IO CM m Gì (D CO 4615 B5T58 ■/ CLASSICI DEL RIDERE Sono pubblicati : 1. G. Boccacci // Decamerone (Giornata I; 2'' ristampa) L. 6 — 2. Petronio Arbitro - // Saiurkon (4* ediz.) ...» 8,50 3. S. De Maistre - / viaggi in casa (2* ristampa) . . » 7,50 4. A. Firenzuola - Novelle (2» risUmpà) .... » 6 — 5. A. F. Doni - Scritti vani » 7,50 6. EIroda - / mimi »6 — 7. C. Porta - Antologìa »6 — 8. G. SwiFT - 1 Viaggi di Gulliver (2* ediz.) .... 8,50 9. G. RaJBERTI - L'Arte di convitare » 7,50 10. G. Boccacci - // Decamerone (II) » 6 — 1 1 . Luciano - / dialoghi delle cortigiane » 6 — 12. Cyrano - // pedante gabbato, ecc » 6 — 13. G. Boccacci - // Decamerone (Ili) 6 — 14. e. TiLLlER Mio zio Beniamino » 9,50 15. Margherita di Navarra - L' Heptaméron . . . . » 10 — 16. N. Machiavelli Mandragola, Clizia, Belfagor. . » 6 — 17. O. WiLDE - // fantasma di Canterville 6 — 18. G. Boccacci - // Decamerone (IV) » 6 — 19. C. TiLUER Bellapianta e Cornelio » 8,50 20. G. Boccacci - // Decamerone (V) » 6 — 21. e. De Coster - La leggenda di Ulenspiegel (1) . . ' 9,50 22. Voltaire - La Pulcella d'Orléans, trad. dal Monti. » 7,50 23. F. Berni - Le Rime e la Catrina » 6,50 24. D. Batacchi - La Rete di Vulcano (I) . . . » 6,50 25. C. De Coster - La leggenda di Ulenspiegel (II) . . » 9,50 26. G. Boccacci - // Decamerone (VI) » 6 — 27. G. Boccacci // Decamerone (VII) » 6 — 28. G. Boccacci - // Decamerone (VIII) » 6 — 29. G. Boccacci - // Decamerone (IX) » 6 — 30. G. Boccacci - // Decamerone (X) » 6 — 31. D. Batacchi La Rete di VuUano (II) .... » 7,50 32. F. De Quevedo La vita del Pitocco » 6 — 33. A. Tassoni - Z-a Secchia Rapita » 7,50 34. Salom Alechem. Marienbad » 6 — 35. O. Guerrini e e. Ricci, // Giobbe » 6,50 36. V. Marziale - Gli Epigramu.i » 5.00 37. O.Bklzac - Le sollazzevoli historie » 7,50 38. W. BVCH - S. Antonio da Padova i 4,50 39. G. Bruno - In tristitia hilaris, in hilaritale tristis . » 9,50 GIORDANO BRUNO IN TRISTITIA HILARIS, IN HILARITATE TRISTIS LA PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA delle versioni onginalì, degli ornamenti, delle note crìtiche pubblicate in questa collezione SPETTA ESCLUSIVAMENTE ALl' EDITORE i! quale, adempiuti i suoi obblighi verso la legge e verso gli Autori eserciterà i suoi diritti contro chiunque e dovunque Copyright 1922 by A. F. Formiggini, Rome- 114S^. Candelaio. Proprologo. (2) « Or eccovi... un convito sì grande, sì picciolo, sì maestrale, si disciplinale, sì sacrilego, si religioso... che certo credo che non vi sarà poca occasione da divenir eroico, dismesso; maestro, discepolo; cre- dente, miscredente; g aio, triste;... sofista con Aristotele, filosofo con Pitagora, ridente con Democrito, piangente con Eraclito... ». Cena delle Ceneri. Proemiale epistola al signor di Mauvissiero. Prefazione |X sione democriteggiare, che è nella satanica Declama- (1) e che zione della Cabala del Cavallo Pegaseo, torna nel dialogo primo de La Causa Principio et Uno, ^^^ dove il pensiero va con ala superba, per altezze magnifiche. Ma è evidente dal testo dei passi stessi accennati, che il Bruno non intende affatto stabilire ne una contrapposizione radicale di riso e di pianto, ne la sua posizione propria; mentre invece egli qui riguarda le cose dal semplice punto di vista esteriore e comune; onde tutto si presta alla considerazione dell'uno o dell'altro di questi, che si potrebbero chiamare anch'essi A'jo lo^oi delle cose. Non senza piegare, sotto questo rispetto, verso un impetuoso riso; che circola e guizza in tutte le sue opere e scoppia fin in mezzo agli argo- menti più gravi, senza sottigliezza e senza ambagi, aperto e rude, come un suggello di giudizio, e di sanzione. Ma se ben consideriamo la natura del suo riso, ci apparirà come esso non abbia mai nulla di esteriore o che possa farlo considerare quale fine a se medesimo. Il comico, in quanto tale, vera- mente, non c'è in Bruno. In lui non si aprono quelle brevi parentesi di azzurro, che, per esempio, tra- (1) «Chi potrà donar freno a le lingue, che non mi mettano ne medesimo predicamento, come colui che corre appo h vestigi degh altri, che circa cotal soggetto (\ ^^^ sia quando si conclude la dedica dell'opera stessa, con austere parole in cui vibra il senso profondo della nolana filosofia. « // tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi, e può perse- verare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia Vanimo mi s'aggrandisce e mi si magnifica r intelletto. ^^^ Suggestive parole, le quali, a traverso la trama ridicola della favola, a traverso l'ingenuità e talora la sconcezza degli svolgimenti e degli epi- sodi, costituiscono come un'atmosfera di più pro- fonda meditazione, entro cui si accendono di opposto riflesso l'ilarità triste e la tristezza ilare dello psico- logo, del moralista, del filosofo. Cosi, il riso di Giordano Bruno è veramente filo- sofico; e però esso n on s'intende nel suo significato e nel suo valore, non s'intende nel suo intimo segreto. (0 Ved. Spampanato. Introd. Op. cit., pag. lxiv. (2) Alla Signora Morgana. SPAMP. pag. 6. « ...eccovi la candela che vi vien porgiuta per questo Candelaio che da me si parte, la qual in questo paese, ove mi trovo, potrà chiarir alquanto certe Ombre dei- Videe, le quali invero spaventano le bestie, e come {ussero diavoli dan- teschi, fan rimaner gli asini lungi a dietro; ed in cotesta patria, ove voi siete, potrà far contemplar l'animo mio a molti, e fargli vedere che non è al tutto smesso >\ (3) Cfr. De V Infinito Universo e Mondi. Wagner, II, pag. 12: « .. .Questa è quella filosofia che apre gli sensi, contenta il spirto, ma^ gnifica l'intelletto e riduce l'uomo alla vera beatitudine ». XIV Prefazione se lo si considera diversamente e sotto gli altri par- ticolari e più facili aspetti che può presentare, come il letterario, e quello morale, nel senso più stretto e più pratico della parola. Non che ciò sia trascura- bile; ma certo non è tutto, e non è il più. Onde è avvenuto che anche qualche grande spinto, come Giosuè Carducci, non abbia inteso in parti- colare il Candelaio ed abbia disconosciuto in gene- rale, nel Bruno, lo scrittore. E che quel riso, se pur si esplica nella forma della comedia cinquecentesca e della satira; se nel gonfiarsi delle tendenze letterarie del suo tempo ha spunti di violento antiaccademismo e di antipetrarchismo; se ritrae i tipi classici del pedante, dell'avaro libertino, del marito sciocco, dello scroccone, etc, non è un riso, per cosi dire, let- terario; e se ancora vuole, secondo la massima tra- dizionale, castigare ridendo mores, non è nel senso immediato e, diciamo, esclusivo