a  cui  s'aggiongono,  come  per  doi  paggi,  o  doi  Ganimedi, 
que'  bei  gemegli  garzoni  P  Considerate  dunque,  quale  e 
quanta  sia  cotal  razza  di  persone,  che  tengono  il  primato 
altrove,  che  dentro  un'arca  infracidita. 

Fru.  Certo,  non  saprei  trovar  differenza  alcuna  tra 
costoro  e  quel  geno  d'animali,  eccetto  che  quelli  urtano 


vili.  -  Bottegari,  Servi,  Furfanti  47 

di  testa,  ed  essi  urtano  di  spalla  ancora.  Ma,  lasciate 
queste  digressioni,  e  tornate  al  proposito  di  quel  ch'av- 
venne in  questo  residuo  del  viaggio,  in  questa  sera. 

Teo.  Or,  dopo  ch'il  Nolano  ebbe  riscosse  da  venti  in 
circa  di  queste  spuntonate,  particolarmente  alla  piramide 
vicina  al  palazzo  in  mezzo  di  tre  strade,  ne  si  ferno  in- 
contro sei  galantuomini,  de'  quali  uno  glie  ne  die  una  sì 
gentile  e  gorda,  che  sola  possea  passar  per  diece;  e  gli 
ne  fé  donar  un'altra  al  muro,  che  possea  certo  valer  per 
altre  diece.  Il  Nolano  disse:  Tonchi  maester.  Credo  che 
lo  ringraziasse  perchè  li  die  di  spalla,  e  non  di  quella  punta 
ch'è  posta  per  centro  del  brocchiero  o  per  cimiero  de 
la  testa. 

Questa  fu  l'ultima  borasca;  perchè  poco  oltre,  per 
la  grazia  di  San  Fortunnio,  dopo  aver  discorsi  sì 
mal  tristi  sentieri,  passati  sì  dubbiosi  divertigli,  varcati  sì 
rapidi  fiumi,  tralasciati  sì  arenosi  lidi,  superati  sì  limosi 
fanghi,  spaccati  sì  turbidi  pantani,  vestigate  sì  pietrose 
lave,  trascorse  sì  lubriche  strade,  intoppato  in  sì  ruvidi 
sassi,  urtato  in  sì  perigliosi  scogli,  gionsemo  per  grazia 
del  cielo  vivi  al  porto,  idest  alla  porta. 


IX. 

PRELUDII 
ALLA    «  CENA   DELLE  CENERI  »  (" 
CERIMONIE  DI  TAVOLA  <2) 


Smitho.  Parlavan  ben  latino? 

Teofilo.  Sì. 

Smi.  Galantuomini? 

Teo.  Sì. 

Smi.  Di  buona  riputazione? 

Teo.  Sì. 

Smi.  Dotti? 

Teo.  Assai  competentemente. 

Smi.  Ben  creati,  cortesi,  civili? 

Teo.  Troppo  mediocremente. 

Smi.  Dottori? 

Teo.  Messer  sì,  padre  sì,  madonna  si,  madesì,  credo 
da  Oxonia. 

Smi.  Qualificati? 

Teo.  Come  non  ?  uomini  da  scelta,  di  robba  lunga, 
vestiti  di  velluto;  un  de'  quali  avea  due  catene  d'oro  lu- 
cente al  collo,  e  l'altro,  per  Dio,  con  quella  preziosa  mano, 
che  contenea  dodeci  anella  in  due  dita,  sembrava  un 
ricchissimo  gioielliero,  che  ti  cavava  gli  occhi  e  il  core, 
quando  la  vagheggiava. 


(1)  Dialogo   I.  —  Si   presentano  i  due  esaminatori  della  nolana  sufficienza, 
ì  dottori  Torquato  e  Nundinio. 

(2)  Dialogo  II. 


IX.  -  Preludii  alla  «  Cena  delle  ceneri  »  -  Cerimonie  di  tavola     49 

Smi.  Mostravano  saper  di  greco? 

Teo.  e  di  birra  eziandio. 

Prudenzio.  Togli  via  queW eziandio,  poscia  è  una 
obsoleta  e  antiquata  dictione. 

Frulla.  Tacete,  maestro,  che  non  parla  con  voi. 

Smi.  Come  eran  fatti? 

Teo.  L'uno  parca  il  connestabile  della  gigantessa 
e  Torco,  r  altro  1'  amostante  della  dea  de  la  riputa- 
zione. 

Smi.  Sì  che  eran  doi? 

Teo.  Sì  per  esser  questo  un  numero  misterioso. 

Pru.   Ut  essent  duo  testes. 

Fru.  Che  intendete  per  quel  testes"? 

Pru.  Testimonii,  essaminatori  della  nolana  suffi- 
cienza. At,  me  hercle,  perchè  avete  detto,  Teofìlo,  che  il 
numero  bmario  è  misterioso? 

Teo.  Perchè  due  sono  le  prime  coordinazioni,  come 
dice  Pitagora,  finito  e  infinito,  curvo  e  retto,  destro  e 
sinistro,  e  va  discorrendo.  Due  sono  le  spezie  di  numeri, 
pare  e  impare,  de'  quali  l'una  è  maschio,  l'altra  è  femina. 
Doi  sono  gli  Cupidi,  superiore  e  divino,  inferiore  e  vol- 
gare. Doi  sono  gli  atti  della  vita,  cognizione  ed  affetto. 
Doi  sono  gli  oggetti  di  quelli,  il  vero  e  il  bene.  Due  sono 
le  specie  di  moti:  retto,  con  il  quale  i  corpi  tendeno  alla 
conservazione,  e  circulare,  col  quale  si  conservano.  Doi 
son  gli  principii  essenziali  de  le  cose,  la  materia  e  la 
torma.  Due  le  specifiche  differenze  della  sustanza,  raro 
e  denso,  semplice  e  misto.  Doi  primi  contrarii  e  attivi 
principii,  il  caldo  e  il  freddo.  Doi  primi  parenti  de  le  cose 
naturali,   il  sole  e  la  terra. 

Fru.  Conforme  al  proposito  di  que'  prefati  doi,  farò 
un'altra  scala  del  binario.  Le  bestie  entrorno  ne  l'arca,  a 
due  a  due;  ne  uscirono  ancora  a  due  a  due.  Doi  sono  i 
corifei  di  segni  celesti:  aries  e  taurus.  Due  sono  le  specie 
di  nolite  fieri:  cavallo  e  mulo.  Doi  son  gli  ammali  ad 
imagine  e  similitudine  de  l'uomo:  la  scimia  in  terra,  e  '1 
barbagianni  in  cielo.  Due  sono  le  false  e  onorate  reliquie 
di  Firenze  in  questa  patria:    i    denti    di    Sassetto    e    la 


50  Parte  prima 

barba  di  Pietruccia.  Dol  sono  gli  animali,  che  disse  il 
profeta  aver  più  intelletto,  ch'il  popol  d'Israele:  il  bove, 
perchè  conosce  il  suo  possessore,  e  l'asino,  perchè  sa 
trovar  11  presepio  del  padrone.  Dol  furono  le  misteriose 
cavalcature  del  nostro  redentore,  che  significano  il  suo 
antico  credente  ebreo  e  il  novello  gentile:  l'asina  e  il 
pullo.  Doi  sono  da  questi  li  nomi  derivativi,  ch'han  for- 
mate le  dizioni  titulari  al  secretarlo  d'Augusto:  Asinio 
e  Pullione.  Doi  sono  1  geni  degli  asini:  domestico  e  sal- 
vatico.  Dol  i  lor  più  ordinarli  colori:  biggio  e  morello. 
Due  sono  le  piramidi,  nelle  quali  denno  esser  scritti  e 
dedicati  all'eternità  i  nomi  di  questi  doi  e  altri  simili 
dottori:  la  destra  orecchia  del  cavai  di  Sileno,  e  la  sini- 
stra de  l'antagonista  del  dio  degli  orti. 

Pru.  Optimae  indolis  ingenium,  enumeratìo  minime  cori" 
temnenda! 

Fru.  Io  mi  glorio,  messer  Prudenzio  mio,  perchè  voi  ap- 
provate il  mio  discorso,  che  sete  più  prudente  che  la  istessa 
prudenzia,  perciò  che  sete  la  prudentia  masculini  generis. 

Pru.  Neque  id  sine  lepore  et  grafia.  Orsù,  isthaec  mit- 
tamus  encomia.  Sedeamus,  quia,  ut  aii  Peripateticorum 
princeps,  sedendo  et  quiescendo  sapimus;  e  cossi,  insino  al 
tramontar  del  sole,  protelaremo  il  nostro  tetralogo  circa 
il  successo  del  colloquio  del  Nolano  col  dottor  Torquato 
e  il  dottor  Nundinio. 

Fru.  Vorrei  sapere  quel  che  volete  intendere  per  quel 
tetralogo. 

Pru.  Tetralogo,  dissi  io:  id  est,  quatuorum  sermo;  come 
dialogo  vuol  dire  duorum  sermo,  trilogo  trium  sermo;  e 
cossi  oltre,  de  pentalogo,  eptalogo,  e  altri,  che  abusiva- 
mente si  chiamano  dialoghi,  come  dicono  alcuni  quasi 
diversorum  logi:  ma  non  è  verisimile,  che  li  greci  inventori 
di  questo  nome  abbino  quella  prima  sillaba  di  prò  capite 
illius  latinae  dictionis  diversum. 

Smi.  Di  grazia,  signor  maestro,  lasciamo  questi  rigori 
di  grammatica,  e  venemo  al  nostro  proposito. 

Pru.  0  saeclum!  voi  mi  parete  far  poco  conto  delle 
buone  lettere.  Come  potremo  far  un  buon  tetralogo,  se 


IX.  -  Preludii  alla  «  Cena  delle  ceneri  »  -  Cerimonie  di  tavola     5 1 


non  sappiamo,  che  significhi  questa  dizione  tetralogo 
e,  quod  peius  est,  pensaremo  che  sia  un  dialogo?  Nonne 
a  difinitione  et  a  nominis  explicatione  exordiendum,  come 
il  nostro  Arpinate  ne  insegna? 

Teo.  Voi,  messer  Prudenzio,  sete  troppo  prudente. 
Lasciamo,  vi  priego,  questi  discorsi  grammaticali;  e  fate 
conto,  che  questo  nostro  raggionamento  sia  un  dialogo, 
atteso  che  benché  siamo  quattro  in  persona,  saremo 
dui  in  officio  di  proponere  e  rispondere,  di  raggionare 
e  ascoltare.  Or,  per  dar  principio  e  reportar  il  negocio 
da  capo,  venite  ad  inspirarmi,  o  Muse.  Non  dico  a  voi, 
che  parlate  per  gonfio  e  superbo  verso  in  Elicona:  perchè 
dubito,  che  forse  non  vi  lamentiate  di  me  al  fine,  quando, 
dopo  aver  fatto  sì  lungo  e  fastidioso  peregrinaggio,  var- 
cati sì  perigliosi  mari,  gustati  sì  fieri  costumi,  vi  biso- 
gnasse discalze  e  nude  tosto  repatriare  perchè  qua  non 
son  pesci  per  Lombardi.  Lascio,  che  non  solo  siete  stra- 
niere, ma  siete  ancor  di  quella  razza,  per  cui  disse  un 
poeta: 

Non  fu  mai  Greco  di  malizia  netto. 

Oltre  che  non  posso  inamorarmi  di  cosa,  ch'io  non  vegga. 
Altre,  altre  sono  che  m'hanno  incatenata  l'alma.  A  voi 
altre,  dunque,  dico,  graziose,  gentili,  pastose,  morbide, 
gioveni,  belle,  delicate,  biondi  capelli,  bianche  guance, 
vermiglie  gote,  labra  succhiose,  occhi  divini,  petti  di 
smalto  e  cuori  di  diamante;  per  le  quali  tanti  pensieri 
fabrico  ne  la  mente,  tanti  affetti  accoglio  nel  spirto,  tante 
passioni  concepo  nella  vita,  tante  lacrime  verso  dagli 
occhi,  tanti  suspiri  sgombro  dal  petto,  e  dal  cor  sfavillo 
tante  fiamme;  a  voi.  Muse  d'Inghilterra,  dico:  inspira- 
temi, suffiatemi,  scaldatemi,  accendetemi,  lambiccatemi 
e  risolvetemi  in  liquore,  datemi  in  succhio,  e  fatemi 
comparir  non  con  un  picciolo,  delicato,  stretto,  corto  e 
succinto  epigramma,  ma  con  una  copiosa  e  larga  vena 
di  prosa  lunga,  corrente,  grande  e  soda:  onde,  non  come 
da  un  arto  calamo,  ma  come  da  un  largo  canale,  mande 


52  Parte  prima 

i  rivi  miei.  E  tu,  Mnemosme  mia,  ascosa  sotto  trenta 
sigilli,  e  rinchiusa  nel  tetro  carcere  dell'ombre  de  le  idee^ 
intonami  un  poco  ne  1  orecchio. 


* 
*   * 


Dopo  fatti  1  saluti  e  1  resaluti  — 

Prudenzio.  Vicissim, 

Teofilo.  ed  alcuni  altri  piccoli  ceremonl  (tra*  quali  vi  fu 
questo  da  ridere,  che  ad  un  de*  nostri  essendo  presentato 
l'ultimo  loco,  e  lui  pensando  che  là  fusse  il  capo,  per 
umiltà  voleva  andar  a  seder  dove  sedeva  il  primo;  e  qua 
si  fu  un  picciol  pezzo  di  tempo  m  contrasto  tra  quelli, 
che  per  cortesia  lo  voleano  far  sedere  ultimo,  e  colui,  che 
per  umiltà  volea  seder  il  primo);  in  conclusione,  messer 
Florio  sedde  a  viso  a  viso  d'un  cavalliero,  che  sedeva  al 
capo  de  la  tavola;  il  signor  Folco  a  destra  de  messer 
Florio;  io  e  il  Nolano  a  sinistra  de  messer  Florio;  il  dottor 
Torquato  a  sinistra  del  Nolano;  il  dottor  Nundinio  a 
viso  a  viso  del  Nolano.  Qua,  per  grazia  di  Dio,  non  viddl 
il  ceremonlo  di  quell'urcluolo  o  becchieri,  che  suole 
passar  per  la  tavola  a  mano  a  mano,  da  alto  a  basso,  da 
sinistra  a  destra,  ed  altri  lati,  senza  altro  ordine,  che  di 
conoscenza  e  cortesia  da  montagne;  il  quale,  dopo  che 
quel,  che  mena  il  ballo,  se  Tha  tolto  di  bocca,  e  lasciatovi 
quella  Impannatura  di  pinguedine,  che  può  ben  servir 
per  colla,  appresso  beve  questo,  e  vi  lascia  una  mica  di 
pane;  beve  quell'altro  e  v'affigge  a  l'orlo  un  fnsetto  di 
carne;  beve  costui  e  vi  scrolla  un  pelo  de  la  barba;  e  cossi 
con  bel  disordine,  gustandosi  da  tutti  la  bevanda,  nes- 
suno è  tanto  malcreato,  che  non  vi  lasse  qualche  cortesia 
de  le  reliquie,  che  tiene  circa  il  mustacclo.  Or,  se  a  qual- 
cuno, o  perchè  non  abbia  stomaco,  o  perchè  faccia  del 
grande,  non  piacesse  di  bere,  basta  che  solamente  se 
l'accoste  tanto  a  la  bocca,  che  v'imprima  un  poco  di  ve- 
stigio de  le  sue  labbra  ancora.  Questo  si  fa  a  fine,  che 
sicome  tutti  son  convenuti  a  farsi  un  carnivoro  lupo  col 


IX.  -  Preludii  alla  «  Cena  delle  ceneri  »  -  Cerimonie  di  tavola      53 


mangiar  d'un  medesmo  corpo  d'agnello,  di  capretto,  di 
montone  o  di  un  Grunnio  Corocotta  ('^;  cossi,  applicando 
tutti  la  bocca  ad  un  medesimo  bocale,  venghino  a  farsi 
una  sanguisuga  medesima,  in  segno  d'una  urbanità, 
una  fratellanza,  un  morbo,  un  cuore,  un  stomaco,  una 
gola  e  una  bocca.  E  ciò  si  pone  in  effetto  con  certe  genti- 
lezze e  bagattelle,  che  è  la  più  bella  comedia  del  mondo  a 
vedere,  e  la  più  cruda  e  fastidiosa  tragedia  a  trovarvisi 
un  galantuomo  in  mezzo  quando  stima  esser  ubligato  a 
far,  come  fan  gli  altri,  temendo  esser  tenuto  incivile  e  di- 
scortese; perchè  qua  consiste  tutto  il  termine  della  ci- 
vilità  e  cortesia. 


(I)  Grunnio  Corocotta  =  porchetto.  Con  questo  nome  ebbe  molta    voga  uno 
scritto  scherzoso:   Grunni  Coracoitae  testamentum. 


X. 
DELLE  DONNE  <" 


E  cosa  veramente,  o  generosissimo  Cavalliero,  da  basso 
bruto  e  sporco  ingegno  d'essersi  fatto  constantemente 
studioso,  ed  aver  affisso  un  curioso  pensiero  circa  o  sopra 
la  bellezza  d'un  corpo  femenile.  Che  spettacolo,  o  Dio 
buono!,  più  vile  ed  ignobile  può  presentarsi  ad  un  occhio 
di  terso  sentimento,  che  un  uomo  cogitabundo,  afflitto, 
tormentato,  triste,  maninconioso,  per  dovenir  or  freddo 
or  caldo,  or  fervente,  or  tremante,  or  pallido,  or  rosso, 
or  in  mina  di  perplesso,  or  in  atto  di  risoluto;  un  che 
spende  il  miglior  intervallo  di  tempo  e  gli  più  scelti  frutti 
di  sua  vita  corrente,  destillando  l'elixir  del  cervello  con 
m.ettere  in  concetto,  scritto  e  sigillar  in  publichi  monu- 
menti, quelle  continue  torture,  que'  gravi  tormenti,  quei 
razionali  discorsi,  quei  faticosi  pensieri  e  quelli  amaris- 
simi  studi,  destinati  sotto  la  tirannide  d'una  indegna,  im- 
becille, stolta  e  sozza  sporcarla? 

Che  tragicomedia?  Che  atto,  dico,  degno  più  di  com- 
passione e  riso  può  esserne  ripresentato  in  questo  teatro 
del  mondo,  in  questa  scena  delle  nostre  conscienze,  che 
di  tali  e  tanto  numerosi  suppositi,  fatti  penserosi,  con- 
templativi, constanti,  fermi,  fìdeli,  amanti,  coltori,  ado- 
ratori e  servi  di  cosa  senza  fede,  priva  d'ogni  costanza, 
destituta  d'ogni  ingegno,  vacua  d'ogni  merito,  senza  ri- 
conoscenza e  gratitudine  alcuna,  dove  non  può  capir 
più  senso,  intelletto  e  bontade,  che  trovarsi  possa  in  una 


(1)  Argomento  del  Nolano  sopra  gli  Eroicì  FuroRI,  scritto  al  molto  illustre 
signor  Filippo  Sidneo. 


X.  -  Delle  donne  55 


statua  o  imagine  depinta  al  muro?  E  dove  è  più  superbia, 
arroganza,  protervia,  orgoglio,  ira,  sdegno,  f alsitade, 
libidine,  avarizia,  ingratitudine  ed  altri  crimini  exiziali, 
che  avessero  p  ossuto  uscir  veneni  e  instrumenti  di  morte 
dal  vasello  di  Pandora,  per  aver  pur  troppo  largo  ricetto 
dentro  il  cervello  di  mostro  tale?  Ecco  vergato  in  carte, 
rinchiuso  in  libri,  messo  avanti  gli  occhi  e  intonato 
agli  orecchi  un  rumore,  un  strepito,  un  fracasso  d'insegne, 
di  imprese,  de  m.otti,  d'epistole,  de  sonetti,  d'epigrammi, 
de  libri,  de  prolissi  scartafazzi,  de  sudori  estremi,  de  vite 
consumate,  con  strida,  ch'assordiscon  gli  astri,  lamenti, 
che  fanno  ribombar  gli  antri  infernali,  doglie,  che  fanno 
stupefar  l'anime  viventi,  suspiri  da  far  exinanire  e  com- 
patir gli  dei,  per  quegli  occhi,  per  quelle  guance,  per  quel 
busto,  per  quel  bianco,  per  quel  vermiglio,  per  quella 
lingua,  per  quel  dente,  per  quel  labro,  quel  crine,  quella 
veste,  quel  manto,  quel  guanto,  quella  scarpetta,  quella 
pianella,  quella  parsimonia,  quel  risetto,  quel  sdegno- 
setto,  quella  vedova  fenestra,  quell'eclissato  sole,  quel 
martello,  quel  schifo,  quel  puzzo,  quel  sepolcro,  quel 
cesso,  quel  mestruo,  quella  carogna,  quella  febre  quar- 
tana, quella  estrema  ingiuria  e  torto  di  natura,  che  con 
u  na  superfìcie,  un'ombra,  un  fantasma,  un  sogno,  un 
circeo  incantesimo  ordinato  al  serviggio  della  generazione, 
ne  inganna  in  specie  di  bellezza.  La  quale  insieme  viene 
e  passa,  nasce  e  muore,  fiorisce  e  marcisce:  ed  è  bella 
cossi  un  pochettino  a  l'esterno,  che  nel  suo  intrinseco 
vera  —  e  stabilmente  è  contenuto  un  navilio,  una  bottega, 
una  dogana,  un  mercato  de  quante  sporcane,  tossichi  e 
veneni  abbia  possuti  produre  la  nostra  madrigna  natura, 
la  quale,  dopo  ever  riscosso  quel  seme,  di  cui  la  si  serva, 
ne  viene  sovente  a  pagar  d'un  lezzo,  d'un  pentimento, 
d'una  tristizia,  d'una  fiacchezza,  d'un  dolor  di  capo,  di 
una  lassitudine,  d'altri  ed  altri  malanni,  che  son  mani- 
festi a  tutto  il  mondo,  a  fin  che  amaramente  dolga,  dove 

suavemente  proriva 

Che    dunque    voglio  dire?   Che  voglio  conchiu- 
dere? Che  voglio  determinare?  —  Quel  che  voglio  con- 

Bruno,  In  tristitia  hilaris,  etc.  6. 


56  Parte  prima 

chiudere  e  dire,  o  Cavalliero  illustre,  è  che  quel  ch'è 
di  Cesare,  sia  donato  a  Cesare,  e  quel  ch'è  di  Dio,  sia 
sia  renduto  a  Dio.  Voglio  dire,  che  a  le  donne,  benché 
talvolta  non  bastino  gli  onori  ed  assequii  divini,  non 
perciò  se  gli  denno  onori  ed  ossequii  divini.  Voglio 
che  le  donne  siano  cossi  onorate  ed  amate,  come  denno 
essere  amate  ed  onorate  le  donne:  per  tal  causa  dico, 
e  per  tanto,  per  quanto  si  deve  a  quel  poco,  a  quel 
tempo  e  quella  occasione,  se  non  hanno  altra  virtù  che 
naturale,  cioè  di  quella  bellezza,  di  quel  splendore,  di 
quel  serviggio,  senza  il  quale  denno  esser  stimate  più 
vanamente  nate  al  mondo  che  un  morboso  fungo,  qual 
con  pregiudicio  de  meglior  piante  occupa  la  terra;  e 
più  noiosamente  che  qualsivoglia  napello  o  vipera,  che 
caccia  il  capo  fuor  di  quella.  Voglio  dire,  che  tutte  le 
cose  de  l'universo,  perchè  possano  aver  fermezza  e  con- 
sistenza, hanno  gli  suoi  pondi,  numeri,  ordini  e  misure, 
a  fin  che  sieno  dispensate  e  governate  con  ogni  giu- 
stizia e  raggione. 

*       (1) 

FlLOTEO...  torno  a  scongiurare  tutti  in  generale,  e  in 
particolare  te,  severo  supercilioso  e  salvaticissimo  maestro 
Polimmo,  che  dismettiate  quella  rabbia  contumace  e 
quell'odio  tanto  criminale  contra  il  nobilissimo  sesso  feme- 
nile;  e  non  ne  turbate  quanto  ha  di  bello  il  mondo,  e  il 
cielo  con  suoi  tanti  occhi  scorge.  Ritornate,  ritornate  a 
VOI,  e  richiamate  l'ingegno,  per  cui  veggiate  che  questo 
vostro  livore  non  è  altro  che  mania  espressa  e  frenetico 
furore.  Chi  è  più  insensato  e  stupido,  che  quello  che  non 
vede  la  luce?  Qual  pazzia  può  esser  più  abietta,  che,  per 
raggion  di  sesso,  esser  nemico  all'istessa  natura,  come  quel 
barbaro  re  di  Sarza,  che  per  aver  imparato  da  voi,  disse: 

Natura  non  può  far  cosa  perfetta. 
Poi  che  natura  femina  vien  detta. 


(1)  Dalla  fine  del    I   Dialogo   De  la   Causa,  Principio  et    Uno 


X.  -  Delle  donne  57 


Considerate  alquanto  il  vero,  alzate  l'occhio  a  l'arbore 
de  la  scienza  del  bene  e  il  male,  vedete  la  contrarietà 
ed  opposizione  ch'è  tra  l'uno  e  l'altro.  Mirate  chi  sono 
i  maschi,  chi  sono  le  femine.  Qua  scorgete  per  suggetto 
il  corpo,  ch'è  vostro  amico,  maschio,  là  l'anima  che  è 
vostra  nemica,  femina.  Qua  il  maschio  caos,  là  la  f emina 
disposizione;  qua  il  sonno,  là  la  vigilia;  qua  il  letargo,  là  la 
memoria;  qua  l'odio,  là  l'amicizia;  qua  il  timore,  là  la 
sicurtà;  qua  il  rigore,  là  la  gentilezza;  qua  il  scandalo,  là 
la  pace;  qua  il  furore,  là  la  quiete;  qua  l'errore,  là  la  ve- 
rità; qua  il  difetto,  là  la  perfezione;  qua  l'inferno,  là  la  feli- 
cità; qua  Poliinnio  pedante,  là  la  Poliinnia  musa.  E  final- 
mente tutti  vizii,  mancamenti  e  delitti  son  maschi;  e 
tutte  le  virtudi,  eccellenze  e  bontadi  son  f emine.  Quindi 
la  prudenza,  la  giustizia,  la  fortezza,  le  temperanza,  la 
bellezza,  la  maestà,  la  dignità,  la  divinità,  cossi  si  nomi- 
nano, cossi  s'imaginano,  cossi  si  descriveno,  cossi  si  pin- 
gono,  cossi  sono. 


XI. 
PEDANTI 


MANFURIO.  (1) 

Manfurio,  Pollula,  Sanguino. 

Manf.  Bene  repperiaris  bonae,  melioris,  optimaeque  in" 
dolis,  adolescentule :  quomodo  tecum  agitur?  ut  vales? 

PoLL.  Bene. 

Mane.  Gaudeo  sane  gratulorque  satis,  si  vales  bene  est, 
ego  quidem  valeo:  —  marcitulliana  eleganza  in  quasi 
tutte  le  sue  familiari  nnissorie  servata. 

PoLL.  Comandate  altro,  domine  Magister?  io  vo  oltre  per 
compir  un  negocio  con  Sanguino,  e  non  posso  induggiar 
con  voi. 

Manf.  0  buttati  indarno  i  miei  dictati,  li  quali  nel  mio 
almo  minervale  gimnasio,  excerpendoli  dall'acumine  del 
mio  Marte,  ti  ho  fatti  nelle  candide  pagine,  col  calamo  di 
negro  attramento  intincto,  exarare!  buttati  dico,  incassum 
cum  sii,  che  a  tempo  e  loco,  eorum  servata  ratione,  ser- 
virtene non  sai.  Mentre  il  tuo  preceptore,  con  quel  ce- 
leberrimo apud  omnes,  etiam  barbaras,  nationes  idioma 
latino  ti  sciscita;  tu,  etiam  dum  persistendo  nel  commercio 
bestiis  similitudinario  del  volgo  ignaro,  abdicaris  a  theatro 
literarum,  dandomi  responso  composto  di  verbi,  quali 
dalla  balla  et  obstetrice  in  incunabulis  hai  susceputi  vel,  ut 
melius  dicam,  suscepti.  Dimmi,  sciocco,  quando  vuoi 
dispuerascere  ? 


(I)  Candelaio,  Atto   I,  Scena  V. 


XI.   -   Pedanti  59 

Sang.  Mastro,  con  questo  diavolo  di  parlare  per 
grammuffo  o  catacumbaro  o  delegante  e  latrinesco,  amor- 
bate  il  cielo,  e  tutt'il  mondo  vi  burla. 

Manf.  Sì,  se  questo  megalocosmo  e  machina  mun- 
diale,  o  scelesto  ed  inurbano,  fusse  di  tuoi  pari  referto 
et  confarcito. 

Sang.  Che  dite  voi  di  cosmo  celesto  e  de  urbano? 
parlatemi  che  io  v'intenda,  che  vi  responderò. 

Manf.  Vade  ergo  in  ìnfaustam  nefastamque  crucem,  si- 
nistroque  Hercule!  Si  dedignano  le  Muse  di  subire  il 
porcile  del  contubernio  vostro,  vel  haram  colloquii  Destri. 
Che  giudicio  fai  tu  di  questo  scelesto,  o  Pollula?  apposi- 
torte  fructus  eruditionum  mearum,  receptaculo  del  mio 
dottrinai  seme,  ne  te  moveant  modo  a  nobis  dieta,  perchè, 
quia,  namque,  quandoquidem  —  particulae  causae  reddi- 
tivae  —  ho  voluto  farti  partecipe  di  quella  frase  con  la 
quale  lepidissime  eloquentissimeque  facciamo  le  obiurga- 
zioni,  le  quali  voi  posthac,  deinceps  —  se  li  Celicoli  vi 
elargiranno  quel  ch'hanno  a  noi  concesso  —  all'inverso 
de  vostri  erudiendi  descepoli,  imitar  potrete. 

PoLL.  Bene;  ma  bisogna  farle  con  proposito  ed  occa- 
sione. 

Manf.  La  causa  della  mia  excandescentia  è  stata  il 
vostro  dire:  «  Non  posso  induggiar  con  voi  ».  Debuisses 
dicere,  vel  elegantius.  —  infinitivo  antecedente  subiuncti- 
vum  —  dicere  debuisses:  «  Excellentia  tua,  eruditione  tua, 
non  datur,  non  conceditur  mihi  cum  tuis  dulcissimis  musis 
ocium  ».  Poscia  quel  dire:  «  con  voi  »,  vel  ethruscius: 
«  vosco  »,  nec  bene  dicitur  latine  respectu  unius,  nec  urbane 
inverso  di  togati  e  gimnasiarchi. 

Sang.  Vedete,  vedete  come  va  el  mondo:  voi  siete 
accordati,  ed  io  rimagno  fuori  come  catenaccio.  Di 
grazia,  domine  Magister,  siamo  amici  ancora  noi,  perchè 
benché  io  non  sii  atto  di  essere  soggetto  alla  vostra 
verga,  idest  esservi  discepolo,  potrò  forse  servirvi  in 
altro. 

Manf.  Nil  mihi  vobiscum. 

Sang.  Et  con  spiritu  tuo. 


60  Parte  prima 

Manf.  Ah,  ah,  ah,  come  sei,  Pollula,  adiunto  socio  a 
questo  bruto? 

Sang.  Brutto  o  bello,  al  servizio  di  vostra  maestà, 
onorabilissimo  Signor  mio. 

Manf.  Questo  mi  par  molto  disciplinabile,  e  non  coss 
inmorigerato,  come  da  principio  si  mostrava,  perchè  mi 
dà  epiteti  molto  urbani  ed  appropriati. 

PoLL.  Sed  a  principio  videbatur  Ubi  homo  nequam. 

Manf.  Togli  via  quel  «  nequam  »:  quantumque  sii 
assumpto  nelle  sacre  pagine,  non  è  però  dictio  ciceroniana, 

«  Tu  vivendo  bonos,  scribendo  sequare  peritosi  » 

disse  il  ninivita  Giov.  Dispauterio,  seguito  dal  mio  pre- 
ceptore  Aloisio  Antonio  Sidecino  Sarmento  Salano,  suc- 
cessor  di  Lucio  Gio.  Scoppa,  ex  voluntate  heredis.  Dicas 
igitur:  «  non  aequum  »,  prima  dictionis  litera  diphtongata 
ad  differentiam  della  quadrupede  substantia  animata  sen- 
sitiva, quae  diphtongum  non  admittit  in  principio. 

Sang.  Dottissimo  signor  Maester,  è  forza  che  vi  chie- 
chiamo  licenza,  perchè  ne  bisogna  al  più  tosto  esser  con 
messer  Gio.  Bernardo  pittore.  Adio. 

Manf.  Itene,  dunque,  co  i  fausti  volatili.  Ma-  chi  è 
questa  che  con  quel  calatho  in  brachiis  me  si  fa  obvia?  è 
una  muliercula,  quod  est  per  ethimologiam  m  o  1 1  i  s  Her- 
cules, apposita  iuxta  se  posita:  sexo  molle,  mobile, 
fragile  ed  incostante,  al  contrario  di  Ercole.  0  bella  eti- 
mologia! è  di  mio  proprio  Marte  or  ora  deprompta.  Or 
dunque,  quindi  propriam  versus  domum  movo  il  gresso, 
perchè  voglio  notarla  maioribus  literis  nel  mio  propriarum 
elucubrationum  libro.  Nulla  dies  sine  linea. 

Messer  Ottaviano,  Manfurio,  Pollula  ^'). 

Ott.  Misser  Manfurio,  amenissimo  fiume  di  eloquenza, 
serenissimo  mare  di  dottrina... 

Manf.  Tranquillitas  maris,  serenitas  aèris. 


(I)  Cand.   Atto    II,   Scena   l. 


XI.  -   Pedanti  61 

OtT.  ...  avete  qualche  bella  vostra  di  composizione, 
perchè  ho  gran  desiderio  aver  copia  di  vostre  doctissime 
carte. 

Manf.  Credo,  Signor,  che  in  loto  vitae  curriculo  e  di- 
scorso di  diverse  e  varie  pagine  non  ve  siino  occorsi  car- 
mini di  calisimetria,  idest  cossi  adaptati,  come  questi  che 
al  presente  io  son  per  dimostrarvi,  qui,  exarati. 
Ott.  Che  è  la  materia  di  vostri  versi? 

Manf.  Litterae,  syllabae,  dictio  et  oratio,  partes  prò- 
pinquae  et  remotae. 

Ott.   Io  dico:  quale  è  il  suggetto  ed  il  proposito? 

Manf.  Volete  dire:  de  quo  agitur?  materia  de  qua?  circa 
quamì  E  la  gola,  ingluvie  e  gastrimargia  di  quel  lurcone 
Sanguino  —  viva  effigie  di  Filosseno,  qui  collum  gruis 
exoptabat  —  con  altri  suoi  pari,  socii,  aderenti,  simili  e 
collaterali. 

Ott.  Piacciavi  di  farmeli  udire. 

Manf.  Lubentissime.  Eruditis  non  sunt  operienda  ar- 
cana: ecco,  io  explico  papirum  propriis  elaboratum  et  li- 
neatum  digitis.  Ma  voglio  che  prenotiate  che  il  sulmo- 
nense  Ovidio  —  Sulmo  mihi  patria  est  —  nel  suo  libro 
Methamorphoseon  octavo,  con  molti  epiteti  l'apro  calidonio 
descrisse,  alla  cui  imitazione  io  questo  domestico  porco 
vo  delineando. 

Ott.  Di  grazia,  leggetele  presto. 

Manf.  Fiat.  Qui  cito  dat,  bis  dat.  Exordium  ah  admi- 
rantis  affectu. 

0  porco  sporco,  vii,  vita  disutile. 
Ch'altro  non  hai  che  quel  gruito  fatuo. 
Col  quale  il  cibo  tu  ti  pensi  acquirere; 
Gola  quadruplicata  da  /'axungia, 
D  air  anteposto  absorpta  brodulario. 
Che  ti  prepara  il  sozzo  coquinario. 
Per  canal  emissario; 
Per  pinguefarti  più,  vase  d'ingluvie. 
In  cotesto  porcil  f  intromettesti, 
W  ad  altro  obietto  non  guardi  cKal  pascolo. 


62  Parte  prima 

E  privo  d'exercizio. 

Per  inopia  e  penuria 

Di  meglior  letto  e  di  meglior  cubiculo. 

Altro  non  fai  ch'ai  sterco  e  fango  involverti. 

Post  haec: 

A  nullo  sozzo  volutabro  inabile. 
Di  gola  e  luxo  infìrmità  incurabile. 
Ventre  che  sembra  di  Pleiade  il  puteo, 
Abitator  di  fango,  incoia  luteo; 
Fauce  indefessa,  assai  vorante  gutture. 
Ingordissima  arpia,  di  Tizio  vulture. 
Terra  mai  sazia,  fuoco  e  vulva  cupida, 
Orfìcio  protenso,  nare  putida; 
Nemico  al  cielo,  speculator  terreo, 
Mano  e  pie  infermo,  bocca  e  dente  ferreo, 
L'anima  ti  fu  data  sol  per  sale, 
A  fin  che  non  putissi:  dico  male? 

Che  vi  par  di  questi  versi?  che  ne  comprendete  con 
di  vostro  ingegno  il  metro? 

Ott.  Certo,  per  esser  cosa  d'uno  della  profession  vo- 
stra, non  sono  senza  bella  considerazione. 

Manf.  Sine  conditione  et  absolute  denno  esser  giudicati 
di  profonda  perscrutazion  degni  questi  frutti  raccolti 
dalle  meglior  piante  che  mai  producesse  l'eliconio  monte, 
irrigate  ancor  dal  parnasio  fonte,  temprate  dal  biondo 
Apolline  e  dalle  sacrate  Muse  coltivato.  E  che  ti  par  di 
questo  bel  discorso?  non  vi  admirate  adesso  come  pria 
già? 

Ott.  Bellissimo  e  sottil  concetto.  Ma  ditemi,  vi  priego, 
avete  speso  molto  tempo  in  ordinar  questi  versi? 

Manf.  Non. 

Ott.  Sietevi  affatigato  in  farli? 

Manf.  Minime. 

Ott.  Avetevi  speso  gran  cura  e  pensiero? 

Manf.  Nequaquam. 

Ott.  Avetele  fatti  e  rifatti? 


XI.  -  Pedanti  63 

Manf.  Haudquaquam. 

Ott.  Avetele  corretti? 

Manf.  Minime  gentium:  non  opus  erat. 

Ott.  Avetene  destramente  presi,  per  non  dir  mario- 
lati,  a  qualche  autore  ? 

Manf.  Neutiquam,  ahsit  verbo  invidia,  Dii  avertant,  ne 
faxint  ista  Superi.  Voi  troppo  volete  veder  di  mia  erudi- 
zione: credetemi  che  non  ho  poco  io  del  fonte  caballino 
absorpto,  ne  poco  liquor  mi  ave  infuso  la  de  cerebro  nata 
lovis,  dico  la  casta  Minerva,  alla  quale  è  attribuita  la  sa- 
pienza. Credete  ch'io  non  sarei  minus  foeliciter  risoluto, 
quando  fusse  stato  provocato  ad  explicandas  notas  afflr- 
mantis  vel  asserentis.  Non  hanno  destituita  la  mia  memo- 
ria: Sic,  ita,  etiam,  sane,  profecto,  palam,  verum,  certe^ 
procul  dubio,  maxime,  cui  dubium"?,  utique,  quidniì,  mehercle 
aedepol,  mediusfidius,  et  caetera. 

Ott.  Di  grazia,  in  luoco  di  quell'e/  caetera,  ditemi  una 
altra  negazione. 

Manf.  Questo  cacocephaton,  idest  prava  elocuzione, 
non  farò  io,  perchè  factae  enumerationis  clausulae  non 
est  adponenda  unitas. 

Ott.  Di  tutte  queste  particule  affirmative  quale  vi 
piace  più  de  l'altre? 

Manf.  Queir  utique  assai  mi  cale,  eleganza  in 
lingua  aethrusca  vel  tuscia  meaeque  inhaeret  menti:  eleganza 
di  più  profondo  idioma. 

Ott.  Delle  negative  qual  vi  piace  più? 

Manf.  Quel  nequaquam  est  mihi  cordi  e  mi  so- 
disfa. 

Ott.  Or  dimandatemi  voi,  adesso. 

Manf.  Ditemi,  signor  Ottaviano,  piacenvi  gli  nostri 
versi  ? 

Ott.  Nequaquam. 

Manf.  Come  nequaquam?  non  sono  elli  optimi? 

Ott.  Nequaquam. 

Manf.  Duae  negationes  affirmant:  volete  dir  dunque 
che  son  buoni. 

Ott.  Nequaquam. 


64  Parte  prima 

Manf.  Burlate? 

Ott.  Nequaquam. 

Manf.  Sì  che  dite  da  senno? 

Ott.  Utique. 

Manf.  Dunque,  poca  stima  fate  di  mio  Marte  e  di  mia 
Mmerva? 

Ott.  Utique. 

Manf.  Voi  mi  siete  nemico  e  mi  portate  invidia:  da 
principio,  vi  admiravate  della  nostra  docendi  copia,  adesso, 
Ipso  lectionis  progressu,  la  admirazione  è  metomorfita  in 
invidia? 

Ott.  Nequaquam:  come  invidia?  come  nemico?  non 
mi  avete  detto  che  queste  dizioni  vi  piaceno? 

Manf.  Voi,  dunque,  burlate,  e  dite  exercitationis 
gratia  ? 

Ott.  Nequaquam. 

Manf.  Dicas  igitur,  sine  simulatione  et  fuco:  hanno 
enormità,  crassizie  e  rudità  gli  miei  numeri? 

Ott.   Utique. 

Manf.  Cossi  credete  a  punto? 

Ott.   Utique,  sane,  certe,  equidem,  utique,  utique. 

Manf.  Non  voglio  più  parlar  con  voi. 

Manfurio,  Gio  Bernardo,  Pollula.  O 

GlO.  Bernardo  ...vorrei  sapere  da  voi  che  vuol  dir: 
pedante. 

Manf.  Lubentissime  voglio  dirvelo,  insegnarvelo,  de- 
clararvelo,  exporvelo,  propalarvelo,  palam  farvelo,  insi- 
nuarvelo,  et  —  particula  coniunctiva  in  ultima  dictione 
apposita  —  enuclearvelo;  sicut,  ut,  velut,  veluti,  quemad- 
modum  nucem  ovidianam  meis  coram  discipulis  —  quo 
melius  nucleum  eius  edere  possint  —  enuncleavi.  P  e- 
dante  vuol  dire  quasi  pede  ante:  utpote  quia  ave  lo  in- 
cesso prosequitivo,  col  quale  fa  andare  avanti  gli  eru- 
diendi  puberi;   vel  per  strictiorem  arctioremque  aethymo- 


(I)  CanJ.  Atto   Ili.  Scena  VII. 


XI.  -  Pedanti  65 

logiam:  Pe,  perfectos,  —  Dan,  dans,  —  Te,  thesauros. 
Or  che  dite  de  le  ambedue? 

GlO.  B.  Son  buone;  ma  a  me  non  piace  ne  l'una  né 
l'altra,  né  mi  par  a  proposito. 

Manf.  Cotesto  vi  é  a  dirlo  lecito,  alia  meliore  in  me- 
dium  prolata,  idest  quando  arrete  apportatane  un'altra 
vie  più  degna. 

Gio.  B.  Eccovela:  P  e,  pecorone,  —  Dan,  da 
nulla,  —  Te,  testa  d'asino. 

Manf.  Disse  Catone  seniore:  «  Nil  mentire,  et  nihil 
temere  credideris  ». 

GlO.  B.  Hoc  est,  id  est,  chi  dice  il  contrario,  ne  mente 
per  la  gola. 

Manf.   Vade,  vade: 

«  Contra  verbosos,  verbis  contendere  noli. 
Verbosos  contra,  noli  contendere  verbis. 
Verbis  verbosos  noli  contendere  contra   '. 

GlO.  B.  Io  dono  al  diavolo  quanti  pedanti  sono!... 
Resta  con  cento  mila  di  quelli  angeli  de  la  faccia 
cotta  ! 

Manf.  Menateli  pur,  come  socii  vostri,  vosco!  —  U* 
siete  voi,  Pollula?  Pollula,  che  dite?  vedete  che  nefando, 
abominando,  turbulento  e  portentoso  seculo? 

« secol  noioso  in  cui  mi  trovo. 

Voto  d*ogni  valor,  pien  d*ogni  orgoglio  ». 

Ma  properiamo  verso  il  domicilio. 
TORQUATO.  (') 

Or,  veniamo  un  poco  agli  discorsi  fatti  col  dottor 
Torquato;  il  quale  son  certo  che  non  può  essere  tanto 
più  ignorante  che  Nundinio,  quanto  é  più  presuntuoso, 
temerario  e  sfacciato. 


(1)  Cena    delle    Ceneri.    Dialogo    IV.  —    Interlocutori  'sono:  SmitHO,   Teo- 
FiLo  filosofo,  Prudenzio  pedante.  Frulla. 


66  Parie  prima 

Fru.  Ignoranza  e  arroganza  son  due  sorelle  individue 
in  un  corpo  e  in  un'anima. 

Teo.  Costui,  con  un  enfatico  aspetto,  col  quale  il  divum 
Pater  vien  descritto  nella  Metamorfose  seder  in 
mezzo  del  concilio  degli  Dei  per  fulminar  quella  severis- 
sima sentenza  contra  il  profano  Licaone;  dopo  aver  con- 
templato la  sua  aurea  collana... 

Pru.   Torquem  auream,  aureum  monile. 