della morale. A chi studii a fondo l'etica bruniana, appare come il riso e la satira del Nolano non solo siano profonda- mente inseriti in essa, ma quasi ne seguano lo stesso schema di svolgimento. Sembrano veramente corrispondere alle tre fasi o aspetti dell'Etica (la psicologica e descrittiva, la co- struttiva e, in certo senso, dialettica, e la conclusiva o razionale e filosofica propriamente) la Satira in con- creto e in particolare, di vizii e difetti e debolezze e sconcezze degli uomini; ^'^ la Satira in astratto di quegli stessi vizi e difetti e imbecillità, considerati possiamo pur dire ex altiore causa, criticamentee simbolicamente, in correlazione con le virtù, negli O « Eccovi avanti gli occhi ociosi princinii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze, scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presuppositi, alienazion di mente, poetici furori, offuscamento Prefazione XV uomini e negli dei; la Satira, infine, che ha vera e propria intenzione filosofica, nella critica e nel sarcasmo di carattere eterodosso verso i tradizio- nali valori scientifici, morali, politici e religiosi, e che comprendendo e riassumendo anche le altre due forme accennate, esplica appieno il significato, della tristitia hilaris e della hilaritas tristis. E si ha qui una profonda espressione di quella oppositorum coincidentia, che, formula ricorrente nella filosofia bruniana, assume forse la sua maggiore consistenza e significazione precisamente sotto l'aspetto morale, nella caratteristica compenetrazione di riso e pianto, e nella fase culminante dell'Etica propriamente, con la trattazione, per quanto frammentaria e balenante, del problema delle opposizioni e delle armonie mo- rali. Si possono distinguere, appunto, questi tre aspetti o momenti del riso bruniano; ed approssima- tivamente e quasi a mo' di esemplificazione, si pos- sono riferire al Candelaio (1582) il primo; allo Sphccio della Bestia trionfante ed al Cantus Circaeus (1584) il secondo; ed il terzo allo Spaccio stesso, alla Cabala del Cavallo Pegaseo ed a\V Asino cillenico (1585), con i richiami alle altre opere veramente costruttive, quali sorxO la Cena delle Ceneri, De la Causa, Prin^ cipio et Uno (1584), etc. di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio d'intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studii incerti, somenze intempestive, e gloriosi frutti di pazzia ». « Vedrete, etc. Candelaio. Proprologo. E di fronte a questa materia di morale miseria, l'A., nella evidente contrapposizione del urologo al Proprologo, delinea se medesimo, a L au- tore, si voi Io conosceste, direste, ch'ave una fisionomia smarrita, etc. ...per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizarro, non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d'ottantanni, fantastico com un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla... ». Ibid. XVI Prefazione Non sono inutili la distinzione, necessariamente sommaria, ed il riferimento ai tre gradi progressivi, come abbiamo detto, deWEtica; giacche questa nota di coincidenza e di analogia può far vedere come il riso di Giordano Bruno non sia un episodio, ma rientri quasi nella linea del suo pensiero e, in sostanza, tenga della stessa suggestiva profondità di tutta la sua etica. Perciò la materia di questo libro, il quale non è leggiero, come potre bbe forse apparire a taluno, ma più tosto grave e pensoso, pur nella facezia e nella licenza, è disposta secondo quella triplice divisione, che naturalmente segue la partizione dell' etica bru- niana. Comunque, è ben certo che il significato del ca- ratteristico riso del Bruno, sta nel complesso dei suoi momenti e dei suoi aspetti. Solo nell'insieme, e sopra tutto tenendo conto della sua formula inte- grale, che si estende alle considerazioni estreme della filosofìa (ma, come abbiamo notato, costituisce pure il solenne avvertimento ed il motto del Candelaio) si può intendere il suo vero senso umano ed uni- versale, il suo valore filosofico. Bisogna tener conto della formula compiuta, che esplicitamente apposta alla prima opera italiana, a quella che più si avvicina nella forma e nel conte- nuto ai molti e tradizionali componimenti morali del tempo, sta ad indicar quasi di questo l'avvia- mento verso uno spirito nuovo; e, riprodotta più oggettivamente, in uno scritto, fra altri, di preva- lente sostanza etica, che è dei più personali ed im- portanti, il De Vinculis, come a ragione giudicava Felice Tocco, sembra abbracciare l'intero sistema morale e filosofico del Bruno. A prescindere dagli strani richiami sopra ricor- Prefazione XV I dati, i quali, pur facendo la necessaria parte alla consueta fantastica associazione bruniana, prendono un significato rilevantissimo allorché vediamo, e dob- biamo pur confessare senza intenderne a pieno il motivo e la portata reale, ricongiunti in una relazione singolare la luce del Candelaio e le ombre delle idee, la filosofia della Comedia e la filosofia de V Infinito Universo e Mondi (e molti altri accenni si potrebbero trovare ancora nelle altre opere); a prescindere da ciò, e ben evidente che anche un sommario esame della formula della ilarità bruniana ci riporta, per cosi dire, nel cuore della sua fondamentale inspi- razione filosofica Certo essa si presta ad un'analisi puramente e strettamente morale; a cui è connesso un atteggia- mento particolare psicologico, sentimentale del filo- sofo. Da tal punto di vista potremo cogliere qualche lato del pensiero, qualche momento dello spirito biz- zarro e tempestoso del Bruno; ma se, arrestandoci a ciò, ritenessimo soli o ponessimo definitivi questo lato e questo momento, noi non avremmo e non intenderemmo, affatto. Bruno nella sua interezza e nella sua essenza, sotto questo rispetto. Il fastidito, il perseguitato, l'insonne, l'errante, il misconosciuto, l'odiato può anche umanamente esprimere un senso tragico, di riduzione e quasi di confusione, in un disprezzo ed in un'amarezza su- periori, della sua tristezza e del suo riso; può, sopra tutto, esprimere la sua forza tremenda, ridendo nella tristezza ed essendo triste nell'ilarità; può anche, mefistofelicamente, ridere laddove gli altri piangono e piangere laddove gli altri ridono; può, infine, ripor- tare tutto ciò ad un senso vago di scetticismo e di Bruno, In tristitìa hilaris, etc. 2. XVlll Prefazione pessimismo, che più d'una volta pur si accenna nel- l'opera del Bruno; ora in forma propria, come per esempio in quelle parole del Candelaio dove si dice, m conclusione... non esser cosa di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono, ^^^ ora con qualche formula usuale, come il biblico omnia vanitas. Massime la ilarità triste, presa separatamente, si presta ad una significazione più particolare, espri- mendo quella che è l'essenza amara di ogni satira; la quale veste di riso ciò che in realtà è solo degno di compassione per la sua debolezza, per la sua defi- cienza, per la sua bruttura, specialmente nell'ordine umano. Ma questo, mentre non dà il lineamento vero ed intiero del Bruno, riferendosi solo al flusso delle sue vicende personali, intellettuali e sociali, se ben si consideri presuppone, in fondo, una diversa e supe- riore posizione della sua stessa personalità; e, ciò che più importa, ancora, un diverso e superiore'punto di vista della sua speculazione morale propriamente detta e filosofica. Il che appare dalla prima parte della formula, e più dall'insieme. La ilarità che è triste e la tristezza che è ilare non indica un bisticcio, si una intuizione profonda, mo- rale e filosofica; in quanto non si limita a conside- razioni p arziali di umanità, ma scende alla totale contemplazione umana, ed a questa aggiunge, anzi connette in un inscindibile complesso, la considera- zione della realtà universale. (') PropTolo^o, — Sono le ultime parole che precedono l'entrata del Bidello. Naturalmente qui il senso è del tutto particolare e riferito al mondo del Candelaio, che sta per entrare materialmente in iscena. Prefazione XIX A nessuno più che a Bruno ripugna la concezione della realtà umana staccata ed avulsa dalla realtà totale; e più a lui ripugna quella definizione dell'uomo, a cui accenna non senza ironia Benedetto Spinoza, come V animale capace di ridere. Qui siamo fuori del campo morale, sia che questa capacità di ridere si prenda nella sua espressione più semplice e primi- tiva, nella sua espressione inferiore e fisiologica — dove, in sostanza, non e che l'animalità — nel senso preumano, dunque; sia che si prenda nel senso estremo opposto, nel senso cioè nietzschiano, che nel Supe- ruomo travolge l'Uomo. L'umanità vera ha il suo segno nel riso che si fa pensoso di tristezza e nella tristezza che s'illumina in una visione trascendente di gioia; segno vero di umanità, che è morale ed estetico insieme, e che ha in Bruno un assertore d'incomparabile energia. II quale trae il motivo e la forza possente e luminosa dell'affermazione sua, in un certo senso nuovissima, non già da fonti, che trascendono, in sostanza, l'uomo e la realtà, come sono propriamente le fonti e gli ideali religiosi (al di là, immortalità, ricompensa divina, etc, che fanno piacente la tristezza, il dolore, la morte), bensì dalle stesse fonti della vera umanità e della vera realtà, in una superba considerazione filosofica. Cosi ritroviamo Bruno e cogliamo il vero suo spirito. Cosi, da un punto di vista più particolare ma non meno importante, possiamo intendere come se la rozza asprezza dell'autore, e circostanze spe- ciali della sua vita e del suo tempo, lo conducono a parlar volgare e sconcio, adoperare forme e figure licenziose e toccare talora l'oscenità, tutto ciò è trasfigurato e purificato nell'intento profondo che lo domina: qui veramente il riso, che sembra infettarsi XX Pref azione di elementi estremi, è triste. Questa tristezza purifica e redime; ed accenna, appunto, a qualche cosa di più alto a CUI mira il filosofo, e che trascende la ilarità per se e la tristezza in se. Così, la considerazione della ilarità di Giordano Bruno ci conduce a veder, sotto nuova luce e forse non meno profondamente della pura indagine spe- culativa, una parte, da cui non si può prescindere, del suo pensiero. Di là dalla hilaritas tristis, la tristitia hilaris può riferirsi ad un altro importante aspetto dello spirito bruniano: l'ottimismo. Il quale ha la sua vera significazione (che riapparirà con altre forme, in altri sistemi) non tanto copie espres- sione morale per se, o perchè conferisca una co- loritura particolare alla visione bruniana del mondo; ma in quanto esprime, in certo modo, l'aspetto intrinseco e la risoluzione culminante della realtà stessa. L'ottimismo morale qui è coessenziale, assoluta- mente, con l'essere e con l'immanente suo ordine ontologico: il nuovo mondo della realtà infinita che, escludendo ogni trascendenza, è essere, potenza e legge eterna a se, non può non essere, per ciò stesso, che uno ah solutissimo in cui Ente, Vero, Bene fanno la medesima cosa. Che significato possono avere in questo universo il dolore, il brutto, il disordine, il male e la morte, il caso e la fortuna? Brunianamente, tutto ciò appartiene alla superficie, alla esteriorità, alla contingenza ed alla transitorietà del mondo; tutto ciò che è pluralità e particolarità è la spuma che si gonfia, scorre e si frange sulla realtà; non è la realtà; tutto ciò è di ente, non ente. Prefazione XXI come dice con sottigliezza grammaticale, ma con pen- siero profondo il Bruno. Il mondo si presenta, dunque, sotto questi due aspetti: quello della totalità, dell'unità, dell'assoluto e dell'eterno; e quello del vario, molteplice, fluente, disgregantesi nel tempo e nella particolarità. L'uomo sta di fronte a questo mondo, spettatore e partecipe, ad un tempo, della sua realtà e della sua transitorietà; di fronte a questo enorme ritmo, ond'esso quasi sgorga e si discioglie fuori di se, nel molteplice, nel disgregato e nel relativo, e si rituffa in se nella pienezza dell'essere che è assolutezza d'eternità. Allora l'uomo che riguarda e che agisce in questo mondo, se si fermi a ciò che è particolare, scorre e cambia volto, può e deve trovar motivo alla sua tri- stezza; ma se approfondisca lo sguardo e l'azione, allora il particolare transfluisce nell'universale, il contin- gente nell'infinito, il relativo nell'assoluto: la visione e la consapevolezza di ciò può dare, dà, filosoficamente, la tristezza gioconda. Questo e il segno del consegui- mento della più alta coscienza e della più profonda realtà; questa è la visione sub specie aeterni, ed è quasi comunicazione con l'assoluto. Allora la tri- stezza svanisce; alla realtà particolare e contingente subentra un'altra più profonda realtà. Dileguano le nubi e brilla il sole, o apparisce il cielo stellato. Il Riso stesso si è trasfigurato; esso, ormai nel campo della contemplazione e dell'azione più alta, è dive- nuto eroico furore e beatitudine. * * * Il presente volume vuol accogliere quanto di più caratteristicamente espressivo della ilarità triste e della tiistezza ilare circola, guizza o s'indugia XXII Prefazione nella vasta opera di Giordano Bruno, e le dà un fa- scino strano ed acuto. Forniscono qui la materia solo gli scritti ita- liani; che sono più varii di contenuto e più vivi di forma e quasi più liberamente riflettono l'anima del filosofo e dell'uomo. Laddove i latini sono o più tecnici e scolastici, come quelli che appartengono ai gruppi delle opere Lulliane, Mnemoniche, Espo- sitive e critiche;^^^ o più solenni come le brevi, im- portantissime Orazioni; ovvero rielaborano più rigi- damente, in gran parte con veste poetica, come De minimo. De Monade e De Immenso, contenuto di opere italiane. (Tuttavia, neppur le opere latine mancano di qualche sprazzo del pensoso suggestivo riso; come la prima parte del Cantus Circaeus; la quale, mentre la seconda riguarda l'arte della memoria, è di carattere essenzialmente morale). Forse a chi guardi le tre sezioni della raccolta ed i titoli apposti ai brani ch'esse contengono, non apparirà chiaro a prima vista il significato messo in rilievo e che possiam dire ascendente, del riso bru- niano, secondo lo schema generale dell'etica, che abbiamo altrove particolarmente studiato. ^'^ Ma se ben SI consideri, esso risulterà, in sostanza, non meno sicuro che la intima compenetrazione di quel riso in tutte le parti dell'opera del Nolano, anche nelle più astratte, speculative ed astruse; come là dove si tratta dell'eroico slancio per la conoscenza e per 1 ideale, o della nuova cosmologia, dei principii del- l'universo e della verità. (') La Filosofia di G. B., cit. Parte I, III. Le opere brunlane. — Giordano Bruno, - Coli. Profili, N" 47, Formi'gglni, Roma, 1917. Prefazione XXI li La materia morale agitata dal filosofo è una; massa viva e turbmosa su cui cadono il suo ghigno e la sua tristezza, come gocce di fuoco. Ma non si può sconoscere la differenza dell'atteggiamento spi- rituale, e, in un certo senso, del fine medesimo, nel Candelaio, per esempio (ed anche in pagihe affini di altre opere) e nello Spaccio de la Bestia trionfante. Nell'uno v'è, sopra tutto, il quadro satirico, dipin- tura e constatazione dei vizii e difetti e debolezze e sconcezze, come abbiam detto, degli uomini; nel- l'altro l'approfondimento critico di tutto questo mondo, e la contrapposizione fra simbolica e dia- lettica di corrispondenti pregi, virtù, valori, nel cielo e nella terra, negli uomini e negli dei. Nell'uno è la materia fermentante ed oscura di Menandro e di Teofrasto, di Plauto e di Terenzio, di Machiavelli e di Molière; nell'altro la materia di Xenofane e di Aristofane, ed è anche (come non a torto è stato da taluno notato) lo spirito di Dante. Poiché la Bestia che si deve spacciare non è solo ciò che d'impuro e triste offende praticamente l'uomo e il convitto umano, ma quello altresì che contamina e sminuisce i diritti, la libertà, la san- tità della mente nelle sue più alte funzioni contem- plativa e speculativa. E, insomma, trattasi dell'af- francazione totale dell'uomo e dello spirito, che fanno tutt'uno. E come nel Candelaio medesimo (l'abbiamo di proposito avvertito) c'è qualche oscuro accenno a più profondo intento ed a relazioni speculative, cosi lo Spaccio de la Bestia trionfante segna la strada (1) Op' di.. Parte II. La filosofia soggettiva, l'Etica- — Giordano Bruno. Profilo cit. XXIV Prefazione per la più completa conquista etica ed elevazione spirituale. Purgare, liberare: questo è il motivo dell'opera strana e stupenda di fantasia e di riso. Purificare ciò che è fuori dell'uomo (ma che cosa è fuori del- l'uomo, dal punto di vista morale?) e ciò che è nell'uomo: il mondo superno e celeste, che la vecchia scienza teneva incorruttibile, e che al filosofo appar pieno e guasto d'infinita corruzione; e perfino il mondo infero, la sede stessa del peccato e della bruttura, che la credenza a quello opponeva. (Ab- biam notizia d'un dialogo bruniano, // Purgatorio dell Inferno ^^^ il quale nel titolo d'apparente bisticcio ma di trasparente significato, completa suggestiva- mente il disegno della totale purgazione). Oc- corre, finalmente, mondare e rinnovare la scienza e la filosofia, la stessa mente umana; ed a questo mira, con passione intensa, con forza eroica, il filosofo nuovo. E se tale opera, che più propriamente riguarda lo spirito, appare nella form.a ridicola di quella vivacissima e scintillante trattazione che ha per (') Nella Cena delle Ceneri, dialogo quinto, verso la fine, Teofilo (G. B.) dice: « Non dubitate, Prudenzio, perchè del buon vecchio non ri si guasterà nulla. A voi, Smitho, manderò quel dialogo del Nolano, che si chiama Purgatorio de l'Inferno, e ivi vedrai il frutto della redenzione ». L'accenno al frutto della redenzione, che forse rendeva estremamente eterodosso lo scritto, non toglie nulla all'idea dello spaccio dell'in- ferno; forse la rende più forte. Cosi pure, per essa nulla importa che, a quanto pare, il Purgatorio sia stato composto qualche anno avanti della Bestia trionfante, verso il 1582. L'idea potrebbe essere stata estesa dall'inferno al cielo. Ma l'opinione di D. Berti (Vita di G. B., pag. 25, 1* ed.), e di J. Frith (Life of G. B., Londra 1887, pag. 375), i quali accennano a quella data, resta anche da dimostrare. Prefazione XXV soggetto V Asinità, ciò non oscura affatto il pathos intenso e puro che agita ogni fibra dell'instauratore e che sembra discendere in lui dall'ardore stesso del divino Platone. Ne la frenesia da cui si lascia tra- sportare il Bruno impedisce di scorgere, da ultimo, la sovrana bellezza della visione che s'apre davanti al suo occhio profondo, ed innanzi alla quale egli stesso rimane estatico e commosso. Così come per Xenofane colofonio (del quale v'è qualche traccia nello spinto del Nolano) ; che dopo aver spacciato, sia lecito adoperar questa espressione, gli Dei della superstizione, dell'ignoranza e della corruzione, riguardando nel cielo, purificato, disse che tutto era Dio. ^'^ Culmina, dunque, la critica, la satira, la deri- sione e la tristezza delle brutture e degli errori umani, un mondo morale e spirituale di bellezza,, di bontà, di verità. Alla instaurazione cosmologica, onde si rompe- vano e disfacevano i palchi dipinti e i congegni di orbi e di cieli, si congiungono la instaurazione mo- rale, e la intellettuale, le quali finiscono per coin- cidere, sul principio dell'indissolubile ternano di Ente, Vero e Bene; che il Bruno contempla, ragiona e sente con impeto straordinario. Candelaio e Canto di Circe, Spaccio de la Bestia trionfante ed Eroici furori. Cena delle Ceneri e Asino cillenico. Cabala del cavallo pegaseo e Causa Principio et Uno esprimono e fondono insieme, a traverso ^') Noti sono i framm. di Xenofane circa la critica degli Dei. — Quello citato è riferito da Aristotele Metafisica, I, 5. 