Teo.  ed  appresso  remirato  al  petto  del  Nolano,  dove 
più  tosto  arrebe  possuto  mancar  qualche  bottone;  dopo 
essersi  rizzato,  ritirate  le  braccia  da  la  mensa,  scrolla- 
tosi un  poco  il  dorso,  sbruffato  co'  la  bocca  alquanto, 
acconciatasi  la  beretta  di  velluto  in  testa,  intorcigliatosi 
il  mustaccio,  posto  in  arnese  il  profumato  volto,  inar- 
cate le  ciglia,  spalancate  le  narici,  messosi  in  punto 
con  un  riguardo  di  rovescio,  poggiatasi  al  sinistro  fianco 
la  sinistra  mano  per  donar  principio  a  la  sua  scrima, 
appuntò  le  tre  prime  dita  della  destra  insieme,  e  co- 
minciò a  trar  di  mandritti,  in  questo  modo  parlando —  : 
Tune  ille  philosophorum  protoplastes  ?  —  Subito  il  Nolano, 
suspettando  di  venire  ad  altri  termini  che  di  disputazione, 
gl'interroppe  il  parlare,  dicendogli:  —  Quo  vadis,  domine, 
quo  vadis  ?  Quid,  si  ego  philosophorum  protoplastes  ?  quid , 
si  nec  Aristoteli,  nec  cuiquam  magis  concedam,  quam  mihi 
ipsi  concesserint  ?  Ideone  terra  est  centrum  mundi  immo- 
bile? —  Con  queste  e  altre  simili  persuasioni,  con  quella 
maggior  pazienza  che  posseva,  l'essortava  a  portar  pro- 
positi, con  i  quali  potesse  inferire  demostrativa  o  proba- 
bilmente in  favore  degli  altri  protoplasti  contra  di  questo 
novo  protoplaste.  E  voltatosi  il  Nolano  agli  circostanti, 
ridendo  con  mezzo  riso:  —  Costui,  disse,  non  è  venuto 
tanto  armato  di  raggioni,  quanto  di  paroli  e  scommi, 
che  si  muoiono  di  freddo  e  fame.  —  Pregato  da  tutti,  che 
venesse  agli  argumenti,  mandò  fuori  questa  voce:  —  Unde 
igitur  stella  Martis  nunc  maior,  nunc  vero  minor  apparet, 
si  terra  movetur? 

Smi.  0  Arcadia,  è  possibile  che  sii  in  rerum  natura, 
sotto  titolo  di  filosofo  e  medico... 


XI.   -  Pedanti  67 

Fru.   e  dottore  e  torquato, 

Smi.  che  abbia  possuto  tirar  questa  consequenza? 
Il  Nolano  che  rispose? 

Teo.  Lui  non  si  spanto  per  questo. 

Or,  mentre  il  Nolano  dicea  questo,  il  dottor  Torquato 
Gridava:  —  Ad  rem,  ad  rem,  ad  rem!  —  Al  fine  il  Nolano 
se  mise  a  ridere,  e  gli  disse,  che  lui  non  gli  argomentava, 
né  gli  rispondeva,  ma  che  gli  proponeva;  e  però:  —  Ista 
sunt  res,  res,  res.  —  E  che  toccava  al  Torquato  appresso 
d'apportar  qualche  cosa  ad  rem. 

Smi.  Perchè  questo  asino  si  pensava  essere  tra  goffi  e 
balordi,  credeva  che  quelli  passassero  questo  suo  ad  rem 
per  un  argumento  e  determinazione;  e  cossi  un  semplice 
crido,  co'  la  sua  catena  d'oro,  satisfar  alla  moltitudine. 

Teo.  Ascoltate  d'avantaggio.  Mentre  tutti  stavano  ad 
aspettar  quel  tanto  desiderato  argumento,  ecco  che,  vol- 
tato il  dottor  Torquato  agli  commensali,  dal  profondo 
della  sufficienza  sua  sguaina  e  gli  viene  a  donar  sul  m.o- 
s taccio  un  adagio  erasmiano:  —  Anticyram  navigat. 

Smi.  Non  possea  parlar  meglio  un  asino,  e  non  possea 
udir  altra  voce  chi  va  a  pratticar  con  gli  asini. 

Teo.  Credo  che  profetasse  (benché  non  intendesse 
lui  medesmo  la  sua  profezia)  che  il  Nolano  andava  a  far 
provisione  d'elleboro,  per  risaldar  il  cervello  a  questi 
pazzi  barbareschi. 

Smi.  Se  quelli,  che  v'eran  presenti  come  erano  civili,  fus- 
sero  stati  civilissimi,  gli  arrebbono  attaccato,  in  loco  della 
collana,  un  capestro  al  collo  e  fattogli  contar  quaranta  ba- 
stonate in  commemorazione  del  primo  giorno  di  q  uaresima. 

Teo.  Il  Nolano  gli  disse,  che  il  dottor  Torquato  lui 
non  era  pazzo,  perché  porta  la  collana;  la  quale  se  non 
avesse  a  dosso,  certamente  il  dottor  Torquato  non  va- 
lerebe  più  che  per  suoi  vestimenti;  i  quali  però  vagliono 
pochissimo,  se  a  forza  di  bastonate  non  gli  saran  spolve- 
rati sopra.  E  con  questo  dire  si  alzò  di  tavola. 


XII. 
DOTTORI  ED  ARCHIDIDASCALI  o 


FlLOTEO.  Questo  sacrilego  pedante  avete  per  il  quarto: 
uno  de'  rigidi  censori  di  filosofi,  onde  si  afferma  M  o  m  o  ; 
uno  affettissimo  circa  il  suo  gregge  di  scolastici,  onde  si 
noma^inell'amor  socratico;  uno,  perpetuo  nemico  del 
femineo'^sesso,  onde,  per  non  esser  fisico,  si  stima  Orfeo, 
Museo,  Titiro  e  Anfione.  Questo  è  un  di  quelli,  che, 
quando  ti  '.^irran  fatta  una  bella  costruzione,  prodotta 
una  elegante"  epistolina,  scroccata  una  bella  frase  da  la 
popina  ciceroniana,  qua  è  risuscitato  Demostene,  qua 
vegeta  Tullio,  qua  vive  Salustio;  qua  è  un  Argo,  che  vede 
ogni  lettera,  ogni  sillaba,  ogni  dizione;  qua  Radamanto 
umbras  vocat  die  silentum;  qua  Minoe,  re  di  Creta,  urnam 
movet.  Chiamano  all'essamina  le  orazioni;  fanno  discus- 
sione de  le  frase,  con  dire:  —  Queste  sanno  di  poeta, 
queste  di  comico,  questa  di  oratore;  questo  è  grave, 
questo  è  lieve,  quello  è  sublime,  quell'altro  è  humile  di" 
cenai  genus;  questa  orazione  è  aspera;  sarebbe  leve,  se 
fusse  formata  cossi;  questo  è  uno  infante  scrittore,  poco 
studioso  de  la  antiquità,  non  redolet  Arpinaiem,  desipit 
Latium.  Questa  voce  non  è  tosca,  non  è  usurpata  da  Boc- 
caccio, Petrarca  e  altri  probati  autori.  Non  si  scrive 
homo,  ma  omo;  non  h  o  n  o  r  e,  ma  onore; 
non.  P  o  1  1  h  1  m  n  i  o,  ma  P  o  1  i  i  n  n  i  o.  —  Con  queste 
trionfa,  si  contenta  di  sé,  gli  piaceno  più  ch'ogn'altra 
cosa  i  fatti  suoi:  è  un  Giove,  che,  da  l'alta  specula,  re- 


(1)  De  la  Caxisa,    Princifiio  et    ilio     Diaioso   1.  —   Interlocutori  sono:  Eli- 
TROPIO,    FlLOTEO,    ArMESSO. 


XII.  -  Dottori  ed  Archididascali  69 


mira,  e  considera  la  vita  degli  altri  uomini  suggetta  a 
tanti  errori,  calamitadi,  miserie,  fatiche  inutili.  Solo  lui 
è  felice,  lui  solo  vive  vita  celeste,  quando  contempla  la 
sua  divmità  nel  specchio  d'un  Spicilegio,  un  Di- 
zionario, un  Calepino,  un  Lessico,  un 
Cornucopia,  un  Nizzolio.  Con  questa  suffi- 
cienza dotato,  mentre  ciascuno  è  uno,  lui  solo  è  tutto. 
Se  avvien  che  rida,  si  chiama  Democrito;  s'avvien  che 
si  dolga,  si  chiama  Eraclito;  se  disputa,  si  chiama  Cri- 
sippo;  se  discorre,  si  noma  Aristotele;  se  fa  chimere,  si 
appella  Platone;  se  mugge  un  sermoncello,  si  intitula 
Demostene;  se  construisce  Virgilio,  lui  è  il  Marone. 
Qua  corregge  Achille,  approva  Enea,  riprende  Ettore, 
esclama  contra  Pirro,  si  condole  di  Priamo,  arguisce 
Turno,  iscusa  Didone,  comenda  Acate;  e  in  fine,  mentre 
verbum  verbo  reddit  e  infilza  salvatiche  sinonimie,  nihil 
divinum.  a  se  alienum  putat.  E  cossi  borioso  smontando 
da  la  sua  catedra  come  colui  ch'ha  disposti  i  cieli,  regolati 
i  senati,  domati  eserciti,  riformati  i  mondi,  è  certo  che, 
se  non  fusse  l'ingiuria  del  tempo,  farrebe  con  gli  effetti 
quello  che  fa  con  l'opinione.  —  0  tempora,  o  moresl 
Quanti  son  rari  quei  che  intendeno  la  natura  de'  parti- 
cipi!, degli  adverbii,  delle  coniunctioni!  Quanto  tempo 
è  scorso,  che  non  s'è  trovato  la  raggione  e  vera  causa, 
per  cui  l'adiectivo  deve  concordare  col  sustantivo,  il 
relativo  con  l'antecedente  deve  coire,  e  con  che  regola 
ora  si  pone  avanti,  ora  addietro  de  l'orazione;  e  con  che 
misure  e  quali  ordini  vi  s'intermesceno  quelle  interie- 
ctioni  delentis,  gaudentis,  heu,  ho,  ahi,  ah,  hem 
ohe,  bui,  ed  altri  condimenti,  senza  i  quali  tutto  il 
discorso  è  insipidissimo? 

Elitropio.  Dite  quel  che  volete,  intendetela  come  vi 
piace;  io  dico,  che  per  la  felicità  de  la  vita  è  meglio  stimarsi 
Creso  ed  esser  povero,  che  tenersi  povero  ed  esser  Creso. 
Non  è  più  convenevole  alla  beatitudine  aver  una  zucca 
che  ti  paia  bella  e  ti  contente,  che  una  Leda,  una  Elena, 
che  ti  dia  noia  e  ti  vegna  in  fastidio  ?  Che  dunque  importa 
a  costoro  l'esser  ignoranti  e  ignobilmente  occupati,  se 


70  Parie  prima 

tanto  sor»  più  felici,  quanto  più  solamente  piacene  a  se 
medesimi?  Cossi  è  buona  l'erba  fresca  a  l'asino,  l'orgio 
al  cavallo,  come  a  te  il  pane  di  puccia  e  la  perdice;  cossi 
si  contenta  il  porco  de  le  ghiande  e  il  brodo,  come  un 
Giove  de  l'ambrosia  e  nettare.  Volete  forse  toglier  costoro 
da  quella  dolce  pazzia,  per  la  qual  cura  appresso  ti  der- 
rebono  rompere  il  capo?  Lascio  che  chi  sa  se  è  pazzia 
questa  o  quella.  Disse  un  pirroniano:  —  chi  conosce  se 
il  nostro  stato  è  morte,  e  quello  di  quei,  che  chiamiamo 
defunti,  è  vita?  —  Cossi  chi  sa  se  tutta  la  felicità  e  vera 
beatitudine  consiste  nelle  debite  copulazioni  e  apposi- 
zioni de'  membri  dell'orazioni? 

Armesso.  Cossi  è  disposto  il  mondo:  noi  facciamo  il  De- 
mocrito sopra  gli  pedanti  e  grammatisti;  gli  solleciti  cor- 
teggiani  fanno  il  Democrito  sopra  di  noi;  gli  poco  pen- 
serosi  monachi  e  preti  democnteggiano  sopra  tutti;  e 
reciprocamente  gli  pedanti  si  beffano  di  noi,  noi  di  cor- 
teggiani,  tutti  degli  monachi;  e,  in  conclusione,  mentre 
l'uno  è  pazzo  a  l'altro,  verremo  ad  esser  tutti  differenti 
in  specie  e  concordanti  in  genere  et  numero  et  casu. 

FlL.  Diverse  per  ciò  son  specie  e  maniere  de  le  cen- 
sure; varii  son  gli  gradi  di  quelle;  ma  le  più  aspre,  dure, 
orribili  e  spaventose  son  degli  nostri  Archididascali. 
Però  a  questi  doviamo  piegar  le  ginocchia,  chinar  il 
capo,  converter  gli  occhi  ed  alzar  le  mani,  suspirar,  la- 
crimar, esclamare  e  dimandar  mercede.  A  voi,  dunque, 
mi  rivolgo,  che  portate  in  mano  il  caduceo  di  Mercurio 
per  decidere  ne  le  controversie,  e  determinate  le  questioni 
eh  accadeno  tra  gli  mortali  e  tra  gli  dei;  a  voi,  Menippi, 
che,  assisi  nel  globo  de  la  luna,  con  gli  occhi  ritorti  e 
bassi  ne  mirate,  avendo  a  schifo  e  sdegno  i  nostri  gesti; 
a  voi,  scudieri  di  Pallade,  antesignani  di  Minerva,  ca- 
staidi di  Mercurio,  magnarli  di  Giove,  collattanei  di 
Apollo,  manuarii  d'Epimeteo,  botteglieri  di  Bacco,  aga- 
soni  delle  Evante,  fustigatori  de  le  Edonide,  impulsori 
delle  Tiade,  subagitatori  delle  Menadi,  subornatori  delle 
Bassaridi,  equestri  delle  Mimallonidi,  concubinarii  della 
ninfa  Egeria,  correttori  de  l'intusiasmo,  demagoghi  del 


XII.  -  Dottori  ed  Archididascali  71 

popolo  errante,  desciferatorl  di  Demogorgone,  Dioscori 
delle  fluttuanti  discipline,  tesorieri  del  Pantamorfo,  e 
capri  emissarii  del  sommo  pontefice  Aron;  a  voi  racco- 
mandiamo la  nostra  prosa,  sottomettendo  le  nostre 
muse,  premisse,  subsunzioni,  digressioni,  parentesi, 
applicazioni,  clausule,  periodi,  costruzioni,  adiettivazioni, 
epitetismi.  0  voi,  soavissimi  aquarioli,  che  con  le  belle 
eleganzucchie  ne  furate  l'animo,  ne  legate  il  core,  ne 
fascinate  la  mente,  e  mettete  in  postribulo  le  meretri- 
cole  anime  nostre;  riferite  a  buon  conseglio  i  nostri  bar- 
barismi, date  di  punta  a'  nostri  solecismi,  turate  le  male 
olide  voragini,  castrate  i  nostri  Sileni,  imbracate  li  nostri 
Nohemi,  fate  eunuchi  gli  nostri  macrologi,  rappezzate 
le  nostre  eclipsi,  affrenate  gli  nostri  taftologi,  moderate 
1  e  nostre  acrilogie,  condonate  a  nostre  escnlogie,  iscu- 
sate  i  nostri  perissologi,  perdonate  a*  nostri  cacocefati. 
Torno  a  scongiurarvi  tutti  in  generale,  e  in  particulare 
te,  severo,  supercilioso  e  sabaticissimo  maestro. 

Eli,  Questo  proposito  mi  fa  ricordar  di  fra  Ven- 
tura il  quale,  trattando  un  passo  del  santo  Vangelo,  che 
dice  reddite  quae  sunt  Caesaris  Caesari,  apportò  a  proposito 
tutti  gli  nomi  de  le  monete  che  sono  state  a'  tempi  di  Ro- 
mani, con  le  loro  marche  e  pesi;  che  non  so  da  qual  dia- 
volo di  annale  o  scartafaccio  l'avesse  racolti;  che  furono 
pili  di  cento  e  vinti,  per  farne  conoscere  quanto  era  stu- 
dioso e  retentivo.  A  costui,  finito  il  sermone,  essendo- 
segli  accostato  un  uom  da  bene,  li  disse:  —  Padre  mio 
reverendo,  di  grazia,  imprestatemi  un  carlino.  —  A  cui 
rispose  che  lui  era  de  l'ordine  mendicante. 

Arm.   a  che  fine  dite  questo? 

Eli.  Voglio  dire  che  quei  che  son  molto  versati  circa  le 
dizioni  e  nomi,  e  non  son  solleciti  de  le  cose,  cavalcano 
la  medesima  mula  con  questo  reverendo  padre  de  le  mule. 

Arm.  Io  credo  che,  oltre  il  studio  de  l'eloquenza,  nella 
quale  avanzano  tutti  gli  loro  antiqui,  e  non  sono  inferiori 
agli  altri  moderni,  ancora  non  sono  mendichi  nella  filo- 
sofica e  altnmente  speculative  professioni;  senza  la  perizia 
de  le  quali  non  possono  esser  promossi  a  grado  alcuno; 

Bruno,  In  Uistitia  hilaris,  etc.  7. 


72  Parte  prima 

perchè  gli  statuti  de  l'università,  alll  quali  sono  astretti 
per  giuramento,  comportano  che  nullus  ad  philosophiae 
et  theologiae  magisterium  et  doctoratum  promoveatur,  nisi 
epotaverit  e  fonte  Aristotelis. 

Eli,  Oh,  io  ve  dirò  quel  ch'han  fatto  per  non  esser 
pergiuri.  Di  tre  fontane,  che  sono  nell'Università,  al- 
l'una hanno  imposto  nome  Fons  Aristotelis,  l'altra  dicono 
Fons  Phytagorae,  l'altra  chiamano  Fons  Platonis.  Da 
questi  tre  fonti  traendosi  l'acqua  per  far  la  birra  e  la 
cervosa  (de  la  qual  acqua  pure  non  mancano  di  bere  i  buoi 
e  gli  cavalli)  conseguentemente  non  è  persona,  che,  con 
esser  dimorata  meno  che  tre  o  quattro  giorni  m  que  studii 
e  collegii,  non  vegna  ad  esser  imbibito  non  solamente 
del  fonte  di  Aristotele,  ma  e  oltre  di  Pitagora  e  Platone. 

Arm.  Oimè,  che  voi  dite  pur  troppo  il  vero.  Quindi 
avviene,  o  Teofllo,  che  li  dottori  vanno  a  buon  mercato 
come  le  sardelle;  perchè,  come  con  poca  fatica  si  creano,  si 
trovano,  si  pescano,  cossi  con  poco  prezzo  si  comprano. 
Or  dunque,  tale  essendo  appresso  di  noi  il  volgo  di  dot- 
tori in  questa  etade  (riserbando  però  la  riputazione  d'al- 
cuni celebri  e  per  l'eloquenza  e  per  la  dottrine  e  per  la 
civil  cortesia,  quali  sono  un  Tobia  Mattheo,  un  Culpe- 
pero,  e  altri  che  non  so  nominare),  accade  che  tanto 
manca  che  uno,  per  chiamarsi  dottore,  possa  esser  sti- 
mato aver  novo  grado  di  nobiltade,  che  più  tosto  è  su- 
spetto  di  contraria  natura  e  condizione,  se  non  sia  parti- 
colarmente conosciuto.  Quindi  accade,  che  quei,  che  per 
linea  o  per  altro  accidente  son  nobili,  ancor  che  gli  s'ag- 
giunga la  principal  parte  di  nobiltà,  che  è  per  la  dottrina, 
si  vergognano  di  graduarsi  e  farsi  chiamar  dottori,  bastan- 
dogli l'esser  dotti.  E  di  queste  arrete  maggior  numero  ne 
le  corti,  che  ritrovarsi  possano  pedanti  nell'universitade. 

*     (i) 

Burchio.  Con  questo  vostro  dire  volete  ponere  sotto 
sopra  il  mondo . 


(I)  De  l'Infinito  Uriiverso  e  Monc/i.  Dialogo  III. —  Interloquisconj  Elpino, 
LOTEO.    FrACASTOBIO.    BuRCHìO. 


XII.  -  Dottori  ed  Archididascali  73 


Fracastorio.  Ti  par  che  farebbe  male  un  che  volesse 
mettere  sotto  sopra  il  mondo  rinversato? 

BuR.  Volete  far  vane  tante  fatiche,  studii,  sudori  di 
fisici  auditi,  de  cieli  e  mondi,  ove  s'han  lambiccato  il 
cervello  tanti  gran  commentatori,  parafrasti,  glosatori, 
compendiarii,  summisti,  scoliaton,  traslatatori,  que- 
stionarii,  teoremisti?  ove  han  poste  le  sue  base  e  gittati 
i  suoi  fondamenti  i  dottori  profondi,  suttili,  aurati,  magni, 
inexpugnabili,  irrefragabili,  angelici,  serafici,  cherubici 
e  divini  ? 

Fra.  Adde  gli  frangipetri,  sassifnjgi,  gli  cornupeti  e 
calcipotenti.  Adde  gli  profundivedi,  palladii,  olimpici, 
fìrmamentici,  celesti  empirici,  altitonanti  ? 

BuR.  Le  deveremo  tutti  a  vostra  instanza  mandarle 
in  un  cesso?  Certo,  sarà  ben  governato  il  mondo,  se 
saranno  tolte  via  e  dispreggiate  le  speculazioni  di  tanti 
e  sì  degni  filosofi! 

Fra.  Non  è  cosa  giusta,  che  togliamo  agli  asini  le  sue 
lattuche,  e  voler  che  il  gusto  di  questi  sia  simile  al  nostro. 
La  varietà  d'ingegni  e  intelletti  non  è  minor  che  di  spirti 
e  stomachi. 

BuR.  Volete  che  Platone  sia  uno  ignorante,  Aristo- 
tele sia  un  asino,  e  quei,  che  l'hanno  seguitati,  sieno  in- 
sensati, stupidi  e  fanatichi  ? 

*     (1) 
*  * 

•  ...  1 

Prudenzio.  Dite  quel  che  vi  piace,  tiratela  a  vostro  bel 

piacer  dove  vi  pare:  io  sono  amico  de  l'antiquità;  e  quanto 

appartiene  a  le  vostre  opinioni  o  paradossi,  non  credo, 

che  sì  molti  e  sì  saggi  sien  stati  ignoranti,  come  pensate 

voi  e  altri  amici  di  novità. 

Teofilo.  Bene,  maestro  Prudenzio,  si  questa  volgare  e 

vostra  opinione  per  tanto  è  vera,  in  quanto  che  è  antica, 

certo  era  falsa  quando  la  fu  nova.  Prima  che  fusse  questa 

filosofìa  conforme  al  vostro  cervello,  fu  quella  degli  Caldei 


0)   Cena  delle  Ceneri,  Dialogo   I. 


74  Parte  prima 

Egizll.  Maghi,  Orfici,  Pitagorici  ed  altri  di  prima  memoria, 
conforme  al  nostro  capo;  da'  quali  prima  si  nbellorno 
questi  insensati  e  vani  logici  e  matematici,  nemici  non 
tanto  de  l'antiquità,  quanto  alleni  da  la  verità.  Poniamo 
dunque  da  canto  la  raggione  de  l'antico  e  novo,  atteso 
che  non  è  cosa  nova  che  non  possa  esser  vecchia,  e  non  è 
cosa  vecchia,  che  non  sii  stata  nova,  come  ben  notò  il 
vostro  Aristotele. 

Frulla.  S'io  non  parlo,  scoppiare,  creparò  certo.  Avete 
detto  il  vostro  Aristotele,  parlando  a  mastro 
Prudenzio.  Sapete,  come  intendo,  che  l'Aristotele  sii 
suo,  idest  lui  sii  Peripatetico?  (Di  grazia,  facciamo  que- 
sto poco  di  digressione  per  modo  di  parentesi).  Come  di 
dui  ciechi  mendichi  a  la  porta  de  l'arcivescovato  di  Na- 
poli l'uno  SI  diceva  Guelfo  e  l'altro  Ghibellino;  e  con  que- 
sto si  cominciorno  sì  crudamente  a  toccar  l'un  l'altro 
con  que'  bastoni,  ch'aveano,  che,  si  non  fussero  stati  di- 
visi, non  so  com.e  sarebbe  passato  il  negozio.  In  questo 
se  gli  accosta  un  uom  da  bene,  e  li  disse:  —  Venite  qua, 
tu  e  tu,  orbo  mascalzone:  che  cosa  è  Guelfo?  che  cosa  è 
Ghibellino?  che  vuol  dir  esser  Guelfo  ed  esser  Ghibel- 
lino? —  In  verità,  l'uno  non  seppe  punto  che  rispondere, 
né  che  dire.  L'altro  si  risolse  dicendo:  —  Il  signor  Pietro 
Costanzo,  che  è  mio  padrone,  e  al  quale  io  voglio  molto 
bene,  è  un  Ghibellino. 

Cossi  a  punto  molti  sono  Peripatetici,  che  si  adirano, 
se  scaldano  e  s'imbraggiano  per  Aristotele,  voglion  defe- 
ndere la  dottrina  d'Aristotele,  son  inimici  di  que'  che 
non  sono  amici  d'Aristotele,  voglion  vivere  e  morire  per 
Aristotele,  1  quali  non  intendono  né  anche  quel  che  signi- 
ficano 1  titoli  de'  libri  d'Aristotele.  Se  volete  ch'io  ve  ne 
dimostri  uno,  ecco  costui,  al  quale  avete  detto  il  vostro 
Aristotele,  e  che  a  volte  a  volte  ti  sfodra  un  Ari' 
toteles  noster,  Peripateticorum  princeps,  un  Plato  noster, 
et  ultra, 

Pru.  Io  fo  poco  conto  del  vostro  conto,  niente  istimo 
la  vostra  stima. 


PARTE  SECONDA 


I. 

LA  VECCHIEZZA  DI  GIOVE  <" 


Sofia  ..  Giove...  comincia  ad  esser  maturo,  e  non  admette 
oltre  nel  conseglio,  eccetto  che  persone,  ch'hanno  m  capo 
la  neve,  alla  fronte  gli  solchi,  al  naso  gli  occhiali,  al  mento 
la  farina,  alle  mani  il  bastone,  ai  piedi  il  piombo:  in  testa, 
dico,  la  fantasia  retta,  la  cogitazion  sollecita,  la  memoria 
ritentiva;  ne  la  fronte  la  sensata  apprensione,  negli  occhi 
la  prudenza,  nel  naso  la  sagacità,  nell'orecchio  l'atten- 
zione, ne  la  lingua  la  veritade,  nel  petto  la  sinceritade, 
nel  core  gli  ordinati  affetti,  ne  le  spalli  la  pazienza,  nel 
tergo  l'oblivio  de  le  offese,  nel  stomaco  la  discrezione, 
nel  ventre  la  sobrietade,  nel  seno  la  continenza,  ne  le 
gambe  la  constanza,  ne  le  piante  la  rettitudine,  ne  la 
sinistra  il  pentateuco  di  decreti,  ne  la  destra  la  raggione 
discussiva,  la  scienza  indicativa,  la  regolativa  giustizia, 
l'imperativa  autoritade  e  la  podestà  executiva. 

Saulino.  Bene  abituato:  ma  bisogna,  che  prima  sia 
ben  lavato,  ben  npurgato. 

SoF.  Ora  non  son  bestie,  nelle  quali  si  trasmute;  non 
Europe,  che  l'incornino  in  toro;  non  Danae,  che  lo  im- 
pallidiscano in  oro;  non  Lede,  che  l'impiumino  in  cigno, 
come  ninfe  Asterie  e  frigii  fanciulli,  che  lo  imbecchino 
in  aquila;  non  Dolide  che  lo  inserpentiscano;  non  Mne- 
mosine,  che  lo  degradino  in  pastore;  non  Antiope,  che 
lo  semibestialino  in  Satiro;  non  Alcmene,  che  lo  trasmu- 
tino in  Anfitrione;  perchè  quel  temone,  che  volgeva  e 


(1)  Spaccio  della     Bestia    trionfante.    Dialogo     I.     —  Interlocutori     SoFlA, 
Saulino,  Mercurio 


80  Parte  seconda 

dirizzava  questa  nave  de  le  metamorfosi,  è  dovenuto  sì 
fiacco,  che  poco  più  che  nulla  può  resistere  a  l'empito 
de  le  onde,  e  forse  che  l'acqua  ancora  gli  va  mancando  a 
basso.  La  vela  è  di  maniera  tale  stracciata  e  sbusata,  che 
in  vano  per  ingonfiarla  il  vento  soffia.  Gli  remi,  ch'ai 
dispetto  di  contrarli  venti  e  turbide  tempeste  solcano 
risospingere  il  vascello  avanti,  ora,  faccia  quantosivoglia 
calma,  e  sia  a  sua  posta  tranquillo  il  campo  di  Nettuno, 
in  vano  il  comite  sibilarà  a  orsa,  a  poggia,  a  la  sia,  a 
la  voga,  perchè  gli  remigatori  son  dovenuti  come  pa- 
ralitici. 

Saul.  Oh  gran  caso! 

SoF.  Indi  non  fia  chi  più  dica  e  favoleggi  Giove  per 
carnale  e  voluttuario;  perchè  il  buon  padre  s'è  addovato 
il  spinto. 

Saul.  Come  colui,  che  tenea  già  tante  moglie,  tante 
ancelle  di  moglie  e  tante  concubine,  al  fine  dovenuto  qual 
ben  satollo,  stuffato  e  lasso,  disse:  Vanità,  vanità, 
ogni    cosa    è    vanità? 

SoF.  Pensa  al  suo  giorno  del  giudizio,  perchè  il  ter- 
mine degli  o  più  o  meno  o  a  punto  trentasei  mila  anni, 
come  è  publicato,  è  prossimo;  dove  la  revoluzion  de 
l'anno  del  mondo  minaccia,  ch'un  altro  Celio  vegna  a 
repigliar  il  dominio,  e  per  la  virtù  del  cangiamento, 
ch'apporta  il  moto  de  la  trepidazione,  e  per  la  varia,  e 
non  più  vista,  né  udita  relazione  e  abitudine  di  pianeti, 
teme  che  il  fato  disponga,  che  l'ereditaria  successione 
non  sia  come  quella  della  precedente  grande  mondana 
revoluzione,  ma  molto  vana  e  diversa,  cracchieno  quanto- 
sivoglia  gli  pronosticanti  astrologi  e  altri  divinatori. 

Saul.  Dunque,  si  teme  che  non  vegna  qualche  più 
cauto  Celio,  che,  all'esempio  del  Prete  Gianni,  per  obviare 
agli  possibili  futuri  inconvenienti,  non  bandisca  gli  suoi 
figli  agli  serragli  del  monte  Amarat  ed  oltre,  per  tema 
che  qualche  Saturno  non  lo  castre,  non  faccia  mai  difetto 
di  non  allacciarsi  le  mutande  di  ferro,  e  non  si  riduca  a 
dormire  senza  braghe  di  diamante.  Laonde,  non  succe- 
dendo l'antecedente  effetto,  verrà  chiusa  la  porta  a  tutti 


I.  -  La  vecchiezza  di  Giove  81 

gli  altri  conseguenti;  e  in  vano  s'aspetterà  il  giorno  na- 
tale della  dea  di  Cipro,  la  depressione  del  zoppo  Saturno, 
l'essaltazion  di  Giove,  la  moltiplicazion  di  figli  e  figli  de' 
figli,  nipoti  e  nipoti  de'  nipoti,  sino  a  la  tantesima  ge- 
nerazione, quantesima  è  a'  tempi  nostri,  e  può  sin  al 
prescritto  termine  essere  negli  futuri. 

Nec  iterum  ad  Troiam  magnus  mittetur  Achilles. 

SoF.  In  tal  termine,  dunque,  essendo  la  condizion  de 
le  cose,  e  vedendo  Giove  ne  l'importuno  memoriale  de 
la  sfiancata  forza  e  snervata  virtude  appressarsi  come  la 
sua  morte,  cotidianamente  fa  caldi  voti  ed  effonde  fer- 
venti preghiere  al  fato,  acciò  che  le  cose  negli  futuri  se- 
coli in  suo  favore  vegnano  disposte. 

Saul.  Talché,  o  Sofia,  (cosa  inaudita!)  questo  nume 
ancora  hav'egli  dove  effondere  orazioni?  Esso  ancora 
versa  nel  timore  della  giustizia?  Mi  maravigliavo  io, 
perchè  gli  Dei  sommamente  temevano  di  spergiurare 
la  Stigia  palude;  ora  comprendo,  che  questo  procede  dal 
fio,  che  denno  pagare  anch'essi. 

SoF.  Cossi  è.  Ha  ordinato  al  suo  fabro  Vulcano,  che  non 
lavore  de'  giorni  di  festa;  ha  comandato  a  Bacco,  che  non 
faccia  comparir  la  sua  corte,  e  non  permetta  debaccare  le 
sue  Evanti,  fuor  che  nel  tempo  di  carnasciale,  e  nelle 
feste  principali  de  l'anno,  solamente  dopo  cena,  appresso 
il  tramontar  del  sole,  e  non  senza  sua  speciale  ed  espressa 
licenza.  Momo,  il  quale  avea  parlato  contra  gli  dei,  e, 
comò  a  essi  pareva,  troppo  rigidamente  arguiti  gli  loro 
errori,  e  però  era  stato  bandito  dal  concistoro  e  conversa- 
zion  di  quelli,  e  relegato  alla  stella,  ch'è  nella  punta  de  la 
coda  di  Calisto,  senza  facultà  di  passar  il  termine  di  quel 
parallelo,  a  cui  sottogiace  il  monte  Caucaso,  dove  il  po- 
vero dio  è  attenuato  dal  rigor  del  freddo  e  de  la  fame; 
ora  è  richiam.ato,  giustificato,  restituito  al  suo  stato  pristino 
e  posto  precone  ordinario  ed  estraordinario  con  amplis- 
simo privilegio  di  posser  riprendere  gli  vizii  senza  aver 
punto  risguardo  a  titolo  o  dignitade  di  persona  alcuna. 
Ha  vietato  a  Cupido  d'andar  più  vagando,  in  presenza 
degli  uomini,  eroi  e  dei,  cossi  sbracato,  come  ha  di  costu- 


82  Parte  seconda 

me;  ed  ingiontoli,  che  non  offenda  oltre  la  vista  de'  cell- 
coli, mostrando  le  natiche  per  la  via  lattea  e  Olimpico 
senato:  ma  che  vada  per  l'avenire  vestito  almeno  da  la 
cintura  a  basso;  e  gli  ha  fatto  strettissimo  mandato,  che 
non  ardisca  oltre  di  trar  dardi,  se  non  per  il  naturale,  e 
l'amor  degli  uomini  faccia  simile  a  quello  degli  altri  ani- 
mali, facendoli  a  certe  e  determinate  staggloni  Inamorare; 
e  cossi,  come  agli  gatti  è  ordinano  il  marzo,  agli  asini 
il  maggio,  a  questi  sieno  accomodati  que'  giorni,  ne'  quali 
se  innamorò  il  Petrarca  di  Laura,  e  Dante  di  Beatrice; 
e  questo  statuto  è  in  forma  de  in/en'msinoal  prossimo  con- 
cilio futuro,  entrante  il  sole  al  decimo  grado  di  Libra,  il 
quale  è  ordmato  nel  campo  del  fiume  Eridano,  là  dove  è 
la  piegatura  del  ginocchio  d'Orione.  Ivi  si  ristorare  quella 
legge  naturale,  per  la  quale  è  lecito  a  ciascun  maschio  di 
aver  tante  moglie,  quante  ne  può  nutrire  e  impregnare; 
perchè  è  cosa  superflua  e  ingiusta,  e  a  fatto  contraria  alla 
regola  naturale,  che  in  una  già  impregnata  e  gravida 
donna,  o  in  altri  soggetti  peggiori,  come  altre  illegittime 
procacciate  —  che,  per  tema  di  vituperio,  provocano 
l'aborso  —  vegna  ad  esser  sparso  quell'omifìco  seme, 
che  potrebbe  suscitar  eroi,  e  colmar  le  vacue  sedie  de 
l'empireo. 

Saul.  Ben  provisto,  a  mio  giudizio:  che  più  ? 

SoF.  Quel  Ganimede,  ch'ai  marcio  dispetto  de  la  ge- 
losa Giunone,  gli  era  tanto  in  grazia,  e  a  cui  solo  liceva 
d'accostarsegli,  e  porgergli  li  fulmini  trisolchi,  mentre  a 
lunghi  passi  a  dietro  riverentemente  si  tenevano  gli  dei, 
al  presente  credo  che,  se  non  ha  altra  virtute,  che  quella, 
che  è  quasi  persa,  è  da  temere  che,  da  paggio  di  Giove, 
non  debba  aver  a  favore  di  farsi  come  scudiero  a  Marte. 

Saul.  Onde  questa  mutazione? 

SoF.  E  da  quel  che  è  detto  del  cangiamento  di  Giove, 
e  perchè  lo  invidioso  Saturno  ai  giorni  passati,  con  fìnta 
di  fargli  de'  vezzi,  gli  andò  di  maniera  tale  rimenando  la 
ruvida  mano  per  il  mento  e  per  le  vermiglie  gote,  che  da 
quel  toccamento  se  gl'impela  il  volto,  di  sorte  che  pian 
piano  va  scemando  quella  grazia,  che  fu  potente  a  rapir 


I.  —  La  vecchiezza  di  Giove  83 

Giove  dal  cielo,  e  farlo  essere  rapito  da  Giove  In  cielo,  ed 
onde  il  figlio  d'un  uomo  venne  deificato,  ed  ucellato  il 
padre  degli  Dei. 

Saul.  Cose  troppo  stupende!  Passate  oltre. 

Sofia.  Ieri,  che  fu  la  festa  in  commemorazion  del 
giorno  de  la  vittoria  de  Dei  centra  gli  Giganti,  im- 
mediatamente dopo  pranso,  quella,  che  sola  governa  la 
natura  de  le  cose,  e  per  la  qual  gode  tutto  quel  che 
gode  sotto  il  cielo,  avendo  ordinato  il  ballo,  se  gli  fece 
innante  con  quella  grazia  che  consolarebbe  ed  invaghi- 
rebbe il  turbido  Caronte;  e,  come  è  il  dovere  de 
l'ordine,  andò  a  porgere  la  prima  mano  a  Giove. 
Il  quale  in  loco  di  quel  ch'era  uso  di  fare,  dico,  di 
abbracciarla  col  sinistro  braccio,  e  strenger  petto  a  petto, 
e  con  le  due  prime  dita  de  la  destra  premendogli  il  labro 
inferiore,  accostar  bocca  a  bocca,  denti  a  denti,  lingua 
a  lingua  (carezze  più  lascive,  che  possano  convenire  a  un 
padre  in  verso  de  la  figlia)  e  con  questo  sorgere  al  ballo,  — 
ieri,  impuntandogli  la  destra  al  petto,  e  ritenendola  a 
dietro  (come  dicesse:  Noli  me  tangere)  con  un  compassio- 
nevole aspetto,  ed  una  faccia  piena  di  devozione:  —  Ah 
Venere,  Venere,  li  disse:  è  possibile  che  pur  una  volta  al 
fine  non  consideri  il  stato  nostro,  e  specialmente  il  tuo? 
Pensi  pur  che  sia  vero  quello  che  gli  uomini  s'imaginano  di 
noi  che  chi  è  vecchio,  è  sempre  vecchio,  chi  è  giovane,  è 
sempre  giovane,  chi  è  putto,  è  sempre  putto,  cossi  perse- 
verando eterno,  come  quando  da  la  terra  siamo  stati  as- 
sunti al  cielo;  e  cossi,  come  là  la  pittura  e  il  ritratto  nostro 
si  contempla  sempre  medesimo,  talmente  qua  non  si 
vada  cangiando  e  ricangiando  la  vital  nostra  complessione? 
Oggi  per  la  festa  mi  si  rinova  la  memoria  di  quella  dispo- 
sizione, nella  quale  io  mi  ritrovavo  quando  fulminai  e 
debellai  que*  fieri  giganti,  che  ardirò  di  ponere  sopra 
Pelia  Ossa,  e  sopra  Ossa  Olimpo:  quando  io  il  feroce  Bria- 
reo,  a  cui  la  madre  Terra  avea  donate  cento  braccia  e 
cento  mani,  acciò  potesse  con  l'empito  di  cento  versati 
scogli  centra  gli  dei  debellare  il  cielo,  fui  potente  di  abis- 


84  Parte  seconda 

sare  alle  nere  caverne  dell'orco  voraginoso:  quando  rele- 
gai il  presuntuoso  Tlfeo  là,  dove  il  mar  Tirreno  col  Jonio 
si  conglonge;  spingendogli  sopra  l'isola  Trinacria,  afin 
che  al  VIVO  corpo  la  fusse  perpetua  sepoltura.  Onde 
dice  un  poeta: 

Ivi  a  rardiio  ed  audace  Tifeo,  ^ 

Che  carco  giace  del  Trinacrio  pondo^ 
Preme  la  destra  del  monte  Peloro 
La  greve  salma;  e  preme  la  sinistra 
Il  nomato  Pachin;  e  V ampie  spalli. 
Ch'ai  peso  han  fatto  i  calli, 
Calca  il  sassoso  e  vasto  Liliheo; 
E  '/  capo  orrendo  aggrieva  Mongihello, 
Dove  col  gran  martello 
Folgori  tempra  il  scabroso  Vulcano. 

Io,  che  sopra  quell'altro  ho  fulminata  l'isola  di  Pro- 
chita;  io,  ch'ho  reprimuta  l'audacia  di  Licaone,  ed  a  tempo 
di  Deucalione  liquefeci  la  terra  al  ciel  rubella;  e  con  tanti 
altri  manifesti  segnali  mi  son  mostrato  degnissimo  della 
mia  autontade;  or  non  ho  polso  di  contrastar  a  certi  mezzi 
uomini,  e  mi  bisogna,  al  grande  mio  dispetto,  a  voto  di 
caso  e  di  fortuna  lasciar  correre  il  mondo;  e  chi  meglio  la 
seguita,  l'arrive,  e  chi  la  vence,  la  goda.  Ora  son  fatto  qua! 
quel  vecchio  esopico  lione,  a  cui  impune  l'asino  dona  di 
calci,  e  la  slmia  fa  de  le  beffe,  e,  quasi  come  ad  un  insen- 
sibil  ceppo,  il  porco  vi  si  va  a  fricar  la  pancia  polverosa. 
Là  dove  io  avevo  nobilissimi  oracoli,  fani  ed  altari,  ora, 
essendo  quelli  gittati  per  terra  ed  indegnissimamente 
profanati,  in  loco  loro  han  dirizzate  are  e  statue  a  certi, 
ch'io  mi  vergogno  nominare,  perchè  son  peggio  che  li 
nostri  satiri  e  fauni  e  altri  semibestie,  anzi  più  vili  che  gli 
crocodilli  d'Egitto;  perchè  quelli  pure,  magicamente 
guidati,  mostravano  qualche  segno  de  divinità;  ma  co- 
storo sono  a  fatto  Iettarne  de  la  terra.  Il  che  tutto  è  prove- 
nuto per  la  ingiuria  della  nostra  nemica  fortuna,  la  quale 
non  l'ha  eletti  e  inalzati  tanto  per  onorar  quelli,  quanto 
per  nostro  vilipendio,  dispreggio  e  vituperio  maggiore 


1.  -  La  vecchiezza  di  Givve  85 

Le  leggi,  statuti,  culti,  sacrlfìcli  e  ceremonie,  ch'Io  già  per 
li  miei  Mercurii  ho  clonate,  ordinati,  comandati  e  insti- 
tulti,  son  cassi  e  annullati;  e  in  vece  loro  si  trovano  le  più 
sporche  e  indegnissime  poltronarie,  che  possa  giamai 
questa  cieca  altnmente  fengere,  a  fine  che,  come  per  noi 
gli  omini  doventavano  eroi,  adesso  dovegnano  peggio  che 
bestie.  Al  nostro  naso  non  ariva  più  fumo  di  rosto,  fatto 
in  nostro  servizio  dagli  altari;  ma,  se  pur  tal  volta  ne  viene 
appetito,  ne  fia  mestiero  d'andar  a  sbramarci  per  le  co- 
cine,  come  dei  patellari.  E  benché  alcuni  altari  fumano 
d'incenso  {quod  dai  avara  manus)  a  poco  a  poco  quel  fumo 
dubito  che  non  se  ne  vada  in  fumo,  a  fine  che  nulla  ri- 
magna di  vestigio  ancora  delle  nostre  sante  instituzioni. 
Ben  conoscemo  per  prattica,  che  il  mondo  è  a  punto  come 
un  gagliardo  cavallo,  il  quale  molto  ben  conosce,  quando 
è  montato  da  uno,  che  non  lo  può  strenuamente  maneg- 
giare, lo  spreggia,  e  tenta  di  toglierselo  da  la  schena; 
e,  gittato  che  l'ha  in  terra,  lo  viene  a  pagar  di  calci.  Ecco, 
a  me  si  dissecca  il  corpo,  e  mi  s'umetta  il  cervello;  mi 
nascono  i  tofi,  e  mi  cascano  gli  denti;  mi  s'inora  la  carne 
e  mi  s'inargenta  il  crine;  mi  si  distendeno  le  palpebre  e  mi 
si  contrae  la  vista;  mi  s'indebolisce  il  fiato  e  mi  si  rinforza 
la  tosse;  mi  si  fa  fermo  il  sedere  e  trepido  il  caminare;  mi 
trema  il  polso  e  mi  si  saldano  le  costa;  mi  s'assottigliano 
gli  articoli  e  mi  s'ingrossano  le  gionture:  e  in  conclusióne 
(quel  che  più  tormenta)  perchè  mi  s'indurano  gli  talloni 
e  mi  s'ammolla  il  contrapeso;  l'otncello  de  la  cornamusa 
mi  s'allunga  ed  il  bordon  s'accorta: 

La  mia  Giunon  di  me  non  è  gelosa. 
La  mia  Giunon  di  me  non  ha  più  cura. 

Del  tuo  Vulcano  (lasciando  gli  altri  dei  da  canto)  voglio 
che  consideri  tu  medesima.  Quello,  che  con  tanto  vigore 
solca  percuotere  la  salda  incudine,  che  agli  fragrosi  schias- 
si, quali  dall'ignivomo  Etna  uscivano  a  l'orizzonte,  Eco 
dalle  concavitadi  del  campano  Vesuvio  e  del  sassoso  Ta- 
burno,  rispondeva  —  adesso  dove  è  la  forza  del  mio  fabro 
e  tuo  consorte?  Non  è  ella  spinta?  non  è  ella  spinta? 