986^>- 10. Le diverse interpretazioni del passo non disdicono al concetto fon- damentale qui adombrato. XXVI Pref azione i momenti che singolarmente rappresentano 1 nuovi valori del mondo e dello spirito. E però, non illegit- timamente, si chiude questo libro della ilarità triste e della ilare tristezza del Bruno (che speriamo re- chi qualche vantaggio, illuminando la pur sempre scarsamente conosciuta opera del Nolano) con al- cune fra le pagine più solenni della sua filosofia, fra le parole più alte della sua anima. H PARTE PRIMA I. PRESENTAZIONE E SOGGETTO DEL CANDELAIO IL LIBRO A GLI ABBEVERATI NEL FONTE CABALLINO. Voi che tettate di muse da mamma, E che fiatate su lor grassa broda Col musso, r eccellenza vostra m*oda. Si fed'e caritad' il cuor v infiamma. Piango, chiedo, mendico un epigramma. Un sonetto, un encomio, un inno, un oda Che mi sii posta in poppa over in proda. Per farmene gir lieto a tata e mamma. Eimè ch'in van d'andar vestito bramo. Oimè ch'i* men vo nudo com'un Eia, E peggio: converrà forse a me gramo Monstrar scuoperto alla Signora mia Il zero e menchia com'il padre Adamo, Quand'era buono dentro sua badia. Una pezzentaria Di braghe mentre chiedo, da le valli Veggio montar gran furia di cavalli. 6 Parte prima ALLA SIGNORA MORGANA B., SUA SIGNORA SEMPRE ONORANDA. Ed lo a chi dedicarrò il mio Candelaio? a chi, o gran destino, ti piace ch'io intitoli il mio bel parammfo, il mio bon corifeo P a chi invlarrò quel che dal sino influsso celeste, in questi più cuocenti giorni, ed ore più lambic- biccanti, che dicon caniculan, mi han fatto piovere nel cervello le stelle fìsse, le vaghe lucciole del firmamento mi han crivellato sopra, il decano de' dodici segni m'ha balestrato in capo, e ne l'orecchie interne m'han soffiato i sette lumi erranti P A chi s'è voltato, — • dico io, — a chi riguarda, a chi prende la miraP A Sua Santità P no. A Sua Maestà Cesarea P no. A Sua Serenità P no. A Sua Altezza, Signoria illustrissima e reverendissima P non, non. Per mia fé, non è prencipe o cardinale, re, imperadore o papa che mi ìevarrà questa candela di m.ano, in questo solen- nissimo offertorio. A voi tocca, a voi si dona; e voi o l'attaccarrete al vostro cabinetto o la ficcarrete al vostro candeliero in superlativo dotta, saggia, bella e generosa mia signora Morgana: voi, coltivatrice del campo del- l'animo mio, che, dopo aver attrite le glebe della sua du- rezza e assottigliatogli il stile, — acciò che la polverosa nebbia sullevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello, — con acqua divina, che dal fonte del vostro spirto deriva, m'abbeveraste l'intelletto. Però, a tempo che ne posseamo toccar la mano, per la prima vi indrizzai : Gli pensier gai; apresso: 11 tronco d'acqua viva. Adesso che, tra voi che godete al seno d'Abraamo, e me che, senza aspettar quel tuo soc- corso che solea rifrigerarmi la lingua, desperatamente ardo e sfavillo, intermezza un gran caos, pur troppo invidioso del mio bene, per farvi vedere che non può far quel mede- simo caos, che il mio am.ore, con qualche proprio ostaggio e material presente, non passe al suo marcio dispetto, eccovi la candela che vi vien porgiuta per questo Candelaio I. - Presentanzione e soggetto del Candelaio 7 che da me si parte, la qual in questo paese, ove mi trovo, p otrà chiarir alquanto certe Ombre dell'idee le quali in vero spaventano le bestie e, come fussero diavoli dan- teschi, fan rimanere gli asmi lungi a dietro, ed in cotesta patria, ove voi siete, potrà far contemplar l'animo mio a molti, e fargli vedere che non è al tutto smesso. Salutate da mia parte quell'altro Candelaio di carne ed ossa, delle quali è detto che « Regnum Dei non posside- hunt )'; e ditegli che non goda tanto che costì si dica la mia memoria esser stata strapazzata a forza di pie di porci e calci d'asini: perchè a quest'ora a gli asini son mozze l'o- r ecchie, ed i porci qualche decembre me la pagarranno. E che non goda tanto con quel suo detto: « Abiit in regio- nem longinquam »; perchè, si avverrà giamai ch'i cieli mi concedano ch'io effettualmente possi dire: « Surgam et ibo », cotesto vitello saginato senza dubbio sarrà parte della nostra festa. Tra tanto, viva e si governe, ed attenda a farsi più grasso che non è; perchè, dall'altro canto, io spero di ricovrare il lardo, dove ha persa l'erba, si non sott'un mantello, sotto un altro, si non in una, in un'altra vita. Ricordatevi, Signora, di quel che credo che non bisogna insegnarvi: — Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. — ■ Con questa filosofia l'animo mi s'aggrandisse, e me si magnifica l'intelletto. Però, qua- lunque sii il punto di questa sera ch'aspetto, si la muta- zione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch'è, o è qua o là, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. Godete, dunque, e, si possete, state sana, ed amate chi v'ama. ARGUMENTO ED ORDINE DELLA COMEDIA. Son tre materie principali intessute insieme ne la pre- sente comedia: l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Barto- lomeo e la pedantaria di Manfuno. Però, per la cognizion Bruno. In tristitia hilaris, etc 3. 8 Parte prima distinta de' suggetti, ragglon dell'ordine ed evidenza del- l'artificiosa testura, rapportiamo prima, da per lui, l'in- sipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo pedante: de' quali l'insipido non è senza goffaria e sordi- tezza, il sordido è parimenti insipido e goffo, ed il goffo non è men sordido ed insipido che goffo. ANTIPROLOGO. Messer sì, ben considerato, bene appuntato, bene or- dinato. Forse che non ho profetato che questa comedia non si sarebbe fatta questa sera.^ Quella bagassa che è ordinata per rapresentar Vittoria e Carubina, ave non so che mal di madre. Colui che ha da rappresentar il Boni- facio, è imbnaco che non vede ciel né terra da mezzodì in qua; e, come non avesse da far nulla, non si vuol alzar di letto; dice: « Lasciatemi, lasciatemi che in tre giorni e mezzo e sette sere, con quattro dui rimieri, sarrò tra par- glioni e pipistregli: sia, voga; voga, sia >k A me è stato commesso il prologo; e vi giuro eh 'è tanto intricato ed mdiavolato, che son quattro giorni che vi ho sudato sopra, e dì e notte, che non bastan tutti trombetti e tamburini delle Muse puttane d'Elicona a ficcarmene una pa- gliusca dentro la memoria. Or, va' fa il prologo: su battello di questo barconaccio dismesso, scasciato, rotto, mal'impeciato, che par che, co crocchi, rampini ed arpa- goni, sii stato per forza tirato dal profondo abisso; da molti canti gli entra l'acqua dentro, non è punto spal- mato; e vuol uscire e vuol fars' in alto mareP lasciar questo sicuro porto del Mantraccio.