86  Parte  seconda 

Forse  che  ha  più  nerbo  da  gonfiar  1  folli,  per  accendere 
il  foco?  Forse  ch'ha  più  lena  d'alzar  il  gravoso  martello, 
per  battere  l'infocato  metallo?  Tu  ancora,  mia  sorella, 
se  non  credi  ad  altri,  dimandane  al  tuo  specchio;  e  vedi 
come  per  le  rughe,  che  ti  sono  aggionte,  e  per  gli  solchi, 
che  l'aratro  del  tempo  t'imprime  ne  la  faccia,  porgi  giorno 
per  giorno  maggior  difficultade  al  pittore,  s'egli  non  vuol 
mentire,  dovendoti  ritrare  per  il  naturale.  Ne  le  guance, 
ove  ridendo  formavi  quelle  tue  fossette  tanto  gentili,  doi 
centri,  doi  punti,  in  mezzo  de  le  tanto  vaghe  pozzette, 
facendoti  il  riso,  che  imblandiva  il  mondo  tutto,  giongere 
sette  volte  maggior  grazia  al  volto,  onde  (come  da  gli  occhi 
ancora)  scherzando  scoccava  gli  tanto  acuti  e  infocati 
strali  Amore;  adesso,  cominciando  dagli  angoli  de  la  bocca 
sino  a  la  già  commemorata  parte,  da  l'uno  e  altro  canto 
comincia  a  scuoprirsi  le  forma  di  quattro  parentesi,  che 
ingemmate  par  che  ti  vogliano,  strengendo  la  bocca, 
proibir  il  riso  con  quelli  archi  circonferenziali,  ch'appaiono 
tra  gli  denti  ed  orecchi,  per  farti  sembrar  un  crocodillo. 
Lascio  che,  o  ridi  o  non  ridi,  ne  le  fronte  il  geometra 
interno,  che  ti  dissecca  l'umido  vitale,  e  con  far  più  e 
più  sempre  accostar  la  pelle  a  l'osso,  assottigliando  la 
cute,  ti  fa  profondar  la  descrizione  de  le  parallele  a  quattro 
a  quattro,  mostrandoti  per  quelle  il  diritto  camino,  il  qual 
ti  mena  come  verso  il  defuntoro.  —  Perchè  piangi  Ve- 
nere? Perchè  ridi,  Momo?  disse,  vedendo  questo  mo- 
strar I  denti,  e  quella  versar  lacrime.  Ancora  Momo  sa, 
quando  un  di  questi  buffoni  (de'  quali  ciascuno  suol  por- 
gere più  veritade  di  fatti  suoi  a  l'orecchi  del  prencipe, 
che  tutto  il  resto  de  la  corte  insieme,  e  per  quali  per  il 
più  color  che  non  ardiscono  di  parlare,  sotto  specie  di 
gioco  parlano  e  fanno  muovere  e  muovono  de*  propositi) 
disse  che  Esculapio  ti  avea  fatta  provisione  di  polvere  di 
corno  di  cervio  e  di  conserva  di  coralli,  dopo  averti  ca- 
vate due  mole  guaste  tanto  secretamente,  che  ora  non  è 
pietruccia  in  cielo,  che  noi  sappia.  Vedi,  dunque, 
cara  sorella,  come  ne  doma  il  tempo  traditore,  come  tutti 
siamo  suggetti  alla  mutazione:  e  quel  che  più  tra  tanto  ne 


I.   -   La  vecchiezza  di  Giove  87 


affllge,  è,  che  non  abbiamo  certezza  ne  speranza  alcuna  di 
ripigliar  quel  medesimo  essere  a  fatto,  in  cui  tal  volta 
fummo.   Andiamo,   e  non  torniamo  medesimi;  e,  come 
non  avem.o  memoria  di  quel  che  eravamo,  prima  che  fus- 
semo  in  questo  essere,  cossi  non  possemo  aver  saggio  di 
quel  che  saremo  da  poi.  Cossi  il  timore,  pietà  e  religione 
di  noi,  l'onore,  il  rispetto  e  l'amore  vanno  via;  li  quali 
appresso  la  forza,  la  previdenza,  la  virtù,  dignità,  maestà 
e  bellezza,  che  volano  da  noi,  non  altrlmente  che  l'ombra 
insieme  col  corpo  si  parteno.  La  veritade  sola,  con  l'abso- 
luta  vlrtude  è  inmutabile  ed  immortale:  e,  se  tal  volta 
casca  e  si  sommerge,  medesima  necessariamente  al  suo 
tempo  risorge,  porgendogli  il  braccio  la  sua  ancella  Sofìa. 
Guardiamoci,  dunque,  di  offendere  del  fato  la  divinitade. 
facendo  torto  a  questo  gemino  nume    a  lui  tanto  racco- 
mandato e  da  lui  tanto  faurito.  Pensiamo  al  prossimo  stato 
futuro,  e  non,  come  quasi  poco  curando  il  nume  univer- 
sale, manchiamo  d'alzare  il  nostro  core  ed  affetto  e  quello 
elargitore  d'ogni  bene  e  distributor  de  tutte  l'altre  sorti. 
Supplichiamolo  che  ne  la  nostra  transfusione,  o  transito, 
o  metempsicosi,  ne  dispense  felici  genii:  atteso  che,  quan- 
tunque egli  sia  inesorabile,  bisogna  pure  aspettarlo  con 
gli  voti  o  di  essere  conservati  nel  stato  presente,  o  di  su- 
bintrar  un  altro  megliore,  o  simile,  o  poco  peggiore.  Lasci 
che  l'esser  bene  affetto  verso  il  nume  superiore  è  come  un 
segno  di  futuri  effetti  favorevoli  da  quello;  come  chi  è 
prescritto  ad  esser  uomo,  è  necessario  ed  ordinario,  eh  il 
destino  lo  guida,  passando  per  il  ventre  de  la  madre;  il 
spirto  predestinato  ad  incorporarsi  in  pesce,  bisogna   che 
prima  vegna  attuffato  a  l'acqui;  talmente  a  chi  è  per  esser 
favorito  dagli   numi  conviene  che  passe  per  mezzo  de 
buoni  voti  ed  operazioni. 


Bruno,  In  trìstHia  hilaris,  etc. 


II. 

GLI  DEI  A  CONSIGLIO"* 


—  Con  questo  dire,  di  passo  m  passo  sospirando,  il  gran 
padre  de  la  patria  celeste,  avendo  finito  il  suo  raggiona- 
mento  con  Venere,  il  proposito  di  ballare  converse  in  pro- 
ponimento di  fare  il  gran  conseglio  con  gli  dei  de  la  tavola 
ritonda;  cioè  tutti  quei  che  non  sono  apposticci,  ma  na- 
turali, ed  han  testa  di  conseglio,  esclusi  gli  capi  di  montone 
corna  di  bue,  barbe  di  capro,  orecchie  d'asino,  denti  di 
cane,  occhi  di  porco,  nasi  di  simia,  fronti  di  becco,  sto- 
machi di  gallina,  pancle  di  cavallo,  piedi  di  mulo  e  code 
di  scorpione.  Però,  data  la  crlda  per  bocca  di  Miseno, 
figlio  di  Eolo  (perchè  Mercurio  sdegna  l'essere,  come  an- 
ticamente fue,  trombettiero  e  pronunziator  di  editto), 
que'  tutti  dei,  ch'erano  dispersi  per  il  palagglo,  si  trovorno 
ben  presto  radunati.  Qua  dopo  tutti,  essendo  fatto  alquanto 
di  silenzio,  non  men  con  triste  e  mesto  aspetto,  che  con 
alta  presenza  e  preeminenza  maestrale,  menando  i  passi 
Giove,  prima  che  montasse  in  solio  e  comparisse  in  tri- 
bunale, se  gli  appresenta  Momo;  il  quale,  con  la  solita 
libertà  di  parlare,  disse  cossi  con  voce  tanto  bassa,  che  fu 
da  tutti  udita:  —  Questo  concilio  deve  essere  differito 
ad  altro  giorno  e  altra  occasione,  o  padre,  perchè  questo 
umore  di  venir  in  conclave  adesso,  inmediate  dopo  pranso 
pare  che  sia  occasionato  dalla  larga  mano  del  tuo  genero 
copplero;  perchè  il  nettare,  che  non  può  essere  dal  sto- 
maco ben  digerito,  non  consola  o  refocilla,  ma  altera   e 


(1)  Seconda  parte   del  primo  Dialogo. 


II.  —  Gli   Dei  a  consiglio  89 

contrista  la  natura  e  perturba  la  fantasia,  facendo  altri 
senza  proposito  gai,  altri  disordinatamente  allegri,  altri 
superstiziosamente  devoti,  altri  vanamente  eroici,  altri 
colerici,  altri  machinatori  di  gran  castegli,  sin  tanto  che, 
col  svanimento  di  medesime  fumositadi,  che  passano  per 
diversamente  complessionati  cervelli,  ogni  cosa  casca  e  va 
in  fumo.  A  te.  Giove,  par  che  abbia  commosse  le  specie  di 
gagliardi  e  fluttuanti  pensieri,  e  t'abbia  fatto  dovenir 
triste;  per  ciò  che  inescusabilmente  ognuno  ti  giudica, 
benché  io  solo  ardisca  di  dirlo,  vinto  e  oppresso  da  l'atra 
bile,  perchè  in  questa  occorrenza,  che  non  siamo  conve- 
nuti provisti  a  far  conseglio,  in  questa  occasione,  che 
siamo  uniti  per  la  festa,  in  questo  tempo  dopo  pranso, 
e  con  queste  circostanze  d'aver  ben  mangiato  e  meglio 
^bevuto,  volete  trattar  di  cose  tanto  seriose,  quanto  mi  par 
intendere  e  alcunamente  posso  annasare  col  discorso. — 
Ora,  perchè  non  è  consuetudine,  né  pur  molto  lecito  agli 
altri  dei  di  disputar  con  Momo,  Giove,  avendolo  con  un 
mezzo  e  alquanto  dispettoso  riso  remirato,  senza  punto 
rispondergli,  monta  su  l'alta  catedra,  siede,  remira  in 
cerchio  la  corona  de  l'assistente  gran  senato.  Da  qual 
sguardo  convien  ch'a  tutti  venesse  a  palpitar  il  core  e  per 
scossa  di  maraviglia  e  per  punta  di  timore  e  per  empito  di 
riverenza  e  di  rispetto,  che  suscita  ne'  petti  mortali  e  im- 
mortali la  maestade,  quando  si  presenta;  appresso,  avendo 
alquanto  bassate  le  palpebre,  e  poco  dopo  allunate  le  pu- 
pille in  alto,  e  sgombrato  un  focoso  suspiro  dal  petto, 
proruppe  in  questa  sentenza: 


Orazione  di  Giove. 

—  Non  aspettate,  o  Dei,  che,  secondo  la  mia  consue- 
tudine, v'abbia  ad  intonar  ne  l'orecchio  con  uno  artifi- 
cioso proemio,  con  un  terso  filo  di  narrazione  e  con  un  de- 
lettevole  agglomeramento  epilogale.  Non  sperate  ornata 
tessitura  di  paroli,  ripolita  infìlacciata  di  sentenze,  ricco 
apparato  de  eleganti  propositi,  suntuosa  pompa  di  eia- 


90  Parie  seconda 

borati  discorsi  e,  secondo  l'instituto  di  oratori,  concetti 
posti  tre  volte  a  la  lima,  prima  ch'una  volta  a  la 
lingua:  non  hoc 

Non  hoc  ista  sibi  tempas  spectacula  poscit. 

Credetemi,  Dei,  perchè  crederete  il  vero;  già  dodici 
volte  ha  ripiene  l'inargentate  corna  la  casta  Lucina,  ch'io 
son  stato  in  la  determinazione  di  far  questa  congregazione 
oggi,  in  questa  ora  e  con  tai  termini,  che  vedete.  E  in 
questo  mentre  son  stato  più  occupato  sul  considerar  quello 
che  devo  a  nostro  malgrado  tacere,  che  mi  sia  stato  lecito 
di  premeditar  sopra  quello  che  debbo  dire.  Odo  che  vi 
maravigliate,  perchè  a  questo  tempo,  rlvocandovi  da  vo- 
stro spasso,  v'abbia  fatto  citar  alla  congregazione  e  dopo 
pranso  a  subitanio  concilio.  Vi  sento  mormorare,  che  in 
giorno  festivo  vi  vien  tocco  il  core  di  cose  seriose,  e  non 
è  di  voi  chi  a  la  voce  de  la  tromba  e  proposito  de  l'editto 
non  sia  turbato.  Ma  io,  benché  la  raggione  di  queste  azioni 
e  circostanze  pende  dal  mio  volere,  che  l'ha  possuto  in- 
stituire,  e  la  mia  voluntà  e  decreto  sia  l'istessa  raggione 
de  la  giustizia,  tutta  volta  non  voglio  mancar,  prima  che 
proceda  ad  altro,  di  liberarvi  da  questa  confusione  e  ma- 
raviglia. Tardi,  dico,  gravi  e  pesati  denno  essere  gli  pro- 
ponimenti; maturo,  secreto  e  cauto  deve  essere  il  conseglio; 
ma  l'essecuzlone  bisogna  che  sia  alata,  veloce  e  presta. 
Però  non  credete,  che  intra  il  desinare  qualche  strano 
umore  m'abbia  talmente  assalito  che,  dopo  pranso,  mi 
tegna  legato  e  vinto,  onde  non  a  posta  di  raggione,  ma  per 
impeto  di  nettareo  fumo  proceda  a  l'azione;  ma  dal  me- 
desimo giorno  de  l'anno  passato  cominciai  a  consultar 
entro  di  me  quel  tanto,  che  dovevo  esseguire  in  questo 
giorno  ed  ora.  Dopo  pranso,  dunque,  perchè  le  nove  triste 
non  è  costume  d'apportarle  a  stomaco  diggiuno;  all'im- 
provviso, perchè  so  multo  bene  che  non  cossi  come  alla 
festa  solete  convenir  volentieri  al  conseglio,  il  quale  è 
intensissimamente  da  molti  di  voi  fuggito:  mentre  chi 
lo  teme  per  non  farsi  di  nemici,  chi  per  incertezza  di  chi 
vince  e  di  chi  perde,  chi  per  timore  ch'il  suo  consiglio  non 


II.  -  Gli  Dei  a  consiglio  91 

sia  tra'  dispregglati,  chi  per  dispetto  per  quel,  che  il  suo 
parere  tal  volta  non  è  stato  approvato,  chi  per  mostrarsi 
neutrale  nelle  cause  pregiudiciose  o  de  l'una  ode  l'altra 
parte,  chi  per  non  aver  occasione  d'aggravarsi  la  con- 
scienza; chi  per  una,  chi  per  un'altra  causa. 

Or  vi  ricordo,  o  fratelli  e  figli,  che  a  quelli,  ai  quali  il 
fato  ha  dato  di  posser  gustar  l'ambrosia  e  bevere  il  net- 
tare e  goder  il  grado  della  maestade,  è  ingionto  ancora  di 
comportar  tutte  gravezze,  che  quella  apporta  seco.  1 1 
diadema,  la  mitra,  la  corona,  senza  aggravarla,  non  ono- 
rano la  testa;  il  manto  regale  e  il  scettro  non  adornano  senza 
impacciar  il  corpo.  Volete  sapere  per  che  io  a  ciò  abbia 
impiegato  il  giorno  di  festa,  e  specialmente  tale,  quale  è 
la  presente?  Pare  a  voi,  dunque,  pare  a  voi,  che  sia  degno 
giorno  di  festa  questo?  E  credete  voi,  che  questo  non  deve 
essere  il  più  tragico  giorno  di  tutto  l'anno?  Chi  di  voi, 
dopo  ch'arra  ben  pensato,  non  giudicare  cosa  vituperosis- 
sima di  celebrar  le  commemorazion  de  la  vittoria  contra 
gli  giganti  a  tempo  che  dagli  sorgi  de  la  terra  siamo  di- 
spreggiati  e  vilipesi  ?  Oh  che  avesse  piaciuto  a  l'onnipo- 
tente irrefragabil  fato,  che  allora  fussemo  stati  discacciati 
dal  cielo,  quando  la  nostra  rotta  per  la  dignità  e  virtìi  de* 
nemici  non  era  vituperosa  tanto;  perchè  oggi  siamo  nel 
cielo  peggio  che  se  non  vi  fussemo,  peggio  che  se  ne  fus- 
semo stati  discacciati,  atteso  che  quel  timor  di  noi,  che  ne 
rendea  tanto  gloriosi,  è  spento;  la  gran  riputazione  de  la 
maestà,  providenza  e  giustizia  nostra  è  cassa;  e,  quel  che 
è  peggio,  non  abbiamo  facultà  e  forza  di  riparar  al  nostro 
male,  di  vendicar  le  nostre  onte;  perchè  la  giustizia, 
con  la  quale  il  fato  governa  gli  governatori  del  mondo  ne 
ha  a  fatto  tolta  quella  autorità  e  potestà  la  quale  abbiamo 
tanto  male  adoperata,  discoperti  e  nudati  avanti  gli  occhi 
di  mortali  e  fattigli  manifesti  inostri  vituperii;  e  fa  che  il 
cielo  medesimo  con  cossi  chiara  evidenza,  come  chiare 
ed  evidenti  son  le  stelle,  renda  testimonianza  de'  misfatti 
nostri.  Perchè  vi  si  vedeno  aperto  gli  frutti,  le  reliquie, 
gli  riporti,  le  voci,  le  scritture,  le  istorie  di  nostri  adulterii, 
incesti,  fornicazioni,  ire,  sdegni,  rapine  e  altre  iniquitadi 


92  Parte  seconda 

e  delitti,  e  che,  per  premio  di  errori,  abbiamo  fatto  mag- 
giori errori,  malzando  al  cielo  i  trionfi  de'  vizii  e  sedie 
de  sceleragini,  lasciando  bandite,  sepolte  e  neglette  ne 
l'inferno  le  virtudi  e  la  giustizia. 

E  per  cominciare  da  cose  minori,  come  da  peccati  ve- 
niali: perchè  solo  il  Deltaton,  dico  quel  triangolo, 
he  ottenute  quattro  stelle  appresso  il  capo  di  Medusa, 
sotto  le  natiche  di  Andromeda  e  sopra  le  corna  del  Mon- 
tone? Per  far  vedere  la  parzialità,  che  si  trova  tra  gli  dei. 
Che  fa  il  Delfino,  gionto  al  Capricorno  da  la  parte  set- 
tentrionale, impadronito  di  quindeci  stelle?  Vi  è,  a  fine 
che  si  possa  contemplar  l'assumpzione  di  colui,  che  è 
stato  buon  senzale,  per  non  dir  ruffiano,  tra  Nettuno  e 
Amfitrite.  Perchè  le  sette  figlie  d'Atlante  soprasiedeno 
appresso  il  collo  del  bianco  Toro?  Per  essersi,  con  lesa 
maestà  di  noi  altri  dei,  vantato  il  padre  di  aver  sostenuti 
noi  e  il  cielo  rumante;  o  pur  per  aver  in  che  mostrar  la 
sua  leggerezza  i  numi,  che  vi  l'han  condotte.  Perchè  Giu- 
none ha  ornato  il  Granchio  di  nove  stelle,  senza  le  quat- 
tro altre  circonstanti,  che  non  fanno  imagine?  Solo  per 
un  capriccio,  perchè  forficò  il  tallone  ad  Alcide  a  tempo 
che  combatteva  con  quel  gigantone.  Chi  mi  saprà  dar 
altra  caggione  che  il  semplice  e  irrazionai  decreto  de'  superi 
perchè  il  Serpentauro,  detto  da  noi  Greci  Ofiulco,  ottiene 
con  la  sua  colobnna  il  campo  di  trentasei  stelle  P  Qual 
grave  ed  oportuna  caggione  fa  al  Sagittario  usurparsi 
trenta  e  una  stella?  Perchè  fu  figlio  di  Euschemia,  la  quale 
fu  nutnccia  o  baila  de  le  Muse.  Perchè  non  più  tosto  a  la 
madre  .^  Perchè  lui  oltre  seppe  ballare  e  far  i  giuochi  de 
le  bagattelle.  Aquario,  perchè  ha  quaranta  cinque  stelle 
appresso  il  Capricorno?  Forse,  perchè  salvò  la  figlia  di 
Venere  Facete  nel  stagno P  Perchè  non  altri,  agli  quali 
noi  Dei  siamo  tanto  ubligati,  che  sono  sepolti  in  terra, 
ma  più  tosto  costui  ch'ha  fatto  un  serviggio  indegno  di 
tsmta  ricompensa,  è  stato  conceduto  quel  spacio?  Perchè 
cossi  ha  piaciuto  a  Venere,  Gli  Pesci,  benché  meritino 
qualche  mercede  per  aver  dal  fiume  Eufrate  cacciato  quel 
l'ovo,  che,  covato  da  la  colomba,  ischiuse  la  misericordia 


II.   -  Gli  Dei  a  consiglio  93 

de  la  dea  di  Pafo,  tutta  volta  paionvi  soggetti  d'ottenlr 
rornamento  di  trentaquattro  stelle,  senza  altre  quattro 
circostanti,  e  abitare  fuor  de  l'acqui  nella  region  più  no- 
bile del  cielo?  Che  fa  Orione,  tutto  armato  a  scrimir  solo, 
con  le  spalancate  braccia,  impiastrato  di  trent'otto  stelle, 
ne  la  latitudine  australe  verso  il  Tauro?  Vi  sta  per  sem- 
plice capriccio  di  Nettuno,  a  cui  non  ha  bastato  di  privi- 
legiarlo su  l'acqui,  dove  ha  il  suo  legitimo  imperio;  ma 
oltre,  fuor  del  suo  patrimonio,  si  vuol  con  sì  poco  pro- 
posito prevalere.  La  Lepre,  il  Cane  e  la  Cagnolina  sa- 
pete ch'hanno  quarantatre  stelle  ne  la  parte  meridionale, 
non  per  altro,  che  per  due  o  tre  frascarie  non  minori  che 
quella,  che  vi  fa  essere  appresso  la  Idra,  la  Tassa  e  il 
Corvo,  che  ottegnono  quarant'e  una  stella,  per  memoria 
di  quel  che  mandaro  una  volta  gli  dei  il  Corvo  a  prender 
l'acqua  da  bere;  il  qual  per  il  camino  vedde  un  fico,  che 
avea  le  fiche  o  gli  fichi  (perchè  l'uno  e  l'altro  geno  è  ap- 
provato da'  grammatici,  dite  come  vi  piace):  per  gola 
quell'ucello  aspettò,  che  fussero  maturi,  de'  quali  alfine 
essendosi  pasciuto,  si  ricordò  de  l'acqua;  andò  per  empir 
la  lancella,  veddevi  il  dragone,  habbe  paura;  e  ritornò 
con  la  giarra  vota  agli  dei:  li  quali,  per  far  chiaro  quanto 
hanno  ben  impiegato  l'ingegno  e  il  pensiero,  hanno  de- 
scritta in  cielo  questa  isturia  di  sì  gentile  e  accomodato 
servitore.  Vedete  quanto  bene  abbiamo  speso  il  tempo, 
l'inchiostro  e  la  carta.  La  Corona  austnna,  che  sotto  l'arco 
e'  piedi  di  Sagittario  si  vede  ornata  di  tredeci  topacii 
lucenti,  chi  l'ha  predestinata  ad  essere  eternamente  senza 
testa?  Che  bel  vedere  volete  voi  che  sia  di  quel  pesce, 
Nozio,  sotto  gli  piedi  d 'Aquario  e  Capricorno,  distinto 
in  dodici  lumi,  con  sei  altri,  che  gli  sono  incirca?  De 
l'Altare,  o  turribulo  o  fano  o  sacrario,  come  vogliamo  dire, 
io  non  parlo;  perchè  giamai  li  convenne  cossi  bene  d'essere 
in  cielo,  se  non  ora,  che  quasi  non  ha  dove  essere  in  ter- 
ra; ora  vi  sta  bene,  come  una  reliquia,  o  pur  come  una 
tavola  della  sommersa  nave  de  la  religion  e  colto  di  noi. 
Del  Capricorno  non  dico  nulla  perchè  mi  par  dignis- 
simo  d'ottenere  il  cielo,  per  averne  fatto  tanto  beneficio. 


94  Parte  seconda 

insegnandoci  la  ricetta,  con  cui  potessimo  vencere  il 
Pitone;  perchè  bisognava,  che  gli  dei  si  trasformassero 
in  bestie,  se  volevano  aver  onor  di  quella  guerra:  e  ne  ha 
donata  dottrma,  facendoci  sapere  che  non  si  può  man- 
tener superiore  chi  non  si  sa  far  bestia.  Non  parlo  de  la 
Vergine;  perchè,  per  conservar  la  sua  verginità,  in  nes- 
sun loco  sta  sicura,  se  non  in  cielo,  avendo  da  qua  un 
Leone  e  da  là  un  Scorpione  per  sua  guardia.  La  pove- 
rina è  fuggita  da  terra,  perchè  l'eccessiva  libidine  de  le 
donne,  le  quali,  quando  più  son  pregne,  tanto  più  so- 
gliono appetere  il  coito,  fa  che  non  sia  sicura  di  non  esser 
contaminata,  anco  se  si  trovasse  nel  ventre  de  la  madre; 
però  goda  gli  suoi  ventisei  carbuncoli  con  quelli  altri  sei, 
che  li  sono  intorno.  Circa  l'intemerata  maestà  di  quei 
doi  Asini,  che  luceno  nel  spacio  di  Cancro,  non  oso  dire, 
perchè  di  questi  massimamente  per  dritto  e  per  raggione 
è  il  regno  del  cielo;  come  con  molte  efficacissime  raggioni 
altre  volte  mi  propone  di  mostrarvi,  perchè  di  tanta  ma- 
teria non  ardisco  parlare  per  modo  di  passaggio.  Ma  di 
questo  sol  mi  doglio  e  mi  lamento  assai,  che  questi  divini 
animali  sieno  stati  sì  avaramente  trattati,  non  facendogli 
essere,  come  in  casa  propria,  ma  nell'ospizio  di  quel  re- 
trogrado animale  aquatico,  e  non  munerandoli  più  che 
de  la  miseria  di  due  stelle,  donandone  una  a  l'uno  e  l'altra 
a  l'altro;  e  quelle  non  maggiori  che  de  la  quarta  grandezza. 

De  l 'Altare,  dunque,  Capricorno,  Vergine  e  Asini 
(benché  prendo  a  dispiacere,  ch'ad  alcuni  di  questi,  non 
essendo  lor  trattati  secondo  la  dignità,  in  loco  di  essere 
fatto  onore,  forse  gli  è  stata  fatta  ingiuria)  or  al  presente 
non  voglio  definir  cosa  alcuna;  ma  torno  agli  altri  sup- 
positi,  che  vanno  per  la  medesima  bilancia  con  gli  sopra- 
detti. 

Non  volete  voi,  che  murmurino  gli  altri  fiumi,  che  sono 
in  terra,  per  il  torto  che  gli  vien  fatto?  Atteso  che,  qual 
raggion  vuole  che  più  tosto  l'Eridano  deve  aver  le  sue 
trenta  e  quattro  lucciole,  che  si  veggono  citra  e  oltre  il 
tropico  di  Capricorno,  più  tosto  che  tanti  altri  non  meno 
degni  e  grandi,  e  altri  più  degni  e  maggiori?  Pensate  che 


li.  -  Gli  Dei  a  consiglio  93 


basta  dire  che  le  sorelle  di  Fetone  v'abbiano  la  stanza  P 
0  forse  volete,  che  vegna  celebrato,  perchè  ivi  per  mia 
mano  cadde  il  fulminato  figlio  d'Apollo,  per  aver  il  padre 
abusato  del  suo  ufficio,  grado  e  autoritade?  Perchè  il 
cavallo  di  Bellerofonte  è  montato  ad  investirsi  de  vinti 
stelle  in  cielo,  essendo  che  sta  sepolto  in  terra  il  suo  ca- 
valcatore? A  che  proposito  quella  saetta,  che  per  il  splen- 
dor di  cinque  stelle,  che  tiene  inchiodate,  luce  prossima 
a  l'Aquila  e  Delfino?  Certo,  che  se  gli  fa  gran  torto, 
che  non  stia  vicina  al  Sagittario,  a  fin  che  se  ne  possa 
servire,  quando  arra  tirato  quella,  che  tiene  in  punta; 
o  pur  non  appaia  in  parte,  dove  possa  rendere  qualche 
raggion  di  sé.  Appresso  bramo  intendere,  tra  il  spoglio 
del  Leone  e  la  testa  di  quel  bianco  e  dolce  Cigno,  che  fa 
quella  lira  fatta,  di  corna  di  bue  in  forma  di  testugine: 
vorrei  sapere,  se  la  vi  dimore  per  onor  de  la  testugine, 
o  de  le  corna,  o  de  la  lira,  pur  perchè  ognun  veda  la 
maestria  di  Mercurio,  che  l'ha  fatta,  per  testimonio,  de 
la  sua  dissoluta  e  vana  iattanzia  ? 

Ecco,  o  Dei,  l'opre  nostre;  eccole  egregie  nostre  mani- 
fatture, con  le  quali  ne  rendemo  onorati  al  cielo!  Vedete 
che  belle  fabriche,  non  molto  dissimili  a  quelle,  che  so- 
gliono far  gli  fanciulli,  quando  contrattano  la  luta,  la  pa- 
sta, le  biscuglie,  le  frasche  e  festuche,  tentando  d'imitare 
l'opre  di  maggiori!  Pensate,  che  non  doviamo  ren- 
der raggione  e  conto  di  queste?  Possete  persuadervi, 
che  de  l'opre  ociose  sarremo  meno  richiesti,  interrogati, 
giudicati  e  condannati,  che  dell'ociose  paroli?  La  dea 
Giustizia,  la  dea  Temperanza,  la  dea  Constanza,  la  dea 
Liberalitade,  le  dea  Pazienza,  la  dea  Veritade,  la  dea 
Mnemosine,  la  dea  Sofia  e  tante  altre  dee  e  dei  vanno 
banditi,  non  solo  dal  cielo,  ma  e  oltre  da  la  terra;  e  in 
loco  loro  e  negli  eminenti  palaggi,  edificati  da  l'alta  Pre- 
videnza per  residenza  loro,  vi  si  veggono  delfìni,  capre, 
corvi,  serpenti  ed  altre  sporcarie,  levitadi,  capricci  e  le- 
gerezze.  Se  vi  par  questa  cosa  inconveniente,  e  ne  tocca  il 
rimorso  de  la  conscienza  per  il  bene  che  non  abbiamo 
fatto;  quanto  più  dovete  meco  considerare,  che  doviamo 


96  Parte  seconda 

esser  punti  e  trafitti  per  le  gravissime  sceleragini  e  delitti, 
che  comessi  avendone,  non  solamente  non  ne  siamo  ri- 
pentiti ed  emendati,  ma  oltre  ne  abbiamo  celebrati  trionfi, 
e  drizzati  come  trofei,  non  in  un  fano  labile  e  ruinoso, 
non  in  tempio  terrestre,  ma  nel  cielo  e  nelle  stelle  eterne. 
Si  può  patire,  o  dei,  e  facilmente  si  condona  agli  errori, 
che  son  per  fragilità  e  per  non  molto  giudiciosa  levità; 
ma  qual  misericordia,  qual  pietade  può  rivoltarsi  a  quelli, 
che  son  commessi  da  color,  che,  essendone  posti  presi- 
denti nella  giustizia,  in  mercede  di  criminalissimi  errori, 
contribuiscono  maggiori  errori  con  onorare,  premiar  ed 
essaltar  al  cielo  gli  delitti  insieme  con  gli  delinquenti? 
Per  qual  grande  e  virtuoso  fatto  Perseo  hav'ottenuto  vin- 
tesei  stelle?  Per  aver  con  gli  talari  e  scudo  di  cristallo, 
che  lo  rendeva  invisibile,  in  serviggio  de  l'infunata  Mi- 
nerva ammazzate  le  Gorgoni  che  dormivano,  e  presen- 
tatogli il  capo  di  Medusa.  E  non  ha  bastato  che  vi  fusse 
lui,  ma  per  lunga  e  celebre  memoria  bisognava  che  vi 
comparisse  la  moglie  Andromeda  con  le  sue  vintitre,  il 
suo  genero  Cefeo,  con  le  sue  tredeci,  ch'espose  la  figlia 
innocente  alla  bocca  del  Ceto  per  capriccio  di  Nettuno, 
adirato  solamente  perchè  la  sua  madre  Cassiopea  pen- 
sava essere  più  deliache  le  Nereidi.E  però  anco  la  madre 
vi  si  vede  residente  in  catedra,  ornata  di  tredeci  altre  stelle, 
ne'  confini  de  l'Artico  circolo.  Quel  padre  di  agnelli  con 
la  lana  d'oro,  con  le  sue  diece  e  otto  stelle,  senza  l'altre 
sette  circostanti,  che  fa  baiando  sul  punto  equinoziale? 
E  forse  ivi  per  predicar  la  pazzia  e  sciocchezza  del  re  di 
Colchl,  l'impudicizia  di  Medea,  la  libidinosa  temeritade 
di  Giasone  e  l'iniqua  previdenza  di  noi  altri?  Que'  doi 
fanciulli,  che  nel  signifero  succedeno  al  Toro,  compresi 
da  diece  e  otto  stelle,  senza  altre  sette  circonstanti  informi, 
che  mostrano  di  buono  o  di  bello  in  quella  sacra  sedia, 
eccetto,  che  il  reciproco  amore  di  doi  bardassi?  Per  qual 
raggione  il  Scorpione  ottiene  il  premio  di  venti  e  una  stelle, 
senza  le  otto,  che  son  ne  le  chele,  e  le  nove,  che  sono  circa 
lui,  e  tre  altri  informi?  Per  premio  d'un  omicidio  ordi- 
nato dalla  leggerezza  ed  invidia  di  Diana,  che  gli  fece 


II.  -  Gli  Dei  a  consiglio  97 

uccidere  Temulo  cacciator  Orione.  Sapete  bene  che  Chi- 
rone  con  la  sua  bestia  ottiene  nella  australe  latitudine 
del  cielo  sessanta  e  sei  stelle  per  esser  stato  pedante  di 
quel  figlio,  che  nacque  dal  stupro  di  Peleo  e  Teti. 

Sapete  che  la  corona  di  Ariadna,  nella  quale  risplen- 
deno  otto  stelle,  ed  è  celebrata  là,  avanti  il  petto  di  Boote 
e  le  spire  de  l'angue,  non  v'è  se  non  in  commemorazione 
perpetua  del  disordinato  amor  del  padre  Libero,  che 
s'imbracciò  la  figlia  del  re  di  Creta,  rigettata  dal  suo  stu- 
prator  Teseo. 

Quel  Leone,  che  nel  core  porta  il  basilisco  e  che  ottiene 
il  campo  di  trenta  e  cinque  stelle,  che  fa  continuo  al  Can- 
cro? Evi  forse  per  esser  gionto  a  quel  suo  commilitone  e 
suo  conservo  de  l'irata  Giunone,  che  lo  apparecchiò  va- 
statore  del  Cleoneo  paese,  a  fine  che,  a  mal  grado  di  quello 
aspettasse  l'advenimento  del  strenuo  Alcide?  Ercole 
invitto,  laborioso  mio  figlio,  che  col  suo  spoglio  di  leone 
e  la  sua  mazza  par  che  si  difenda  le  vinti  e  otto  stelle, 
quali  con  più  che  mai  altri  abbia  fatto  tanti  gesti  eroici 
s'ha  meritate,  pure,  a  dire  il  vero,  non  mi  par  conveniente 
che  tegna  quel  loco,  onde  il  suo  geno  pone  avanti  gli 
occhi  della  giustizia  il  torto  fatto  al  nodo  coniugale  della 
mia  Giunone  per  me  e  per  la  pellice  Megara,  madre  di 
lui.  La  nave  di  Argo,  nella  quale  sono  inchiodate  quaran- 
tacinque risplendenti  stelle,  ne  l'ampio  spacio  vicino  al 
circolo  Antartico,  evi  ad  altro  fine,  che  per  eternizare  la 
memoria  del  grande  errore,  che  commese  la  saggia  Mi- 
nerva, che  mediante  quella  instituì  gli  primi  pirati  a  fine 
che,  non  meno  che  la  terra,  avesse  gli  suoi  solleciti  preda- 
tori il  mare?  E  per  tornar  là,  dove  s'intende  la  cintura 
del  cielo,  perchè  quel  bove,  verso  il  principio  del  zodiaco, 
ottiene  trenta  e  due  chiare  stelle,  senza  quella  ch'è  nella 
punta  del  corno  settentrionale,  e  undeci  altre,  che  son 
chiamate  informi  P  Per  ciò  che  è  quel  Giove  (oimè!)  che 
rubbò  la  figlia  ad  Agenore,  la  sorella  a  Cadmo.  Che  Aquila 
è  quella,  che  nel  firmamento  s'usurpa  l'atrio  di  quindeci 
stelle,  oltre  Sagittario  verso  il  polo?  Lasso,  è  quel  Giove, 
che  ivi  celebra  il  trionfo  del  rapito  Ganimede  e  di  quelle 


98  Parte  seconda 

vittoriose  fiamme  ed  amori.  Quella  Orsa,  quella  Orsa,  o 
Dei,  perchè  nella  più  bella  ed  emmente  parte  del  mondo, 
come  in  una  alta  specola,  come  in  una  più  aprica  piazza 
e  più  celebre  spettacolo,  che  ne  l'universo  presentarsi 
possa  agli  occhi  nostri,  è  stata  messa?  Forse  a  fine  che  non 
sia  occhio,  che  non  veda  l'incendio  ch'assalse  il  padre 
degli  dei  appresso  l'incendio  de  la  terra  per  il  carro  di 
Fetonte,  quando  in  quel  mentre,  ch'andavo  guardando 
le  rulne  di  quel  foco,  e  riparando  a  quelle  con  richiamar 
i  fiumi,  che  timidi  e  fugaci  erano  ristretti  a  le  caverne,  e 
ciò  effettuando  nel  mio  diletto  Arcadio  paese:  ecco,  altro 
fuoco,  m'accese  il  petto,  che,  dal  splendor  del  volto  de  la 
vergine  Nonacrma  procedendo,  passommi  per  gli  occhi, 
scorsemi  nel  core,  scaldommi  l'ossa,  e  penetrommi  dentro 
le  midolla;  di  sorte,  che  non  fu  acqua  ne  rimedio,  che  po- 
tesse dar  soccorso  e  refrigerio  all'incendio  mio.  In  questo 
foco  fu  il  strale,  che  mi  trafisse  il  core,  il  laccio,  che  mi 
legò  l'alma,  e  l'artiglio,  che  mi  tolse  a  me,  e  diemmi  in 
preda  alla  beltà  di  lei.  Commesi  il  sacrilego  stupro,  violai 
la  compagnia  di  Diana,  e  fui  a  la  mia  fidelissima  consorte 
ingiurioso,  per  la  quale  in  forma  e  specie  d'una  Orsa  pre- 
sentandomise  la  bruttura  del  fedo  eccesso  mio,  tanto 
si  manca  che  da  quella  abominevol  vista  io  concepesse 
orrore,  che  sì  bello  mi  parve  quel  medesimo  mostro,  e  sì 
mi  soprapiacque,  che  volsi  ch'il  suo  vivo  ritratto  fusse  es- 
saltato nel  più  alto  e  magnifico  sito  de  l'architetto  del 
cielo:  quell'errore,  quella  bruttezza,  quell'orribil  macchia, 
che  sdegna  ed  abomina  lavar  l'acqua  de  l'Oceano,  che 
Teti,  per  tema  di  contaminar  l'onde  sue,  non  vuol  che 
punto  s'avicine  verso  la  sua  stanza,  Dictinna,  l'ha  vie- 
tato l'ingresso  di  suoi  deserti  per  tema  di  profanar  il  sacro 
suo  collegio,  e  per  la  medesima  caggione  gli  niegano  i 
fiumi  le  Nereidi  e  Ninfe.  Io,  misero  peccatore,  dico  la  mia 
colpa,  dico  la  mia  gravissima  colpa  in  conspetto  de  l'inte- 
merata absoluta  giustizia,  e  vostro,  che  sin  al  presente  ho 
molto  gravemente  peccato,  e  per  il  mal  essempio  ho  por- 
giuta  ancor  a  voi  permissione  e  facultà  di  far  il  simile; 
e  con  questo  confesso  che  degnamente  io  insieme  con  voi 


II.   -  Gli  Dei  a  consiglio  99 

siamo  incorsi  il  sdegno  del  fato,  che  non  ne  fa  più  essere 
riconosciuti  per  dei,  e  mentre  abbiamo  a  le  sporcarie  de 
la  terra  conceduto  il  cielo,  ha  dispensato  ch'a  noi  fussero 
cassi  gli  tempii,  imagini  e  statue,  ch'avevamo  in  terra; 
a  fine  che  degnamente  da  alto  vegnano  depressi  quelli, 
quali  indegnamente  han  messe  in  alto  le  cose  vili  e  basse. 

Oimè,  Dei,  che  facciamo?  Che  pensiamo?  Che  indug- 
giamo?  Abbiamo  prevaricato,  siamo  stati  perseveranti 
negli  errori,  e  veggiamo  la  pena  gionta  e  continuata  con 
l'errore.  Provedemo,  dunque,  provedemo  a'  casi  nostri; 
perchè,  come  il  fato  ne  ha  negato  il  non  posser  cadere, 
cossi  ne  ha  conceduto  il  possere  risorgere;  però,  come 
siamo  stati  pronti  al  cascare  cossi  anco  siamo  apparecchiati 
a  rimetterci  sugli  piedi.  Da  quella  pena,  ne  la  quale  me- 
diante l'errore  siamo  incorsi,  e  peggior  della  quale  ne  po- 
trebe  sopravenire,  mediante  la  riparazione,  che  sta  ne  le 
nostre  mani,  potremo  senza  difficultade  uscire.  Per  la  ca- 
tena degli  errori  siamo  avinti;  per  la  mano  della  giustizia 
ne  disciogliamo.  Dove  la  nostra  levità  ne  ha  deprimuti, 
indi  bisogna  che  la  gravità  ne  inalze.  Convertiamoci  alla 
giustizia,  dalla  quale  essendo  noi  allontanati,  siamo  al- 
lontanati da  noi  stessi;  di  sorte,  che  non  siamo  più  dei, 
non  siamo  noi.  Ritorniamo  dunque  a  quella,  se  vogliamo 
ritornare  a  noi. 

L'ordine  e  maniera  di  far  questo  riparam.ento  è,  che 
prima  togliamo  da  le  nostre  spalli  lagrieve  soma  d'errori, 
che  ne  trattiene;  rimoviamo  d'avanti  gli  nostri  occhi  il 
velo  de  la  poca  considerazione,  che  ne  impaccia;  isgom- 
bramo  dal  core  la  propria  affezione,  che  ne  ritarda;  git- 
tiam.o  da  noi  tutti  que'  vani  pensieri,  che  ne  aggravano; 
adattiamoci  a  demolire  le  machine  di  errori  ed  edificii  di 
perversitade,  che  impediscono  la  strada  ed  occupano  il 
camino;  cassiamo  e  annulliamo,  quanto  possibil  fia,  gli 
trionfi  e  trofei  di  nostri  facinorosi  gesti,  a  fine  che  appaia 
nel  tribunal  della  giustizia  verace  pentimento  di  commessi 
errori.  Su  su,  o  dei,  tolgansi  dal  cielo  queste  larve,  statue, 
figure,  imagini,  ritratti,  processi  e  istorie  de  nostre  avarizie 
libidini,  furti,  sdegni,  dispetti  ed  onte.  Che  passe  che  passe 


100  Parte   seconda 

questa  notte  atra  e  fosca  di  nostri  errori,  perchè  la  vaga 
aurora  del  novo  giorno  de  la  giustizia  ne  Invita;  e  dispo- 
niamoci di  maniera  tale  al  sole,  ch'è  per  uscire,  che  non  ne 
dlscuopra  cossi  come  siamo  immondi.  Bisogna  mondare 
e  renderci  belli;  non  solamente  noi,  ma  anco  le  nostre 
stanze  e  gli  nostri  tetti  fia  mestiero  che  sleno  puliti  e  netti; 
doviamo  Interiore  ed  esteriormente  ripurgarcl.  Disponia- 
moci, dico,  prima  nel  cielo,  che  intellettualmente  è  dentro 
di  noi,  e  poi  in  questo  sensibile,  che  corporalmente  si 
presenta  agli  occhi.  Togliemo  via  dal  cielo  de  l'animo 
nostro  l'Orsa  della  difformità,  la  Saetta  de  la  detrazione, 
l'Equlcolo  de  la  leggerezza,  il  Cane  de  la  murmurazione, 
la  Canicola  de  l'adulazione.  Bandiscasi  da  noi  l'Ercole  de 
la  violenza,  la  Lira  de  la  congiurazione,  11  Triangolo  de 
l'impietà,  il  Boote  de  l'incostanza,  il  Cefeo  de  la  durezza. 
Lungi  da  noi  il  Drago  de  l'invidia,  il  Cigno  de  l'impru- 
denza, la  Cassiopea  de  la  vanità,  l'Andromeda  de  la  de- 
sidia, il  Perseo  della  vana  sollecitudine.  Scacciamo  l'Ofìulco 
de  la  maldizione,  l'Aquila  de  l'arroganza,  il  Delfino  de  la 
libidine,  il  Cavallo  de  l'impazienza,  l'Idra  de  la  concupi- 
scenza. Togliemo  da  noi  il  Ceto  de  l'ingordiggia,  l'Orione 
de  la  fierezza,  il  Fiume  de  le  superflultadl,  le  Gorgone  de 
l'ignoranza,  la  Lepre  deivano  timore.  Non  ne  sia  oltre 
dentro  il  petto  l'Argo,  nave  de  l'avarizia,  la  Tazza  de  l'm- 
sobrletà,  le  Libra  de  l'iniquità,  il  Cancro  del  mal  regresso, 
il  Capricorno  de  la  decepzione.  Non  fia  che  ne  s'avicine 
il  Scorplo  de  la  frode,  il  Centauro  de  la  animale  affezione, 
l'Altare  de  la  superstizione,  la  Corona  de  la  superbia, 
il  Pesce  de  l'indegno  silenzio,  Con  questi  caggiano  gh 
Gemini  de  la  mala  familiaritade,  il  Toro  de  la  cura  di  cose 
basse,  l'Ariete  de  l'inconsiderazione,  il  Leone  de  la  ti- 
rannia, l'Aquario  de  la  dissoluzione,  la  Vergine  de  l'in- 
fruttuosa conversazione,  il  Sagittario  de  la  detrazione* 
Se  cossi,  o  Dei,  purgaremo  la  nostra  abitazione,  se  coss* 
renderemo  novo  il  nostro  cielo,  nove  saranno  le  costella 
zioni  ed  influssi,  nove  le  impressioni,  nove  le  fortune; 
perchè  da  questo  mondo  superiore  pende  il  tutto,  e  con- 
trarli effetti  sono  dependenti  da  cause  contrarie.  0  felici, 


II.   -  Gli   Dei  a  consiglio  101 

o  veramente  fortunati  noi,  se  faremo  buona  colonia  del 
nostro  animo  e  pensiero!  A  chi  de  voi  non  piace  il  pre- 
sente stato,  piaccia  il  presente  conseglio.  Se  voghamo 
mutar  stato,  cangiamo  costumi.  Se  vogliamo  che  quello 
sia  buono  e  meghore,  questi  non  sieno  simili  o  peggiori. 
Purghiamo  l'interiore  affetto,  atteso  che  da  l'informa- 
zione di  questo  mondo  interno  non  sarà  diffìcile  di  far 
progresso  alla  riformazione  di  questo  sensibile  ed  esterno. 
La  prima  purgazione,  o  dei,  veggio  che  la  fate,  veggio  che 
l'avete  fatta;  la  vostra  determinazione  io  la  veggio;  ho 
vista  la  vostra  determinazione,  la  è  fatta;  ed  è  subito 
fatta,  perchè  la  non  è  soggetta  a'  contrappesi  del 
tempo. 