^ far partita dal Molo del silenzio? L'autore, si voi lo conosceste, dirreste ch'ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contempla- zione delle pene dell'inferno, par sii stato alla pressa ccome le barrette : un che ride sol per far comme fan gli altri: per il più, lo vedrete fastidito, restio e bizarro, non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio I. - Presentazione e soggetto del Candelaio 9 d'ottant'annl, fantastico com'un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla. Al sangue, non voglio dir de chi, lui e tutti quest'altri filosofi, poeti e pedanti la più gran nemica che abbino è la ricchezza e beni: de quali mentre col lor cervello fanno notomia, per tema di non essere da costoro da dovero sbranate, squartate e dissipate, le fuggono come centomila dia- voli, e vanno a ritrovar quelli che le mantengono sane ed m conserva. Tanto che io, con servir simil canaglia, ho tanta de la fame, tanta de la fame, L^arte supplisce al difetto della natura, Bonifacio. Or, poi ch'a la mal'ora non posso far che questa tradi- tora m'ame, o che al meno mi remiri con un simulato amorevole sguardo d'occhio, chi sa, forse quella che non han mossa le paroli di Bonifacio, l'amor di Bonifacio, il veder spasmare Bonifacio, potrà esser forzata con que- sta occolta filosofìa. Si dice che l'arte magica è di tanta importanza che contra natura fa ritornar gli fiumi a dietro, fissar il mare, muggire i monti, intonar l'abisso, proibir il sole, despiccar la luna, sveller le stelle, toglier il giorno e far fermar la notte: però l'Academico di nulla academia, in quell'odioso titolo e poema smarrito, disse: Don a rapidi fiumi in su ritorno. Smuove de Volto del V aurate stelle. Fa sii giorno la notte, e notfil giorno. E la luna da lorhe proprio svelle E gli cangia in sinistro il destro corno, E del mar Fonde ingonfia e fissa quelle. Terra, acqua, fuoco ed aria despiuma, Ed al voler uman fa cangiar piuma. 0) Candelaio, Atto I, Scene !I, III e X. 16 Parte prima Di tutto si potrebbe dubitare; ma, circa quel ch'ulti- mamente dice quanto all'efifetto d'amore, ne veggiamo l'esperienza d'ogni giorno. Lascio che del magistero di questo Scaramurè sento dir cose maravlgliose a fatto. Ecco: vedo un di quei che rubbano la vacca e poi donano le corna per l'amor di Dio. Veggiamo che porta di bel novo. M. Bonifacio, M. Bartolomeo ragionano; Pollulo e Sanguino, occoltì, ascoltano. Bart. Crudo amore, essendo tanto ingiusto e tanto violento il regno tuo, che voi dir che perpetua tanto P perchè fai che mi fugga quella ch'io stimo e adoro P per- chè non è lei a me, come io son cossi strettissimamente a lei legato P si può imaginar questo P ed è pur vero. Che sorte di laccio è questa P di dui fa l'un incatenato a l'altro, e l'altro più che vento libero e sciolto. BoN. Forse ch'io son soloP uh, uh uh. Bart. Che cosa avete, messer Bonifacio mioP pian- gete la mia penaP BoN. Ed il mio martire ancora. Veggo ben che sete percosso, vi veggio cangiato di colore, vi ho udito adesso lamentare, intendo il vostro male, e, come partecipe di medesma passione e forse peggior, vi compatisco. Molti sono de' giorni che ti ho visto andar pensoso ed astratto, attonito, smarrito — come credo eh altri mi veggano, — scoppiar profondi suspir dal petto, co gli occhi molli — Diavolo! — dicevo io — a costui non è morto qualche propinquo, familiare e benefattore; non ha lite in corte; ha tutto il suo bisogno, non se gli minaccia male, ogni cosa gli va bene; io so che non fa troppo conto di soi pec- cati; ed ecco che piange e plora, il cervello par che gli stii in cimhalis male sonantibus: dunque è inamorato, dunque qualche umore flemmatico o colerico o sanguigno o melan- colico — non so qual sii questo umor cupidinesco — gli è montato su le testa. — Adesso ti sento proferir queste dolce parole: conchiudo più fermamente che di quel tossicoso mele abbi il stomaco ripieno. II. - L'innamorato e le arti magiche d'amore 1 7 Bari. Oimè, ch'io son troppo crudamente preso dai suoi sguardi! Ma di voi mi maraviglio, messer Bonifacio, non di me che son di dui o tre anni più giovane, ed ho per moglie una vecchia sgrignuta che m'avanza di più d'otto anni: voi avete una bellissima mogliera, giovane di venticinque anni, più bella della quale non è facile trovar in Napoli; e sete inamoratoP BoN. Per le paroli che adesso voi avete detto, credo che sappiate quanto su imbrogliato e spropositato il regno d'amore. Si volete saper l'ordine, o disordine, di miei amori, ascoltatemi, vi priego. Bart. Dite, messer Bonifacio, che non siamo come le bestie ch'hanno il coito servile solamente per l'atto della generazione, — però hanno determinata legge del tempo e loco, come gli asini a i quali il sole, particulare o princi- palemente il maggio, scalda la schena, ed in climi caldi e temperati generano, e non in freddi, come nel settimo cli- ma ed altre parti più vicine al polo; — noi altri in ogni tempo e loco. BoN. Io ho vissuto da quarantadue anni al mondo tal- mente, che con mulieribus non sum coinquinato; gionto che fui a questa etade nelle quale cominciavo ad aver qualche pelo bianco in testa, e nella quale per l'ordinario suol in- freddarsi l'amore e cominciar a venir meno... Bart. In altri cessa, in altri si cangia. BoN. ...suol cominciar a venir meno, com'il caldo al tempo de l'autunno, allora fui preso da l'amor di Caru- bina. Questa mi parve tra tutte l'altre belle bellissima; questa mi scaldò, questa m'accese in fiamma talmente, che mi bruggiò di sorte, che son dovenuto esca. Or, per la consuetudine ed uso continuo tra me e lei, quella prima fiamma essendo estinta, il cuor mio è rimasto facile ad esser acceso da nuovi fuochi... Bart. S'il fuoco fusse stato di meglior tempra, non t'ar- rebbe fatto esca ma cenere; e s'io fusse stato in luoco di vostra moglie, arrei fatto cossi. BoN. Fate ch'io finisca il mio discorso, e poi dite quel che vi piace. 18 Parte prima Bart. Seguite quella bella similitudine. BoN. Or, essendo nel mio cor cessata quella fiamma che l'ha temprato in esca, facilmente fui questo aprile da un'altra fiamma acceso. Bart. In questo tempo s'mamorò il Petrarca, e gli asini anch'essi, cominciano a rizzar la coda. BoN. Come avete detto .