Or  su,  procediamo  a  la  seconda  purgazione.  Questa  è 
circa  l'esterno,  corporeo,  sensibile  e  locato.  Però  bisogna, 
che  vada  con  certo  discorso,  successione  e  ordine;  però 
bisogna  aspettare,  conferir  una  cosa  con  l'altra,  comparar 
questa  raggione  con  quella,  prima  che  determinare;  at- 
teso che  circa  le  cose  corporali,  come  in  tempo  è  la  dispo- 
sizione, cossi  non  può  essere,  come  in  uno  instante,  l'es- 
secuzione.  Eccovi  dunque  il  termine  di  tre  giorni,  dove 
non  avete  da  decidere  e  determinare  infra  di  voi,  se  questa 
riforma  si  debbe  fare  o  non;  perchè  per  ordinanza  del 
fato,  subito  che  vi  l'ho  proposta,  insieme  l'avete  giudicata 
convenientissima,  necessaria  e  ottima;  e  non  in  segno 
esteriore,  figura  e  ombra,  ma  realmente  e  in  verità  veggio 
il  vostro  affetto,  come  voi  reciprocamente  vedete  il  mio; 
e  non  men  subito  eh  io  v  ho  tocco  l'orecchio  col  m.io  pro- 
ponimento, voi  col  splendor  del  consentimento  vostro 
m'avete  tocchi  gli  occhi.  Resta  dunque,  che  pensiate  e 
conferite  infra  di  voi  circa  la  maniera,  con  cui  s'ha  da  pro- 
vedere a  queste  cose,  che  si  toglieno  dal  cielo,  per  le  quali 
fìa  mestiero  procacciare  e  ordinar  altri  paesi  e  stanze;  e 
oltre,  come  s'hanno  da  empire  queste  sedie  a  fin  che  il 
cielo  non  rimanga  deserto,  ma  megliormente  colto  e  abi- 
tato che  prima.  Passati  che  saranno  gli  tre  giorni,  verrete 
premeditati  in  mia  presenza  circa  loco  per  loco  e  cosa  per 
cosa,  a  ciò  che,  non  senza  ogni  possibile  discussione,  con- 


102  Parte  seconda 

veniamo  il  quarto  giorno  a  determinare  e  pronunziar  la 
forma  di  questa  colonia.  Ho  detto. 

*     (1) 

Sofia.  Venuto  11  quarto  giorno,  ed  essendo  appunto 
l'ora  di  mezzo  dì,  convennero  di  bel  novo  al  conseglio 
generale,  dove  non  solamente  fu  lecito  d'esser  presenti 
gli  prefatl  numi  più  principali,  ma  oltre  tutti  quelli  altri, 
ai  quali  è  conceduto,  come  per  lege  naturale,  il  cielo.  Se- 
dente dunque  il  senato  e  popolo  degli  dei,  e  con  il  con- 
sueto modo  essendo  montato  sul  solio  di  safìro  inorato 
Giove,  con  quella  forma  di  diadema  e  manto  con  cui 
solamente  negli  sollennissimi  concilii  suol  comparire, 
rassettato  il  tutto,  messa  in  punto  d'attenzion  la  turba 
e  Indltto  alto  silenzio,  di  mianiera  che  gli  congregati 
sembravano  tante  statue  o  tante  pitture;  si  presenta  in 
m^ezzo  con  gli  suoi  ordini,  insegna  e  circonstanze  il  mio 
bel  nume,  Mercurio.  E,  gionto  avanti  il  conspetto  del 
gran  padre,  brevemente  annunziò,  interpretò  ed  espose 
quel  che  non  era  a  tutto  il  conseglio  occolto,  ma  che, 
per  servar  la  forma  e  decoro  de'  statuti,  bisogna  pronun- 
ziare: cioè,  com.e  gli  dei  erano  pronti  e  apparecchiati 
senza  simulazione  e  dolo,  ma  con  libera  e  spontanea 
voluntade,  ad  accettare  e  ponere  in  esecuzióne  tutto 
quello  che  per  il  presente  sinodo  verrebe  conchiuso, 
statuto  e  ordinato.  Il  che  avendo  dette,  si  voltò  agli 
circonstanti  dei,  e  gli  richiese  che  con  alzar  la  mano  fa- 
cessero aperto  e  ratificato  quel  tanto,  ch'in  nome  loro 
aveva  esposto  in  presenza  de  l'altitonante.  E  cossi  fu 
fatto. 

Appresso  apre  la  bocca  il  magno  Prctoparente,  e  fassi 
in  cotal  tenore  udire:  —  Se  gloriosa,  o  Dei,  fu  la  nostra 
vittoria  contra  gli  giganti,  che  In  breve  spacio  di  tempo 
risorsero  contra  di  noi,  che  erano  nemici  stranieri  ed 
aperti,  che  ne  combattevano  solo  da  l'Olimpo,  e  che  non 


(')  Terza  parte  del  primo  Dialogo. 


II.   -  Gli  Dei   a  consiglio  103 

possevano  ne  tentavano  altro,  che  de  ne  precipitar  dal 
cielo;  quanto  più  gloriosa  e  degna  sarà  quella  di  noi 
stessi,  li  quali  fummo  contra  lor  vittoriosi  ?  Quanto  pifi 
degna,  dico,  e  gloriosa  è  quella  di  nostri  affetti,  che 
tanto  tempo  han  trionfato  di  noi,  che  sono  nemici  do- 
mestici ed  interni,  che  ne  tiranneggiano  da  ogni  lato,  e 
che  ne  hanno  trcibalsati  e  smossi  da  noi  stessi  ?  Se  dunque 
di  festa  degno  ne  ha  parso  quel  giorno,  che  ne  partorì 
vittoria  tale,  di  quale  il  frutto  in  un  momento  disparve, 
quanto  più  festivo  dev'essere  questo,  di  cui  la  fruttuosa 
gloria  sarà  eviterna  per  gli  secoli  futuri  ?  Seguite,  dunque, 
d'essere  festivo  il  giorno  de  la  vittoria;  ma  da  quel  che 
si  diceva  de  la  vittoria  de'  giganti,  dicasi  de  la  vittoria 
degli  Dei,  perchè  in  esso  abbiamo  vinti  noi  medesimi. 
Instituiscasi  oltre  festivo  il  giorno  presente,  nel  quale 
si  npurga  il  cielo,  e  questo  sia  più  solenne  a  noi,  che 
abbia  mai  possuto  essere  agli  Egizii  la  trasmigrazione  del 
popolo  leproso,  e  agli  Ebrei  il  transito  dalla  Babilonica 
cattivitade.  Oggi  il  morbo,  la  peste,  la  lepra  si  bandisce 
dal  cielo  agli  deserti;  oggi  vien  rotta  quella  catena  di  de- 
litti e  fracassato  il  ceppo  degli  errori,  che  ne  ubligano  al 
castigo  eterno.  Or  dunque,  essendo  voi  tutti  di  buona 
voglia  per  procedere  a  questa  riforma,  e  avendo,  come 
intendo,  tutti  premeditato  il  modo,  con  cui  si  debba  e 
possa  venire  al  fatto;  acciò  che  queste  sedie  non  rima- 
gnano disabitate,  e  agli  trasmigranti  sieno  ordinati  luoghi 
convenienti,  io  cominciar©  a  dire  il  mio  parere  circa 
uno  per  uno;  e  prodotto  che  sarà  quello,  se  vi  parrà  degno 
d'essere  approvato,  ditelo;  se  vi  sembrarà  inconveniente, 
esplicatevi:  se  vi  par  che  si  possa  far  meglio,  dechiaratelo* 
se  da  quello  si  deve  togliere,  dite  il  vostro  parere;  se  vi 
par,  che  vi  si  deve  aggiongere,  fatevi  intendere;  perchè 
ognuno  ha  plenaria  libertà  di  proferire  il  suo  voto;  e 
chiunque  tace,  se  intende  affìrmare.  Qua  assorsero  al- 
quanto tutti  gli  Dei,  e  con  questo  segno  ratificar©  la  pro- 
posta. 


Bruno,   In  trisiitia  hilaris,  etc. 


III. 

LA  PROVVIDENZA  DI  GIOVE  *" 


Mercurio..  .  Su,  su,  presto,  [disse  Giove]  cloniamo 
ordine  a'  nostri  affari,  prima  che  tu  vadi  a  veder  che 
vuole  quella  meschina,  e  io  a  ritrovar  questa  mia  tanto 
fastidiosa  mogliera,  che  certo  mi  pesa  più  che  tutta  la 
carca  de  l'universo.  — Subito  volse  (perchè  cossi  è  nova- 
mente  decretato  nel  cielo)  che  di  mia  mano  registrasse 
tutto   quel    che   deve    essere  provisto    oggi  nel    mondo. 

Sofia.  Fatemi,  se  vi  piace,  alquanto  udire  di  negocii, 
poi  che  m'hai  svegliata  questa  cura  nel  petto. 

Mercurio.  Ti  dirò.  —  Ha  ordinato,  che  oggi  a  mezzo 
giorno  doi  meloni,  tra  gli  altri,  nel  meìonaio  di-  Pranzino 
sieno  perfettamente  maturi;  ma  che  non  sieno  colti,  se  non 
tre  giorni  appresso,  quando  non  saran  giudicati  buoni  a 
mangiare.  Vuole,  ch'ai  medesimo  tempo  dalla  iviuma, 
che  sta  alle  radici  del  monte  di  Cicala,  in  casa  di  Gioan 
Bruno,  trenta  iviomi  sieno  perfetti  colti,  e  diece  sette 
caggiano  scalmati  in  terra,  quindeci  sieno  rosi  da*  vermi. 
Che  Vasta,  moglie  di  Albenzio,  mentre  si  vuole  increspar 
gli  capelli  de  le  tempie,  vegna,  per  aver  troppo  scaldato 
il  ferro,  a  bruggiarne  cinquanta  sette;  ma  che  non  si 
scotte  la  testa,  e  per  questa  volta  non  biastemi  quando 
sentirà  il  puzzo,  ma  con  pazienza  la  passe.  Che  dal  sterco 
del  suo  bove  nascano  ducento  cinquanta  doi  scarafoni, 
de*,  quali  quattordeci  sieno  calpestrati  e  uccisi  per  il  pie 


(1)  spaccio.  Dialogo  primo. 


III.  -  La  provvidenza  di  Giove  105 

di  Albenzio,  venti  sei  muoiano  di  rinversato,  venti  doi 
vivano  in  caverna,  ottanta  vadano  in  peregrinaggio  per 
il  cortile,  quarantadoi  si  retireno  a  vivere  sotto  quel  ceppo 
vicino  a  la  porta,  sedeci  vadano  isvoltando  le  pallotte, 
per  dove  meglio  li  vien  comodo,  il  resto  corra  a  la  for- 
tuna.  A   Laurenza,   quando   si   pettina,    caschino   diece 
sette  capelli,  tredeci  se  gli  rompano,  e  di  quelli  diece  ri- 
nascano in  spacio  di  tre  giorni,  e  gli  sette  non  rivegnano 
più.   La  cagna  d'Antonio  Savolino  concepa  cinque  ca- 
gnolini, de'  quali  tre  a  suo  tempo  vivano,  e  doi  sieno 
gittati  via;  e  di  que'  tre  il  primo  sia  simile  a  la  madre,  il 
secondo  sia  vario,  il  terzo  sia  parte  simile  al  padre,  e 
parte  a  quello  di  Polidoro.  In  quel  tempo  il  cuculo  s'oda 
cantare  da  la  stanza,  e  non  faccia  udire  più  né  meno  che 
dodici  cuculate;  e  poi  si  parta,  e  vada  a  le  roine  del  ca- 
stello Cicala  per  undeci  minuti  d'ora,  e  da  là  se  ne  vole 
a  Scarvaita;  e  di  quello  che  deve  essere  a  presso,  prove- 
deremo  poi.  Che  la  gonna,  che  mastro  Danese  taglia  su 
la  pianca,  vegna  stroppiata.  Che  da   le  tavole  del  letto 
di  Costantino  si  partano  dodeci  cimici,  e  se  ne  vadano  al 
capezzale:   sette  degli  più  grandi,   quattro  de'  più  pic- 
cioli, uno  de'  mediocri;  e  di  quello  che  di  essi  ha  da  es- 
sere questa  sera,  al  lume  di  candela,  provederemo.  Ch« 
a  quindeci  minuti  de  la  medesima  ora  per  il  moto  de  la 
lingua,  la  quale  si  varrà  la  quarta  volta  rimenando  per  il 
palato,  a  la  vecchia  di  Fiurulo  casche  la  terza  mola,  che 
tiene  nella  mascella  destra  di  sotto;  la  qual  caduta  sia 
senza   sangue   e  senza   dolore;   perchè    la   detta   mola  è 
gionta  al  termine  della  sua  trepidazione,  che  ha  perdurato 
a  punto  diece  sette  annue  revoluzione  lunari.  Che  Am- 
bruoggio    nella    centesima    e    duodecima    spinta    abbia 
spaccio  ed  ispedito  il  negocio  con  la  mogliera,  e  che  non 
la  ingravide  per  questa  volta,  ma  ne  l'altra  con  quel  seme, 
in  cui   si  convertisce  quel   porro  cotto,   che  mangia  al 
presente  con  la  sapa  e  pane  di  miglio.  Al  figlio  di  Marti» 
nello  comincieno  a  spuntar  i  peli  de  la  pubertade  nel 
pettinale,  e  insieme  insieme  comince  a  gallugarli  la  voce. 
Che  a  Paulino,  mentre  vorrà  alzar  un  ago  rotto  da  terra, 


106  Parte  seconda 

per  la  forza  che  egli  farà,  se  gli  rompa  la  stringa  rossa 
de  le  braghe;  per  la  qual  cosa,  se  bestemmiare,  voglio 
che  sia  punito  appresso  con  questo,  che  questa  sera  la 
sua  minestra  sia  troppo  salita  e  sappia  di  fumo;  caggia 
e  se  gli  rompa  il  fiasco  pieno  di  vino;  per  la  qual  causa  se 
bestemmiare,  provederemo  poi.  Che  di  sette  talpe,  le 
quali  da  quattro  giorni  fa  son  partite  dal  fondo  de  la 
terra,  prendendo  diversi  camini  verso  l'aria,  due  vegnano 
a  la  superficie  de  la  terra  nell'ora  medesima,  l'una  al 
punto  di  mezzo  giorno,  l'altra  a  quindici  minuti  e  dieci 
nove  secondi  appresso,  discoste  l'una  da  l'altra  tre  passi, 
un  piede  e  mezzo  dito  ne  l'orto  di  Anton  Faivano;  del 
tempo  e  luogo  de  l'altre  si  proveder à  più  tardi. 


IV. 
UOMINI  E  BESTIE  <» 


Lascio  che  tutte  le  generazioni    illustri    ed   egrègie, 

mentre  per  gli  lor  segni  e  imprese  vogliono  mostrarsi  ed 
essere  significate,  ecco  le  vedi  aquile,  falconi,  nibbii,  cu- 
culi, civette,  nottue,  buboni,  orsi,  lupi,  serpi,  cavalli, 
buovi,  becchi,  e  tal  volta,  perchè  manco  si  stimano  degni 
de  farsi  una  bestia  intiera,  ecco  vi  presentano  un  pezzo 
di  quella,  o  una  gamba,  o  una  testa,  o  un  paio  di  corna, 
o  una  coda,  o  un  nerbo.  E  non  pensate  che,  se  si  potes- 
sero trasformare  in  sustanza  di  tali  animali,  non  lo  far- 
rebono  volentiera;  atteso,  a  qual  fine  stimate,  che  pin- 
gono  nel  suo  scudo  le  bestie,  quando  le  accompagnano 
col  suo  ritratto,  con  la  sua  statua  ?  Pensate  forse,  che  vo- 
gliono dire  altro  eccetto:  Questo,  questo,  di  cui,  o  spet- 
tatore, vedi  il  ritratto,  è  quella  bestia,  che  gli  sta  vicina 
e  compiuta;  overo:  Se  volete  saper  chi  è  questa  bestia, 
sappiate  che  la  è  costui,  di  cui  vedete  qua  il  ritratto,  e 
qua  scritto  il  nome.  Quanti  sono,  che  per  meglior  parere 
bestie,  s'impellicciano  di  lupo,  di  volpe,  di  tasso,  di  ca- 
prone, di  becco,  onde,  ad  essere  uno  di  cotai  animali, 
non  par  che  gli  manca  altro  che  la  coda  ?  Quanti  sono, 
che  per  mostrar  quanto  hanno  dell'ucello,  del  volatile, 
9  far  conoscere  con  quanta  leggerezza  si  potrebono 
sollevare  alle  nubi,  s'impiumano  il  cappello  e  la  barretta  ? 

Saul.  Che  dirai  de  le  dame  nobili,  tanto  de  le  grandi, 
quanto  di  quelle,  che  voglion  far  del  grande?  Non  fanno 
elle  più  gran  caso  delle  bestie,  che  de'  proprii  figli?  Ec- 


(1)  Spaccio.  Dialogo  terzo. 


108  Parte  seconda 

cole,  quasi  dicessero:  —  0  figlio  mio,  fatto  a  mia  ima- 
gine:  se,  come  ti  mostri  uomo,  cossi  mostrassi  coniglio, 
cagnolina,  martora,  gatto,  gibellino;  certo,  sì  come  ti  ho 
commesso  a  le  braccia  de  la  serva,  de  la  fante,  da  questa 
ignobile  nutriccia,  di  questa  sugliarda,  sporca,  imbreaca, 
che  facilmente,  infettandoti  di  lezzo,  ti  farà  morire; 
perchè  conviene  anco  che  dormi  con  ella;  io,  io  sarei 
quella  che  medesima  ti  portarci  in  braccio,  ti  sostenerci, 
lattarci,  pettinarci,  ti  cantarci,  di  farei  di  vezzi,  ti  ba- 
ciarci, come  fo  a  quest'altro  gentile  animale,  il  qual  non 
voglio  che  si  domestiche  con  altro  che  con  me;  non  per- 
metterò, che  sia  tocco  da  altro  che  da  me,  e  non  lascerò 
star  in  altra  camera,  e  dormir  in  altro  letto  che  nel  mio. 
Questo  se  averrà  ch^  la  cruda  Atropo  mi  tolga,  non  pa- 
tirò che  vegna  sepolto  come  tu,  ma  gl'imbalsimarò,  gli 
perfumarò  la  pelle;  ed  a  quella,  come  a  divina  reliquia, 
dove  mancano  li  membri  de  la  fragil  testa  e  piedi,  io  vi 
formarò  la  figura  in  oro  smaltato  e  asperso  di  diamanti, 
di  perle  e  di  rubini.  Cossi,  dove  bisognerà  onoratamente 
comparire,  il  portarò  meco,  ora  avolgendomelo  al  collo, 
ora  me  l'accostando  al  volto,  a  la  bocca,  al  naso;  ora  me 
l'appoggiarò  al  braccio;  ora,  dismettendo  il  braccio  per- 
pendicolarmente in  giù,  lo  lasciarò  ir  prolungato  verso  le 
falde,  a  fin  che  non  sia  parte  di  quello,  che  non  sia  messa 
in  prospettiva.  Onde  aperto  si  vede,  quanto  con  più 
sedula  cura  queste  più  generose  donne  sono  affette  circa 
una  bestia,  che  verso  un  proprio  figlio,  per  far  vedere 
quanta  sia  la  nobiltà  di  quelle  sopra  questi,  quanto  quelle 
sono  più  onorabili  che  questi. 

SoF.  E  per  tornare  a  più  seriose  raggioni,  quelli  che 
sono,  o  si  tegnono  più  gran  prencipi,  per  far  con  espressi 
segni  evidente  la  loro  potestà  e  divina  preeminenza  sopra 
gli  altri,  s'adattano  in  testa  la  corona;  la  quale  non  è  altro, 
che  figura  di  tante  corna,  che  in  cerchio  gl'incoronano, 
I  d  est  gì 'incornano  il  capo.  E  quelle,  quanto  son  più 
alte  ed  eminenti,  tanto  fanno  più  maestrale  representa- 
zione, e  son  segno  di  maggior  grandezza;  onde  è  geloso 
un  duca,  che  un  conte  o  m.archese  mostre  una  corona 


IV.  -  Uomini   e    bestie  109 


cossi  grande  come  lui;  maggiore  conviene  al  re,  massima 
a  l'imperatore,  triplicata  tocca  al  papa,  come  a  quello 
sommo  patriarca,  che  ne  deve  aver  per  lui  e  per  li  com- 
pagni. Li  pontefici  ancora  sempre  hanno  adoperata  la 
mitra  acuminata  in  due  corna;  il  duce  di  Venezia  com- 
pare con  un  corno  a  mezza  testa;  il  gran  Turco  da  fuor 
del  turbante  lo  fa  uscir  alto  e  diritto  in  forma  rotonda 
piramidale;  il  che  tutto  è  fatto  per  donar  testimonio  della 
sua  grandezza,  con  accomodarsi  con  la  meglior  arte 
questa  bella  parte  in  testa,  la  quale  alle  bestie  ha  conce- 
duta la  natura:  voglio  dir,  con  mostrar  di  aver  de  la  be- 
stia. Questo  nessuno  avanti,  né  alcuno  da  poi  ha  possuto 
più  efficacemente  esprimere,  che  il  duca  e  legislatore 
del  popolo  giudeo:  quel  Mosè,  dico,  che  in  tutte  le  scienze 
degli  Egizii  uscì  addottorato  da  la  corte  di  Faraone; 
quello,  che  nella  moltitudine  di  segni  vinse  tutti  que' 
periti  nella  magia.  In  che  modo  mostrò  l'eccellenza  sua, 
per  esser  divino  legato  a  quel  popolo,  e  representator 
de  l'autorità  del  dio  d'Ebrei  P  Vi  par  che,  calando  giù 
del  monte  Sina  con  le  gran  tavole,  venesse  in  forma  d'un 
uomo  puro,  essendo  che  si  presentò  venerando  con  un 
paio  di  gran  corna,  che  su  la  fronte  gli  ramificavano? 
Avanti  la  cui  maestral  presenza  mancando  il  cuore  di 
quel  popolo  errante,  ch'il  mirava,  bisognò  che  con  un 
velo  si  cuoprisse  il  volto;  il  che  pure  fu  fatto  da  lui  per 
dignità,  e  per  non  far  troppo  familiare  quel  divino  e  più 
che  umano  aspetto. 

Saul.  Cossi  odo  ch'il  gran  Turco,  quando  non  porge 
familiare  udienza,  usa  il  velo  avanti  la  sua  persona.  Cossi 
ho  visto  io  gli  religiosi  di  Castello  in  Genova  mostrar 
per  breve  tempo  e  far  baciar  la  velata  coda,  dicendo: 
—  Non  toccate,  baciate;  questa  è  la  santa  reliquia  di 
quella  benedetta  asina,  che  fu  fatta  degna  di  portar  il 
nostro  Dio  dal  monte  Oliveto  a  Jerosollma.  Adoratela, 
baciatela,  porgete  limosina:  Centuplum  accipietis,  et  vi^ 
tam  aeternam  possidebitis. 


V. 
MOMO  E  MARTE  (1) 


A  questa  voce  generale,  prima  ch'altro  proponesse  di 
Cassiopea,  alzò  la  voce  il  furibondo  Marte,  e  disse:  —  Non 
sia,  o  Dei,  chi  tolga  alla  mia  bellicosa  Ispagna  questa 
matrona,  che  cossi  boriosa,  altiera  e  maestrale  non  si 
contentò  di  salir  al  cielo  senza  condurvi  la  sua  catedra 
col  baldacchino.  Costei  (se  cossi  piace  al  padre  summi- 
tonante,  e  se  voi  altri  non  volete  discontentarmi  a  rischio 
dj_patir  a  buona  misura  il  simile,  quando  mi  passarete 
per  le  mani)  vorrei  che,  per  aver  costumi  di  quella  patria, 
e  parer  ivi  nata,  nodrita  ed  allevata,  determiniate  che  la 
vi  soggiorne.  Rispose  Momo:  —  Non  sia  chi  tolga  l'ar- 
roganza e  questa  femina,  ch'è  vivo  ritratto  di  quella,  al 
signor  bravo  capitan  di  squadre.  A  cui  Marte:  —  Con 
questa  spada  farò  conoscere  non  solamente  a  te  pove- 
raccio, che  non  hai  altra  virtude  e  forza,  che  di  lingua 
fracida  senza  male;  ma  ed  oltre  a  qualsivogli'altro  (fuor 
di  Giove,  per  essere  superior  di  tutti)  che  sotto  quella, 
che  voi  dite  iattanzia,  dica  non  si  trovar  bellezza,  gloria, 
maestà,  magnanimità,  e  fortezza  degna  della  protezion 
del  scudo  marziale;  e  di  cui  l'onte  non  son  indegne  d  esser 
vendicate  da  questa  orribil  punta,  ch'ha  soluto  domar 
uomini  e  dei.  —  Abbila  pur,  soggionse  Momo,  in  tua 
malora  teco:  perchè  tra  noi  altri  dei  non  vi  trovarai  un 
altro  si  bizzarro  e  pazzo,  che,  per  guadagnarsi  una  de 


(1)  spaccio.  Dialogo  secondo. 


V.  -  Momo  e  Marte  1 1 1 


queste  colubre   e   tempestose   bestie,    voglia   mettersi   a 
rischio  di  farsi  rompere  il  capo. 

Non  te  incolerar,  Marte,  non  ti  rabbiar,  Momo,  disse 
il  benigno  protoparente.  Facilmente  a  te,  dio  de  la 
guerra,  si  potrà  concedere  liberamente  questa  cosa,  che 
non  è  troppo  d'importanza,  se  ne  bisogna  talvolta,  al 
nostro  dispetto,  comportar,  che  con  la  sola  autorità 
della  tua  fiammeggiante  spada  commetti  tanti  stupri, 
tanti  adulterii,  tanti  latrocinii,  usurpazioni  ed  assassinii. 
Va  dunque,  che  io  insieme  con  gli  altri  dei  la  commet- 
temo  in  tutto  alla  tua  libidinosa  voglia;  sol  che  non  più 
la  facci  induggiar  qua  in  mezzo  agli  astri,  vicina  a  tante 
virtuose  Dee. 


VI. 
RICCHEZZA  E  POVERTÀ  <" 


Quando  Giove  ebbe  escluso  Ercole  da  là,  subito  si 
mese  avanti  la  Ricchezza,  e  disse:  —  A  me,  o  padre,  con- 
viene questo  luogo.  A  cui  rispose  Giove:  —  Per  qual 
caggione?  E  lei:  —  Anzi  mi  maraviglio,  disse,  che  sin 
tanto  abbi  differito  di  collocarmi,  e  prima  che  ti  ricor- 
dassi di  me,  hai  non  solo  collocate  altre  dee  e  altri  numi, 
che  mi  denno  cedere,  ma  oltre  hai  sostenuto  che  biso- 
gnasse che  io  da  per  me  medesima  venesse  ad  opponermi 
e  presentarmi  contra  il  pregiudizio  mio  e  torto,  che  mi 
fate.  E  Giove  rispose:  —  Dite  pur  la  vostra  causa.  Ric- 
chezza; perchè  io  non  stimo  d'averti  fatto  torto  col  non 
darti  una  de  le  stanze  già  proviste;  ma  ancora  credo  di 
non  fartene  con  negarti  la  presente,  che  è  da  pTovedere: 
e  forse  ti  potrai  accorgere  di  peggio  che  non  ti  pensi.  — -  E 
che  peggio  mi  può,  e  deve  accadere  per  vostro  giudizio, 
di  quel  che  m'è  accaduto?  disse  la  Ricchezza.  Dimmi, 
con  qual  raggione  m'hai  preposta  la  Veritate,  la  Prudenza, 
la  Sofia,  la  Legge,  il  Giudicio,  se  io  son  quella,  per  cui 
la  Veritate  si  stima,  la  Prudenza  si  dispone,  la  Sofia  è 
preggiata,  la  Legge  regna,  il  Giudicio  dispone,  e  senza 
me  la  Verità  è  vile,  la  Prudenza  è  sciagurata,  la  Sofia 
è  negletta,  la  Legge  è  muta,  il  Giudicio  è  zoppo;  perchè 
io  a  la  prima  dono  campo,  alla  seconda  do  nervo,  alla 
terza  lume,   a  la  quarta  autoritade,   al   quinto  forza;   a 


(I)  spaccio.  Seconda  parte  del  seconda  Dialogo. 


VI.  -  Ricchezza  e  Povertà  1  1 3 

tutte  insieme  giocundità,  bellezza  e  ornamento,  e  le  li- 
bero da'  fastidii  e  miserie?  —  Rispose  Momo:  —  0  Ric- 
chezza, tu  non  dici  il  vero  più  che  il  falso;  perchè  tu 
oltre  sei  quella,  per  cui  zoppica  il  Giudizio,  la  Legge  sta 
in  silenzio,  la  Sofìa  è  calpestata,  la  Prudenza  è  incarce- 
rata e  la  Verità  è  depressa,  quando  ti  fai  compagna  di 
buggiardi  e  ignoranti,  quando  favorisci  col  braccio  de  la 
sorte  la  pazzia,  quando  accendi  e  cattivi  gli  animi  ai  pia- 
ceri, quando  amministri  alla  violenza,  quando  resisti  a 
a  giustizia;  e  appresso  a  chi  ti  possiede  non  meno  ap- 
porti fastidio  che  giocondità,  difformità  che  bellezza, 
bruttezza  che  ornamento,  e  non  sei  quella,  che  dai  fine 
a'  fastidii  e  miserie,  ma  che  le  muti  e  cangi  in  altra  specie; 
sì  che  in  opinione  sei  buona,  ma  in  verità  sei  più  mal- 
vaggia;  in  apparenza  sei  cara,  ma  in  esistenza  sei  vile; 
per  fantasia  sei  utile,  ma  in  effetto  sei  perniciosissima; 
atteso  che  per  tuo  magistero,  quando  investisci  di  te 
qualche  perverso  (come  per  ordinario  sempre  ti  veggio 
in  casa  di  scelerati,  raro  vicina  ad  uomini  da  bene),  là 
abbasso  hai  fatta  la  Veritade  esclusa  fuor  de  le  cittadi 
agli  deserti,  hai  rotte  le  gambe  a  la  Prudenza,  hai  fatta 
vergognar  la  Sofìa,  hai  chiusa  la  bocca  a  la  Legge,  non 
hai  fatto  aver  ardire  al  Giudicio,  tutti  hai  resi  vilissimi. 
In  questo,  o  Momo,  rispose  la  Ricchezza,  puoi  conoscere 
la  m.ia  potestate  ed  eccellenza;  che  io,  aprendo  e  serrando 
il  pugno,  e  per  comunicarmi  o  qua  o  là,  fo  che  questi 
cinque  numi  vagliano,  possano  e  facciano,  o  ver  sieno 
spreggiati,  banditi  e  ributtati;  e  per  dirla,  posso  cacciarli 
al  cielo,  o  ne  l'inferno.  —  Qua  rispose  Giove:  —  Non  vo- 
gliamo in  cielo  e  in  queste  sedie  altro  che  buoni  numi. 
Da  qua  si  togliano  que'  che  son  rei,  e  quei  che  o  sono  più 
rei,  che  buoni,  e  quei  che  indifferentemente  son  buoni  e 
rei;  tra  gli  quali  io  penso  che  sei  tu,  che  sei  buona  con 
gli  buoni,  e  pessima  con  gli  scelerati. 

—  Sai,  o  Giove,  disse  la  Ricchezza,  che  io  per  me  son 
buona,  e  non  sono  per  me  indifferente  o  neutra,  o  d'una 
ed  altra  maniera,  come  dici,  se  non  in  quanto  di  me  altri 
bene  si  vogliano   servire   o  male.  —  Qua  rispose  Momo: 


I  1  4  Parte  seconda 

—  Tu  dunque,  Ricchezza,  sei  una  Dea  maneggiabile, 
servibile,  contrattabile,  e  che  non  ti  governi  da  te  stessa, 
e  che  non  sei  veramente  quella  che  reggi  e  disponi  de 
altri,  ma  di  cui  altri  disponeno,  e  che  sei  retta  da  altri; 
onde  sei  buona,  quando  altri  ti  maneggiano  bene,  sei 
mala,  quando  sei  mal  guidata;  sei,  dico,  buona  in  mano 
della  Giustizia,  della  Sofìa,  della  Prudenza,  della  Reli- 
gione, della  Legge,  della  Liberalità  e  altri  numi;  sei  ria, 
se  gli  contrarii  di  questi  ti  maneggiano:  come  sono  la 
violenza,  l'avarizia,  l'ignoranza  e  altri.  Come,  dunque, 
da  per  te  non  sei  né  buona,  né  ria,  cossi  credo  essere  bene, 
se  Giove  il  consente,  che  per  te  non  abbii  né  vergogna, 
né  onore;  e  per  consequenza  non  sii  degna  d'aver  propria 
stanza,  né  ad  alto  tra  gli  dei  e  numi  celesti,  né  abbasso 
tra  gli  inferi,  ma  che  eternamente  vadi  da  loco  in  loco, 
da  regione  in  regione. 

Arrisero  tutti  gli  Dei  al  dir  di  Momo,  e  Giove  sentenziò 
cossi:  —  Sì  che.  Ricchezza,  quando  sei  di  Giustizia, 
abitarai  nella  stanza  della  Giustizia;  quando  sei  di  Verità, 
sarai  dove  è  l'eccellenza  di  quella;  quando  sei  di  Sapienza 
e  Sofìa,  sederai  nel  solio  suo;  quando  di  voluttuarii  pia- 
ceri, trovati  là,  dove  sono;  quando  d'oro  e  argento,  al- 
lora ti  caccia  ne  le  borse  e  casce;  quando  di  vino,  oglio  e 
frumento,  va  ficcare  ne  le  cantine  e  magazini;  quando  di 
pecore,  capre  e  buovi,  va  a  pascolar  con  essi,  e  posa  negli 
greggi  ed  armenti. 

Cossi  Giove  l'impose  quello  che  deve  fare,  quando  si 
trova  con  gli  pazzi,  e  come  si  deve  comportare  quando 
é  in  casa  di  sapienti;  in  che  modo  per  l'avenire  perse- 
verar debba  a  far  come  per  il  passato  (forse  perché  non 
si  può  far  altro),  di  farsi  in  certo  modo  facilmente  tro- 
vare, e  in  certo  modo  difficilmente.  Ma  quella  raggione 
e  modo  non  la  fece  intendere  a  molti;  se  non  che  Momo 
alzò  la  voce  e  gle  ne  die  un'altra,  se  non  fu  quella  mede- 
sima via,  cioè:  —  Nessuno  ti  possa  trovare,  senza  che 
prima  si  sia  pentito  d'aver  avuto  buona  mente  e  sano 
cervello.  —  Credo,  che  volesse  dire,  che  bisogna  perdere 
la  considerazione  e  il  giudicio  di  prudenza,  non  pensando 


VI.  -  Ricchezza  e  Povertà  1  1  5 

mai  all'incertezza  ed  infidelità  de'  tempi,  non  avendo 
riguardo  a  la  dubia  e  instabile  promessa  del  mare,  non 
credere  a  cielo,  non  guardare  a  giustizia  o  a  ingiustizia, 
ad  onore  o  vergogna,  a  bonaccia  o  tempesta,  ma  tutto 
si  commetta  a  la  fortuna:  —  E  che  ti  guardi  di  farti  mai 
domestica  di  quei,  che  con  troppo  giudicio  ti  cercano;  e 
color  meno  ti  veggano,  che  con  più  tendicoli,  lacci  e  reti 
di  providenza  ti  perseguitano;  ma  per  l'ordinano  va  dove 
son  gli  più  insensati,  pazzi,  stracurati  e  stolti;  e  in  conclu- 
sione, quando  sei  in  terra,  guardati  da'  più  savii  come 
dal  fuoco:  e  cossi  sempre  accostati  e  fatti  familiare  a 
gente  semibestiali,  e  tieni  sempre  la  medesima  regola, 
che  tiene  la  fortuna... 

SOF.  Non  sì  tosto  la  Povertà  vedde  la  Ricchezza,  sua 
nemica,  esclusa,  che  con  una  più  che  povera  grazia  si 
fece  innante;  e  disse,  che  per  quella  raggione,  che  facea 
la  Ricchezza  indegna  di  quel  loco,  lei  ne  dovea  essere 
stimata  degnissima,  per  esser  contraria  a  colei.  A  cui 
rispose  Momo:  —  Povertà,  Povertà,  tu  non  sareste  al 
tutto  Povertà,  se  non  fussi  ancora  povera  d'argumenti, 
sillogismi  e  buone  consequenze.  Non  per  questo,  o  mi- 
sera, che  siete  contrarie,  seguita,  che  tu  debbi  essere 
investita  di  quello  che  lei  è  dispogliata  o  priva,  e  tu  debbi 
essere  quel  tanto,  che  lei  non  è:  come,  verbigrazia  (poi 
che  bisogna  donartelo  ad  intendere  con  essempio)  tu  devi 
essere  Giove  e  Momo,  perchè  lei  non  è  Giove  né  Momo: 
e  in  conclusione,  ciò  che  si  niega  di  quella,  debba  essere 
affìrmato  di  te;  perchè  quelli,  che  son  più  ricchi  de  dia- 
lettica, che  tu  non  sei,  sanno  che  li  contrarii  non  son  me- 
desimi con  positivi  e  privativi,  contradittorii,  varii,  dif- 
ferenti, altri,  divisi,  distinti  e  diversi.  Sanno  ancora,  che 
per  raggione  di  contrarietà  seguita,  che  non  possiate 
essere  insieme  in  un  loco;  ma  non  che,  dove  non  è  quella, 
e  non  può  esser  quella,  sii  tu,  o  possi  esser  tu.  Qua  risero 
tutti  li  dei,  quando  veddero  Momo  voler  insegnar  logica  a 
la  Povertà;  ed  è  rimasto  questo  proverbio  in  cielo  : 
Momo  è  maestro  de  la  Povertà,  o  ver: 
Momo  insegna  dialettica  a    la  Povertà. 


I  16  Parte  seconda 

E  questo  lo  dicono,  quando  vogliono  delleggiar  qualche 
fatto  scontrafatto.  Che  dunque  ti  par,  che  si  debba  far 
di  me,  o  Momo?  disse  la  Povertà.  Determina  presto, 
perchè  lo  non  sono  sì  ricca  di  paroli  e  concetti  che  possa 
disputar  con  Momo,  né  sì  copiosa  d'mgegno,  che  possa 
molto  imparar  da  lui. 

Allora  Momo  dimandò  a  Giove  per  quella  volta  li- 
cenza, se  voleva,  che  determinasse.  A  cui  Giove:  —  An- 
cora mi  burli,  o  Momo?  che  hai  tanta  licenza,  che  sei 
più  licenzioso  (volsi  dir  licenziato)  tu  solo,  che  tutti  gli 
altri.  Dona  pur  sicuro  la  sentenza  a  costei;  perchè,  se  la 
sarà  buona,  l'approvaremo.  Allora  Momo  disse:  —  Mi 
par  congruo  e  condigno,  ch'ancor  questa  se  la  vada  spas- 
seggiando per  quelle  piazze,  nelle  quali  si  vede  andar 
circumforando  la  Ricchezza,  e  corra  e  discorra,  vada  e 
vegna  per  le  medesime  campagne;  perchè  (come  vogliono 
gli  canoni  del  raziocinio)  per  raggione  di  cotai  contrari! 
questa  non  deve  entrare,  se  non  là,  onde  quella  fugge,  e 
non  succedere,  se  non  là,  d'onde  quella  si  parte;  e  quella 
non  deve  succedere  ed  entrare,  se  non  là,  d'onde  questa 
si  parte  e  fugge;  e  sempre  l'una  sia  a  le  spalli  de  l'altra, 
e  l'una  doni  la  spinta  a  l'altra  non  toccandosi  mai  da  faccia  a 
faccia,  ma  dove  l'una  ha  il  petto,  l'altra  abbia  il  tergo, 
come  se  giocassero  (come  facciamo  noi  tal  volta)  al  giuoco 
de  la  rota  del  scarpone. 

Saul.  Che  disse  sopra  di  questo  Giove  con  gli  altri  ? 

SoF.  Tutti  confìrmaro  e  ratificaro  la  sentenza. 

Saul.  La  Povertà  che  disse? 

SoF.  Disse:  —  Non  mi  par  cosa  degna,  o  dei  (se  pur 
il  mio  parer  ha  luogo,  e  non  sono  a  fatto  priva  di  giudicio) 
che  la  condizion  mia  debba  essere  al  tutto  simile  a  quella 
de  la  Ricchezza.  A  cui  rispose  Momo:  —  Da  l'antece- 
dente, che  versate  nel  medesimo  teatro,  e  rapresentate 
la  medesima  tragedia  e  comedia,  non  devi  tirar  questa 
consequenza,  che  vengate  ad  essere  di  medesima  condi- 
zione, quìa  contraria  versantur  circa  idem.  — Vedo,  o  Momo, 
disse  la  Povertà,  che  tu  ti  burli  di  me;  che  anco  tu,  che 
fai  professione  de  dir  il  vero  e  parlar  ingenuamente,  mi 


VI.  -  Ricchezza  e  Povertà  117 

dispreggl;  e  questo  non  mi  par  che  sia  il  tuo  dovero 
perchè  la  Povertà  è  più  degnamente  difesa  tal  volta,  anzi 
il  più  de  le  volte,  che  la  Ricchezza.  —  Che  vuoi,  che  ti 
faccia,  rispose  Momo  se  tu  sei  povera  a  fatto  a  fatto?  La 
povertà  non  è  degna  de  difensione,  se  è  povera  di  giu- 
dizio, di  raggione,  di  meriti  e  di  sillogismi,  come  sei  tu, 
che  m'hai  ridutto  a  parlar  ancor  per  le  regole  analitiche 
dalli  Priori  e  Posteriori  d'Aristotele. 


VII. 
LA  BIBLIOTECA  DEGLI  DEI  <'> 


Saulino.  Che  cosa  me  dici,  Sofìa?  Dunque  li  Dei 
prendeno  qualche  volta  Aristotele  in  mano?  Studiano 
verbigrazia  negli  filosofi  P 

Sofia.  Non  ti  dirò  di  vantaggio  di  quel  ch'è  su  la  Pippa, 
la  Nanna,  l'Antonia,  il  Burchiello,  l'Ancroia,  e  un  altro 
libro,  che  non  si  sa,  ma  è  in  questione,  s'è  di  Ovidio 
o  Virgilio,  e  io  non  me  ne  ricordo  il  nome,  e  altri 
simili. 

Saul.  E  pur  adesso  trattano  cose  tanto  gravi  e 
seriose? 

SoF.  E  ti  par,  che  quelle  non  son  seriose?  Non  son 
gravi?  Se  tu  fussi  più  filosofo,  dico  più  accorto,  crede- 
resti che  non  è  lezione,  non  è  libro,  che  non  sia  essami- 
nato  da'  dei,  e  che,  se  non  è  a  fatto  senza  sale,  non  sia 
maneggiato  da  dei;  e  che,  se  non  è  tutto  balordesco, 
non  sia  approvato  e  messo  con  le  catene  nella  biblioteca 
commune;  perchè  piglian  piacere  nella  moltiforme  re- 
presentazione  di  tutte  cose  e  frutti  multiformi  de  tutti 
ingegni,  perchè  loro  si  compiaceno  in  tutte  le  cose  che 
sono,  e  tutte  le  representazioni  che  si  fanno,  non  meno 
che  essi  hanno  cura  che  sieno,  e  donano  ordine  e  per- 
missione che  si  facciano.  E  pensa  ch'il  giudicio  degli  Dei 
è  altro,  che  il  nostro  commune,  e  non  tutto  quello  che  è 
peccato  a  noi  e  secondo  noi,  è  peccato  a  essi  e  secondo 
essi.  Quei  libri  certo  cossi,  come  le  teologie,  non  denno 
esser  communi  agli  uomini  ignoranti,  che  medesimi  sono 
scelerati;  perchè  ne  riceveno  mala  instituzione. 

oribd. 


VII.   -   La  biblioteca  degli  Dei  119 


Saul.  Or  non  son  libri  fatti  da  uomini  di  mala  fama, 
disonesti  e  dissoluti,  e  forse  a  mal  fine? 

SoF.  E  vero;  ma  non  sono  senza  la  sua  mstituzione  e 
frutti  della  cognizione  de  chi  scrive,  come  scrive,  perchè 
e  onde  scrive,  di  che  parla,  come  ne  parla,  come  s'in- 
ganna lui,  come  gli  altri  s'ingannano  di  lui,  come  si  de- 
cima, e  come  s'inclina  a  uno  affetto  virtuoso  e  vizioso, 
come  si  muove  il  riso,  il  fastidio,  il  piacere,  la  nausea;  ed 
in  tutto  è  sapienza  e  providenza,  e  in  ogni  cosa  è  ogni 
cosa,  e  massime  è  l'uno  dove  è  l'altro  contrario,  e  questo 
massime  si  cava  da  quello. 

Saul.  Or  torniamo  al  proposito,  donde  ne  ha  diver- 
titi il  nome  d'Aristotele  e  la  fama  de  la  Pippa. 


Bruno,   In  tristitia  hilariz,  etc.  10. 


vili. 

LA  FORTUNA  <» 


...Io  me  ne  vo  aperta  aperta  e  occolta  occolta  a  tutto 
runiverso;  discorro  gli  alti  e  bassi  palaggi,  e  non  meno  che 
la  morte  so  inalzar  le  cose  infime,  e  deprimere  le  supreme; 
e  al  fine,  per  forza  di  vicissitudine,  vegno  a  far  tutto  uguale, 
e  con  incerta  successione,  e  raggion  irrazionale,  che  mi 
trovo  (cioè  sopra  ed  extra  le  raggioni  particolari)  e  con 
indeterminata  misura  volto  la  ruota,  scuoto  l'urna,  a  fine 
che  la  mia  intenzione  non  vegna  incusata  da  individuo  al- 
cuno. Su,  Ricchezza,  vieni  a  la  mia  destra,  e  tu.  Povertà,  a 
la  mia  sinistra:  menate  vosco  il  vostro  comitato;  tu,  Ric- 
chezza, li  ministri  tanto  grati,  e  tu,  Povertà,  gli  tuoi  tanto 
noiosi  alla  moltitudine.  Seguiteno,  dico,  prima  il  fastidio  e 
la  gioia,  la  felicità  ed  infelicità,  la  tristizia,  l'allegrezza;  la 
letizia,  la  maninconia,  la  fatica;  il  riposo;  Tocio,  l'occu- 
pazione; la  sordidezza,  l'ornamento.  Appresso  l'auste- 
rità, le  delicie;  il  lusso,  la  sobrietà;  la  libidine,  l'astinenza; 
l'ebrietà,  la  sete;  la  crapula,  la  fame;  l'appetito,  la  sacie- 
tade;  la  cupidiggia,  il  tedio  e  saturità;  la  pienezza,  la 
vacuità;  oltre  il  dare,  il  prendere;  l'effusione,  la  parsi- 
monia; l'investire,  il  dispogliare;  il  lucro,  la  iattura  l'in- 
troito, l'exito;  il  guadagno,  il  dispendio;  l'avarizia,  la 
liberalitade,  con  il  numero  e  misura,  eccesso  e  difetto; 
equalitade,  inequalitade;  debito,  credito.  Dopoi  sicurtà, 
suspizione;  zelo,  adulazione;  onore,  dispreggio;  riverenza, 
scherno,  ossequio,  dispetto;  grazia,  onta;  agiuto,   desti- 


(I)  spaccio.  Terza  parte  del  secondo  Dialogo. 


vili.  -  U  Fortuna  121 


tuzione;  disconforto,  consolazione;  invidia,  congratula- 
zione; emulazione,  compassione;  confidenza,  diffidenza; 
dominio,  servitù;  libertà,  cattività;  compagnia,  solitudine. 
Tu,  Occasione,  camina  avanti,  precedi  gli  miei  passi, 
aprime  mille  e  mille  strade,  va  incerta,  incognita,  oc- 
colta,  per  ciò  che  non  voglio  che  il  mio  advenimento  sia 
troppo  antiveduto.  Dona  de*  sghiaffi  a  tutti  vati,  profeti, 
divini,  mantici  e  prognosticatori.  A  tutti  quei,  che  si  at- 
traversano per  impedirne  il  corso  nostro,  donagli  su  le 
coste.  Togli  via  d'avanti  gli  miei  ^piedi  ogni  possibile 
intoppo.  Ispiana  e  spianta  ogni  altro  cespuglio  de'  dis- 
segni, che  ad  un  cieco  nume  possa  esser  molesto,  onde 
comodamente  per  te,  mia  guida,  mi  fia  definito  il  mon- 
tare o  il  poggiare,  il  divertir  a  destra  o  a  sinistra,  il  mo- 
vere, il  fermare,  il  menar  e  il  ritener  de'  passi.  Io  in  un 
momento  e  insieme  insieme  vo  e  vegno,  stabilisco  e 
muovo,  assorgo  e  siedo,  mentre  a  diverse  e  infinite  cose 
con  diversi  mezzi  de  l'occasione  stendo  le  mani.  Discor- 
rerne dunque  da  tutto,  per  tutto,  in  tutto,  a  tutto;  quivi 
con  dei,  ivi  con  gli  eroi;  qua  con  uomini,  là  con  bestie. 


IX. 
SONNO  ED  OZIO  <» 


...Qua  il  Sonno  si  fece  un  passetto  avanti,  e  si  fricò 
alquanto  gli  occhi  per  dire  ancora  lui  qualche  cosetta  ed 
apportar  qualche  picciolo  proposito  avanti  il  Senato, 
per  non  parer  d'esservi  venuto  in  vano.  Quando  Momo 
il  vedde  così  suavemente  rimenarsi  pian  pianino,  rapito 
dalla  grazia  e  vaghezza  de  la  dea  Oscitazione,  che,  come 
aurora  avanti  il  sole,  precedeva  avanti  a  lui,  in  punto  di 
voler  far  ella  il  prologo;  e  non  osando  di  scuoprir  il  suo 
amor  in  conspetto  degli  dei,  per  non  essergli  lecito  di 
accarezzar  la  fante,  fece  carezze  al  signore  in  questa 
foggia  (dopo  aver  gittato  un  caldetto  suspiro)  parlando 
per  lettera,  per  fargli  più  riverenza  ed  onore: 

Somne,  quies  rerum,  placidissime  somne  deorum. 
Pax  animi,  quem  cura  fugit,  qui  corpora  duris 
Fessa  ministeriis   mulces,   reparasque  labori. 

Non  sì  tosto  ebbe  cominciata  questa  cantilena  il  dio 
de  le  riprensioni  (il  quale  per  la  già  detta  caggione  s'era 
dismenticato  de  l'ufficio  suo)  che  il  Sonno,  invaghito 
per  il  proposito  di  tante  lodi  e  demulcto  dal  tono  di 
quella  voce,  invita  a  l'udienza  il  Sopore,  che  gli  alloggiava 
negli  precordii.  Il  quale,  dopo  aver  fatto  cenno  alle  fu- 
mositadi,  che  faceano  residenza  nel  stomaco,  gli  mon- 


(1)  spaccio.  Dialogo  terzo 


IX.  -   Sonno  ed  Ozio  123 


torno  tutti  insieme  sul  cervello,  e  cossi  vennero  ad  ag- 
gravarli la  testa,  e  con  questo  vennero  e  discioperarsi  gli 
sensi.  Or  mentre  il  Ronfo  sonavagli  li  scifoli  e  tromboni 
innante,  andò  trepidando  trepidando  a  curvarsi  e  dar 
di  capo  in  seno  di  madonna  Giunone;  e  da  qyel  chino 
avenne  (perchè  questo  dio  va  sempre  in  camicia  e  senza 
braghe)  che,  per  essere  la  camicia  troppo  corta,  mostrò 
le  natiche,  il  coliseo  e  la  punta  del  campanile  a  Momo  e 
tutti  gli  altri  dei,  ch'erano  da  quella  parte.  Or,  con  questa 
occasione,  ecco  venuto  in  campo  il  Riso,  con  presentar 
agli  occhi  del  Senato  la  prospettiva  di  tanti  ossetti,  che 
tutti  eran  denti;  e,  facendosi  udire  con  la  dissonante  mu- 
sica di  tanti  cachinni,  interruppe  il  filo  de  l'orazione  a 
Momo.  Il  qual,  non  possendosi  risentir  contra  costui, 
tutto  il  sdegno  suo  converse  contra  il  Sonno,  che  l'avea 
provocato,  con  non  premiarlo  al  meno  di  buona  atten- 
zione, e  di  sopragionta,  con  andar  ad  offrirgli  con  tanta 
sollennitade  il  purgatorio,  con  la  pera  e  baculo  di  Gia- 
cobbe, come  per  maggior  dispreggio  del  suo  adulatorio 
ed  amatorio  dicendi  genus.  Là  onde  ben  si  accorgeva,  che 
gli  dei  non  tanto  ridevano  per  la  condizion  del  Sonno, 
quanto  per  il  strano  caso  intervenuto  a  lui,  e  perchè  il 
Sonno  era  giocatore  ed  egli  era  suggetto  di  questa  co- 
media;  e  con  ciò  avendogli  la  Vergogna  d'un  velo  san- 
guigno ricoperto  il  volto:  —  A  chi  tocca,  disse,  di  levarci 
dinanzi  questo  ghiro?  Chi  fa,  che  sì  a  lungo  questo  lu- 
dibrioso  specchio  ne  si  presente  agli  occhi  ?  In  tanto  la 
dea  Poltronaria,  commossa  da  la  rabbiosa  querela  di 
Momo  (dio  de'  non  più  volgari,  ch'abbia  il  cielo),  se  mise 
il  suo  marito  in  braccio;  e  presto,  avendolo  indi  tolto; 
lo  menò  verso  la  cavità  d'un  monte  vicino  a  gli  Cim.merii, 
e  con  questi  si  partirò  li  suoi  tre  figli  Morfeo,  Icilone  e 
Fantaso;  che  tutti  tosto  si  ntrovorno  là,  dove  da  la  terra 
perpetue  nebbie  exalano,  caggionando  eterno  crepuscolo 
a  l'aria:  dove  vento  non  soffia,  e  la  muta  Quiete  tiene  un 
suo  palaggio  ancora  vicino  a  la  regia  del  Sonno;  avanti 
il  cui  atrio  è  un  giardino  di  tassi,  faghi,  cipressi,  bussi  e 
lauri;  nel  cui  mezzo  è  una  fontana,  che  deriva  da  un  picciol 


124  Parte  seconda 

rio.  che  dal  rapido  varco  del  fiume  leteo,  divertendo  dal 
tenebroso  inferno  alla  superficie  de  la  terra,  Ivi  viene  a 
discuoprlrsi  al  cielo  aperto.  Qua  il  dormiglioso  dio  ri- 
mesero  nel  suo  letto;  di  cui  d'ebano  le  tavole,  di  piuma 
i  strami  e  il  padiglion  di  seta  di  color  pardiglio. 

In  questo  mentre,  presa  avendo  licenza  il  Riso,  se 
partì  dal  conclave;  ed  essendo  rimesse  al  suo  sesto  le 
bocche  e  ganasse  degli  dei,  che  poco  mancò  che  non  ve- 
nesse  smascellato  alcuno  di  essi;  l'Odo,  il  qual  solo  ivi 
era  rimaso,  vedendo  il  gludicio  de'  dei  non  troppo  inchi- 
nato al  suo  favore,  e  desperando  di  profittar  oltre  in  qual- 
che maniera,  se  le  sue  quasi  tutte  e  più  principali  rag- 
gioni  non  erano  accettate,  ma,  tante  quante  furo,  di  ro- 
vescio erano  state  ributtate  a  terra,  dove  per  forza  de  la 
repulsa  altre  erano  mal  vive,  altre  erano  crepate,  altre 
aveano  il  collo  rotto,  altre  in  tutto  erano  andate  in  pezzi  e 
fracasso:  stimava  ogni  momento  un  anno,  per  pigliar 
occasione  di  torsi  de  là  di  mezzo,  prima  che  forse  gli 
potesse  intravenire  qualche  vituperosa  disgrazia  simile  a 
quella  del  suo  compagno,  per  rispetto  del  quale  dubitava 
che  Momo  non  gli  aggravasse  le  censure  contra.  Ma 
quello,  scorgendo  il  spavento,  che  costui  avea  di  fatti 
non  suoi:  —  Non  dubitar,  povera  persona,  gli  disse; 
perchè  io,  instituito  dal  fato  advocato  de*  poveri,  non 
voglio  mancar  di  far  la  causa  tua.  E  voltato  a  Giove,  gli 
disse:  —  Per  il  tuo  dire,  o  Padre,  intorno  alla  causa  de 
rOcio  comprendo  che  non  sei  a  pieno  informato  de  l'esser 
suo,  della  sua  stanza  e  degli  suoi  ministri  e  corte;  la  qual 
certamente  se  verrai  a  conoscere,  facilmente  mi  persuado 
che,  se  non  come  Odo  lo  vuoi  incatedrare  nelle  stelle,  al- 
m  eno  come  Negocio  lo  farai  alloggiare  insieme  con  quel- 
l'altro, detto  e  stimato  suo  nemico;  con  il  qual,  senza 
farsi  male  l'un  l'altro,  potrà  far  perpetuo  soggiorno. 
Rispose  Giove,  che  lui  desiderava  occasione  di  poter 
giustamente  contentar  l'Odo,  de  le  cui  carezze  non  è 
mortale  né  dio,  che  non  soglia  sovente  deiettarsi;  però 
che  volentieri  l'ascoltarebbe,  se  gli  facesse  intendere  qual- 
che nervosa  causa  in  suo  favore.  —  Ti  par,  Giove,  disse. 


IX.   -  Sonno  ed  Ozio  I  25 

che  in  casa  de  rOclo  sia  ocio,  quanto  a  la  vita  attiva,  là 
dove   son   tanti   gentiluomini   di   compagnia   e  servitori, 
che  si  alzano  ben  per  tempo  la  mattina,  per  lavarsi  tre  e 
quattro  volte  con  cinque  o  sette  sorte  d'acqua  il  volto  e  le 
mani,  e  che  col  ferro  caldo  e  con  l'impeciatura  di  felce 
spendeno  due  ore  ad  incresparsi  e  ricciarsi  la  chioma, 
imitando  la  alta  e  grande  previdenza,  da  cui  non  è  ca- 
pello di  testa,  che  non  viene  ad  essere  esaminato,  acciò 
di  quello  secondo  la  sua  raggione  vegna  disposto?  Dove 
appresso  con  tanta  diligenza  si  rassetta  il  giuppone,  con 
tanta  sagacità  si  ordinano  le  piegature  del  collaio,  con 
tanta  moderanza  s  affibiano  gli  bottoni,  con  tanta  genti- 
lezza s'accomodano  gli  polsi,  con  tanta  delicatura  si  pur- 
gano e   si   contemprano  le  unghie,   con   tanta  giustizia, 
moderanza  ed  equità  s'accopulano  le  braghe  col  giub- 
bone, con  tanta  circonspezione  si  disponeno  que'  nodi 
de  le  stringhe;  con  tanta  sedulità  si  menano  e  rimenano 
le  cave  palme,  per  far  andar  a  sesto  la  calzetta;  con  tanta 
simmetria  vanno  a  proporzionarsi  gli  termini  e  confini, 
dove  l'orifìcii  de'  cannoni  de  le  braghe  s'uniscono  a  le 
calzette  in  circa  la  piegatura  de  le  ginocchia,  con  tanta 
pazienza   si   comportano   gli   artissimi   legami   o   garret- 
tiere,  perchè  non  diffluiscano  le  calzette  a  far  le  pieghe  e 
confondere  la  proporzione  di  quelle  con  le  gambe;  dove 
col  polso  della  difficultade  dispensa  e  decerne  il  giudicio, 
che,  non  essendo  leggiadro  e  convenevole  che  la  scarpa 
s'accommode   al   piede,   vegna   il   piede   largo,    distorto, 
nodoso  e   rozzo,   al  suo  marcio  dispetto,  ad  accommo- 
darsi  con  la  scarpa  stretta,  dritta,  tersa  e  gentile?  Dove 
con  tanta  leggiadria  si  muoveno  gli  passi,  si  discorre,  per 
farsi  contemplare,  la  cittade,  si  visitano  e  intertegnono 
le  dame,  si  balla,  si  fa  de  capriole,  di  correnti,  di  branli, 
di  tresche;  e,  quando  altro  non  è  che  fare,  per  essersi 
stancato  ne  le  dette  operazioni,  ad  evitar  l'inconveniente 
di  commettere  errori,  si  siede  a  giuocare  di  giuochi  da 
tavola,  ritrandosi  dagli  altri  più  forti  e  faticosi,  e  in  tal 
maniera  s'evitano  tutti  li  peccati,  se  quelli  non  son  più 
che  sette  mortali  e  capitali;  perchè,  come  disse  un  gè- 


1  26  Parte  seconda 

noese  giocatore:  —  Che  superbia  vuol  tu  ch'abbia  un 
uomo,  il  quale,  avendo  perduti  cento  scudi  con  un  conte, 
si  mette  a  giocar  per  vencere  quattro  reali  ad  un  famiglio? 
Che  avarizia  può  aver  colui,  a  cui  mille  scudi  non  durano 
otto  giorni?  Che  lussuria  e  amor  cupidinesco  può  tro- 
varsi in  quello,  il  quale  ha  messa  tutta  l'attenzion  del 
spirto  al  giocare?  Come  potrai  arguire  d'ira  colui,  che 
per  tema  ch'il  compagno  non  si  parta  dal  giuoco,  com- 
porta mille  ingiurie,  e  con  gentilezza  e  pazienza  risponde 
ad  un  orgoglioso,  che  gli  è  avanti?  Per  qual  modo  può 
esser  goloso  chi  mette  ogni  dispendio  e  applica  ogni  sol- 
lecitudine a  l'esercizio  suo?  Che  invidia  può  essere  in 
costui  per  quel  ch'altri  possieda,  se  getta  via,  e  par  che 
spreggle  il  suoP  Che  accidia  può  essere  in  quello,  che 
cominciando  da  mezzo  giorno,  e  tal  volta  da  la  mattina, 
insino  a  mezza  notte  mai  cessa  di  giuocare?  E  vi  par  che 
faccia  in  questo  mentre  star  in  odo  gli  servitori,  e  quelli 
che  gli  denno  assistere,  e  quelli  che  gli  denno  admini- 
strare?  al  tempio,  al  mercato,  a  la  cantina,  a  la  cocina,  a 
la  stalla,  al  letto,  al  bordello?  E  per  farvi  vedere,  o  Giove, 
e  voi  altri  dei,  che  in  casa  de  l'Ozio  non  mancano  de  per- 
sone dotte  e  literate,  occupate  a  studii,  oltre  quelle  oc- 
cupate a'  negocii,  de'  quali  abbiamo  detto:  pare  a  voi, 
che  in  casa  de  l'Odo  si  stia  in  odo  quanto  a  la  vita  con- 
templativa, dove  non  mancano  grammatici,  che  dispu- 
tano di  chi  è  stato  prima,  il  nome  o  il  verbo?  Perchè 
l'adiettivo  accade  che  si  pona  avanti  e  appresso  al  sustan- 
tivo?  Onde  ne  la  dizione  alcuna  copula,  quale,  verbi  gra- 
zia, et,  si  pone  innanzi  ed  alcun'altra,  quale  per  essempio, 
que,  si  pone  a  dietro?  Come  \o  e  e  d  con  la  giunta  del 
temone  e  scissione  del  d  per  il  mezzo,  viene  a  far  como- 
damente il  ritratto  di  quel  nume  di  Lampsaco,  che  per 
invidia  commise  rasinicidio?  Chi  è  l'autore  a  cui  legiti- 
mamente  deve  referirsi  il  libro  della  P  r  i  a  p  e  a  ,  il 
Maron  mantuano,  o  pur  il  sulmonese  Nasone?  Lascio 
tanti  altri  bel  propositi  simili,  e  più  gentili  che  questi. 
Dove  non  mancano  dialettici,  che  inquireno,  se  Cnsaono, 
che  fu  discepolo  di  Porfirio,  avea  bocca  d'oro  per  natura, 


IX.  -  Sonno  ed  Ozio  127 


o  per  riputazione,  o  solamente  per  nomenclatura;  se  la 
Periermenia  deve  passar  avanti,  o  venir  ap- 
presso, o  pur,  ad  libitum,  mettersi  innanzi  e  a  dietro  de 
e  Categorie;  se  l'individuo  vago  deve  esser  messo 
m  numero,  e  posto  in  mezzo,  come  un  sesto  predicabile, 
o  pur  essere  come  scudiero  de  la  specie  e  caudatario  del 
geno;  se,  dopo  esser  periti  in  forma  sillogistica,  doviamo 
per  la  prima  applicarne  al  studio  della  Posteriore, 
dove  si  complisce  l'arte  giudicativa,  o  ver  subito  dar  su 
la  Topica,  per  cui  si  mette  la  perfezion  de  l'arte 
inventiva;  se  bisogna  pratticar  le  captiuncule  ad  usum 
vel  ad  fugam  vel  in  abusum;  se  gli  modi,  che  formano  le 
modali,  son  quattro,  o  quaranta,  o  quattro  cento;  non 
voglio  dire  mille  altre  belle  questioni.  Dove  son  gli  fisici, 
che  dubitano,  se  de  le  cose  naturali  può  essere  scienza;  se 
lo  suggetto  è  ente  mobile,  o  corpo  mobile,  o  ente  naturale, 
o  corpo  naturale;  se  la  materia  bave  altro  atto  che  enti- 
tativo;  dove  consiste  la  linea  de  la  coincidenza  del  fisico 
e  matematico;  se  è  la  creazione  e  produzione  de  niente 
è,  o  non;  se  la  materia  può  essere  senza  la  forma;  se  più 
forme  sustanziali  possono  essere  insieme;  ed  altri  innu- 
merabili  simili  quesiti  circa  cose  manifestissime,  se  non 
con  disutili  investigazioni  son  messe  in  questione.  Dove 
gli  metafìsici  si  rompeno  la  testa  circa  11  principio  dell'in- 
dividuazione; circa  il  suggetto  ente,  in  quanto  ente; 
circa  il  provar,  che  gli  numeri  antmetrlcl  e  magnitudini 
geometriche  non  son  sustanza  de  le  cose;  circa  le  idee, 
se  è  vero,  ch'abbiano  l'esser  subsistenziale  da  per  esse; 
circa  l'essere  medesimo,  o  diverso  subiettivamente  ed 
obiettivamente;  circa  l'essere  ed  essenzia;  circa  gli  acci- 
denti medesimi  in  numero  in  uno  o  più  suggetti;  circa 
l'equivocazione,  univocazione  ed  analogia  de  lo  ente; 
circa  la  coniunzione  de  le  intelligenze  a  li  orbi  stel- 
liferi,  se  la  è  per  modo  di  anima,  o  pur  per  modo  di  mo- 
vente; se  la  virtù  infinita  possa  essere  in  grandezza  finita; 
circa  la  unità  o  pluralità  de  primi  motori;  circa  la  scala 
del  progresso  finito  o  infinito  in  cause  subordinate;  e 
circa  tante  e  tante  cose  simili,  che  fanno  freneticar  tante 


1  2S  Parte  seconda 

cuculle,  fanno  lambiccar  il   succhio  de  la  nuca  a  tanti 
protosofossi.  — 

Qua  disse  Giove:  —  0  Momo,  mi  par  che  l'Ocio  t'ab- 
bia guadagnato  o  subornato,  che  cossi  ociosamente 
spendi  il  tempo  e  il  proposito.  Conchiudi,  perchè  è  ben 
definito  appresso  di  noi  di  quel  che  doviamo  far  di  co- 
stui. —  Lascio  dunque,  soggionse  Momo,  de  referir 
tanti  altri  negociosi  innumerabili,  che  sono  occupati  in 
casa  di  questo  Dio;  come  è  dir  tanti  vani  versificatori 
ch'ai  dispetto  del  mondo  si  vogliono  passar  per  poeti, 
tanti  scrittori  di  fabole,  tanti  nuovi  rapportatori  d'istorie 
vecchie,  mille  volte  da  mille  altri  a  milledoppia  meglior- 
mente  referite.  Lascio  gli  algebristi,  quadraton  di  cir- 
coli, figuristi,  metodici,  riformatori  de  dialettiche,  in- 
stauratori  d'ortografie,  contemplatori  de  la  vita  e  de  la 
morte,  veri  postiglioni  del  paradiso,  novi  condottier  di 
vita  eterna  novamente  corretta  e  ristampata  con  molte 
utilissime  addizioni,  buoni  nuncii  di  meglior  pane,  di 
meglior  carne  e  vino,  che  non  possa  esser  il  greco  di 
Somma,  melvagìa  di  Candia  e  asprinio  di  Nola.  Lascio 
le  belle  speculazioni  circa  il  fato  e  l'elezione,  circa  l'ubi- 
quibilità  d'un  corpo,  circa  la  eccellenza  di  giusticia  che  si 
ritrova  ne  le  sanguisughe.  —  Qua  disse  Minerva:  —  Se 
non  chiudi  la  bocca  a  questo  ciancione,  o  padre,  spende- 
remo in  vani  discorsi  il  tempo;  e  per  il  giorno  d'oggi  non 
sarà  possibile  di  espedire  il  nostro  principal  negocio.  — 
Però  disse  il  padre  Giove  a  Momo:  —  Non  ho  tempo  di 
raggionar  circa  le  tue  ironie.  Ma,  per  venire  alla  tua  ispe- 
dicione.  Ocio,  ti  dico,  che  quello,  che  è  lodevole  e  stu- 
dioso Ocio,  deve  sedere  e  siede  nella  medesima  catedra 
con  la  Sollecitudine,  per  ciò  che  la  fatica  deve  maneggiarsi 
per  l'ocio,  e  l'ocio  deve  contemperarsi  per  la  fatica.  Per 
beneficio  di  quello  questa  fia  più  raggionevole,  più  ispe- 
dita  e  pronta,  perchè  difficilmente  dalla  fatica  si  procede 
a  la  fatica.  E  sì  come  le  azioni  senza  premeditazione  e  con- 
siderazione non  son  buone,  cossi  senza  l'ocio  premedi- 
tcinte  non  vagliono.  Parimente  non  può  essere  suave  e 
grato  il  progresso  da  l'ocio  a  l'ocio,  per  ciò  che  questo 


IX.  -  Sonno  ed  Ozio  129 


giamai  è  dolce,  se  non  quando  esce  dal  seno  della  fatica. 
Or  fia  dunque  glamal,  che  tu  Odo,  possi  esser  grato  ve- 
ramente, se  non  quando  succedi  a  degne  occupazioni. 
L'ocio  vile  ed  inerte  voglio  che  ad  un  animo  generoso  sia 
la  maggior  fatica,  che  aver  egli  possa,  se  non  se  gli  rappre- 
senta dopo  lodabile  esercizio  e  lavoro.  Voglio  che  ti  aventi 
come  signore  alla  Senettute,  e  a  colei  farai  spesso  ritorcer 
gli  occhi  a  dietro;  e  se  la  non  ha  lasciati  degni  vestigii, 
la  renderai  molesta,  triste,  suspetta  del  prossimo  giudicio 
deirimpendente  staggione,  che  l'amena  a  l'inexcrabile 
tribunal  di  Radamanto,  e  cossi  vegna  a  sentir  gli  orrori 
della  morte,  prima  che  la  vegna. 


X. 
LA  VERGINE") 


Sofia. —  Or,  che  sarà  della  Vergine? — dimandò  la 
casta  Lucina,  la  cacciatrice  Diana.  —  Fategli,  rispose 
Giove,  intendere  se  la  vuole  andare  ad  esser  priora  o  ab- 
batessa  delle  suore  o  monache,  le  quali  son  ne*  conventi 
o  monasterii  de  l'Europa;  dico,  in  que'  luoghi,  dove  non 
son  state  messe  in  rotta  e  dispersione  da  la  peste:  o  pur 
a  governar  le  damigelle  de  le  corti,  a  fin  che  non  le  as- 
salte  la  gola  di  mangiar  li  frutti  avanti  o  fuor  de  la  stag- 
gione,  o  rendersi  compagne  de  le  lor  signore.  —  Oh, 
disse  Dictinna,  che  non  puote;  e  dice  che  non  vuole  in 
punto  alcuno  ritornar  onde  è  una  volta  scacciata,  e  donde 
è  tante  volte  fuggita.  —  Il  protoparente  suggionse:  — 
Tegnasi  dunque  ferma  in  cielo,  e  guardisi  bene  -di  ca- 
scare, e  veda  di  non  farsi  contaminare  in  questo  loco. — 
Disse  Momo:  —  Mi  par  che  la  potrà  perseverar  pura  e 
netta,  si  perseverarà  di  esser  lungi  da  animali  raggionevoli, 
eroi  e  dei,  e  si  terrà  tra  le  bestie,  come  sin  al  presente  è 
stata,  avendo  da  la  parte  occidentale  il  ferocissimo  Leone, 
e  dall'oriente  il  tossicoso  Scorpio.  Ma  non  so  come  si  por- 
tare adesso,  dove  gli  è  prossima  la  Magnanimitade,  l'Amo- 
revolezza, la  Generositade  e  Vinlitade,  che  facilmente 
montandogli  a  dosso,  per  raggion  di  domestico  contatto 
facendoli  contraere  del  magnanimo,  amoroso,  generoso 
e  virile,  da  femina  la  faranno  dovenir  maschio,  e  da  sel- 
vaggia e  alpestre  dea,  e  nume  da  Satiri,  Silvani  e  Fauni, 


(1)  Spaccio.  Dialogo  terzo. 


X.  -  La  Vergine  1 3 1 

la  convertiranno  in  nume  galante,  umano,  affabile  e  ospi- 
tale. —  Sia  quel  che  deve  essere,  rispose  Giove;  ed  intra 
tanto,  gionte  a  lei  ne  la  medesima  sedia,  sieno  la  Castità, 
la  Pudicizia,  la  Continenza,  Purità,  Modestia,  Verecundia 
e  Onestade,  contrarie  alla  prostituta  Libidine,  effusa  In- 
continenza, Impudicizia,  Sfacciatagine;  per  le  quali  in- 
tendo la  Verginitade  esser  una  de  le  virtudi,  atteso  che 
quanto  a  se  non  è  cosa  di  valore.  Perchè,  quanto  a  sé,  non 
è  virtù  né  vizio,  e  non  contiene  bontà,  dignità,  né  merito; 
e  quando  non  serve  alla  natura  imperante,  viene  a  farsi 
delitto,  impotenza,  pazzia  e  stoltizia  espressa:  e  se  ottem- 
pera a  qualche  urgente  raggione,  si  chiama  continenza, 
e  ha  l'esser  di  virtù,  per  quel  che  participa  di  tal  fortezza 
e  dispreggio  di  voluttadi:  il  quale  non  è  vano  e  frustra- 
torio,  ma  conferisce  alla  conversazione  umana  ed  onesta 
satisfazione  altrui. 


XI. 
LA  BILANCIA  (') 


E  che  faremo  de  le  Bilancie?,  disse  Mercurio.  —  Va- 
dano per  tutto,  rispose  il  primo  presidente:  vadano  per  le 
fameglie,  acciò  con  esse  li  padri  veggano  dove  meglio 
inchinano  gli  figli,  se  a  lettere,  se  ad  armi;  se  ad  agricol- 
tura, se  a  religione:  se  a  celibato,  se  ad  amore;  atteso  che 
non  è  bene,  che  sia  impiegato  l'asino  a  volare,  e  ad  arare 
i  porci.  Discorrano  le  academie  e  universitadi,  dove  s'es- 
samine  se  quei  che  insegnano,  son  giusti  di  peso,  se  son 
troppo  leggeri  o  trabuccanti;  e  se  quei,  che  presumeno 
d'insegnar  in  catedra  e  scrittura,  hanno  necessità  d'udire 
e  studiare:  e,  bilanciandoli  l'ingegno,  si  vegga  se  quello 
impenna,  over  impiomba;  e  se  ha  della  pecora,  o  pur  del 
pastore;  e  se  è  buono  a  pascer  porci  ed  asini,  o  pur  crea- 
ture capaci  di  raggione.  Per  gli  edifìcii  Vestali  vadano  a 
far  intendere  a  questi  e  a  quelle,  quale  e  quante  sia  il 
momento  del  contrapeso,  per  violentar  la  legge  di  natura 
per  un'altra  sopra-  o  estra-  o  contra-  naturale,  secondo 
o  fuor  d'ogni  raggione  o  debito.  Per  le  corti,  a  fin  che  gli 
ufficii,  gli  onori,  le  sedie,  le  grazie  ed  exenzioni  corrano 
secondo  che  ponderano  gli  meriti  e  dignitade  di  ciascuno; 
perchè  non  meritano  d'esser  presidenti  a  l'ordine,  e  a  gran 
torto  della  Fortuna  presiedono  a  l'ordine  quei  che  non  san 
reggere  secondo  l'ordine.  Per  le  republiche,  acciò  ch'il 
carico  delle  administrazioni  contrapesi  alla  sufficienza  e 
capacità  degli  suggetti;  e  non  si  distribuiscano  le  cure  con 
bilanciar  gli  gradi  del  sangue,  de  la  nobilitade,  de'  titoli. 


(1)  Spaccio.   Ibid. 


XI.  -  La  Bilancia  133 


de  ricchezza:  ma  de  le  vlrtudi,  che  parturiscono  gli  frutti 
de  le  imprese;  perchè  presiedano  i  giusti,  contribuiscano 
i  {acuitosi,  insegnino  li  dotti,  guideno  gli  prudenti,  com- 
battano gli  forti,  conseglino  quei  ch'han  giudicio,  co- 
mandino quei  ch'hanno  autoritade.  Vadano  per  gli  stati 
tutti,  a  fin  che  negli  contratti  di  pace,  confederazioni  e 
leghe  non  si  prevariche  e  decline  dal  giusto,  onesto  ed 
utile  commune,  attendendo  alla  misura  e  pondo  della 
fede  propria  e  de  quei,  con  gli  quali  si  contratta;  e  nel- 
rimprese  e  affari  di  guerra  si  consideri,  in  quale  equilibrio 
concorrano  le  proprie  forze  con  quelle  del  nemico,  quello 
che  è  presente  e  necessario,  con  quello  che  è  possibile  nel 
futuro,  la  facilità  del  proponere  con  le  diffìcultà  dell'exe- 
quire,  la  comodità  dell'entrare  con  l'incomodo  dell'uscire, 
l'incostanza  d'amici  con  la  constanza  de'  nemici,  il  piacere 
d'offendere  con  il  pensiero  di  defendersi,  il  comodo  turbar 
quel  d'altri  con  il  malaggiato  conservare  il  suo,  il  certo  di- 
spendio e  iattura  del  proprio,  con  l'incerto  acquisto  e  gua- 
dagno de  l'altrui.  Per  tutti  gli  particulari  vadano,  acciò 
ogn'uno  contrapesi  quel  che  vuole  con  quel  che  sa;  quel 
che  vuole  e  sa  con  quel  che  puote;  quel  che  vuole,  sa  e 
puote,  con  quel  che  deve;  lo  che  vuole,  sa,  puote  e  deve, 
con  quel  che  è,  fa,  ha  ed  aspetta.  —  Or,  che  metteremo 
dove  son  le  Bilancie?  Che  sarà  in  loco  della  Libra?  —  do- 
mandò Pallade.  Risposero  molti:  —  La  Equità,  il  Giusto, 
la  Retribuzione,  la  raggionevole  Distribuzione,  la  Grazia 
la  Gratitudine,  la  buona  Conscienza,  la  Recognizion  di 
se  stesso,  il  Rispetto,  che  si  deve  a*  maggiori,  l'Equa- 
nimità, che  si  deve  ad  uguali,  la  Benignità,  che  si  richiede 
verso  gl'inferiori,  la  Giustizia  senza  rigore  a  riguardo  di 
tutti,  che  spingano  l'Ingratitudine,  la  Temeritade,  l'In- 
solenza, l'Ardire,  l'Arroganza,  il  poco  Rispetto,  l'Iniqui- 
tade,  l'Ingiuria  ed  altre  familiari  di  queste.  —  Bene, 
bene!  —  dissero  tutti  del  Concistoro. 


XII. 
ORIONE*') 


i 


Che  farete,  o  Dei,  del  mio  favorito,  del  mio  bel  mi- 
gnone,  di  quell'Orione,  dico,  che  fa,  per  spavento  (come 
dicono  gli  etimologisti),  orinare  il  cielo? 

—  Qua,  rispose  Momo:  —  Lasciate  proponere  a  me, 
o  dei.  Ne  è  cascato,  come  è  proverbio  in  Napoli,  il  mac- 
carone  dentro  il  formaggio.  Questo,  perchè  sa  far  de  ma- 
raviglie, e,  come  Nettuno  sa,  può  caminar  sopra  l'onde 
del  m.are  senza  infossarsi,  senza  bagnarsi  gli  piedi;  e  con 
questo  consequentemente  potrà  far  molte  altre  belle  gen- 
tilezze; mandiamolo  tra  gli  uomini;  e  facciamo  che  gli 
done  ad  intendere  tutto  quello  che  ne  pare  e  piace,  fa- 
cendogli credere  che  il  bianco  è  nero,  che  l'intelletto 
umano,  dove  li  par  meglio  vedere,  è  una  cecità;  e  ciò  che 
secondo  la  raggione  pare  eccellente,  buono  e  ottimo,  è 
vile,  scelerato  ed  estremamente  malo;  che  la  natura  è 
una  puttana  bagassa;  che  la  legge  naturale  è  una  ribaldaria; 
che  la  natura  e  divinità  non  possono  concorrere  in  uno 
medesimo  buono  line,  e  che  la  giustizia  de  l'una  non  è 
subordinata  alla  giustizia  de  l'altra,  ma  son  cose  contrarie, 
come  le  tenebre  e  la  luce;  che  la  divinità  tutta  è  madre  di 
Greci,  ed  è  ccme  nemica  matrigna  de  l'altre  generazioni; 
onde  nessuno  può  esser  grato  a'  dei  altrimente  che  gre- 
chizando,  id  est  facendosi  Greco:  perchè  il  più  gran  sce- 
lerato e  poltrone,  ch'abbia  le  Grecia,  per  essere  appar- 
tenente alla  generazione  degli  dei,  è  incomparabilmente 
megliore  che  il  più  giusto  e  magnanimo,  ch'abbia  pos- 
suto  uscir  da  Roma,  in  tempo  che  fu  republica,  e  da  qual- 
sivoglia altra  generazione,  quantunque  meglior  in  costumi, 


I     spaccio.  Terza  parte  del  dialogo  terzo 


XII.  -  Orione  135 

scienze,  fortezza,  gludicio,  bellezza  e  autorità.  Perchè 
questi  son  doni  naturali  e  spreggiati  dagli  dei,  e  lasciati 
a  quelli,  che  non  son  capaci  de  più  grandi  privilegi!:  cioè 
di  que'  sopranaturali,  che  dona  la  divinità,  come  questo 
di  saltar  sopra  Tacqui,  di  far  ballere  i  granchi,  di  far  fare 
capriole  a'  zoppi,  far  vedere  le  talpe  senza  occhiali,  ed 
altre  belle  galantarie  innumerabili.  Persuaderà  con  questo, 
che  la  filosofia,  ogni  contemplazione  ed  ogni  magia,  che 
possa  fargli  simili  a  noi,  non  sono  altro  che  pazzie;  che  ogni 
atto  eroico  non  è  altro  che  vegliaccaria;  e  che  la  ignoranza 
è  la  pili  bella  scienza  del  mondo,  perchè  s'acquista  senza 
fatica,  e  non  rende  l'animo  affetto  di  melancolia.  Con 
questo  forse  potrà  richiamare  e  ristorar  il  culto  ed  onore, 
ch'abbiamo  perduto;  ed  oltre,  avanzarlo,  facendo  che  gli 
nostri  mascalzoni  siano  stimati  dei  per  esserno  o  Greci 
o  ingrecati.  Ma  con  timore,  o  dei,  io  vi  dono  questo  con- 
seglio;  perchè  qualche  mosca  mi  susurra  ne  l'orecchio: 
atteso  che  potrebbe  essere,  che  costui  al  fine,  trovandosi 
la  caccia  in  mano,  non  la  tegna  per  lui,  dicendo  e  facen- 
doli oltre  credere,  che  il  gran  Giove  non  è  Giove  ma  che 
Orione  è  Giove;  e  che  li  dei  tutti  non  sono  altro  che  chi- 
mere e  fantasie.  Per  tanto  mi  par  pure  convenevole,  che 
non  permettiamo,  che  per  fas  et  nefas,  come  dicono,  voglia 
far  tante  destrezze  e  demostranze,  per  quante  possa  farsi 
nostro  superiore  in  riputazione.  — 

Qua  rispose  la  savia  Minerva:  —  Non  so,  o  Momo, 
con  che  senso  tu  dici  queste  paroli,  doni  questi  consegli, 
metti  in  campo  queste  cautele.  Penso  ch'il  parlar  tuo  è 
ironico;  perchè  non  ti  stimo  tanto  pazzo,  che  possi  pensar 
che  gli  dei  mendicano  con  queste  povertadi  la  riputazione 
appresso  gli  uomini;  e,  quanto  a  questi  impostori,  che  la 
falsa  riputazion  loro,  la  quale  è  fondata  sopra  l'ignoranza 
e  bestialità  de  chiunque  le  riputa  e  stima,  sia  lor  onore 
più  presto,  che  confirmazione  della  loso  indignità  e  som- 
mo vituperio.  Importa  a  l'occhio  della  divinità  e  presi- 
dente verità,  che  uno  sia  buono  e  degno,  benché  nissuno 
de'  mortali  lo  conosca;  ma  che  un  altro  falsamente  ve- 
nesse  sino  ad  essere  stimato  dio  da  tutti  mortali,  per  ciò 

Bruno,   In   tristitia  hilarii,  etc  II  . 


136  Parte  seconda 

non  si  agglongerà  dignità  a  lui,  perchè  solamente  vien 
fatto  dal  fato  Instrumento  e  indice,  per  cui  si  vegga  la 
tanto  maggiore  indignità  e  pazzia  di  que*  tutti,  che  lo 
stimano,  quanto  colui  è  più  vile,  ignobile  e  abietto.  Se 
dunque  si  prenda  non  solamente  Orione,  il  quale  è  Greco 
e  uomo  di  qualche  pregglo;  ma  uno  della  piìi  indegna  e 
fraclda  generazion  del  mondo,  di  più  bassa  e  sporca  na- 
tura e  spirito,  che  sia  adorato  per  Giove,  certo  mai  verrà 
esso  onorato  in  Giove,  ne  Giove  spreggiato  in  lui:  atteso 
che  egli  mascherato  e  incognito  ottiene  quella  piazza  o 
solio,  ma  più  tosto  altri  verranno  vilipesi  e  vituperati 
in  lui.  Mal,  dunque,  potrà  un  forfante  essere  capace  di 
onore  per  questo,  che  serve  per  scimia  e  beffa  di  ciechi 
mortali  con  il  ministero  de'  genii  nemici.  — 

Or  sapete,  disse  Giove,  quel  che    definisco  di    costui 
per  evitar  ogni   possibile  futuro  scandalo?  Voglio  che 
vada  via  a  basso;  e  comando  che  perda  tutta  la  virtù  di  far 
de   bagattelle,    imposture,    destrezze,    gentilezze    e    altre 
maraviglie,  che  non   serveno  di  nulla;  perchè  con  quello 
non  voglio,  che  possa  venire  a  destruggere  quel  tanto  di 
eccellenza  e  dignità,  che  si  trova  e  consiste  nelle  cose 
necessarie  alla  republlca  del  mondo;  il  qual  veggio  quanto 
sia  facile  ad  essere  ingannato,  e  per  conseguenza  incli- 
nato alle  pazzie,  e  prono  ad  ogni  corrozione  e  indignità. 
Però  non  voglio  che  la  nostra  riputazione  consista  nella 
discrezione  di  costui  o  altro  simile;  perchè,  se  pazzo  è 
un  re,  il  quale  a  un  suo  capitano  e  generoso  duca  dona 
tanta  potestà  e  autorità,  per  quanta  quello  se  gli  possa 
far   superiore  (il  che  può  essere  senza  pregiudicio  del 
regno,  il  quale  potrà  cossi  bene,  e  forse  meglio,  esser  go- 
vernato da  questo  che  da  quello);  quanto  più  sarà  insen- 
sato e  degno  di  correttore  e  tutore,  se  ponesse  o  lasciasse 
nella  medesima  autorità  un  uomo  abietto,  vile  e  ignorante, 
per  cui  vegna  ad  essere  invilito,  strapazzato,  confuso  e 
messo  sotto  sopra  il  tutto;  essendo  per  costui  posta  la 
ignoranza  in  consuetudine  di  scienze,  la  nobiltà  in  di- 
spreggio  e  la  villania  in  riputazione! 