^ Bart. Ho detto che in questo tempo s'inamorò il Pe- trarca, e gli animi, anch'essi, si drizzano alla contempla- zione: perchè i spirti ne l'inverno son contratti per il freddo, ne l'estade per il caldo son dispersi, la primavera sono in una mediocre e quieta tempratura onde, l'animo è piij atto, per la tranquillità della disposizion del corpo, che lo lascia libero alle sue proprie operazioni. BoN. Lasciamo queste filastroccole, venemo a propo- sizio. Allora, essendo io ito a spasso e Pusilipo da gli sguardi della signora Vittoria fui sì profondamente saet- tato, e tanto arso da' suoi lumi, e talmente legato da sue catene, che oimè.... Bart. Questo animale che chiamano amore, per il più suole assalir colui ch'ha poco da pensare e manco da fare: non eravate voi andato a spasso ? BoN. Or voi fatemi intendere il versaglio dell'amor vostro, poi che m'avete donata occasion di discuoprirvi il mio. Penso che voi ancora deviate prendere non poco refrigerio, confabulando con quelli che patiscono del me- desmo male, si pur male si può dir l'amare. Bart. Nominativo: la signora Argenteria m'affligge, la signora Orelia m'accora. BoN. Il mal'an che Dio dia a te, e a lei ed a lei. Bart. Genitivo: della signora Argenteria ho cura, della signora Orelia tengo pensiero. BoN. Del cancaro che mange Bartolomeo, Aurelia ed Argentina. Bart. Dativo: alla signora Argenteria porto amore, alla signora Orelia suspiro; alla signora Argenteria ed Orelia comunmente mi raccomando. BoN. Vorrei saper che diavol ha preso costui. II. - L'innamorato e \s arti magiche d'amore 19 Bari. Vocativo: o signora Argenteria, perchè mi lasci? o signore Orelia, perchè mi fuggi P BoN. Fuggir ti possano tanto, che non possi aver mai bene! va' col diavolo, tu sei venuto per burlarti di me! Bari. E tu resta con quel dio che t'ha tolto il cervello, se pur è vero che n'avesti giamai. Io vo a negociar per le mie padrone. BoN. Guarda, guarda con qual tiro, e con quanta fa- cilità, questo scelerato me si ha fatto dir quello che meglio sarrebbe stato dirlo a cinquant'altri. Io dubito con questo amore di aver sin ora raccolte le primizie della pazzia. Or, alla mal'ora, voglio andar in casa ad ispedir Lucia. Veggo certi furfanti che ridono: sùspico ch'avranno udito questo diavol de dialogo, anch'essi. Amor ed ira non si puot'ascondere. ScARAMURÈ, Bonifacio, Ascanio, ScAR. Ben trovato, messer Bonifacio. BoN. Siate il molto ben venuto, signor Scaramurè, spe- ;anza della mia vita appassionata. ScAR. Signum affecti animi. BoN. Si V. S. non rimedia al mio male, io son morto. SvAR. Sì come io vedo, voi sete inam.orato. BoN. Cossi è: non bisogna ch'io vi dica più. ScAR. Come mi fa conoscere la vostra fisionomia, il computo di vostro nome, di vostri parenti o progenitori, la signora della vostra natività fu « Venus retrograda in signo masculino; et hoc f or tasse in G eminibus vigesimo se- ptimo grada: » che significa certa mutazione e conversione nell'età di quarantasei anni, nella quale al presente vi ritrovate. BoN. A punto, io non mi ricordo quando nacqui; ma, per quello che da altri ho udito dire, mi trovo da quaran- tacinque anni in circa. ScAR. Gli mesi, giorni ed ore computare ben io piìi di- stintamente, quando col compasso arò presa la propor- 20 Parte prima zlone dalla latitudine dell'unghia maggiore alla linea vi- tale, e distanza dalla summità dell'annulare a quel termine del centro della mano, ove è designato il spacio di Marte; ma basta per ora aver fatto giudicio cossi universale et in communi. Ditemi, quando fùstivo punto dall'amor di colei per averla guardato, a che sito ti stava ellaP a de- stra o a sinistra P BoN. A sinistra. ScAR. Arduo opere nanciscenda. — Verso mezzogiorno o settentrione, oriente o occidente, o altri luoghi mtra questi P BoN. Verso mezzogiorno. ScAR. Oportet advocare septentrionales. — Basta, basta: qui non bisogna altro; voglio effectuare il tuo negocio con magia naturale, lasciando a maggior opportunità le superstizioni d'arte più profonda. BoN. Fate di sorte ch'io accape il negocio, e sii come si voglia. ScAR. Non vi date impaccio, lasciate la cura a me. La cosa già fu per fascinazione P BoN. Come per fascinazione P io non intendo. ScAR. Idest, per averla guardata, guardando lei anco VOI. BoN. Sì, signor sì, per fascinazione. ScAR. Fascinazione si fa per la virtù di un spirito lucido e sottile, dal calor del core generato di sangue più puro, il quale, a guisa di raggi, mandato fuor de gli occhi aperti, che con forte imaginazion guardando, vengono a ferir la cosa guardata, toccano il core e sen vanno ad afficere l'altrui corpo e spirto o di affetto di amore o di odio o di invidia o di maninconla o altro simile geno di passibili qualità. L'esser fascinato d'amore adviene, quando, con frequentissimo over, benché istantaneo, intenso sguardo un occhio con l'altro, e reciprocamente un raggio visual con l'altro si rincontra, e lume con lume si accopula. Al- lora si gionge spirto a spirto; ed il lume superiore, incul- cando l'inferiore, vengono a scintillar per gli occhi, cor- rendo e penetrando el spirto interno che sta radicato al II. — L'innamorato e le arti magiche d'amore 21 cuore; e cossi commuoveno amatorio incendio. Però, chi non vuol esser fascinato, deve star massimamente cauto e far buona guardia negli occhi, li quali, in atto d'amore, principalmente son fenestre dell'anima: onde quel detto: « Averte, averte oculos tuos ». — Questo, per il presente, basti; noi ci revedremo a più bell'aggio, provedendo alle cose necessarie. BoN. Signor, si questa cosa farete venir al butto, vi ac- corgerete di non aver fatto servizio a persona ingrata. ScAR. Misser Bonifacio, vi fo intender questo: che voglio io prima esser grato a voi, e poi son certo, si non mi sa- rete grato, mi doverete essere. BoN. Comandatemi, che vi sono affezionatissimo, ed ho gran speranza nella prudenza vostra. AscANio, ScARAMURÈ, Bonifacio. ^'> Asc. Oh, ecco messer Bonifacio mio padrone. Misser, siamo qui con il Signor eccellentissimo e dottissimo, il signor Scaramurè. BoN. Ben venuti. Avete dato ordine alla cosaP è tempo di far nulla P ScAR. Come nulla P ecco qui la imagine di cera ver- gine, fatta m suo nome; ecco qui le cinque aguglie che gli devi piantar in cinque parti della persona. Questa par- ticulare, pili grande che le altre, li pungerà la sinistra mammella: guarda di profondare troppo dentro, perchè fareste morir la paziente. BoN. Me ne guardarò bene. ScAR. Ecco, ve là dono in mano; non fate che da ora avanti la tenga altro che voi. Voi, Ascanio, siate secreto, non fate che altra persona sappia questi negocii. BoN. Io non dubito di lui: tra noi passano negocii più secreti di questo. ScAR. Sta bene. Farete, dunque, far il fuoco ad Ascanio di legne di pigna o di oliva o di lauro, si non possete farlo (1) Atto III. Scena III. 22 Parte prima di tutte tre