XIII. 
LA  TAZZA  <" 


Sofia.  —  Or  che  si  farà  de  la  Tazza?  dimandò  Mercurio. 
De  la  giarra  che  si  farà? —  Facciamo,  disse  Momo,  che 
sia  donata,  iure  successionis,  vita  durante,  al  piìi  gran  be- 
vitore che  produca  l'alta  e  bassa  Alemagna,  dove  la  Gola 
è  esaltata,  magnificata,  celebrata  e  glorificata  tra  le  vir- 
tudi  eroiche;  e  la  Ebrietade  è  numerata  tra  gli  attributi 
divini:  dove  col  treink  e  retreink,  hibe  et  rebibe,  ructa  rC" 
ructa,  cespita  recespita,  vomi  revomi  usque  ad  egurgitatio- 
nem  utriusque  iuris,  id  est  del  brodo,  butargo,  menestra, 
cervello,  anime  e  salzicchia,  videbitur  porcus  porcorum  in 
gloria  Ciacchi.  Vadasene  con  quello  l'Ebriatede,  la  qual 
non  la  vedete  là  in  abito  todesco  con  un  paio  di  bragoni 
tanto  grandi,  che  paiono  le  bigonce  del  mendicante  ab- 
bate di  santo  Antonio,  e  con  quel  braghettone,  che  da 
mezzo  de  l'uno  e  l'altro  si  discuopre:  di  sorte  che  par  che 
voglia  arietare  il  paradiso?  Guardate  come  la  va  órsa, 
urtando  ora  con  questo,  ora  con  quel  fianco,  mò  di  proda, 
mò  di  poppa,  in  qualche  cosa,  che  non  è  scoglio,  sasso, 
cespuglio,  o  fosso,  a  cui  non  vada  a  pagar  il  fio.  Scorgete 
con  ella  gli  compagni  fidelissimi  Replezione,  Indige- 
stione, Fumositade,  Dormitazione,  Trepidazione,  alias 
Cespitazione,  Balbuzie,  Blesura,  Pallore,  Delirio,  Rutto, 
Neusea,  Vomito,  Sporcaria  ed  altri  seguaci,  ministri  e  cir- 
constanti. E  perchè  la  non  può  più  caminare,  vedete. 


(1)  Spaccio.  Dialogo  terzo 


133  Pdfte  seconda 

come  rimonta  sul  suo  carro  trionfale,  dove  sono  legati 
molti  buoni,  savll  e  santi  personaggi  de'  quali  li  più  ce- 
lebri e  famosi  sono  Noemo,  Lotto,  Chiacchone,  Vltan- 
zano,  Zucavlgna  e  Sileno.  L'alfìero  Zampaglion  porta  la 
banda  fatta  di  scarlato;  dove  con  il  color  di  proprie  penne 
appare  di  dol  sturni  il  naturai  ritratto;  e  gionti  a  doi  gioghi, 
con  bella  leggiadria  tirano  il  temone  quattro  superbi  e 
gloriosi  porci,  un  bianco,  un  rosso,  un  vario,  un  negro; 
de*  quali  il  primo  si  chiama  Grungarganfestrofìel,  il  se- 
condo Sorbillgramfton,  il  terzo  Glutius,  il  quarto  Scra- 
focazio. 


XIV. 
IL  CENTAURO  <" 


Or,  che  vogliamo  far  di  quest'uomo  insertato  a  bestia* 
o  di  questa  bestia  inceppata  ad  uomo,  in  cui  una  persona 
è  fatta  di  due  nature,  e  due  sustanze  concorreno  in  una 
ipostatica  unione?  Qua  due  cose  vegnono  in  unione  a  far 
una  terza  entità;  e  di  questo  non  è  dubio  alcuno.  Ma  in 
questo  consiste  la  difficultà;  cioè,  se  cotal  terze  entità 
produce  cosa  megliore  che  l'una  e  l'altra,  o  d'una  delle 
due  parti,  o  veramente  più  vile.  Voglio  dire,  se,  essendo 
a  l'essere  umano  aggionto  l'essere  cavallino,  viene  pro- 
dotto un  divo  degno  de  la  sedia  celeste,  o  pur  una  bestia 
degna  di  esser  messa  in  un  armento  e  stalla?  In  fine,  e 
sia  stato  detto  quanto  si  voglia  da  Iside,  Giove  ed  altri 
dell'eccellenza  de  l'esser  bestia,  e  che  a  l'uomo,  per  esser 
divino,  gli  conviene  aver  de  la  bestia,  e  quando  appe- 
tisce mostrarsi  altamente  divo,  faccia  conto  di  farsi  vedere 
in  tal  misura  bestia;  mai  potrò  credere  che,  dove  non  è 
un  uomo  intiero  e  perfetto,  né  una  perfetta  e  intiera 
bestia,  ma  un  pezzo  di  bestia  con  un  pezzo  d'uomo,  possa 
esser  meglio  che  come  dove  è  un  pezzo  di  braga  con  un 
pezzo  di  giubbone,  onde  mai  provegna  veste  meglior 
che  giubbone  o  braga,  ne  meno  cossi  come  questa  o  quella, 
buona.  —  Momo,  Momo,  rispose  Giove,  il  misterio 
di  questa  cosa  è  occolto  e  grande,  e  tu  non  puoi  capirlo; 
però  come  cosa  alta  e  grande,  ti  fìa  mestiero  di  solamente 

.  (1)  Ibid 


140  Parte  seconda 

crederlo.  —  So  bene,  disse  Momo,  che  questa  è  una  cosa, 
che  non  può  esser  capita  da  me,  né  da  chiunque  ha  qual- 
che piccolo  granello  d'intelletto;  ma  che  io,  che  son  un 
dio,  o  altro,  che  si  trova  tanto  sentimento,  quanto  esser 
potrebbe  un  acino  di  miglio,  debba  crederlo,  vorrei  che 
da  te  prima  con  qualche  bella  maniera  mi  vegna  donato 
a  credere.  —  Momo,  disse  Giove,  non  devi  voler  sa- 
pere più  di  quel  che  bisogna  sapere,  e  credimi,  che  questo 
non  bisogna  sapere.  —  Ecco  dunque,  disse  Momo,  quel 
che  è  necessario  intendere,  e  ch'io  al  mio  dispetto  voglio 
sapere;  e,  per  farti  piacere,  o  Giove,  voglio  credere,  che 
una  manica  e  un  calzone  vagHono  più  che  un  par  di  ma- 
niche e  un  par  di  calzoni,  e  di  gran  vantaggio  ancora; 
che  un  uomo  non  è  uomo,  che  una  bestia  non  è  bestia... 


XV. 
IL  PESCE  <') 


Saulino.  Or  che  dissero  li  Dei? 

SoF,  Non  fu  grande  o  picciolo,  maggiore  o  minore,  ma- 
schio o  femina,  o  d'una  e  d'un'altra  sorte,  che  si  trovasse 
nel  conseglio,  che  con  ogni  voce  o  gesto  non  abbia  som- 
mamente approvato  il  sapientissimo  e  giustissimo  decreto 
Gioviale.  Là  onde,  fatto  tutto  allegro  e  gioioso,  il  summi- 
tonante  s'alzò  in  piedi,  e  stese  la  destra  verso  il  pesce 
australe,  di  cui  solo  restava  a  definire,  e  disse:  —  Presto 
tolgasi  da  là  quel  Pesce,  e  non  vi  nmagna  altro  che  il  suo 
ritratto;  ed  esso  in  sustanza  sia  preso  dal  nostro  cuoco,  ed 
or  ora,  fresco  fresco,  sie  messo  per  compimento  di  nostra 
cena  parte  in  craticchia,  parte  in  guazzetto,  parte  in  agresto 
parte  acconcio  come  altnmente  li  pare  e  piace,  accomo- 
dato con  salza  rom.ana.  E  facciasi  tutto  presto,  perchè 
per  il  troppo  negociare  io  mi  muoio  di  fame,  ed  il  simile 
credo  de  voi  altri  anco:  oltre  che  mi  par  convenevole, 
che  questo  purgatorio  non  sia  senza  qualche  nostro  pro- 
fìtto ancora.  —  Bene,  bene,  assai  bene!  risposero  tutti 
gli  dei;  e  ivi  si  trove  la  Salute,  la  Securità,  l'Utilità,  il 
Gaudio,  il  Riposo,  e  somma  Voluttade,  che  son  parturite 
dal  premio  de  virtudi,  e  remunerazion  de  studii  e  fatiche. 

E  con  questo  festivamente  uscirò  dal  conclave,  avendo 
purgato  il  spacio  oltre  il  signifero,  che  contiene  trecento 
e  sedici  stelle  segnalate. 

(1)  spaccio.  Ibid. 


PARTE  TERZA 


I. 

EPISTOLA 
DEDICATORIA  A  DON  SABATINO  (" 


Reverendissime  in  Christo  Pater, 

Non  altrìmente  che  accader  suole  a  un  figolo,  il  qua], 
gionto  al  termine  del  suo  lavoro  (che,  non  tanto  per  tra- 
smigrazion  de  la  luce,  quanto  per  difetto  e  mancamento 
della  materia  spacciata,  è  gionto  al  fine)  e  tenendo  in 
mano  un  poco  di  vetro  o  di  legno,  o  di  cera  o  altro,  che 
non  è  sufficiente  per  farne  un  vase,  rimane  un  pezzo  senza 
sapersi  né  potersi  risolvere,  pensoso  di  quel  che  n'abbia 
fare,  non  avendolo  a  gittar  via  disutilmente,  e  volendo, 
al  dispetto  del  mondo,  che  serva  a  qualche  cosa;  ecco  che 
a  l'ultimo  il  mostra  predestinato  ad  essere  una  terza  ma- 
nica, un  orlo,  un  coperchio  di  fiasco,  una  forzaglia,  un 
empiastro,  o  una  intacconata,  che  risalde,  empia,  o  ri- 
cuopra  qualche  fessura,  pertuggio,  o  crepatura;  è  avvenuto 
a  me,  dopo  aver  dato  spaccio,  non  a  tutti  miei  pensieri, 
ma  a  un  certo  fascio  de  scritture  solamente,  che  al  fine, 
non  avendo  altro  da  ispedire,  più  per  caso  che  per  consi- 
glio ho  volti  gli  occhi  ad  un  cartaccio,  che  avevo  altre  volte 
spreggiato  e  messo  per  copertura  di  que'  scritti:  trovai  che 
conteneva  in  parte  quel  tanto  che  vi  vederete  presentato. 

Questo  prima  pensai  di  donarlo  a  un  cavalliero;  il  quale, 
avendovi  aperti  gli  occhi,  disse  che  non  avea  tanto  stu- 
diato che  potesse  intendere  gli  misterii;  e  per  tanto  non 
gli  possea  piacere.  L'offersi  appresso  ad  un  di  questi  mi- 
nistri verbi  Dei;  e  disse  che  era  amico  della  lettera,  e  che 


(I)  Cabala  del  Cavallo  Pegasto 


148  Parte  terza 

non  SI  delettava  de  simili  esposizioni  proprie  a  Origene, 
accettate  da*  scolastici  ed  altri  nemici  della  lor  professione. 
Il  misi  avanti  ad  una  dama;  e  disse  che  non  gli  aggradava 
per  non  esser  tanto  grande  quanto  conviene  al  suggetto 
d'un  cavallo  e  un  asino.  Il  presentai  ad  un'altra;  la  quale, 
quantunque  gustandolo  gli  piacesse,  avendolo  gustato 
disse  che  ci  volea  pensar  su  per  qualche  giorno.  Viddi  se 
vi  potesse  accoraggiar  una  pinzocchera;  e  la  me  disse: 
Non  lo  accetto,  se  parla  d'altro  che  di  rosario,  della  vertù 
de'  granelli  benedetti  e  de  l'agnusdei. 

Accostailo  al  naso  d'un  pedante,  il  qual,  avendo  tor- 
ciuto  il  viso  in  altra  parte,  mi  disse  che  aboliva  ogn 'altro 
studio  e  materia,  eccetto  che  qualche  annotazione,  scolia 
e  interpretazione  sopra  Vergilio,  Terenzio  e  Marco  Tullio. 
Udivi  da  un  versificante  che  non  lo  volea,  se  non  era  qual- 
che copia  d'ottave  rime  o  de  sonetti.  Altri  dicevano,  che 
gli  meglior  trattati  erano  stati  dedicati  a  persone,  che 
non  erano  megliori  che  essi  loro.  Altri  co'  l'altre  raggio  ni 
mi  parevan  disposti  a  dovermene  ringraziar  o  poco  o 
niente,  se  io  gli  l'avesse  dedicato;  e  questo  non  senza 
caggione,  perchè,  a  dir  il  vero,  ogni  trattato  e  considera- 
zione deve  essere  speso,  dispensato  e  messo  avanti  a  quel 
tale,  che  è  de  la  suggetta  professione  o  grado. 

Stando  dunque  io  con  gli  occhi  affissi  su  la  raggi  on 
della  materia  enciclopedica,  mi  ricordai  dell'enciclope- 
dico  vostro  ingegno,  il  qual  non  tanto  per  fecondità  e  ric- 
chezza par  che  abbraccie  il  tutto,  quanto  per  certa  pele- 
grina  eccellenza  par  ch'abbia  il  tutto  e  meglio  ch'il  tutto. 
Certo,  nessun  potrà  più  espressamente  che  voi  compren- 
dere il  tutto,  perchè  siete  fuor  del  tutto;  possete  entrar 
per  tutto,  perchè  non  è  cosa  che  vi  tegna  rinchiuso;  pos- 
sete aver  il  tutto,  perchè  non  è  cosa  che  abbiate.  (Non  so 
se  mi  dechiararò  meglio  col  descrivere  il  vostro  ineffabile 
intelletto).  Io  non  so  se  siete  teologo,  o  filosofo,  o  caba- 
lista; ma  so  ben  che  siete  tutti,  se  non  per  essenza,  per  par- 
tecipazione; se  non  in  atto,  in  potenza;  se  non  d  appresso, 
da  lontano.  In  ogni  modo  credo  che  siate  cossi  sufficiente 
nell'uno  come  nell'altro.  E  però  eccovi  cabala,  teologia  e 


I.   -   Epistola  dedicatoria  a  don  Sapatino  149 

filosofìa:  dico  una  cabala  di  teologica  filosofìa,  una  filosofìa 
di  teologia  cabalistica,  una  teologia  di  cabala  filosofica, 
di  sorte  ancora  che  non  so  se  queste  tre  cose  avete  o  come 
tutto,  o  come  parte,  o  come  niente;  ma  questo  so  ben  certo, 
che  avete  tutto  del  niente  in  parte,  parte  del  tutto  nel 
niente,  niente  de  la  parte  in  tutto. 

Or  per  venire  a  noi,  mi  dimanderete;  che  cosa  è  questa 
che  m'inviate?  quale  è  il  suggetto  di  questo  libro?  di  che 
presente  m'avete  fatto  degno?  Ed  io  vi  rispondo,  che 
vi  porgo  il  dono  d'un  Asino,  vi  presento  l'Asino,  il  quale 
vi  farà  onore,  vi  aumentare  dignità,  vi  metterà  nel  libro 
de  l'eternità.  Non  vi  costa  niente  per  ottenerlo  da  me  ed 
averlo  per  vostro;  non  vi  costarà  altro  per  mantenerlo, 
perchè  non  mangia,  non  beve,  non  imbratta  la  casa;  e 
sarà  eternamente  vostro,  e  duraràvi  più  che  la  vostra 
mitra,  crocea,  piovale,  mula  e  vita;  come,  senza  molto 
discorrere,  possete  voi  medesimo  ed  altri  comprendere. 
Qua  non  dubito,  reverendissimo  Monsignor  mio,  che 
il  dono  de  l'asino  non  sarà  ingrato  alle  vostra  prudenza  e 
pietà:  e  questo  non  dico  per  caggione,  che  deriva  dalla 
consuetudine  di  presentar  a'  gran  maestri  non  solamente 
una  gemma,  un  diamante,  un  rubino,  una  perla,  un  cavallo 
perfetto,  un  vase  eccellente;  ma  ancora  una  scimia,  un 
papagallo,  un  gattomammone,  un  asino;  e  questo,  al- 
lora che  è  necessario,  è  raro,  è  dottrinale;  e  non  è  degli 
ordinarii.  L'asino  indico  è  precioso  e  duono  papale  in 
Roma;  l'asino  d'Otranto  è  duono  imperiale  in  Costanti- 
nopoli; l'asino  di  Sardegna  è  duono  regale  in  Napoli; 
e  l'asino  cabalistico,  il  qual  è  ideale  e  per  conseguenza 
celeste,  volete  voi  che  debba  essere  men  caro  in  qual  si 
voglia  parte  de  la  terra  a  qual  si  voglia  principal  perso- 
naggio, che  per  certa  benigna  ed  alta  repromissione  sap- 
piamo che  si  trova  in  cielo  il  terrestre?  Son  certo,  dunque, 
che  verrà  accettato  da  voi  con  quell'animo,  con  quale 
da  me  vi  vien  donato. 

Prendetelo,  o  padre,  se  vi  piace,  per  ucello,  perchè  è 
alato,  ed  il  più  gentil  e  gaio,  che  si  possa  tener  in  gabbia. 
Prendetelo,  se  *1  volete,  per  fiera,  perchè  è  unico,  raro  e 


150  Parte  tei  za 

pelegrlno  da  un  canto,  e  non  è  cosa  più  brava,  che  possiate 
tener  ferma  in  un  antro  o  caverna.  Trattatelo,  se  vi  piace, 
come  domestico;  perchè  è  ossequioso,  comite  e  servile; 
ed  è  il  meglior  compagno,  che  possiate  aver  in  casa.  Vedete 
che  non  vi  scampe  di  mano;  perchè  è  il  meglior  destriero, 
che  possiate  pascere,  o,  per  dir  meglio,  vi  possa  pascere 
in  stalla;  meglior  familiare,  che  vi  possa  esser  contuber- 
nale e  trattenimento  in  camera.  Meneggiatelo  come  una 
gioia  e  cosa  preciosa;  perchè  non  possete  aver  tesoro  più 
eccellente  nel  vostro  ripostiglio.  Toccatelo  come  cosa 
sacra,  e  miratelo  come  cosa  da  gran  considerazione;  perchè 
non  possete  aver  meglior  libro,  meglior  imagine  e  meglio 
specchio  nel  vostro  Ccibinetto.  Tandem,  se  per  tutte  queste 
raggioni  non  fa  per  il  vostro  stomaco,  lo  potrete  donar 
ad  alcun  altro,  che  non  ve  ne  debba  essere  ingrato.  Se 
l'avete  per  cosa  ludicra,  donatelo  a  qualche  buon  caval- 
liero,  perchè  lo  mette  in  mano  de'  suoi  paggi,  per  tenerlo 
caro  tra  le  scimie  e  cercopitechi.  Se  lo  passate,  per  cosa 
armentale,  ad  un  contadino,  che  li  done  ricetto  tra  il  suo 
cavallo  e  bue.  Se  '1  stimate  cosa  ferina,  concedetelo  a 
qualche  Atteone,  che  lo  faccia  vagar  con  gli  capri  e  gli 
cervi.  Se  vi  par  ch'abbia  del  mignone,  fatene  copia  a 
qualche  damigella,  che  lo  tegna  in  luogo  in  martora  e  ca- 
gnuola.  Se  finalmente  vi  par  eh  cibbia  del  matematico, 
fatene  grazia  ad  un  cosmografo,  perchè  gli  vada  rependo  e 
salticchiando  tra  il  polo  artico  ed  antartico  de  una  di  queste 
sfere  armillan,  alle  quali  non  men  comodamente  potrà 
dar  il  moto  continuo,  ch'abbia  possuto  donar  l'infuso  mer- 
curio a  quella  d'Archimede,  ad  esser  più  efficacemente 
tipo  del  megacosmo,  in  cui  da  l'anima  intrinseca  pende  la 
concordanza  ed  armonia  del  moto  retto  e  circolare. 

Ma,  se  siete,  come  vi  stimo,  sapiente,  e  con  maturo  giu- 
dicio  considerate,  lo  terrete  per  voi,  non  stimando  a  voi 
presentata  da  me  cosa  men  degna,  che  abbia  possuto  pre- 
sentar a  Papa  Pio  quinto,  a  cui  consecrai  1  *A  r  e  a  di 
Noè;  al  re  Errico  terzo  di  Francia,  il  quale  immorta- 
leggio  con  rO  mbre  de  le  Idee;  al  suo  legato 
in  Inghilterra,  a  cui  ho  conceduti   Trenta    sigilli; 


I.  —  Epistola  dedicatoria  a  don   Sapatino  131 

al  cavallier  Sidneo,  al  quale  ho  dedicata  la  Bestia 
trionfante.  Perchè  qua  avete  non  solamente  la 
bestia  trionfante  viva;  ma,  ed  oltre,  gli  trenta  sigilli  aperti, 
la  beatitudme  perfetta,  le  ombre  chiarite  e  l'arca  gover- 
nata; dove  l'asino  (che  non  invidia  alla  vita  delle  ruote  del 
tempo,  all'ampiezza  de  l'universo,  alla  felicità  de  l'intel- 
ligenze, alla  luce  del  sole,  al  baldachino  di  Giove)  è  mo- 
deratore, dechiaratore,  consolatore,  aperitore  e  presi- 
dente. Non  è,  non  è  asino  da  stalla  o  da  armento,  ma  di 
que'  che  possono  comparir  per  tutto,  andar  per  tutto, 
entrar  per  tutto,  seder  per  tutto,  comunicar,  capir,  con- 
segliar,  definir  e  far  tutto.  Atteso  che,  se  lo  veggio  zappar, 
inaffiar  e  inacquare,  perchè  non  volete  ch'il  dica  orto- 
lano? S'ei  solca,  pianta  e  semina,  perchè  non  sarà  agri- 
coltore? Per  qual  caggione  non  sarà  fabro,  s'ei  è  mani- 
polo, mastro  e  architettore?  Chi  m'impedisce  che  non  lo 
dica  artista,  se  è  tanto  inventivo,  attivo  e  reparativo?  Se 
è  tanto  esquisito  argumentore,  dissertore  e  apologetico, 
perchè  non  vi  piacerà  che  lo  dica  scolastico?  Essendo 
tanto  eccellente  formator  di  costumi,  institutor  di  dottrine 
e  riformator  de  religioni,  chi  si  farà  scrupolo  de  dirlo 
academ.ico,  e  stimarlo  archimandrita  di  qualche  archidi- 
dascalia?  Perchè  non  sarà  monastico,  stante  ch'egli  sia 
corale,  capitolare  e  dormitoriale?  S'egli  è  per  voto  povero, 
casto  e  ubediente,  mi  biasimarete,  se  lo  dirò  conventuale? 
Mi  impedirete  voi,  che  non  possa  chiamarlo  conclavi- 
stico,  stante  ch'egli  sia  per  voce  attiva  e  passiva  gradua- 
bile, eligibile,  prelatibile?  S'è  dottor  sottile,  irrefraga- 
bile ed  illuminato,  con  qual  conscienza  non  vorrete  che 
lo  stime  e  tegna  per  degno  consegliero?  Mi  terrete  voi  la 
lingua,  perchè  non  possa  bandirlo  per  domestico,  essendo 
che  in  quel  capo  sia  piantata  tutta  la  moralità  politica  ed 
economica?  Potrà  far  la  potenza  de  canonica  autoritade 
ch'io  non  lo  tegna  ecclesiastica  colonna,  se  mi  si  mostra 
di  tal  maniera  pio,  devoto  e  continente?  Se  lo  veggo 
tanto  alto,  beato  e  trionfante,  potrà  far  il  cielo  e  mondo 
tutto  che  non  lo  nomine  divino,  olimpico,  celeste?  In 
conclusione  (per  non  rompere  più  il  capo  a  me  ed  a  voi) 

é 
Bruno,   In   tristitia  hilaris,  etc  12. 


152 


Parte  terza 


mi  par  che  sia  Tistessa  anima  del  mondo,  tutto  in  tutto,  e 
tutto  in  qualsivoglia  parte.  Or  vedete,  dunque,  quale  e 
quanta  sia  la  importanza  di  questo  venerabile  suggetto, 
circa  il  quale  noi  facciamo  il  presente  discorso  e  dialoghi: 
nelli  quali,  se  vi  par  vedere  un  gran  capo  o  senza  busto, 
o  con  una  picciola  coda,  non  vi  sgomentate,  non  vi  sdc" 
gnate,  non  vi  maravigliate;  perchè  si  trovano  nella  na- 
tura molte  specie  d'animali,  che  non  hanno  altri  membri 
che  testa,  o  par  che  siano  tutto  testa,  avendo  questa  cossi 
grande  e  l'altre  parti  come  insensibili;  e  per  ciò  non  manca 
che  siano  perfettissime  nel  suo  geno.  E  se  questa  raggione 
non  vi  sodisfa,  dovete  considerar  oltre,  che  questa  ope- 
retta contiene  una  descrizione,  una  pittura;  e  che  negli 
ritratti  suol  bastare  il  più  de  le  volte  d'aver  ripresentata  la 
testa  sola  senza  il  resto.  Lascio  che  tal  volta  si  mostra  ec- 
cellente artificio  in  far  una  sola  mano,  un  piede,  una  gamba, 
un  occhio,  una  svelta  orecchia,  un  mezzo  volto,  che  si 
spicca  da  dietro  un  arbore,  o  dal  cantoncello  d'una  fe- 
nestra,  o  sta  come  sculpito  al  ventre  d'una  tazza,  la  qual 
abbia  per  base  un  pie  d'oca,  o  d'aquila,  o  di  qualch'altra 
animale;  non  però  si  danna,  ne  però  si  spreggia,  ma  più 
viene  accettata  e  approvata  la  manifattura.  Cossi  mi  per- 
suado, anzi  son  certo,  che  voi  accettarete  questo  dono 
come  cosa  cossi  perfetta,  come  con  perfettissimo  cuore 
vi  vien  offerta.  Vale. 


II. 

IN  LODE  DE  L'ASINO  "> 


0  sant* asinità,  sant* ignoranza. 
Santa  stolticia  e  pia  divozione, 
Qual  sola  puoi  far  Vanirne  sì  buone, 
CWuman  ingegno  e  studio  non  F avanza; 

Non  gionge  faticosa  vigilanza 

D'arte,  qualunque  sia,  o  'nvenzione, 
Né  de  sofossi  contemplazione 
Al  del,  dove  t'edifichi  la  stanza. 

Che  vi  vai,  curiosi,  il  studiare. 
Voler  saper  quel  che  fa  la  natura, 
Se  gli  astri  son  pur  terra,  fuoco  e  mare? 

La  santa  asinità  di  ciò  non  cura; 

Ma  con  man  gionte  e  'n  ginocchion  vuol  stare. 
Aspettando  da  Dio  la  sua  ventura. 

Nessuna  cosa  dura. 
Eccetto  il  frutto  de  l'eterna  requie. 
La  qual  ne  done  Dio  dopo  Fessequie. 


(1)  Dalla  Cabala  del  Cavallo  Pegaseo, 


154  Parte  terza 


A  L'ASINO  CILLENICO 


Oh  beato  quel  venir  e  le  mammelle. 

Che  t'ha  portato,  e    n  terra  ti  lattare, 
Animalaccio  divo,  al  mondo  caro. 
Che  qua  fai  residenza  e  tra  le  stelle! 

Mai  più  preman  tuo  dorso  basti  e  selle, 
E  contril  mondo  ingrato  e  del  avaro 
Ti  faccia  sort'e  natura  riparo 
Con  sì  felice  ingegno  e  buona  pelle. 

Mostra  la  testa  tua  buon  naturale. 
Come  le  nari  quel  giudicio  sodo. 
L'orecchie  lunghe  un  udito  regale. 

Le  dense  labbra  di  gran  gusto  il  modo, 
Da  far  invidia  a'  dei  quel  genitale; 
Cervice  tal  la  costanza,  ch'io  lodo. 
Sol  lodandoti  godo: 
Ma,  lasso,  cercan  tue  condizioni 
Non  un  sonetto,  ma  mille  sermoni. 


III. 

DISSERTAZIONI  SOPRA  L'ASINITÀ'" 


Oimè,  auditor  mio,  che  senza  focoso  suspiro,  lubrico 
pianto  e  tragica  querela,  con  l'affetto,  con  gli  occhi  e  le 
raggioni  non  può  rammentar  il  mio  ingegno,  intonar 
la  voce  e  dechiarar  gli  argumenti,  quanto  sia  fallace  il 
senso,  turbido  il  pensiero  ed  imperito  il  giudicio,  che  con 
atto  di  perversa,  iniqua  e  pregiudiciosa  sentenza  non  vede, 
non  considera,  non  definisce  secondo  il  debito  di  natura, 
verità  di  ragglone  e  diritto  di  giustizia  circa  la  pura  bon- 
tade,  regia  sinceritade  e  magnifica  maestade  della  santa 
ignoranza,  dotta  pecoragme,  e  divina  asinitade!  Lasso!  a 
quanto  gran  torto  da  alcuni  è  sì  fieramente  essagitata 
quest'eccellenza  celeste  tra  gli  uomini  viventi,  contro  la 
quale  altri  con  larghe  narici  si  fan  censori,  altri  con  aperte 
sanne  si  fan  mordaci,  altri  con  comici  cachini  si  rendono 
beffeggiatori.  Mentre  ovunque  spreggiano,  burlano  e  vi- 
lipendeno  qualche  cosa,  non  gli  odi  dir  altro  che:  Costui, 
è  un  asino,  quest  azione  è  asinesca,  questa  è  una  asini- 
tade; —  stante  che  ciò  absolutamente  convegna  dire 
dove  son  più  maturi  discorsi,  più  saldi  proponimenti  e 
più  trutinate  sentenze.  Lasso!  perchè  con  ramarico  del 
mio  core,  cordoglio  del  spirito  e  aggravio  de  l'alma  mi 
si  presenta  agli  occhi  questa  imperita,  stolta  e  profana 
moltitudine,  che  sì  falsamente  pensa,  sì  mordacemente 
parla,  sì  temerariamente  scrive  per  parturir  que'  scelerati 


(1)  Cabala  del  Cavallo  Pegaseo.  —  Declamazione   al  studioso,  divoto  e  pio 
lettore. 


156  Parte  terza 

discorsi  de'  tanti  monumenti,  che  vanno  per  le  stampe, 
per  le  librarle,  per  tutto,  oltre  gli  espressi  ludibrli,  dlspreg- 
gi  e  biasimi:  l'asmo  d'oro,  le  lodi  de  l'asmo,  l'encomio  de 
l'asino;  dove  non  si  pensa  altro  che  con  ironiche  sentenze 
prendere  la  gloriosa  asinitade  in  gioco,  spasso  e  scherno? 
Or,  chi    terrà  il  mondo,  che  non  pensi  ch'io  faccia  il  si- 
mile? Chi  potrà  donar  freno  alle  lingue,  che  non  met- 
tano nel  medesimo  predicamento,  come  colui  che  corre 
appo  gli  vestigli  degli  altri,  che  circa  cotal  suggetto  demo- 
criteggiano?  Chi  potrà  contenerli,  che  non  credano,  af- 
fermino e  confermino,  che  io  non  intendo  vera-  e  serio- 
samente  lodar  l'asino  e  asinitade,  ma  piuttosto  procuro  di 
aggionger  oglio  a  quella  lucerna,  la  quale  è  stata  dagli 
altri  accesa?  Ma,  o  miei  protervi  e  temerarli  glodlcl,  o 
neghittosi  e  ribaldi  calunniatori,  o  foschi  e  appassionati 
detrattori,  fermate  il  passo,  voltate  gli  oc  hi,  prendete 
la  mira;  vedete,  penetrate,  considerate  se  gli  concetti  sem- 
plici, le  sentenze  enunciative  e  gli  discorsi  sillogistici, 
ch'apporto  in  favor  di  questo  sacro,  impolluto  e  sarìto  ani- 
male, son  puri,  veri  e  demostratlvi,  o  pur  son  fìnti,  im- 
possibili ed  apparenti.  Se  le  vedrete  in  effetto  fondati 
su  le  basi  de  fondamenti  fortissimi,  se  son  belli,  se  son 
buoni;  non  le  schivate,  non  le  fuggite,  non  le  rigettate; 
ma  accettatele,  seguitele,  abbracciatele,  e  non  siate  oltre 
legati  dalla  consuetudine  del  credere,  vinti  dalla  suffi- 
cienza del  pensare,  e  guidati  dalla  vanità  del  dire,  se  altro 
vi  mostra  la  luce  de  l'intelletto,  altro  la  voce  della  dot- 
trina intona  ed  altro  l'atto  de  l'esperienza  conferma.__ 
L'asino  ideale  e  cabalistico,  che  ne  vien  proposto  nel 
corpo  de  le  Sacre  Lettere,  che  credete  voi  che  sia?  Che 
pensate  voi  essere  il  cavallo  pegaseo,  che  vien  trattato  in 
figura  degli  poetici  fìgmenti?  De  l'asino  cillenico  degno 
d'esser  messo  in  croceis  nelle  più  onorate  academie  che 
v'imaginate?  Or,  lasciando  il  pensier  del  secondo  e  terzo 
da  canto,  e  dando  sul  campo  del  primo,  platonico  pari- 
mente e  teologale,  voglio  che  conosciate  che  non  manca 
testimonio  dalle  divine  ed  umane  lettere,  dettate  da  sacri 
e  profani  dottori,  che  parlano  con  l'ombra  de  scienze  e 


III.  --  Dissertazioni  sopra  l'asinità  157 


lume  della  fede.  Saprà,  dico,  ch'io  non  mentisco  colui 
ch'è  anco  mediocremente  perito  in  queste  dottrine,  quan- 
do avien  ch'io  dica  l'asino  ideale  esser  principio  prodot- 
tivo,  formativo  e  perfettivo  sopranaturalmente  della  specie 
asinina;  la  quale,  quantunque  nel  capacissimo  seno  della 
natura  si  vede  ed  è  dall'altre  specie  distinta,  e  nelle  menti 
seconde  è  messa  in  numero,  e  con  diverso  concetto  ap- 
presa, e  non  quel  medesimo,  con  cui  l'altre  forme  s'ap- 
prendeno;  nulla  di  meno  (quel  ch'importa  tutto)  nella 
prima  mente  è  medesima  che  la  idea  de  la  specie  umana, 
medesima,  che  la  specie  de  la  terra,  della  luna,  del  sole, 
medesima  che  la  specie  dell'intelligenze,  degli  demoni, 
degli  dei,  degli  mondi,  de  l'universo;  anzi  è  quella  specie, 
da  cui  non  solamente  gli  asini,  ma  e  gli  uomini,  e  le  stelle 
e  gli  mondi,  e  gli  mondani  animali  tutti  han  dependenza: 
quella  dico,  nella  quale  non  è  differenza  di  forma  e  sug- 
getto,  di  cosa  e  cosa;  ma  è  semplicissima  ed  una. 

Vedete,  vedete,  dunque,  d'onde  derive  la  caggione,  che, 
senza  biasimo  alcuno  il  santo  de'  santi,  or  è  nominato,  non 
solamente  leone,  monocorno,  rinoceronte,  vento,  tempesta, 
aquila,  pellicano,  ma  e  non  uomo,  opprobrio  degli  uomini, 
abiezion  di  plebe,  pecora,  agnello,  verme,  similitudine 
di  colpa,  sin  ad  esser  detto  peccato  e  peggio.  Considerate 
il  principio  della  causa,  per  cui  gli  cristiani  e  giudei  non 
s'adirano,  ma  più  tosto  con  glorioso  trionfo  si  congratu- 
lano insieme,  quando  con  le  metaforiche  allusioni  nella 
Santa  Scrittura  son  figurati  per  titoli  e  definizioni  asini, 
son  appellati  asini,  son  definiti  per  asini:  di  sorte  che, 
dovunque  si  tratta  di  quel  benedetto  animale,  per  moralità 
di  lettera,  allegoria  di  senso,  ed  anagogia  di  proposito, 
s'intende  l'uomo  giusto,  l'uomo  santo,  l'uomo  de  Dio. 

Pregate,  pregate  Dio,  o  carissimi,  se  non  siete  ancora 
asini,  che  vi  faccia  dovenir  asini.  Vogliate  solamente; 
perchè  certo  certo,  facilissimamente  vi  sarà  conceduta  la 
grazia:  perchè,  benché  naturalmente  siate  asini,  e  la  di- 
sciplina commune  non  sia  altro  che  una  asinitade,  dovete 
avertire  e  considerar  molto  bene  se  siate  asini  secondo  Dio; 


158  Parte  terza 

dico,  se  siate  quei  sfortunati,  che  nmagnono  legati  avanti 
la  porta,  o  pur  quegli  altri  felici,  li  quali  entran  dentro. 
Ricordatevi,  o  fìdeli,  che  gli  nostri  primi  parenti  a  quel 
tempo  piacquero  a  Dio,  ed  erano  in  sua  grazia,  in  sua  sal- 
vaguardia, contenti  nel  terrestre  paradiso  nel  quale  erano 
asini,  cioè  semplici  ed  ignoranti  del  bene  e  male;  quando 
posseano  esser  titillati  dal  desiderio  di  sapere  bene  e  male; 
e  per  consequenza  non  ne  posseano  aver  notizia  alcuna; 
quando  possean  credere  una  buggia,  che  gli  venesse  detta 
dal  serpente;  quando  se  gli  possea  donar  ad  intender  sin 
a  questo:  che,  benché  Dio  avesse  detto  che  morrebono, 
né  potesse  essere  il  contrario,  in  cotal  disposizione  erano 
grati,  erano  accetti,  fuor  d'ogni  dolor,  cura  e  molestia. 
Sovvegnavi  ancora  ch'amò  Dio  il  popolo  ebreo,  quando 
era  afflitto,  servo,  vile,  oppresso,  ignorante,  onerario, 
portator  de'  còfìni,  somarro,  che  non  gli  possea  mancar 
altro,  che  la  coda  ad  esser  asino  naturale  sotto  il  dominio 
de  l'Egitto:  allora  fu  detto  da  Dio  suo  popolo,  sua  gente, 
sua  scelta  generazione.  Perverso,  scelerato,  reprobo,  adul- 
tero, fu  detto  quando  fu  sotto  le  discipline,  le  dignitadi, 
le  grandezze  e  similitudine  degli  altri  popoli  e  regni  ono- 
rati secondo  il  mondo. 

Non  è  chi  non  loda  l'età  de  l'oro,  quando  gli 
uomini  erano  asini,  non  sapean  lavorar  la  terra,  non 
sapean  l'un  dominar  a  l'altro,  intender  più  de  l'altro, 
avean  per  tetto  gli  antri  e  le  caverne,  si  donavano  a  dosso 
come  fan  le  bestie,  non  eran  tante  coperte  e  gelosie  e  con- 
dimenti de  libidine  e  gola;  ogni  cosa  era  commune,  il 
pasto  eran  le  poma,  le  castagne,  le  ghiande  in  quella  forma 
che  son  prodotte  dalla  madre  natura.  Non  é  chi  non  sap- 
pia qualmente  non  solamente  nella  specie  umana,  ma  e 
in  tutti  gli  geni  d'animali  la  madre  ama  più,  accarezza  più 
mantien  contento  più  e  ocioso,  senza  sollecitudine  e  fa- 
tica, abbraccia,  bacia,  stringe,  custodisce  il  figlio  minore, 
come  quello  che  non  sa  male  e  bene,  ha  dell'agnello,  ha 
de  la  bestia;  é  un  asino,  non  sa  cossi  parlare,  non  può 
tanto  discorrere;  e  come  gli  va  crescendo  il  senno  e  la 
prudenza,  sempre  a  mano  a  mano  se  gli  va  scemando 


III.  -  Dissertazioni  sopra  l'asinità  1 59 

ramore,  la  cura,  la  pia  affezione,  che  gli  vien  portata  dagli 
suoi  parenti.  Non  è  nemico,  che  non  compatisca,  abblan- 
disca,  favorisca  a  quella  età,  a  quella  persona,  che  non  ha 
del  virile,  non  ha  del  demonio,  non  ha  de  l'uomo,  non  ha 
del  maschio,  non  ha  de  l'accorto,  non  ha  del  barbuto, 
non  ha  del  sodo,  non  ha  del  maturo.  Però,  quando  si 
vuol  mover  Dio  a  pietà  e  comiserazione  il  suo  Signore, 
disse  quel  profeta:  Ah,  ah  ah.  Domine,  quia  nescio  loqui; 
dove,  col  ragghiare  e  sentenza,  mostra  esser  asino.  E  in 
un  altro  luogo  dice:  Quia  puer  sum.  Però,  quando  si  brama 
la  remission  della  colpa,  molte  volte  si  presenta  la  causa 
nelli  divini  libri,  con  dire:  Quia  stulte  egimus,  stulte  ege- 
runt,  quia  nesciunt  quidfaciant,  ignoramus,  non  intellexerunt . 

Quando  si  vuol  impetrar  da  lui  maggior  favore,  ed 
acquistar  tra  gli  uomini  maggior  fede,  grazia  ed  autorità 
si  dice  in  un  loco,  che  li  apostoli  eran  stimati  imbreachi; 
in  un  altro  loco,  che  non  sapean  quel  che  dicevano;  perchè 
non  erano  essi  che  parlavano:  ed  un  de'  più  eccellenti , 
per  mostrar  quanto  avesse  del  semplice,  disse,  che  era 
stato  rapito  al  terzo  cielo,  uditi  arcani  ineffabili,  e  che 
non  sapea  s'era  morto  o  vivo,  s'era  in  corpo  o  fuor  di 
quello.  Un  altro  disse,  che  vedeva  gli  cieli  aperti,  e  tanti 
e  tanti  altri  propositi,  che  tegnono  gli  diletti  de  Dio,  alli 
quali  è  revelato  quello  che  è  occolto  a  la  sapienza  umana , 
ed  è  asinità  esquisita  agli  occhi  del  discorso  razionale: 
perchè  queste  pazzie,  asinitadi  e  bestialitadi  son  sapienze, 
atti  eroici  e  intelligenze  appresso  il  nostro  Dio;  il  qual 
chiama  li  suoi  pulcini,  il  suo  gregge,  le  sue  pecore,  li  suoi 
parvuli,  li  suoi  stolti,  il  suo  pulledro,  la  sua  asina  que' 
tali,  che  li  credeno,  l'amano,  il   sieguono. 

Non  è,  non  è,  dico,  meglior  specchio  messo  avanti 
gli  occhi  umani  che  l'asinitade  e  asino;  il  qual  più 
esplicatamente  secondo  tutti  gli  numeri  dimostre  qual 
essere  debba  colui,  che  faticandosi  nella  vigna  del 
Signore,  deve  aspettar  la  retribuzion  dei  danaio  diurno, 
il  gusto  della  beatifica  cena,  il  riposo  che  siegue  il 
corso  di  questa  transitoria  vita.  Non  è  conformità 
megliore,    o    simile,   che    ne   amene,    guide    e    conduca 


160  Parte  terza 

alla  salute  eterna  più  attamente,  che  far  possa  questa 
vera  sapienza  approvata  dalla  divina  voce:  come,  per 
il  contrario,  non  è  cosa,  che  ne  faccia  più  efficaceme- 
mente  impiombar  al  centro  ed  al  baratro  tartareo,  che  le 
filosofiche  e  razionali  contemplazioni,  quali  nascono  dagli 
sensi,  crescono  nella  facultà  discorsiva  e  si  maturano  nel- 
l'intelletto umano. 

Forzatevi,  forzatevi  dunque  ad  esser  asini,  o  voi, 
che  siete  uomini.  E  voi,  che  siete  già  asini,  studiate, 
procurate,  adattatevi  a  proceder  sempre  da  bene  m 
meglio,  a  fin  che  perveniate  a  quel  termine,  a  quella 
dignità,  la  quale,  non  per  scienze  e  opre,  quantunque 
grandi,  ma  per  fede  s'acquista;  non  per  ignoranza  e 
misfatti,  quantunque  enormi  ma  per  la  incredulità  (come 
dicono,  secondo  l'Apostolo)  si  perde.  Se  cossi  vi  dispor- 
rete, se  tali  sarete  e  talmente  vi  governarete,  vi  trovarete 
scritti  nel  libro  de  la  vita,  impetrarete  la  grazia  in  questa 
militante,  ed  otterrete  la  gloria  in  quella  trionfante  eccle- 
sia, nella  quale  vive  e  regna  Dio  per  tutti  secoli  de'  secoli. 

Cossi  sia  ! 

*     (]) 

Sebasto.  è  il  peggio,  che  diranno  che  metti  avanti 
metaffore,  narri  favole,  raggioni  in  parabola,  intessi  enigmi, 
accozzi  similitudini,  tratti  misterii,  mastichi    tropologie. 

SauliNO.  Ma  io  dico  la  cosa  a  punto  come  la  passa;  e 
come  la  è  propriamente,  la  metto  avanti  gli  occhi. 

CoRlBANTE.  Id  est,  sine  fuco,  plane,candi  de;  ma  vorrei 
che  fusse  cossi,  come  dite,  da  dovero. 

Saul.  Cossi  piacesse  alli  dei,  che  fessi  tu  altro  che  fuco 
con  questa  tua  gestuazione,  toga,  barba  e  supercilio:  come, 
anco  quanto  a  l'ingegno,  candide,  piane  et  sine  fuco,  mostri 
agli  occhi  nostri  la  idea  della  pedantaria. 

Cor.  Hactenus  haec?  Tanto  che  Sofia  loco  per  loco, 
sedia  per  sedia  vi  condusse? 

Saul.  Sì. 


(I)   Cabala   del  Cavallo  Pegaseo.    EMalogo    primo  —  Sono    interlocutori    Se- 
BASTO,  Sauuno,  Coribante. 


III.-  Dissertazioni     sopra  l'asinità  161 


Seb.  Occórrevi  de  dir  altro  circa  la  previsione  di  que- 
ste sedie? 

Saul.  Non  per  ora,  se  voi  non  siete  pronto  a  donarmi 
occasione  di  chiarirvi  de  più  punti  circa  esse  col  diman- 
darmi e  destarmi  la  memoria,  la  quale  non  può  avermi 
suggerito  la  terza  parte  de'  notabili  propositi  degni  di 
considerazione. 

Seb.  Io,  a  dir  il  vero,  rimagno  sì  suspeso  dal  desio  de 
saper  qual  cosa  sia  quella  ch'il  gran  padre  degli  dei  ha 
fatto  succedere  in  quelle  due  sedie,  l'una  Boreale  e  l'altra 
Australe,  che  m'ha  parso  il  tempo  de  mill'anni  per  veder 
il  fine  del  vostro  filo,  quantunque  curioso,  utile  e  degno: 
perchè  quel  proposito  tanto  più  mi  vien  a  spronar  il  desio 
d'esserne  fatto  capace,  quanto  voi  più  l'avete  differito  a 
far  o  udire. 

Cor.  Spes  efenim  dilata  affligit  animum,  vel  animam,  ut 
melius  dicam;  haec  enim  mage  significat  naturam  passibilem. 

Saul.  Bene.  Dunque,  perchè  non  più  vi  tormentiate  su 
l'aspettar  della  risoluzione  sappiate  che  nella  sedia  pros- 
sima immediata  e  gionta  al  luogo,  dove  ere  l'Orsa  minore, 
e  nel  quale  sapete  essere  exaitata  la  Veritade,  essendone 
t  olta  via  l'Orsa  maggiore  nella  forma  ch'avete  inteso, 
per  previdenza  del  prefato  consiglio  vi  ha  succeduto  l'Asi- 
nità in  abstratto:  e  là,  dove  ancora  vedete  in  fantasia  il 
fiume  Eridano,  piace  agli  medesimi  che  vi  si  trove  l'Asi- 
nità in  concreto,  a  fine  che  da  tutte  tre  le  celesti  reggioni 
possiamo  contemplare  l'Asinità,  la  quale  in  due  facelle 
era  come  occolta  nella  vie  de'  pianeti,  dov'è  la  coccia  del 
Cancro. 

Cor.  Procul,  o  procal,  este,  profanil  Questo  è  un  sacri- 
legio, un  profanismo,  di  voler  fingere  (poscia  che  non  è 
possibile  che  cossi  sie  in  fatto)  vicino  a  l'onorata  ed  emi- 
nente sedia  de  la  Verità  essere  l'idea  di  sì  immonda  e  vi- 
t  uperosa  specie,  la  quale  è  stata  dagli  sapienti  Egizii  negli 
lor  geroglifici  presa  per  tipo  de  l'ignoranza. 

Saul.  Alla  contemplazione  de  la  verità  altri  si  promuo- 
veno  per  via  di  dottrina  e  cognizione  razionale,  per  forza 


162  Parte  terza 

de  rintelletto  agente,  che  s'intrude  nell'animo,  exci- 
tandovi il  lume  interiore.  E  questi  son  rari;  onde 
dice  il  poeta: 

Fauci,  quos  ardens  evexit  ad  aethera  virtus. 

Altri  per  via  d'ignoranza  vi  si  voltano  e  forzansi  di  per- 
venirvi. E  di  questi  alcuni  sono  affetti  di  quella,  che  è 
detta  ignoranza  di  semplice  negazione:  e  costoro  né  sanno, 
né  presumeno  di  sapere;  altri  di  quella,  che  é  detta  igno- 
ranza di  prava  disposizione;  e  tali,  quanto  men  sanno  e 
sono  imbibiti  de  false  informazioni,  tanto  più  pensano  di 
sapere:  quali,  per  informarsi  del  vero,  richiedeno  doppia 
fatica,  cioè  de  dismettere  l'uno  abito  contrario,  e  di  ap- 
prender l'altro.  Altri  di  quella,  ch'è  celebrata  come  divina 
acquisizione;  e  in  questa  son  color,  che,  né  dicendo,  né 
pensando  di  sapere,  ed  oltre  essendo  creduti  da  altri  igno- 
rantissimi, son  veramente  dotti,  per  ridursi  a  quella  glorio- 
sissima asinitade  e  pazzia.  E  di  questi  alcuni  sono  naturali, 
come  quei  che  caminano  con  il  lume  suo  razionale,  con 
CUI  negano  col  lume  del  senso  e  della  raggione  ogni  lume 
di  raggione  e  senso;  alcuni  altri  caminano,  o  per  dir  meglio, 
si  fanno  guidare  con  la  lanterna  della  fede,  cattivando  l'in- 
telletto a  colui,  che  gli  monta  sopra,  ed  a  sua  bella  posta 
l'addirizza  e  guida.  E  questi  veramente  son  quelli,  che  non 
possono  essi  errare,  perchè  non  caminano  col  proprio  fal- 
lace intendimento,  ma  con  infallibil  lume  di  superna  in- 
telligenza. Questi,  questi  son  veramente  atti  e  predestinati 
per  arrivare  alla  Jerusalem  della  beatitudine  e  vision  aperta 
della  verità  divina:  perchè  gli  sopramonta  quello,  senza  il 
qual  sopramontante  non  è  chi  condurvesi  vaglia. 

Seb.  Or  ecco  come  si  distingueno  le  specie  dell'igno- 
ranza e  asinitade,  e  come  vegno  a  mano  a  mano  a  conde- 
scendere  per  concedere  l'asinitade  essere  una  virtù  necessa- 
ria e  divina,  senza  la  quale  sarrebe  perso  il  mondo,  e  per 
la  quale  il  mondo  tutto  è  salvo. 

Saul.  Odi  a  questo  proposito  un  principio  per  un'altra 
più  particular  distinzione.  Quello  ch'unisce  l'intelletto 
nostro,  il  qual  é  nella  sofia,  alla  verità,  la  quale  è  l'oggetto 


III.  -  Dissertazioni  sopra  l'asinità  163 


intelligibile,  è  una  specie  d'ignoranza,  secondo  gli  caba- 
listi e  certi  mistici  teologi;  un'altra  specie,  secondo  gli 
pirroniani,  efettici  ed  altri  simili;  un'altra,  secondo  teo- 
logi cristiani;  tra'  quali  il  Tarsense  la  viene  tanto  più  a 
magnificare,  quanto  a  giudizio  di  tutt'il  mondo  è  passata 
per  maggior  pazzia.  Per  la  prima  specie  sempre  si  niega; 
onde  vien  detta  ignoranza  negativa,  che  mai  ardisce  affir- 
mare.  Per  la  seconda  specie  sempre  si  dubita,  e  mai  ardisce 
determinare  o  definire.  Per  la  terza  specie  gli  principii 
tutti  s'hanno  per  conosciuti,  approvati  e  con  certo  argu- 
mento  manifesti,  senza  ogni  demostrazione  e  apparenza. 
La  prima  è  denotata  per  l'asino  pullo,  fugace  ed  erra- 
bondo; la  seconda  per  un'asina,  che  sta  fitta  tra  due  vie, 
dal  mezzo  di  quali  mai  si  parte,  non  possendosi  risolvere 
per  quale  delle  due  più  tosto  debba  muovere  i  passi;  la 
terza  per  l'asina  con  il  suo  pulledro,  che  portano  su  la 
schena  il  redentor  del  mondo:  dove  Tasina,  secondo  che 
gli  sacri  dottori  insegnano,  è  tipo  del  popolo  giudaico,  e 
il  pullo  del  popolo  gentile,  che,  come  figlia  ecclesia,  è 
parturito  dalla  madre  sinagoga;  appartenendo  cossi  questi 
come  quelli  alla  medesima  generazione,  procedente  dal 
padre  de'  credenti  Abraamo.  Queste  tre  specie  d'igno- 
ranza, come  tre  rami,  si  riducono  ad  un  stipe,  nel  quale 
da  l'archetipo  influisce  l'asinità,  e  che  è  fermo  e  piantato 
su  le  radici  delli  dieci  sephiroth. 

Cor.  0  bel  senso!  Queste  non  sono  retoriche  persua- 
sioni, ne  elenchici  sofismi,  né  topiche  probabilltadi,  ma 
apodictiche  demostrazioni;  per  le  quali  l'asino  non  è  sì 
vile  animale,  come  comunmente  si  crede,  ma  di  tanto 
più  eroica  e  divina  condizione. 

Seb.  Non  è  d'uopo  ch'oltre  t'affatichi,  o  Saulino,  per 
venir  a  conchiudere  quel  tanto,  che  io  dimandavo  che  da 
te  mi  fusse  definito:  sì  perchè  avete  sodisfatto  a  Coribante, 
sì  anco  perchè  da  li  posti  mezzi  termini  ad  ogni  buono 
intenditore  può  esser  facilmente  sodisfatto.  Ma,  di  grazia, 
fatemi  ora  intendere  le  raggioni  della  sapienza,  che  consi- 
ste nell'ignoranza  ed  asinitade  iuxta  il  secondo  modo:  cioè, 
con  qual  raggione  siano  partecipi  dell'asinità  gli  pirro- 


164  Parte  terza 

nianì,  efettici  et  altri  academici  filosofi;  perchè  non  dubito 
della  prima  e  terza  specie,  che  medesime  sono  altissime  e 
remotissime  da'  sensi,  e  chiarissime,  di  sorte  che  non  è 
occhio,  che  non  le  possa  conoscere. 

Saul.  Presto  verrò  al  proposito  della  vostra  dimanda: 
ma  voglio  che  prima  notiate  il  primo  e  terzo  modo  di 
stoltizia  e  asinitade  concorrere  in  certa  maniera  in  uno  ;  e 
però  medesimamente  pendeno  da  principio  incompren- 
sibile ed  ineffabile,  a  constituir  quella  cognizione, ch'è  di- 
sciplina delle  discipline,  dottrina  delle  dottrine  e  arte  de 
le  arti.  Della  quale  voglio  dirvi,  in  che  maniera  con  poco  o 
nullo  studio  e  senza  fatica  alcuna  ognun,  che  vuole  e  volse, 
ne  ha  possuto  e  può  esser  capace.  Veddero  e  considerorn  o 
que'  santi  dottori  e  rabini  illuminati,  che  gli  superbi  e  pre- 
sumptuosi  sapienti  del  mondo,  quali  ebbero  fiducia  nel 
proprio  ingegno,  e  con  temeraria  e  gonfia  presunzione 
hanno  avuto  ardire  d'alzarsi  alla  scienza  de'  secreti  divini 
e  que'  penetrali  della  deitade,  non  altrimente  che  coloro , 
ch'edificaro  la  torre  di  Babelle,  son  stati  confusi  e  messi 
in  dispersione,  avendosi  essi  medesimi  serrato  il  passo, 
onde  meno  f ussero  abili  alla  sapienza  divina  e  visione  della 
veritade  eterna.  Che  fero?  Qual  partito  presero?  Fermaro 
i  passi,  piegar©  o  dismesero  le  braccia,  chiusero  gli  occhi, 
bandirò  ogni  propria  attenzione  e  studio,  riprovar©  qual- 
sivoglia uman  pensiero,  rmiegaro  ogni  sentimento  natu- 
rale; e,  in  fine,  si  tennero  asini.  E  quei,  che  non  erano,  si 
trasformar©  in  questo  animale:  alzar©,  disteser©,  acumi- 
nar©, ingr©ssar©  e  magnific©rno  l'orecchie;  e  tutte  le  po- 
tenze de  l'anima  rip©rt©rno  e  unir©  nell'udire,  c©n  asc©l- 
tare  s©lamente  e  credere:  c©me  quell©,  di  cui  si  dice:  In 
auditu  auris  obedivit  mihi.  Là,  c©ncentrand©si  e  cattivan- 
d©si  la  vegetativa,  sensitiva  e  intellettiva  facultade,  hann© 
inceppate  le  cinque  dita  in  un'unghia,  perchè  non  potes- 
sero, come  l'Adamo,  stender  le  mani  ad  apprendere  il 
frutto  vietato  dall'arbore  della  scienza,  per  cui  venessero 
ad  essere  privi  de'  frutti  de  rarb©re  della  vita,  ©  c©me 
Pr©mete©  (che  è  metaf©ra  di  medesim©  pr©p©sit©)  sten- 
der le  mani  a  suffurar  il  fu©co  di  Gi©ve,  per  accendere 


III.  -  Dissertazioni  sopra  l'asinità  165 

il  lume  della  potenza  razionale.  Cossi  li  nostri  divi  asini, 
privi  del  proprio  sentimento  ed  affetto,  vegnono  ad  in- 
tendere non  altrimente  che  come  gli  vien  soffiato  a  l'o- 
recchie dalle  revelazioni  o  degli  dei  o  de'  vicarii  loro; 
e  per  consequenza  a  governarsi  non  secondo  altra  legge 
che  di  que'  medesimi.  Quindi  non  si  volgono  a  destra 
o  a  sinistra,  se  non  secondo  la  lezione  e  raggione,  che  gli 
dona  il  capestro  o  freno,  che  le  tien  per  la  gola,  o  per 
la  bocca,  non  caminano,  se  non  come  son  toccati.  Hanno 
ingrossate  le  labbra,  insolidate  le  mascelle,  incontennuti 
gli  denti,  a  fin  che,  per  duro,  spinoso,  aspro  e  forte  a 
digerir  che  sia  il  pasto,  che  gli  vien  posto  avante,  non 
manche  d'essere  accomodato  al  suo  palato.  Indi  si  pa- 
scono de'  più  grossi  e  materialacci  appositorii,  che  altra 
qualsivoglia  bestia,  che  si  pasca  sul  dorso  de  la  terra;  e 
tutto  ciò  per  venire  a  quella  vilissima  bassezza,  per  cui 
fìano  capaci  de  più  magnifica  exaltazione,  iuxta  quello: 
Omnis  qui  se  humiliat  exaltabitur. 

Seb.  Ma  vorrei  intendere,  come  questa  bestiaccia  potrà 
distinguere  che  colui,  che  gli  monta  sopra,  è  Dio  o  dia- 
volo, è  un  uomo  o  un'altra  bestia  non  molto  maggiore 
o  minore,  se  la  più  certa  cosa,  ch'egli  deve  avere,  è  che 
lui  è  un  asino  e  vuole  essere  asino,  e  non  può  far  me- 
glior  vita  ed  aver  costumi  migliori  che  di  asino,  e  non 
deve  aspettar  meglior  fine  che  di  asino,  ne  è  possibile, 
congruo  e  condigno  ch'abbia  altra  gloria  che  d'asino? 

Saul.  Fidele  colui,  che  non  permette  che  siano  tentati 
sopra  quel  che  possono:  lui  conosce  li  suoi,  lui  tiene  e 
mantiene  gli  suoi  per  suoi,  e  non  gli  possono  esser  tolti. 
0  santa  ignoranza,  o  divina  pazzia,  o  sopraumana  asinità! 
Quel  rapto,  profondo  e  contemplativo  Areopagita,  scri- 
vendo a  Caio,  afferma  che  la  ignoranza  è  una  perfettis- 
sima scienza;  come  per  l'equivalente  volesse  dire,  che 
l'asinità  è  una  divinità.  Il  dotto  Agostino,  molto  ine- 
briato di  questo  divino  nettare,  nelli  suoi  S  o  1  i  1  o  q  u  i  i 
testifica,  che  la  ignoranza  più  tosto  che  la  scienza  ne 
conduce  a  Dio,  e  la  scienza  più  tosto  che  1  ignoranza  ne 
mette  in  perdizione.  In  figura  di  ciò  vuole  ch'il  reden- 


166  Parte  terza 

tor  del  mondo  con  le  gambe  e  piedi  degli  asini  fusse 
entrato  in  Gerusalemme,  significando  anagogicamente  in 
questa  militante  quello  che  si  verifica  nella  trionfante  cit- 
tade;  come  dice  il  profeta  salmeggiante:  Non  in  fortitu- 
dine equi  voluntatem  habebit,  neque  in  tibiis  viri  benepla- 
citum  erit  ei. 

Cor.  Supple  tu:  Sed  in  fortitudine  et  tibiis  asinae  et 
pulii  fila  coniugalis. 

Saul.  Or,  per  venire  a  mostrarvi  come  non  è  altro  che 
l'asinità  quello  con  cui  possiamo  tendere  ad  avvicinarci 
a  quell'alta  specola,  voglio  che  comprendiate  e  sappiate 
non  esser  possibile  al  mondo  meglior  contemplazione  che 
quella  che  niega  ogni  scienza  ed  ogni  apprension  e  giu- 
dicio  di  vero;  di  maniera  che  la  somma  cognizione  è  certa 
stima,  che  non  si  può  saper  nulla  e  non  si  sa  nulla,  e  per 
consequenza  di  conoscersi  di  non  posser  esser  altro  che 
asino  e  non  esser  altro  che  asino;  allo  qual  scopo  giunsero 
gli  socratici,  platonici,  efettici,  pirroniani  ed  altri  simili, 
che  non  ebbero  le  orecchie  tanto  piccole,  e  le  labbra  tanto 
delicate,  e  la  coda  tanto  corta,  che  non  le  potessero  lor 
medesimi  vedere. 

S  e  b.  Priegoti,  Saulino,  non  procedere  oggi  ad  altro 
per  confirmazion  e  dechiarazion  di  questo:  perchè  assai 
per  il  presente  abbiamo  inteso;  oltre  che  vedi  esser  tempo 
di  cena,  e  la  materia  richiede  più  lungo  discorso.  Per 
tanto  piacciavi  (se  così  pare  anco  al  Coribante)  di  rive- 
derci domani  per  la  elucidazione  di  questo  proposito;  ed 
io  menarò  meco  Onorio,  il  quale  si  ricorda  d'esser  stato 
asino,  e  però  è  a  tutta  divozione  pitagorico;  oltre  che  ha 
de'  grandi  proprii  discorsi,  con  gli  quali  forse  ne  potrà 
far  capaci  di  qualche  proposito 


IV. 
METAMFISICOSI   <" 


Sebasto.  e  tu  ti  ricordi  d'aver  portata  la  soma? 

Onorio.  La  soma,  la  carga,  e  tirato  il  manganello  qual- 
che volta.  Fui  prima  in  serviggio  d'un  ortolano,  aggiun- 
tandolo a  portar  Iettarne  dalla  cittade  di  Tebe  a  l'orto  vi- 
cino le  mura,  ed  a  riportar  poi  cauli,  cipolle,  cocumeri, 
pastinache,  ravanelli  ed  altre  cose  simili  dall'orto  alla  cit- 
tade. Appresso  ad  un  carbonaio,  che  mi  comprò  da  quello, 
ed  il  qual  pochissimi  giorni  mi  ritenne  vivo. 

Seb.  Come  è  possibile,  ch'abbi  memoria  di  questo? 

Onor.  Ti  dirò  poi.  Pascendo  io  sopra  certa  precipi- 
tosa e  sassosa  ripa,  tratto  dall'avidità  d'addentar  un  cardo, 
ch'era  cresciuto  alquanto  più  giìi  verso  il  precipizio,  che 
io  senza  periglio  potesse  stendere  il  collo,  volsi  al  dispetto 
d'ogni  rimorso  di  conscienza  ed  instinto  di  raggion  na- 
turale più  del  dovero  rampegarvi;  e  caddi  da  l'alta  rupe; 
onde  il  mio  signore  s'accorse  d'avermi  comprato  per  gli 
corvi.  Io,  privo  de  l'ergastulo  corporeo,  dovenni  vagante 
spirto  senza  membra;  e  venni  a  considerare  come  io,  se- 
condo la  spiritual  sustanza,  non  ero  differente  in  geno, 
né  in  specie  da  tutti  gli  altri  spiriti,  che  dalla  dissoluzione 
de  altri  animali  e  composti  corpi  transmigravano;  e  viddi 
come  la  Parca  non  solamente  nel  geno  della  materia  cor- 
porale fa  indifferente  il  corpo  dell'uomo  da  quel  de  l'a- 
sino, ed  il  corpo  degli  animali  dal  corpo  di  cose  stimate 
senz'anima;  ma  ancora  nel  geno  della  materia  spirituale 


(I)    Cabala    Dialogo    secondo.    Interlocutori    i  precedenti,    ed    Onorio    (= 
asinesco). 


Bruno,   In  tristitia  hilaris,  etc  13. 


168  Parte   terza 

fa  rimaner  indifferente  l'anima  asmina  da  l'umana,  e  l'a- 
nima, che  costituisce  gli  detti  ammali,  da  quella  che  si 
trova  in  tutte  le  cose:  come  tutti  gli  umori  sono  uno  u- 
more  in  sustanza,  tutte  le  parti  aeree  son  un  aere  in  su- 
stanza,  tutti  gli  spiriti  sono  dall'Amfitrite  d'un  spirito,  ed 
a  quello  ritornan  tutti.  Or,  dopo  che  qualche  tempo  fui 
trattenuto  in  cotal  stato,  ecco  che 

Lethaeum  ad  fluvium  Deus  evocai  agmine  magno 
Scilicet  immemores  supera  ut  convexa  revisant, 
Rursus  et  incipiant  in  corpora  velie  reverti. 

Allora,  scampando  io  da'  fortunati  campi,  senza  sorbir 
de  l'onde  del  rapido  Lete,  tra  quella  moltitudine,  di  cui 
era  principal  guida  Mercurio,  io  feci  fìnta  de  bevere  di 
quell'umore  in  compagnia  degli  altri:  ma  non  feci  altro 
ch'accostarvi  e  toccarvi  con  le  labbra,  a  fin  che  venessero 
ingannati  gli  soprastanti,  a'  quali  potè  bastare  di  vedermi 
la  bocca  e  '1  mento  bagnato.  Presi  il  camino  verso  l'aria 
più  pura  per  la  porta  Cornea,  e  lasciandomi  a  le  spalli 
e  sotto  gli  piedi  il  profondo,  venni  a  ritrovarmi  nel  Par- 
nasio monte,  il  qual  non  è  favola  che  per  il  suo  fonte 
Caballino  sia  cosa  dal  padre  Apolline  consecrata  alle  Muse, 
sue  figlie.  Ivi,  per  forza  ed  ordine  del  fato,  tornai  ad  es- 
sere asino,  ma  senza  perdere  le  specie  intelligibili,  delle 
quali  non  rimase  vedovo  e  casso  il  spirito  animale,  per 
forza  della  cui  virtude  m'uscirno  da  l'uno  e  l'altro  lato 
la  forma  e  sustanza  de  due  ali  sufficientissime  ad  inalzar 
in  sino  agli  astri  il  mio  corporeo  pondo.  Apparvi  e  fui 
nomato  non  asino  già  semplicemente,  ma  o  asino  volante, 
o  ver  cavallo  Pegaseo.  Indi  fui  fatto  exequitor  de  molti 
ordini  del  provido  Giove,  servii  a  Bellerofonte,  passai 
molte  celebri  e  onoratissime  fortune,  ed  alla  fine  fui  as- 
sumpto  in  cielo  circa  gli  confini  d'Adromeda  e  il  Cigno 
d'un  canto,  e  gli  Pesci  e  Aquario  da  l'altro. 

Seb.  Di  grazia,  rispondetemi  alquanto,  prima  che  mi 
facciate  intendere  queste  cose  più  per  il  minuto.  Dunque, 
per  esperienza  e  memoria  del  fatto  estimate  vera  l'opi- 
nion de'  Pitagorici,  Druidi,  Saduchimi  e  altri  simili,  circa 


IV.  -  Metamfisicosi  169 


quella  continua  metamfisicosi,  cioè  transformazlone  e  tran  - 
scorporazione  de  tutte     'anime  ? 

Spiritus  eque  feris  humana  in  corpora  transit, 
Inque  feras  noster,  nec  tempore  deperii  allo. 

Onor.  Messer  sì,  cossi  è  certissimamente. 

Seb.  Dunque,  constantemente  vuoi,  che  non  sia  altro 
in  sustanza  l'anima  de  l'uomo  e  quella  de  le  bestie?  e 
non  differiscano,  se  non  in  figuraz>one? 

Onor.  Quella  de  l'uomo  è  medesima  in  essenza  spe- 
cifica e  generica  con  quella  de  le  mosche,  ostreche  ma- 
rine e  piante,  e  di  qualsivoglia  cosa,  che  si  trove  animata, 
o  abbia  anima:  come  non  è  corpo,  che  non  abbia  o  più 
o  meno  vivace  e  perfettamente  communicazion  di  spirito 
in  se  stesso.  Or  cotal  spinto,  secondo  il  fato  o  provi- 
denza,  ordine  o  fortuna,  viene  a  giongersi  or  ad  una  spe- 
cie di  corpo,  or  ad  un'altra;  e,  secondo  la  raggione  della 
diversità  di  complessioni  e  membri,  viene  ad  avere  di- 
versi gradi  e  perfezioni  d'ingegno  e  operazioni.  Là  onde 
quel  spinto  o  anima,  che  era  nell'aragna,  e  vi  avea  quel- 
l'industria e  quelli  artigli  e  membra  in  tal  numero,  quan- 
tità e  forma;  medesimo,  gionto  alla  prolificazione  umana, 
acquista  altra  intelligenza,  altri  instrumenti,  attitudini  e 
atti.  Giongo  a  questo  che,  se  fusse  possibile,  o  in  fatto 
si  trovasse,  che  d'un  serpente  il  capo  si  formasse  e  stor- 
nasse in  figura  d'una  testa  umana,  e  il  busto  crescesse 
in  tanta  quantità,  quanta  può  contenersi  nel  periodo  di 
cotal  specie,  se  gli  allargasse  la  lingua,  ampiassero  le 
spalli,  se  gli  ramificassero  le  braccia  e  mani,  e  al  luogo, 
dove  è  terminata  coda,  andassero  ad  ingeminarsi  le  gambe; 
intenderebbe,  apparirebbe,  spirarebbe,  parlarebbe,  opra- 
rebbe  e  cammerebbe  non  altrimente  che  l'uomo;  perchè 
non  sarebbe  altro  che  uomo.  Come,  per  il  contrario, 
l'uomo  non  sarebbe  altro  che  serpente,  se  venisse  a  con- 
traere, come  dentro  un  ceppo,  le  braccia  e  gambe,  e 
Tossa  tutte  concorressero  alla  formazion  d'una  spina,  si 
incolubrasse  e  prendesse  tutte  quelle  figure  de'  membri 
e  abiti  de  complessioni.  Allora  avrebbe  più  o  men  vivace 


170  Parte  terza 

Ingegno;  In  luogo  di  parlar,  sibilarebbe;  in  luogo  di  ca- 
minare,  serperebbe;  in  luogo  d'edificarsi  palaggio,  si  ca- 
varebbe  un  pertuggio;  e  non  gli  converrebe  la  stanza, 
ma  la  buca;  e  come  già  era  sotto  quelle,  ora  è  sotto  queste 
membra,  mstrumenti,  potenze  e  atti;  come  dal  medesimo 
artefice,  diversamente  inebriato  dalla  contrazion  di  ma- 
teria, e  da  diversi  organi  armato,  appaiono  exercizii  de 
diverso  mgegno,  e  pendeno  execuzioni  diverse.  Quindi 
possete  capire  esser  possibile,  che  molti  animali  possono 
aver  più  ingegno  e  molto  maggior  lume  d'intelletto  che 
l'uomo  (come  non  è  burla  quel  che  proferì  Mosè  del 
serpe,  che  nominò  sapientissimo  tra  tutte  l'altre  bestie 
de  la  terra). 


V. 

ARISTOTELE-ASINO 
E  I  SUOI  SEGUACI  <•> 


Onorio.  Or  essendo  io,  come  ho  già  detto,  nella  region 
celeste  in  titolo  di  cavallo  Pegaseo,  mi  è  avvenuto  per 
ordine  del  fato,  che  per  la  conversione  alle  cose  inferiori 
(causa  di  certo  affetto,  ch'io  indi  venevo  ad  acquistare, 
la  qual  molto  bene  vien  descritta  dal  platonico  Plotino) 
come  inebriato  di  nettare,  venia  bandito  ad  esser  or  un 
filosofo,  or  un  poeta,  or  un  pedante,  lasciando  la  mia 
imagine  in  cielo;  alla  cui  sedia  a  tempi  delle  trasmigra- 
zioni ritornavo,  riportandovi  la  memoria  delle  specie,  le 
quali  nell'abitazion  corporale  avevo  acquistate;  e  quelle 
medesime,  come  in  una  biblioteca,  lasciavo  là,  quando 
accadeva  ch'io  dovesse  ritornar  a  qualch'altra  terrestre  a- 
bitazione.  Delle  quali  specie  memorabili  le  ultime  son 
quelle,  ch'ho  cominciate  a  imbibire  a  tempo  della  vita 
de  Filippo  macedone,  dopo  che  fui  ingenerato  dal  seme 
de  Nicomaco,  come  si  crede.  Qua,  appresso  esser  stato 
discepolo  d'Aristarco,  Platone  ed  altri,  fui  promosso  col 
favor  di  mio  padre,  ch'era  consegliero  di  Filippo,  ad 
esser  pedante  d'Alexandro  Magno;  sotto  il  quale,  benché 
erudito  molto  bene  nelle  umanistiche  scienze,  nelle  quali 
ero  più  illustre  che  tutti  li  miei  predecessori,  entrai  m 
presunzione  d'esser  filosofo  naturale,  come  è  ordinario 
nelli  pedanti  d'esser  sempre  temerarii  e  presuntuosi;  e  con 


(1)  Cabala,  Dialogo  secondo 


172  Parte  terza 

ciò,  per  esser  estinta  la  cognizione  della  filosofìa,  morto 
Socrate,  bandito  Platone,  e  altri  in  altre  maniere  dispersi, 
rimasi  io  solo  lusco  intra  gli  ciechi;  e  facilmente  possevi 
aver  riputazion  non  sol  di  retorico,  politico,  logico,  ma 
ancora  de  filosofo.  Cossi,  malamente  e  scioccamente  ri- 
portando le  opinioni  degli  antiqui,  e  de  maniera  tal  scon- 
cia, che  né  manco  gli  fanciulli  e  le  insensate  vecchie  par- 
larebono  e  intenderebono  come  io  introduco  quelli  ga- 
lantuomini intendere  e  parlare,  mi  venni  ad  intrudere 
come  riformator  di  quella  disciplina,  della  quale  io  non 
avevo  notizia  alcuna.  Mi  dissi  principe  de'  peripatetici; 
insegnai  in  Atene  nel  sottoportico  Liceo;  dove,  secondo 
il  lume,  e  per  dir  il  vero,  secondo  le  tenebre,  che  regna' 
vano  in  me,  intesi  e  insegnai  perversamente  circa  la  na- 
tura de  li  principii  e  sustanza  delle  cose,  delirai  più  che 
ristessa  delirazione  circa  l'essenza  de  l'anima,  nulla  pos- 
sevi comprendere  per  dritto  circa  la  natura  del  moto  e 
de  l'universo;  e,  in  conclusione,  son  fatto  quello,  per  cui 
la  scienza  naturale  e  divina  è  stinta  nel  bassissimo  della 
ruota,  come  in  tempo  degli  Caldei  e  Pitagorici  è  stata  in 
exaltazione. 

Seb.  Ma  pur  ti  veggiamo  esser  stato  tanto  tempo  in 
admirazion  del  mondo;  e  tra  l'altre  maraviglie  è  trovato 
un  certo  Arabo,  ch'ha  detto  la  natura  nella  tua  produ- 
zione aver  fatto  l'ultimo  sforzo,  per  manifestar  quanto 
più  terso,  puro,  alto  e  verace  ingegno  potesse  stampare; 
e  generalmente  sei  detto  demonio  della  natura. 

Onor.  Non  sarebbono  gli  ignoranti  se  non  fusse  la 
fede;  e  se  non  la  fusse,  non  sarebbono  le  vicissitudini 
delle  scienze  e  virtudi,  bestialitadi  ed  inerzie,  e  altre  suc- 
cedenze de  contrarie  impressioni,  come  son  de  la  notte 
e  il  giorno,  del  fervor  de  l'estate  e  rigor  de  l'inverno. 

Seb.  Or,  per  venire  a  quel  ch'appartiene  alla  notizia  de 
l'anima  (mettendo  per  ora  gli  altri  propositi  da  canto)  ho 
letti  e  considerati  que'  tuoi  tre  libri,  nelli  quali  parli  più 
balbamente,  che  possi  mai  da  altro  balbo  essere  inteso; 
come  ben  ti  puoi  accorgere  di  tanti  diversi  pareri  ed  estra- 
vaganti intenzioni  e  questionarii,  massime  circa  il  dislac- 


V.  —  Aristotele  -  asino  e  i  suoi  seguaci  173 


dar  e  disimbrogliar  quel  che  ti  vogli  dire  in  que*  confusi 
e  leggieri  propositi,  gli  quali,  se  pur  ascondono  qualche 
cosa,  non  può  esser  altro  che  pedantesca  o  peripatetica 
levitade. 

Onor.  Non  è  maraviglia,  fratello;  atteso  che  non  può 
in  conto  alcuno  essere,  che  essi  loro  possano  apprendere 
il  mio  intelletto  circa  quelle  cose,  nelle  quali  io  non  ebbi 
intelletto;  o  che  vagliano  trovar  construtto  o  argumento 
circa  quel  ch'io  vi  voglia  dire,  se  io  medesimo  non  sa- 
pevo quel  che  mi  volesse  dire.  Qual  differenza  credete 
voi  essere  tra  costoro  e  quei,  che  cercano  le  corna  del 
gatto,  e  gambe  de  l'anguilla?  Nulla,  certo.  Della  qual 
cosa  precavendo  ch'altri  non  s'accorgesse,  ed  io  con  ciò 
venesse  ad  perdere  la  riputazion  di  protosofosso,  volsi  far 
de  maniera,  che  chiunque  mi  studiasse  nella  naturai  fi- 
losofia (nella  qual  fui  e  mi  sentivi  a  fatto  ignorantissimo), 
per  inconveniente  o  confusion  che  vi  scorgesse,  se  non 
avea  qualche  lume  d'ingegno,  dovesse  pensare  e  credere 
ciò  non  essere  la  mia  intenzion  profonda,  ma  più  tosto 
quel  tanto,  che  lui,  secondo  la  sua  capacità,  posseva  dagli 
miei  sensi  superficialmente  comprendere.  Laonde  feci, 
che  venesse  publicata  quella  Lettera  ad  Alexan- 
d  r  o,  dove  protestavo  gli  libri  fisicali  esser  messi  in  luce, 
come  non  messi  in  luce. 

Seb.  e  per  tanto  voi  mi  parete  aver  isgravata  la  vostra 
conscienza;  ed  hanno  torto  questi  tanti  asinoni  a  disporsi 
di  lamentarsi  di  voi  nel  giorno  del  giudicio,  come  di  quel 
che  l'hai  ingannati  e  sedutti,  e  con  sofistici  apparati  di- 
vertiti dal  camino  di  qualche  veritade,  che  per  altri  prin- 
cipii  e  metodi  arrebono  possuta  racquistarsi.  Tu  l'hai 
pure  insegnato  quel  tanto  ch'a  diritto  doveano  pensare: 
che  se  tu  hai  publicato,  come  non  publicato,  essi,  dopo 
averti  letto,  denno  pensare  di  non  averti  letto,  come  tu 
avevi  cossi  scritto,  come  non  avessi  scritto:  talmente  quei 
cotali,  ch'insegnano  la  tua  dottrina,  non  altrimente  denno 
essere  ascoltati,  che  un  che  parla,  come  non  parlasse.  E 
finalmente  né  a  voi  deve  più  essere  atteso,  che  come  ad 
un  che  raggiona  e  getta  sentenza  di  quel  che  mai  intese. 


174  Parte  terza 


Onor.  ...Slamo  dovenutl  a  tale,  ch'ogni  satiro,  fauno, 
malenconico,  embreaco  e  Infetto  d'atra  bile.  In  contar  sogni 
e  dir  de  pappolate  senza  construzione  e  senso  alcuno,  ne 
vogliono  render  suspetti  de  profezia  grande,  de  recondito 
misterio,  de  alti  secreti  e  arcani  divini,  da  risuscitar  morti, 
da  pietre  filosofali,  ed  altre  poltronarie  da  donar  volta  a 
quei  ch'han  poco  cervello,  a  farli  dovenir  al  tutto  pazzi 
con  giocarsi  il  tempo,  l'intelletto,  la  fama  e  la  robba,  e 
spendere  sì  misera  e  ignobilmente  il  corso  di  sua  vita. 

Seb.  La  intese  bene  un  certo  mio  amico;  il  quale,  a- 
vendo  non  so  se  un  certo  libro  de  profeta  enigmatico,  o 
d'altro,  dopo  avervisi  su  lambiccato  alquanto  dell'umor 
del  capo  con  una  grazia  e  bella  leggiadria  andò  e  gittarlo 
nel  cesso,  dicendogli:  —  Fratello,  tu  non  vuoi  esser  in- 
teso; IO  non  ti  voglio  intendere;  —  e  soggiunse,  ch'an- 
dasse con  cento  diavoli,  e  lo  lasciasse  star  con  fatti  suoi 
in  pace. 

Onor.  E  quel  ch'è  degno  di  compassione  e  riso  è,  che 
su  questi  editi  libelli  e  trattati  pecoreschi  vedi  dovenir 
attonito  Silvio,  Ortensio  melanconico,  smagrito  Serafino, 
impallidito  Cammaroto,  invecchiato  Ambruogio,  impaz- 
zito Giorgio,  abstratto  Reginaldo,  gonfio  Bonifacio;  ed  il 
molto  reverendo  Don  Cocchiarone  pien  d' in  finita 
e  nobil  maraviglia,  sen  va  per  il  largo  della  sua 
sala,  dove,  rimosso  dal  rude  ed  ignobil  volgo,  se  la  spas- 
seggia; e  rimanendo  or  quinci,  or  quindi  de  la  litteraria 
sua  toga  le  fimbrie,  rimanendo  or  questo,  or  quell'altro 
piede,  rigettando  or  vers'il  destro,  or  vers'il  sinistro  fi.anco 
il  petto,  con  il  texto  commento  sotto  l'ascella,  e  con  gesto 
di  voler  buttar  quel  pulce,  ch'ha  tra  le  due  prime  dita, 
in  terra,  con  la  rugata  fronte  cogitabondo,  con  erte  ciglia 
ed  occhi  arrotondati,  in  gesto  d'un  uomo  fortamente  ma- 
ravigliato, conchiudendola  con  un  grave  ed  enfatico  su- 
splro,  farà  pervenir  a  l'orecchio  de'  clrconstanti  questa 
sentenza:  Huc  usque  ahi  philosophi  non  pervenerunt.  Se  si 
trova  in  proposito  di  lezion  di  qualche  libro  composto 
da  qualche  energumeno  o  inspirato,  dove  non  è  espresso 
e  donde  non  si  può  premere  più  sentimento,  che  possa 


V.  -  Aristotele  -  asino  e  i  suoi  seguaci  175 

ritrovarsi  in  un  spirito  cavallino;  allora,  per  mostrar  di 
aver  dato  sul  chiodo,  exclamarà:  —  0  magnum  mysteriuml 

Seb.  Ma  vorrei  saper  da  Saulino  (che  magnifica  tanto 
l'asmitade,  quanto  non  può  esser  magnificata  la  scienza 
e  speculazione,  dottrina  e  disciplina  alcuna)  se  l'asinitade 
può  aver  luogo  in  altri  che  negli  asini;  come  è  dire,  se 
alcuno  da  quel  che  non  era  asino,  possa  doventar  asino 
per  dottrina  e  disciplina.  Perchè  bisogna  che  di  questi 
quel  che  insegna,  o  quel  che  è  insegnato,  o  cossi  l'uno 
come  l'altro,  o  né  l'uno  né  l'altro,  siano  asini.  Dico,  se 
sarà  asino  quello  solo  che  insegna,  o  quel  solo  ch'è  inse- 
gnato, o  né  quello  né  questo,  o  questo  e  quello  insieme. 
Perchè  qua  col  medesimo  ordine  si  può  vedere,  che  in 
nessun  modo  si  possa  inasinire.  Dunque,  dell'asinitade 
non  può  essere  apprension  alcuna,  come  non  è  de  arti  e 
de  scienze. 

Onor.  Di  questo  ne  raggionaremo  a  tavola  dopo  cena. 
Andiamo,  dunque,  ch'è  ora. 

Cor.  Propere  eamus. 


VI. 
L'ASINO  ACCADEMICO  <» 


L'Asino.  Or  perchè  derrò  lo  abusar  de  l'alto,  raro  e 
pelegrino  tuo  dono,  o  folgorante  Giove?  Perchè  tanto 
talento,  porgiutoml  da  te,  che  con  sì  partlcular  occhio 
me  miraste  {indicante  fato),  sotto  la  nera  e  tenebrosa  terra 
d'un  ingratissimo  silenzio  terrò  sepolto?  Suffnrò  più  a 
lungo  l'esser  sollecitato  a  dire,  per  non  far  uscir  da  la 
mia  bocca  quell'estraordinario  ribombo,  che  la  largita 
tua,  in  questo  confusissimo  secolo,  nell'interno  mio  spi- 
rito (perchè  si  producesse  fuora)  ha  seminato?  Aprisi, 
aprisi,  dunque,  con  la  chiave  de  l'occasione  l'asinin  pa- 
lato, sciolgasi  per  l'industria  del  supposito  la  lingua,  rac- 
colgansi  per  mano  de  l'attenzione,  drizzata  dal  braccio 
de  l'intenzione,  i  frutti  degli  arbori  e  fiori  de  l'efbe,  che 
sono  nel  giardino  de  l'asinina  memoria. 

Micco.  0  portento  insolito,  o  prodigio  stupendo,  o 
maraviglia  incredibile,  o  miracoloso  successo!  Avertano 
gli  dii  qualche  sciagura!  Parla  l'asino P  l'asino  parla?  0 
Muse,  o  Apolline,  o  Ercule,  da  cotal  testa  esceno  voci 
articulate?  Taci,  Micco,  forse  t'inganni;  forse  sotto  questa 
pelle  qualch'uomo  stassi  mascherato,  per  burlarsi  di  noi. 

Asino.  Pensa  pur.  Micco,  ch'io  non  sia  sofìstico,  ma 
che  son  naturalissimo  asino,  che  parlo;  e  cossi  mi  ricordo 
aver  avuti  altre  volte  umani,  come  ora  mi  vedi  aver  be- 
stiali membri. 

Micco.  Appresso,  o  demonio  incarnato,  dimandarotti 
chi,  quale  e  come  sei.  Per  ora,  e  per  la  prima,  vorrei  sa- 


(I)  L'Asino  cillenico. —  Interlocutori  sono  l'AsiNO.  Micco  PITAGORICO,  Mercurio. 


VI.  -  L'asino  accademico  177 

per,  che  cosa  dimandi  da  qua?  che  augurio  ne  ameni? 
qual  ordine  porti  dagli  Dei?  a  che  si  terminarà  questa 
scena?  a  qual  fine  hai  messi  gli  piedi  a  partitamente  mo- 
strarti vocale  in  questo  nostro  sottoportico? 

Asino.  Per  la  prima  voglio  che  sappi,  ch'io  cerco  di 
esser  membro  e  dichiararmi  dottore  di  qualche  colleggio 
o  academia,  perchè  la  mia  sufficienza  sia  autenticata,  a 
fin  che  non  siano  attesi  gli  miei  concetti,  e  ponderate  le 
mie  parole,  e  riputata  la  mia  dottrina  con  minor  fede, 
che  — 

Micco.  0  Giove!  è  possibile,  che  ab  aeterno  abbi 
gìamai  registrato  un  fatto,  un  successo,  un  caso  simile 
a  questo? 

Asino.  Lascia  le  maraviglie  per  ora;  e  rispondetemi 
presto,  o  tu,  o  uno  de  questi  altri,  che  attoniti  concor- 
reno  ad  ascoltarmi.  0  togati,  annulati,  pileati,  didascali, 
archididascali  e  de  la  sapienza  eroi  e  semidei:  volete, 
piacevi,  ewi  a  core  d'accettar  nel  vostro  consorzio,  so- 
cietà, contubernio,  e  sotto  la  banda  e  vessillo  della  vostra 
communione  questo  asino,  che  vedete  e  udite?  Perchè 
di  voi,  altri  ridendo  si  maravigliano,  altri  maravigliando 
si  ridono,  altri  attoniti  (che  son  la  maggior  parte)  si  mor- 
deno  le  labbia,  e  nessun  risponde? 

Micco.  Vedi  che  per  stupore  non  parlano,  e  tutti  con 
esser  volti  a  me  mi  fan  segno,  ch'io  ti  risponda;  al  qual, 
come  presidente,  ancora  tocca  di  donarti  risoluzione,  e 
da  cui,  come  da  tutti,  devi  aspettar  l'ispedizione. 

Asino.  Che  academia  è  questa,  che  tien  scritto  sopra 
la  porta:  Lineam  ne  pertransito? 

Micco.  La  è  una  scuola  de  Pitagorici. 
Asino.  Potravisi  entrare? 

Micco.  Per  academico  non  senza  difficili  e  molte  con- 
dizioni. 
Asino.  Or  quali  son  queste  condizioni? 
Micco.  Son  pur  assai. 
Asino.  Quali,  dimandai,  non  quante. 
Micco.  Ti  risponderò  al  meglio,  riportando  le  prin- 
cipali. Prima,  che,  offrendosi  alcuno  per  essere  ricevuto. 


178  Parte  terza 

avante  che  sia  accettato,  debba  esser  squadrato  nella  dl- 
sposlzlon  del  corpo,  fisionomia  ed  ingegno,  per  la  gran 
consequenza  relativa,  che  conoscemo  aver  il  corpo  da 
l'anima  e  con  l'anima. 

Asino.  Ab  love  principium,  Musae,  s'egli  si  vuol  ma- 
ritare. 

Micco.  Secondo,  ricevuto  ch'egli  è,  se  gli  dona  ter- 
mine di  tempo  (che  non  è  men  che  di  doi  anni)  nel  quale 
deve  tacere,  e  non  gli  è  lecito  d'ardire  in  punto  alcuno 
de  dimandar,  anco  di  cose  non  intese,  non  sol  che  di  di- 
sputare e  exarninar  propositi,  e  in  quel  tempo  si  chiama 
acustico.  Terzo,  passato  questo  tempo,  gli  è  lecito 
di  parlare,  dimandare,  scrivere  le  cose  udite,  ed  esplicar 
le  proprie  opinioni;  e  in  questo  mentre  si  appella  ma- 
tematico, o  caldeo.  Quarto,  informato  di  cose  si- 
mili, e  ornato  di  que'  studii,  si  volta  alla  considerazion 
de  l'opre  del  mondo  e  principii  della  natura:  e  qua  ferma 
il  passo,  chiamandosi  fisico. 

Asino.  Non  procede  oltre? 

Micco.  Più  che  fisico  non  può  essere:  perchè  delle 
cosa  sopranaturali  non  si  possono  aver  raggioni,  eccetto 
in  quanto  riluceno  nelle  cose  naturali;  perciochè  non  ac- 
cade ad  altro  intelletto,  che  al  purgato  e  superiore' di  con- 
siderarle in  sé. 

Asino.  Non  si  trova  appo  voi  metafisica? 

Micco.  No;  e  quello  che  gli  altri  vantano  per  metafi- 
sica, non  è  altro  che  parte  di  logica.  Ma  lasciamo  questo, 
che  non  fa  al  proposito.  Tali,  in  conclusione,  son  le  con- 
dizioni e  regole  di  nostra  academia. 

Asino.  Queste? 

Micco.  Messer  sì. 

Asino.  0  scola  onorata,  studio  egregio,  setta  formosa, 
collegio  venerando,  gimnasio  clarissimo,  ludo  invitto,  e 
academia  tra  le  principali  principalissima!  L  asino  er- 
rante, come  sitibondo  cervio,  a  voi,  come  a  limpidissime 
e  freschissime  acqui;  l'asino  umile  e  supplicante,  a  voi, 
benignissimi  ricettatori  de'  peregrini,  s'appresenta,  bra- 
moso d'essere  nel  consorzio  vostro  ascritto. 


VI.   -  L'asino  accademico  179 

Micco.  Nel  consorzio  nostro? 

Asino.  Sì,  sì,  signor  sì,  nel  consorzio  vostro. 

Micco.  Va  per  quell'altra  porta,  messere,  perchè  da 
questa  son  banditi  gli  asini. 

Asino.  Dimmi,  fratello,  per  qual  porta  entrasti  tu? 

Micco.  Può  far  il  cielo  che  gli  asini  parlino,  ma  non 
già  che  entrino  in  scola  pitagorica. 

Asino.  Non  esser  cossi  fiero,  o  Micco,  e  ricordati,  ch'il 
tuo  Pitagora  insegna  di  non  spreggiar  cosa,  che  si  trova 
nel  seno  della  natura.  Benché  io  sono  in  forma  d'asino 
al  presente,  posso  esser  stato  e  posso  esser  appresso  in 
forma  di  grand'uomo;  e  benché  tu  sia  un  uomo,  puoi 
esser  stato  e  potrai  esser  appresso  un  grand'asino,  secondo 
che  parrà  ispediente  al  dispensator  degli  abiti  e  luoghi 
e  disponitor  de  l'anime  transmigranti. 

Micco.  Dimmi,  fratello,  hai  intesi  gli  capitoli  e  con- 
dizioni dell'academia? 

Asino.  Molto  bene. 

Micco.  Hai  discorso  sopra  l'esser  tuo,  se  per  qualche 
tuo  difetto  ti  possa  essere  impedita  l'entrata? 

Asino.  Assai  a  mio  giudicio. 

Micco.  Or  fatevi  intendere. 

Asino.  La  principal  condizione,  che  m'ha  fatto  dubi- 
tare, é  stata  la  prima.  £  pur  vero  che  non  ho  quella  in- 
dole, quelle  carni  mollecine,  quella  pelle  delicata,  tersa 
e  gentile,  le  quali  tegnono  li  fìsionotomisti,  attissime  alla 
recepzion  della  dottrina;  perchè  la  durezza  di  quelle  ri- 
pugna a  l'agilità  de  l'intelletto.  Ma  sopra  tal  condizione 
mi  par  che  debba  posser  dispensar  il  principe;  perchè 
non  deve  far  rimaner  fuori  uno,  quando  molte  altre  par- 
zialitadi  suppliscono  a  tal  difetto,  come  la  sincerità  de* 
costumi,  la  prontezza  de  l'ingegno,  l'efficacia  de  l'intel- 
ligenza, e  altre  condizioni  compagne,  sorelle  e  figlie  di 
queste.  Lascio,  che  non  si  deve  aver  per  universale,  che 
l'anime  sieguano  la  complesslon  del  corpo;  perchè  può 
esser,  che  qualche  più  efficace  spiritual  principio  possa 
vincere  e  superar  l'oltraggio,  che  dalla  crassezza  o  altra 
indisposizion  di  quello  gli  vegna  fatto.  Al  qual  proposito 


180  Parte  terza 

v'apporto  l'esempio  de  Socrate,  giudicato  dal  fisogno- 
mico  Zopiro  per  uomo  stemprato,  stupido,  bardo,  effe- 
minato, namoraticcio  de  putti  e  incostante;  il  che  tutto 
venne  conceduto  dal  filosofo,  ma  non  già,  che  l'atto  de 
tali  inclinazioni  si  consumasse:  stante  ch'egli  venia  tem- 
prato dal  continuo  studio  della  filosofia,  che  gli  avea 
pòrto  in  mano  il  fermo  temone  contra  l'empito  de  l'onde 
de  naturali  indisposizioni,  essendo  che  non  è  cosa,  che 
per  lo  studio  non  si  vinca.  Quanto  poi  all'altra  parte 
principale  fisiognomica,  che  consista  non  nella  comples- 
sion  di  temperamenti,  ma  nell'armonica  proporzion  de 
membri,  vi  notifico  non  esser  possibile  de  ritrovar  in  me 
defetto  alcuno,  quando  sarà  ben  giudicato.  Sapete  ch'il 
porco  non  deve  esser  bel  cavallo,  né  l'asino  bell'uomo; 
ma  l'asino  bell'asino,  il  porco  bel  porco,  l'uomo  bell'uomo. 
Che  se,  straportando  il  giudicio,  il  cavallo  non  par  bello 
al  porco,  né  il  porco  par  bello  al  cavallo;  se  a  l'uomo 
non  par  bello  l'asino,  e  l'uomo  non  s'innamora  de  l'asino, 
né  per  opposito  a  l'asino  par  bello  l'uomo,  e  l'asmo  non 
s'mnamora  de  l'uomo.... 

Micco.  Sin  al  presente  costui  mostra  di  saper  assai 
assai.  Seguita,  messer  Asino,  e  fa  pur  gagliarde  le  tue 
raggioni  quanto  ti  piace;  perché 

iVe  Fonde  solchi  e  ne  Farena  semini, 
E  */  vago  vento  speri  in  rete  accogliere, 
E  le  speranze  fondi  in  cuor  di  femine, 

se  speri,  che  dagli  signori  academici  di  questa  o  altra 
setta  ti  possa  o  debbia  esser  concessa  l'entrata.  Ma,  se 
sei  dotto,  contentati  di  rimanerti  con  la  tua  dottrina  solo. 
Asino.  0  insensati,  credete  ch'io  dica  le  mie  raggioni 
a  voi,  a  ciò  che  me  le  facciate  valide?  Credete  eh  io  ab- 
bia fatto  questo  per  altro  fine,  che  per  accusarvi,  e  ren- 
dervi inexcusabili  avanti  a  Giove?  Giove  con  avermi  fatto 
dotto  mi  fé*  dottore.  Aspettavo  ben  io,  che  dal  bel  giu- 
dicio della  vostra  sufficienza  venesse  sputata  questa  sen- 
tenza: —  Non  é  convenevole,  che  gli  asini  entrino  in  A- 
cademia  insieme  con  noi  altri  uomini.  —  Questo,  se  stu- 


VI.  —  L'asino  accademico  18| 

dioso  di  qualsivoglia  altra  setta  lo  può  dire,  non  può 
essere  raggionevolmente  detto  da  voi  altri  pitagorici,  che 
con  questo,  che  negate  a  me  l'entrata,  struggete  gli  prin- 
cipii,  fondamenti  e  corpo  della  vostra  filosofia.  Or  che 
differenza  trovate  voi  tra  noi  asini  e  voi  altri  uomini, 
non  giudicando  le  cosa  dalla  superficie,  volto  ed  appa- 
renza? Oltre  di  ciò  dite,  giudici  inetti:  quanti  di  voi  er- 
rano ne  l'academia  degli  asini?  quanti  imparano  nell'a- 
cademia  degli  asini?  quanti  fanno  profitto  nell'academia 
degli  asini?  quanti  s'addottorano,  marciscono  e  muoiono 
nell'academia  degli  asini?  quanti  son  preferiti,  inalzati, 
magnificati,  canonizati,  glorificati  e  deificati  nell'academia 
degli  asini?  che  se  non  f ussero  stati  e  non  f ussero  asini, 
non  so,  non  so  come  la  cosa  sarrebbe  passata  e  passa- 
rebbe  per  essi  loro.  Non  son  tanti  studii  onoratissimi  e 
splendidissimi,  dove  si  dona  lezione  di  saper  inasinire, 
per  aver  non  solo  il  bene  della  vita  temporale,  ma  e  de 
l'eterna  ancora?  Dite,  a  quante  e  quali  facultadi  ed  onori 
s'entra  per  la  porta  dell'asinitade?  Dite,  quanti  son  im- 
pediti, exclusi,  rigettati  e  messi  in  vituperio,  per  non  esser 
partecipi  dell'asinina  facultade  e  perfezione?  Or  perchè 
non  sarà  lecito,  ch'alcuno  degli  asini,  o  pur  almeno  uno 
degli  asini  entri  nell'academia  degli  uomini?  Perchè  non 
debbo  esser  accettato  con  aver  la  maggior  parte  delle 
voci  e  voti  in  favore  in  qualsivoglia  academia,  essendo 
che,  se  non  tutti,  almeno  la  maggior  e  massima  parte  è 
scritta  e  scolpita  nell'academia  tanto  universale  de  noi 
altri?  Or  se  siamo  sì  larghi  ed  effusi  noi  asini  in  ricever 
tutti,  perchè  dovete  voi  esser  tanto  restivi  ad  accettare 
un  de  noi  altri  al  meno? 

Micco.  Maggior  difficultà  si  fa  in  cose  piìi  degne  e 
importanti:  e  non  si  fa  tanto  caso,  e  non  s'aprono  tanto 
gli  occhi  in  cose  di  poco  momento.  Però,  senza  ripu- 
gnanza e  molto  scrupolo  di  coscienza,  si  ricevon  tutti 
ne  l'academia  degli  asini,  e  non  deve  esser  così  nell'aca- 
demia degli  uomini. 

Asino.  Ma,  o  messere,  sappime  dire  e  resolvimi  un 
poco,  qua!  cosa  delle  due  è  più  degna,  che  un  uomo  ina- 


182  Parte  terza 

sinisca,  o  che  un  asino  inumanisca?  Ma,  ecco  in  veri- 
tade  il  mio  Cillenio:  il  conosco  per  il  caduceo  e  l'ali. — 
Ben  venga  il  vago  aligero,  nuncio  di  Giove,  fido  inter- 
prete della  voluntà  de  tutti  gli  dei,  largo  donator  de  le 
scienze,  addirizzator  de  l'arti,  continuo  oracolo  de'  ma- 
tematici, computista  mirabile,  elegante  dicitore,  bel  volto, 
leggiadra  apparenza,  facondo  aspetto,  personaggio  gra- 
zioso, uomo  tra  gli  uomini,  tra  le  donne  donna,  desgra- 
ziato tra'  desgraziati,  tra'  beati  beato,  fra  tutti  tutto;  che 
godi  con  chi  gode,  con  chi  piange  piangi;  però  per  tutto 
vai  e  stai,  sei  ben  visto  e  accettato.  Che  cosa  de  buono 
apporti  ? 

Merc.  Perchè,  Asino,  fai  conto  di  chiamarti  ed  essere 
academico,  io,  come  quel,  che  t'ho  donati  altri  doni  e 
grazie,  al  presente  ancora  con  plenaria  autorità  ti  ordino, 
constituisco  e  confermo  Academico  e  Dogmatico  gene- 
rale, acciò  che  possi  entrar  e  abitar  per  tutto,  senza  ch'al- 
cuno ti  possa  tener  porta  o  dar  qualsivoglia  sorte  d'ol- 
traggio o  impedimento,  quibuscumque  in  oppositwn  non  oh- 
stantibus.  Entra,  dunque,  dove  ti  pare  e  piace.  Né  vo- 
gliamo, che  sii  ubligato  per  il  capitolo  del  silenzio  bien- 
nale, che  SI  trova  nell'ordine  pitagorico,  e  qualsivogli 'altre 
leggi  ordinane:  perchè,  novis  intervenientibus  causis,  novae 
condendae  sunt  leges,  proque  ipsis  condita  non  intelliguntur 
iura:  interimque  ad  optimi  iudicium  iudicis  ref erenda  est 
sententia,  cuius  intersit  iuxta  necessarium  atqiie  commodum 
providere.  Parla,  dunque,  tra  gli  acustici;  considera  e  con- 
templa tra'  matematici;  discuti,  dimanda,  insegna,  de- 
chiara e  determina  tra'  fisici;  trovati  con  tutti,  discorri 
con  tutti,  affratellati,  unisciti,  identificati  con  tutti,  do- 
mina a  tutti,  sii  tutto. 

Asino.  Avetel'inteso? 

Micco.  Non  siamo  sordi. 


VII. 
DALLE  TENEBRE  ALLA  LUCE  <•) 


Elitropio.  Qual  rei  nelle  tenebre  avezzi,  che,  liberati 
dal  fondo  di  qualche  oscura  torre,  escono  alla  luce, 
molti  degli  esercitati  nella  volgar  filosofia  ed  altri  pa- 
ventaranno,  adn  aranno,  e,  non  possendo  soffrire  il 
nuovo  sole  de'  t;     i  chiari  concetti,  si  turbaranno. 

FlLOTEO.  Il  dift  '  o  non  è  di  luce,  ma  di  lumi:  quanto 
m  sé  sarà  più  b  lo  e  piìj  eccellente  il  solc:  tanto 
sarà   a         '  de  le  notturne  strige  odioso  e  discaro 

di  vantaggio. 

Eli.  La  impresa  che  hai  tolta,  o  Filoteo,  è  difficile, 
rara  e  singulare,  mentre  dal  cieco  cibisso  vuoi  cacciarne  e 
amenarne  al  discoperto,  tranquillo  e  sereno  aspetto  de  le 
stelle,  che  con  sì  bella  varietade  veggiamo  disseminate 
per  il  ceruleo  manto  del  cielo.  Benché  agli  uomini  soli 
l'aitatrice  mano  di  tuo  pietoso  zelo  soccorra,  non  saran 
però  meno  vani  gli  effetti  de  ingrati  verso  di  te,  che  varii 
son  gli  animali  che  la  benigna  terra  genera  e  nodrisce  nel 
suo  materno  e  capace  seno;  se  gli  é  vero  che  la  specie 
umana,  particularmente  negl'individui  suoi,  mostra  de 
tutte  l'altre  la  varietade  per  esser  in  ciascuno  più  espres- 
samente il  tutto,  che  in  quelli  d'altre  specie.  Onde  ve- 
dransi  questi,  che,  qual'appannata  talpa,  non  sì  tosto  sen- 
tiranno l'aria  discoperto,  che  di  bel  nuovo,  risfossicando 
la  terra,  tentaranno  agli  nativi  oscuri  penetrali.  Quelli, 


(1)  De  la  Causa,  Principio  et   Uno.  Dialogo  primo.  —  Interlocutori    sono; 
Elitropio,  Filoteo,  Armesso. 


Bruno,  In  tristitia  hilaris,  etc.  14. 


184  Parte  terza 

qua!  notturni  uccelli,  non  sì  tosto  arran  veduta  spuntar 
dal  lucido  oriente  la  vermiglia  ambasciatrice  del  sole, 
che  dalla  Imbecillità  degli  occhi  suol  verranno  invitati 
alla  caliginosa  ntretta.  Gli  animanti  tutti,  banditi  dallo 
aspetto  de  le  lampadi  celesti  e  destinati  all'eterne  gabbie, 
bolge  ed  antri  di  Plutone,  dal  spaventoso  ed  erlnnico 
corno  d'Alecto  richiamati,  apriran  l'ali,  e  drizzaranno  il 
veloce  corso  alle  lor  stanze.  Ma  gli  animanti  nati  per 
vedere  il  sole,  gionti  al  termine  dell'odiosa  notte,  rin- 
graziando la  benignità  del  cielo,  e  disponendosi  a  ricever 
nel  centro  del  globoso  cristallo  degli  occhi  suoi  gli  tanto 
bramati  e  aspettati  rai,  con  dlsutato  applauso  di  cuore, 
di  voce  e  di  mano  adoraranno  l'oriente;  dal  cui  dorato 
balco,  avendo  cacciati  gli  focosi  destrieri  il  vago  Titane, 
rotto  il  sonnacchioso  silenzio  de  l'umida  notte,  raggiona- 
ranno  gli  uomini,  belaranno  gli  facili,  inermi  e  semplici 
lanuti  greggi,  gli  cornuti  armenti  sotto  la  cura  de'  ruvidi 
bifolchi  muggiranno.  Gli  cavalli  di  Sileno,  perchè  di  nuovo 
in  favor  degli  smarriti  Dei,  possano  dar  spavento  ai  più 
de  lor  stupidi  gigantoni,  ragghiaranno;  versandosi  nel  suo 
limoso  letto,  con  importun  gruito  ne  assordiranno  gli 
sannuti  ciacchi.  Le  tigri,  gli  orsi,  gli  leoni,  i  lupi  e  le  fallaci 
golpi,  cacciando  da  sue  spelunche  il  capo,  da  le  deserte 
alture  contemplando  il  piano  campo  de  la  caccia,  manda- 
ranno  dal  ferino  petto  i  lor  grunniti,  ricti,  bruiti,  fre- 
miti, ruggiti  ed  orli.  Ne  l'aria  e  su  le  frondi  di  ramose 
piante,  gli  galli,  le  aquile,  li  pavoni,  le  grue,  le  tortore,  i 
merli,  i  passari,  i  rosignoli,  le  cornacchie,  le  piche,  gli 
corvi,  gli  cuculi  e  le  cicade  non  sarran  negligenti  di  re- 
plicar e  radoppiar  gli  suoi  garriti  strepitosi.  Dal  liquido 
e  instabile  campo  ancora,  li  bianchi  cigni,  le  molticolo- 
rate  anitre,  gli  solleciti  merghi,  gli  paludosi  bruzii,  le 
oche  rauche,  le  querulose  rane  ne  toccaranno  l'orecchie 
col  suo  rumore,  di  sorte  ch'il  caldo  lume  di  questo  sole, 
diffuso  all'aria  di  questo  più  fortunato  emisfero,  verrà 
accompagnato,  salutato  e  forse  molestato  da  tante  e  tali 
diversitadi  de  voci,  quanti  e  quali  son  spirti  che  dal  pro- 
fondo di  proprii  petti  le  caccian  fuori. 


VII.  —  Dalle  tenebre  alla  luce  185 

FlL.  Non  solo  è  ordinarlo,  ma  anco  naturale  e  necessario 
che  ogni  animale  faccia  la  sua  voce;  e  non  è  possibile  che 
le  bestie  formino  regolati  accenti  e  articulati  suoni  come 
gli  uomini,  come  contrarie  le  complessioni,  diversi  i 
gusti,  varil  gli  nutrimenti. 

Armesso.  Di  grazia,  concedetemi  libertà  di  dir  la  parte 
mia  ancora;  non  circa  la  luce,  ma  circa  alcune  circustanze, 
per  le  quali  non  tanto  si  suol  consolare  il  senso,  quanto 
molestar  il  sentimento  di  chi  vede  e  considera;  perchè,  per 
vostra  pace  e  vostra  quiete,  la  quale  con  fraterna  caritade 
vi  desio,  non  vorrei  che  di  questi  vostri  discorsi  vegnan 
formate  comedie,  tragedie,  lamenti,  dialoghi,  o  come  vo- 
gliam  dire,  simili  a  quelli  che  poco  tempo  fa,  per  esserno 
essi  usciti  in  campo  a  spasso,  vi  hanno  forzato  di  starvi 
rinchiusi  e  retirati  in  casa. 

FlL.  Dite  liberamente. 

Arm.  Io  non  parlare  come  santo  profeta,  come  astratto 
divino,  come  assumpto  apocaliptico,  né  quale  angelicata 
asina  di  Balaamo;  non  raggionarò  come  inspirato  da  Bacco, 
né  gonfiato  di  vento  da  le  puttane  muse  di  Parnaso  o  come 
una  Sibilla  impregnata  da  Febo,  o  come  una  fatidica  Cas- 
sandra, né  qual  ingombrato  da  le  unghie  de'  piedi  sin  alla 
cima  di  capegli  de  l'entusiasmo  apollinesco,  né  qual  vate 
illuminato  nell'oraculo  o  delfico  tripode,  né  come  Edipo 
esquisito  contra  gli  nodi  della  Sfinge,  né  come  un 
Salomone  inver  gli  enigmi  della  regina  Sabba,  né 
qual  Calcante ,  interprete  dell  'olimpico  senato ,  né 
come  un  inspiritato  Merlino,  o  come  uscito  dall'antro  di 
Trofonio.  Ma  parlare  per  l'ordinano  e  per  volgare,  come 
uomo  che  ho  avuto  altro  pensiero  che  d'andarmi  lam- 
biccando il  succhio  de  la  grande  e  picciola  nuca,  con  farmi 
al  fine  rimanere  in  secco  la  dura  e  pia  madre;  come  uomo, 
dico,  che  non  ho  altro  cervello  ch'il  mio;  a  cui  manco  gli 
dei  dell'ultima  cotta  e  da  tinello  nella  corte  celestiale 
(quei  dico  che  non  beveno  ambrosia,  né  gustan  nettare, 
ma  si  vi  tolgon  la  sete  col  basso  de  le  botte  e  vini  rinversati, 
se  non  voglion  far  stima  de  linfe  e  ninfe,  quei,  dico,  che 
sogliono   essere   più   domestici,   familiari    e   conversabili 


166  Parte  terza 

con  noi),  come  è  dire  né  il  dio  Bacco,  né  quel  imbreaco 
cavalcator  de  l'asino,  né  Pane,  né  Vertunno,  né  Fauno, 
né  Priapo,  si  degnano  cacciarmene  una  pagliusca  di  più 
e  di  vantaggio  dentro,  quantunque  sogliano  far  copia  de' 
fatti  lor  sin  ai  cavalli. 

Eli.  Troppo  lungo  proemio. 

Arm.  Pacienza,  che  la  conclusione  sarà  breve.  Voglio 
dir  brevemente,  che  vi  farò  udir  paroli,  che  non  bisogna 
disciferarle  come  poste  in  distillazione,  passate  per  lam- 
bicco, digente  dal  bagno  di  maria,  e  subblimate  in  recipe 
di  quinta  essenza;  ma  tale  quali  m'insaccò  nel  capo  la 
nutriccia,  la  quale  era  quasi  tanto  cotennuta,  pettoruta, 
ventruta,  fiancuta  e  naticuta,  quanto  può  essere  quella 
Londriota,  che  viddi  a  Westmester;  la  quale,  per  iscalda-  É 

toio  del  stomaco,  ha  un  paio  di  tettazze,  che  paiono  gli 
borzacchini  del  gigante  san  Sparagorio,  e  che,  concie  in 
cuoio,  varrebono  sicuramente  a  far  due  pive  ferrarese. 

Eli.  e  questo  potrebbe  bastare  per  un  proemio. 


vili. 

LA  CENA  FILOSOFICA*" 


Armesso.  Or  su,  per  venire  al  resto,  vorrei  Intendere  da 
voi  (lasciando  un  poco  da  canto  le  voci  e  le  lingue  a  pro- 
posito del  lume  e  splendor,  che  possa  apportar  la  vostra 
filosofìa)  con  che  voci  volete  che  sia  salutato  particolar- 
mente da  noi  quel  lustro  di  dottrina,  che  esce  dal  libro 
de  la  Cena  de  le  ceneri?  Quali  animali  son 
quelli,  che  hanno  recitata  la  Cena  de  le  ceneri? 
Dimando,  se  sono  acquatici,  o  aerei,  o  terrestri,  o  luna- 
tici? E  lasciando  da  canto  gli  propositi  di  Smitho,  Pru- 
denzio e  Frulla,  desidero  di  sapere,  se  fallano  coloro  che 
dicono,  che  tu  fai  la  voce  di  un  cane  rabbioso  e  infuriato, 
oltre  che  tal  volta  fai  la  simia,  tal  volta  11  lupo,  tal  volta 
la  pica,  tal  volta  il  papagallo,  tal  volta  un  animale,  tal 
volta  un  altro,  meschiando  propositi  gravi  e  seriosi, 
morali  e  naturali,  ignobili  e  nobili,  filosofici   e  comici? 

FlLOTEO.  Non  vi  maravigliate,  fratello,  perchè  questa  non 
fu  altro  ch'una  cena  dove  gli  cervelli  vegnono  governati 
dagli  affetti,  quali  gli  vegnon  porgiuti  dall'efficacia  di  sa- 
pori e  fumi  de  le  bevande  e  cibi.  Qual  dunque  può  essere 
la  cena  materiale  e  corporale,  tale  conseguentemente  suc- 
cede la  verbale  e  spirituale;  cossi  dunque  questa  dialo- 
gale ha  le  sue  parti  varie  e  diverse,  qual  varie  e  diverse 
quell'altra  suole  aver  le  sue;  non  altnmente  questa  ha  le 
proprie  condizioni,  circonstanze  e  mezzi,  che  come  le 
proprie  potrebbe  aver  quella. 

Arm.  Di  grazia,  fate  ch'io  vi  intenda.  _ 

FlL.  Ivi,  come  è  l'ordinario  e  il  dovero,  soglion  tro- 
varsi cose  da  insalata,  da  pasto;  da  frutti,  da  ordinarlo;  da 
cocina,  da  spedarla;  da  sani,  da  amalatl;  di  freddo,  di 
caldo;  di  crudo,  di  cotto;  di  acquatico,  di  terrestre;  di  do- 


(1)  Ibid.  Seguito. 


188  Parie  terza 

mestico,  di  salvatico;  di  rosto,  di  lesso;  di  maturo,  di 
acerbo;  e  cose  da  nutrimento  solo  e  da  gusto,  sustanziose 
e  leggieri,  salse  e  insipide,  agreste  e  dolci,  amare  e  suavi. 
Cossi  quivi,  per  certa  conseguenza,  vi  sono  apparse  le  sue 
contrarietadi  e  diversitadi,  accomodate  a  contrarie  e  di- 
versi stomachi  e  gusti,  a'  quali  può  piacere  di  farsi  pre- 
senti al  nostro  tipico  simposio,  a  fine  che  non  sia  chi  si 
lamente  di  esservi  gionto  in  vano,  e  a  chi  non  piace  di 
questo,  prenda  di  quell'altro. 

Arm.  e  vero;  ma  che  dirai,  se  oltre  nel  vostro  convito, 
ne  la  vostra  cena  appariranno  cose,  che  non  son  buone  ne 
per  insalata,  né  pe  pasto;  né  per  frutti,  né  per  ordinario; 
né  fredde,  né  calde;  né  crude,  né  cotte,  né  vagliano  per 
l'appetito,  né  per  fame;  non  son  buone  per  sani,  né  per 
ammalati;  e  conviene  che  non  escano  da  mani  di  cuoco 
né  di  speciale? 

FlL.  Vedrai  che  né  in  questo  la  nostre  cena  é  dissimile 
a  qualunqu'altra  esser  possa.  Come  dunque  là,  nel  più 
bel  del  mangiare,  o  ti  scotta  qualche  troppo  caldo  boccone; 
di  maniera  che  bisogna  cacciarlo  de  bel  nuovo  fuora,  o 
piangendo  e  lagnmando  mandarlo  vagheggiando  per  il 
palato,  sin  tanto  che  se  gli  possa  donar  quella  maFadetta 
spinta  per  il  gargazzuolo  al  basso;  o  vero  ti  si  stupefa 
qualche  dente;  o  te  s'intercepe  la  lingua,  che  viene  ad  esser 
morduta  con  il  pane;  o  qualche  lapillo  te  si  viene  a  rom- 
pere e  incalcinarsi  tra  gli  denti  per  farti  regittar  tutto  il 
boccone;  o  qualche  pelo  o  capello  del  cuoco  ti  s'inveschia 
nel  palato,  per  farti  presso  che  vomire;  o  te  s'arresta 
qualche  aresta  di  pesce  ne  la  canna,  a  farti  suavemente 
tussire;  o  qualche  ossetto  te  s'attraversa  ne  la  gola,  permet- 
terti in  pericolo  di  suffocare;  cossi  nella  nostra  cena,  per 
nostra  e  com.un  disgrazia,  vi  si  son  trovate  cose  corri- 
spondenti e  proporzionali  a  quelle.  Il  che  tutto  avviene 
per  il  peccato  dell'antico  protoplaste  Adamo,  per  cui  la 
perversa  natura  umana  é  condannata  ad  aver  sempre  i 
disgusti  gionti  ai  gusti. 

Arm.  Pia  -  e  santamente. 


IX. 
LODE  DEL  NOLANO  e» 


Teofilo  ....Or  che  dirò  lo  del  Nolano?  Forse,  per 
essermi  tanto  prossimo,  quanto  io  medesmo  a  me  stesso, 
non  mi  converrà  lodarlo?  Certamente,  uomo  raggionevole 
non  sarà  che  mi  riprenda  in  ciò,  atteso  che  questo  talvolta 
non  solamente  conviene,  ma  è  anco  necessario,  come  bene 
espresse  quel  terso  e  colto  Tansillo: 

BencKad  un  uom,  che  preggio  ed  onor  brama, 
Di  sé  stesso  parlar  molto  sconvegna. 
Perchè  la  lingua,  ov'il  cor  teme  ed  ama. 
Non  è  nel  suo  parlar  di  fede  degna; 
L'esser  altrui  precon  de  la  sua  fama 
Pur  qualche  volta  par  che  si  convegno. 
Quando  vien  a  parlar  per  un  di  dui: 
Per  fuggir  hiasmo,  o  per  giovar  altrui. 

Pure,  se  sarà  un  tanto  supercilioso,  che  non  voglia  a 
proposito  alcuno  patir  la  lode  propria,  o  come  propria, 
sappia,  che  quella  talvolta  non  si  può  dividere  da  sui  pre- 
senti e  riportati  effetti.... 

Gli  Tifi  han  ritrovato  il  modo  di  perturbar  la  pace  altrui, 
violar  i  patrii  genii  de  le  reggioni,  di  confondere  quel  che 
la  provi  da  natura  distinse,  per  il  commerzio  radoppiar  i 
difetti,  e  gionger  vizii  a  vizii  de  l'una  e  l'altra  generazione, 
con  violenza  propagar  nove  follie,   e  piantar  l'inaudite 


(1)  Cena  dalle  Ceneri.  Dialogo  primo 


190  Parie  terza 

pazzie  ove  non  sono,  conchludendosi  al  fin  più  saggio  quel 
che  più  forte;  mostrar  novi  studi,  instrumenti  ed  arte  di 
tirannizar  e  asassmar  l'un  l'altro;  per  mercè  de*  quai  gesti 
tempo  verrà,  che,  avendono  quelli  a  sue  male  spese  im- 
parato per  forza  de  la  vicissitudme  de  le  cose,  sapranno  e 
potranno  renderci  simili  e  peggior  frutti  de  sì  perniziose 
invenzioni.... 

Il  Nolano,  per  caggionar  effetti  al  tutto  contrarli,  ha 
disciolto  l'animo  umano  e  la  cognizione,  ch'era  rinchiusa 
ne  Partissimo  carcere  de  l'aria  turbulento;  onde  a  pena, 
come  per  certi  buchi,  avea  facultà  de  remirar  le  lontanis- 
sime stelle;  e  gli  erano  mozze  l'ali,  a  fin  che  non  volasse 
ad  aprir  il  velame  di  queste  nuvole,  e  veder  quello,  che 
veramente  là  su  si  ritrovasse,  e  liberarse  da  le  chimere  di 
quei,  che,  essendo  usciti  dal  fango  e  caverne  de  la  terra 
quasi  Mercuri  ed  Appollini  discesi  dal  cielo,  con  molti- 
forme  impostura  han  ripieno  il  mondo  tutto  d'infinite 
pazzie,  bestialità  e  vizii,  come  di  tante  vertù,  divinità  e 
discipline,  smorzando  quel  lume,  che  rendea  divini  ed 
eroici  gli  animi  di  nostri  antichi  padri,  approvando  e  con- 
firmando le  tenebre  caliginose  de'  sofisti  ed  asini.  Per 
il  che  già  tanto  tempo  l'umana  raggione  oppressa,  talvolta 
nel  suo  lucido  intervallo  piangendo  la  sua  sì  bassa  condi- 
zione, alla  divina  e  provida  mente,  che  sempre  nell'in- 
terno orecchio  li  susurra,  si  rivolge  con  simili  accenti: 

Chi  salirà  per  me,  madonna,  in  cielo, 
A  riportarne  il  mio  perduto  ingegno? 

Or  ecco  quello,  ch'ha  varcato  l'aria,  penetrato  il  cielo, 
discorse  le  stelle,  trapassati  gli  margini  del  mondo,  fatte 
svanir  le  fantastiche  muraglia  de  le  prime,  ottave,  none, 
decime  ed  altre,  che  vi  s'avesser  potuto  aggiongere,  sfere, 
per  relazione  de  vani  matematici  e  cieco  veder  di  filosofi 
volgari;  cossi  al  cospetto  d'ogni  senso  e  raggione,  co  la 
chiave  di  solertissima  inquisizione  aperti  que'  chiostri  de 
la  verità,  che  da  noi  aprir  si  posseano,  nudata  la  ricoperta 
e  velata  natura,  ha  donati  gli  occhi  a  le  talpe,  illuminati  ì 
ciechi,  che  non  possean  fissar  gli  occhi  e  mirar  l'imagin 


XI.   -  Lode  del  Nolano  191 


sua  in  tanti  specchi,  che  da  ogni  lato  gh  s'opponeno; 
sciolta  la  lingua  a'  muti,  che  non  sapeano  e  non  ardivano 
esplicar  gl'intricati  sentimenti;  nsaldati  i  zoppi,  che  non 
valean  far  quel  progresso  col  spirto,  che  non  può  far 
l'ignobile  e  dissolubile  composto;  le  rende  non  men  pre- 
senti, che  se  fussero  proprii  abitatori  del  sole,  de  la  luna 
ed  altri  nomati  astri;  dimostra,  quanto  siino  simili  o  dis- 
simili, maggiori  o  peggiori  quei  corpi,  che  veggiamo  lon- 
tano a  quello,  che  n'è  appresso,  ed  a  cui  siamo  uniti;  e 
n'apre  gli  occhi  a  veder  questo  nume,  questa  nostra  madre, 
che  nel  suo  dorso  ne  alimenta  e  ne  nutrisce,  dopo  averne 
produtti  dal  suo  grembo  al  qual  di  nuovo  sempre  ne  riac- 
coglie, e  non  pensar  oltre,  lei  essere  un  corpo  senza  alma 
e  vita,  ed  anche  feccia  tra  le  sustanze  corporali.  A  questo 
modo  sappiamo,  che,  si  noi  fussimo  ne  la  luna  o  in  altre 
stelle,  non  sarreimo  in  loco  molto  dissimile  a  questo,  e 
forse  in  peggiore;  come  possono  esser  altri  corpi  cossi 
buoni,  e  anco  megliori  per  sé  stessi,  e  per  la  maggior  fe- 
licità de  proprii  animali.  Cossi  conoscemo  tante  stelle, 
tanti  astri,  tanti  numi,  che  son  quelle  tante  centenaia  de 
migliaia,  ch'assistono  al  ministerio  e  contemplazione  del 
primo,  universale,  infinito  ed  eterno  efficiente. 

Non  è  più  impriggionata  la  nostra  raggione  coi  ceppi  de' 
fantastici  mobili  e  motori  otto,  nove  e  diece.  Conoscemo, 
che  non  è  ch'un  cielo,  una  eterea  reggione  immensa,  dove 
questi  magnifici  lumi  serbano  le  proprie  distanze,  per  co- 
modità de  la  participazione  de  la  perpetua  vita.  Questi 
fiammeggianti  corpi  son  que'  ambasciatori  che  annunziano 
l'eccellenza  de  la  gloria  e  maestà  de  Dio.  Cossi  siamo  pro- 
mossi a  scuoprire  l'infinito  effetto  dell'infinita  causa,  il 
vero  e  vivo  vestigio  de  l'infinito  vigore;  e  abbiamo  dottrina 
di  non  cercare  la  divinità  rimossa  da  noi,  se  l'abbiamo  ap- 
presso, anzi  di  dentro,  più  che  noi  medesmi  siamo  dentro 
a  noi;  non  meno  che  gli  coltori  degli  altri  mondi  non  la 
denno  cercare  appresso  di  noi,  l'avendo  appresso  e  dentro 
di  se,  atteso  che  non  più  la  luna  è  cielo  a  noi,  che  noi  alla 
luna.  Cossi  si  può  tirar  a  certo  meglior  proposito  quel 
che  disse  il  Tansillo  quasi  per  certo  gioco: 


192  Parie   lerza 

Se  non  togliete  il  ben,  che  ve  da  presso 
Come  torrete  quel,  che  ve  lontano? 
Spreggiar  il  vostro  mi  par  fallo  espresso, 
E  bramar  quel,  che  sta  ne  l'altrui  mano. 
Voi  sete  quel,  cK ahandonò  se  stesso. 
La  sua  sembianza  desiando  in  vano: 
Voi  sete  il  veltro,  che  nel  rio  trabocca. 
Mentre  F ombra  desia  di  quel  ch'ha  in  bocca, 

Lasciate  l'ombre,  ed  abbracciate  il  vero; 
Non  cangiate  il  presente  col  futuro. 
Io  d'aver  di  meglior  già  non  dispero; 
Ma,  per  viver  piii  lieto  e  più.  sicuro. 
Godo  il  presente  e  del  futuro  spero: 
Cossi  doppia  dolcezza  mi  procuro. 

Con  ciò  un  solo,  benché  solo,  può  e  potrà  vincere,  ed 
al  fine  ara  vinto  e  trionfarà  centra  l'ignoranza  generale;  e 
non  è  dubio,  se  la  cosa  de'  determinarsi  non  co'  la  molti- 
tudine di  ciechi  e  sordi  testimoni,  di  convizu  e  di  parole 
vane,  ma  co'  la  forza  di  regolato  sentimento,  il  qual  bi- 
sogna che  conchiuda  al  fine;  perchè,  in  fatto,  tutti  gli  orbi 
non  vagliono  per  uno  che  vede,  e  tutti  i  stolti  non  possono 
servire  per  un  savio. 


INDICE  DEL  VOLUME 


Prefazione        Pag.  VII 

PARTE  PRIMA 

I.  Presentazione  e  soggetto  del   Candelaio       5 

A   gli  abbeverati    nel  fonte  Caballino 5 

Alla  signora  Morgana   B ...  6 

Argumento  ed  ordine  della  Comedia         7 

Antiprologo 8 

Proprologo 9 

Bidello 13 

II.  L'innamorato  e  le  arti  magiche  d'amore 15 

III.  Arti  e  debolezze  di  donne 24 

IV.  In  taverna 28 

V-VI  Castigo  e  beffe  -  Plaudite 32 

VII.     Avventure  londinesi 36 

Vili.  Bottegari,  Servi,  Furfanti 42 

IX.  Preludii  alla  «  Cena  delle  Ceneri  »  -  Cerimonie  di  tavola  48 

X.  Delle   donne 54 

XI.  Pedanti        58 

XII.  Dottori  ed  Archididascali 68 

PARTE  SECONDA 

I.  La  vecchiezza  di  Giove 79 

II.  Gli  Dei  a  consiglio 88 

Orazione  di  Giove 89 

III.  La  provvidenza  di  Giove 104 

IV.  Uomini  e  bestie 107 

V.  Momo  e  Marte 110 


1  94  Indice  del  volume 


VI.  Ricchezza  e  Povertà Pag.  I  1 2 

VII.  La   biblioteca  degli   Dei 118 

Vili.  La  Fortuna 120 

IX.  Sonno  ed  Ozio 1 22 

X.  La  Vergine 130 

XI.  La  Bilancia 132 

XII.  Orione 134 

XIII.  La   Tazza 137 

XIV.  Il  Centauro 139 

XV.  11  Pesce 141 

PARTE  TERZA 

I.  Epistola  dedicatoria  a  don  Sapatino 147 

II.  In  lode  de  l'asino 153 

A  l'asino  cillenico 1 54 

III.  Dissertazioni  sopra  l'asinità 155 

IV.  Metamfisicosi        167 

V.  Aristotele  -  Asino  e  i  suoi   seguaci 171 

VI.  L'asino  accademico 1 76 

VII.  Dalle  tenebre  alla  luce  ....    * 183 

Vili.  La  cena  filosofica 187 

IX.     Lode  del  Nolano 189 


PROFILI 


Ogni  volume  L.  2,70  -  Serie  di  6  volumi  L.  15 


I.  1.    B.    Supino    -    Sandro 
Botticelli  (3i  ediz.), 

2  A.  Alberti  -  Cario  Darwin 
(3»  ediz.). 

3  .  L.  DI  S.  Giusto  -  Gaspara 
Stampa  (2.  edziz.)  (Esaurito). 

4.  G.  Setti  -  Esiodo  (2»edÌ7.) 

(Esaurito). 
5    P.  ArcaRI  -  Federico  Amiel. 

6.  A.  Loria-  Malthus  (3»ediz.). 

7.  A.  D'Angeli    -    Giuseppe 
Verdi  (2*   ediz.)    (Esaurito). 

8.  B.     Labanca     -     Gesìi    di 
Nazareth  (3*ediz.)  (Esaurito). 

9.  A.  Momigliano    -    Carlo 
Porta.   (Esaurito). 

10.  A.   FavaRO   -   Galileo    Ga- 
lilei (2*  ediz.)  (Esaurito). 

11.  E.    Troilo    -    Bernardino 
Telesio.  (Esaurito). 

12.  A.   RiBERA     -     Guido    Ca- 
valcanti (Esaurito). 

13.  A.     BUONAVENTURA     -    A'i- 
colv  Paganini.  (Esaurito). 

14.  F    Momigliano    -    Leone 
Tolstoi.  (Esaurito). 

15.  A.  Albertazzi  -    Torquato 
Tasso  (Esaurito) 

16.  I.  Pizzi  -  Firdusi. 

17.  S.    Spaventa    F.   -  Carlo 
Dickens. 

18.  C.  Barbagallo  -  Giuliano 
l'Apostata 

19.  R.  Barbiera  -    /    Fratelli 
Bandiera. 

20.  A.    ZerBOGLIO     -     Cesare 
Lombroso. 

21.  A.   Favaro   -  Archimede. 

22.  A.  Galletti    -   Gerolamo 
Savonarola.  (Esaurit^o). 


23.  G.    SecrÉTANT   -    Alessan- 
dro  Poerio. 

24.  A.   Messeri  -  Enzo  Re. 

25.  A.  Agresti  -Abramo  Lincoln. 

26.  U.  Balzani  -  Sisto    V. 

27.  G.  Bertoni  -Dan/e (2* ediz.) 

28.  P.  Barbèra -G.S.  Bodoni. 

29.  A.    MichielI    -   Stanleu- 

30.  G.    Gigli     -     Sigismondo 
Castromediano . 

31.  G.    Rabizzani     -  Lorenzo 
Sterne. 

32.  G.  Tarozzi-  G.G.  Rousseau. 

33.  G.  Nascimbeni  -  Riccardo 
Wagner.   (Esaurito). 

34.  M.  Bontempelli    -    San 
Bernardino. 

35.  G.  MuONl  -  C.  Baudelaire. 

36.  C.  Marchesi    -  Marziale. 
37.G.RadicI0TTI  -  G.  Rossini. 

38.  T.  Mantovani  -  C.  Gluck. 

39.  M.  Chini  -  F.  Mistral. 

40.  E.  B.  Massa -G.C.Abba. 

41.  R.     Murri    -    Cavour. 

42.  A.    Mieli    -   Lavoisier. 

43.  A.  Loria  -    Carlo    Marx. 

44.  E.  BuoNAiUTi  -  S.  Agostino. 

45.  F.  LoSINI  -  /.  Turghienief. 

46.  R.  Almagià  -  Colombo. 

47.  E.   Troilo    -    G.  Bruno  C. 

48.  P.   Orsi  -  Bismark- 

49.  E.BuONAIUTi  -S.  Girolamo. 

50.  G-  Costa   -    Diocleziano. 

51 .  F.  Belloni  Filippi  -  Tagore. 

52.  G.  Loria  -  Newton. 
53.G.MUONI  -  GustavoFlaubert 

54.  e.   Marchesi   -  Petronio. 

55.  e.  Barbagallo  -  Tiberio. 


Leggere  nei  Profili: 

GIORDANO  BRUNO 

DI  ERMINIO  TROILO 

FONDAZIONE    LEONARDO 

PER  LA  CULTURA  ITALIANA 

Palazzo  Doria  -  ROMA  -  Vicolo  Doria.  6-a 


CONSIGLIO  DIRETTIVO. 

Consiglieri  eletti  dall'Assemblea  dei  Soci:  FERDINANDO 

Martini,  Presid. ,-  Orso  Mario  cordino,  V.  Pres.; 
Roberto  almagìV  e  Giuseppe  Chic  venda. 

Consiglieri  di  dirillo  :  //  Ministro  degli  Esteri  (AMEDEO 
Giannini,  Delegato);  Il  Ministro  della  P.  I.  (GIO- 
VANNI Gentile,  Delegato)  ;  Il  Ministro  delle  Colo- 
nie (Ferdinando  Nobili  Masìuero,  Delegato); 

Il  Ministro  dell'Industria  (MICHELE  ARNALDI,  Dele- 
gato); Il  R.  Commissario  dell'  Emigrazione  (TOMASO 
PERASSI,  Delegato);  La  Società  della  Messaggerie  Ita- 
liane (Giulio  Calabi,  Delegato);  A.  F.  Formig- 

GINI  {Socio  fondatore). 

La  fondazione,  eretta  in  ente  morale,  mira  ad  inten- 
sificare in  Italia  e  a  far  nota  all'estero  la  vita  intellet- 
tuale italiana  valendosi  di  mezzi  pratici  ed  efficaci 
finora    intentati. 

Soci  promotori.  Quota  libera  non  inferiore  a  L.     1000 

Soci  perpetui,       »        »  »  »      250 

Soci  ANNUALI,  con  V Italia  che  Scrive      .     .  »  12,50 

Estero »  15  — 

Con  diritto  anche  a  3  Guide       »  20  — 

Estero        »  25  — 


/  nomi  dei  Promotori  e  dei  Soci  perpetui  sono  co- 
stantemìnte  ripetuti  nelle  pubblicazioni  della  *  Leonardo». 
Le  loro  quote  ne    costituiscono    il   patrimonio   intangibile. 


PQ     Bruno,  Giordano 

A615      In  trisbitia  hilaris 

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