materie insieme. Poi arrete d'incenso, alcuna- mente esorcizato o incantato; co la destra mano lo getta- rete al fuoco; direte tre volte: «/4urum thus »; e cossi ver- rete ad incensare e fumigare la presente imagine, la qual prendendo in mano direte tre volte: « Sine quo nihil »; oscltarete tre volte co gli occhii chiusi, e poi, a poco a poco, svoltando verso il caldo del fuoco la presente imagine, — guarda che non si liquefacela, perchè morrebbe la pa- ziente, — ... BoN. Me ne guardar© bene. ScAR. ...la farrete tornare el medesmo lato tre volte, insieme insieme tre volte dicendo: « Zalarath Zhalaphar nectere vincula: Caphure, Mìrion, sarcha Vitloriae », come sta notato in questa cartolina. Poi, mettendovi al contrarlo sito del fuoco verso l'occidente, svoltando la imagine con la medesma forma, quale è detta, dirrete pian piano: « Fe- laphthon disamis festino barocco daraphti. Celantes dahitis fapesmo frises omorum '>K II che tutto avendo fatto e detto, lasciate ch'il fuoco si estingua da per lui; e locarrete la figura in luoco secreto, e che non su sordido, ma onore- vole ed odorifero. BoN. Farro cossi a punto. ScAR. Sì, ma bisogna ricordarsi ch'ho spesi cinque scudi alle cose che concorreno al far della imagine. BoN. Oh, ecco, li sborso. Avete speso troppo. ScAR. E bisogna ricordarvi di me. BoN. Eccovi questo per ora; e poi farò di ventaggio assai, si questa cosa verrà a perfezione. ScAR. Pazienza ! Avertite, messer Bonifacio, che, si voi non la spalmarete bene, la barca correrà mala- mente. BoN. Non intendo. ScAR. Vuoi dire che bisogna onger ben bene la mano: non sapete P BoN. In nome del diavolo, lo procedo per via d'in- canti, per non aver occasione di pagar troppo! Incanti e contanti. ScAR. Non indugglate. Andate presto a far quel che vi II. - L'innamorato e ]s arti magiche d'amore 23 è ordinato, perchè Venere è circa l'ultimo grado di Pesci; fate che non scorra mezza ora, che son trenta minuti di Ariete. BoN. A Dio, dunque, Andiamo, Ascanlo. Cancaro a Venere, e... ScAR. Presto, a la buon'ora, caldamente! Bonifacio, solo. (^> Per quel che costei me dice, io credo di avere approssi- mata le imagine tanto presso al fuoco, che quasi si sarebbe liquefatta: penso d'averla troppo scaldata. Guarda come la povera donna viene tormentata dall'amore: per mia fé, che non ho possuto contener le lacrime. Si messer Scaramurè, — che Dio li dia il bon giorno e la buona sera, che adesso conosco per propria esperienza che è un galantissimo uomo, — non mi avesse avertito con dirmi — Guarda che non si liquefaccia; — io certamente arrei fatta qualche pazzia ch'io non ardisco tra me stesso dirla. Or, va' numera l'arte maggica tra le scienze vane! (1) Atto IV. Scena VII Bruno. In tristiUa hilaris, etc. III. ARTI E DEBOLEZZE DI DONNE Signora VITTORIA, sola. (') Aspettare e non venire è cosa da morire. Si se farà troppo tardi, non si potrà far nulla per questa volta; e non so SI se potrà di bel nuovo offrirsi tale occasione, come si presenta questa sera, di far che questa pecoraccia rac- coglia 1 frutti degni del suo amore. Quando mi credevo di guadagnar una dote co l'amor di costui, sento dir che cerca d'affatturarmi, con l'avermisi formata in cera. E potrebbe giamai l'unita forza, fatta del profondo inferno, giunta alla efficacia che si trova ne' spirti de l'aria e l'ac- qui, far ch'io possa amar un che non è soggetto amoroso? Si fusse il Dio d'amore istesso, bello quanto si voglia, si sarà egli povero o ver — che tutto viene ad uno — avaro, ecco lui morto di freddo; e tutto il mondo agghiac- ciato per lui. Certo, quel dir povero, over avaro, è un mi- serabile e svergognatissimo epiteto, che fa parer brutti i belli, ignobili i nobili, ignoranti i savii, ed impotenti i forti. Tra noi che si può dir più che reggi, monarchi ed imperadon? questi pure, si non arran de quibus, si non farran correre gli de quibus, saran come statue vecchie d'al- tari sparati, a' quali non è chi faccia riverenza. Non pos- siamo non far differenza tra il culto divino e quello di mortali. Adoriamo le sculture e le imagini, ed onoriamo il nome divino scritto, drizzando l'intenzione a quel (I) Candelaio, Atto IV. Scena 1. III. - Arti e debolezze di donne 23 che vive. Adoramo ed onoramo questi altri Dei, driz- zando la intenzione e supplice devozione alle lor imagini e sculture, perchè, mediante queste, premiino i vir- tuosi, inalzino i degni, defendano gli oppressi, dilatino i lor confini, conservino i suoi, e si faccino temere de- l'aversarie forze: il re, dunque, ed imperator di carne ed ossa, si non corre sculpito, non vai nulla. Or, che dun- que sarà di Bonifacio, che, come non si trovassero uomini al mondo, pensa d'essere amato per gli belli occhii suoi P Vedete quanto può la pazzia ! Questa sera intenderà che possan far contanti; questa sera spero che vedrà l'effetto della sua incantazione. Marta, sola, ^i) Meschina me ! io lo dico, io lo so, io l'esperimento. Ero più contenta, quando questo zarrabuino di mio ma- nto non avea tanto da spendere, che non potrei essere al dì d'oggi. Allora giocavamo a gamba a collo, alla stret- tola, a infilare, a spaccafico, al sorecillo, alla zoppa, alla sciancata, a retoncunno, a spacciansieme, a quattro spinte, quattro botte, tre pertosa, ed un buchetto. Con queste ed altre devozioni passavamo la notte e parte del giorno. Adesso, perchè ha scudi di vantaggio per la eredità di Puc- ciolo — che gli sii maledetta l'anima, anco si fusse in seno di Abrammo! — ecco lui posto in pensiero, angosce, travagli, tema di fallire, suspicion d'esser rubbato, ansia di non essere ingannato da questo, assassinato da quello altro; e va e viene, e trotta e discorre, e sbozza ed imbozza, e macina e cola, e soffia vintiquattro ore del giorno. Tra tanto, oggi, gran mercè a Barra, che, se lui non fusse, po- trei giurare, che più dì sette mesi sono, che non me ci ha piovuto. Ieri, feci dir la messa di Sant'Elia contro la sic- cità; questa mattina, ho speso cinque altre grana de li- mosina per far celebrar quella di S. Gioachimo ed Anna, (1) Atto IV Scena IX. 26 Parte prima la quale è miracolosissima a riunir il marito co la moglie. Si non è difetto di devozione dal canto del prete, io spero di ricevere la grazie, benché ne veggo mala vegilia: che, in loco di lasciar la fornace e venirme in camera, oggi è uscito, più del dover, di casa, che mi bisogna a questa ora di andarlo cercando. Pure, quando men la persona si pensa, le gracie si adempiscono. Gio. Bernardo e Carubina. (') Carubina Olmè, messer Gio. Bernardo, io ho ben tenero il core! Facilmente credo quel che dite, benché siino in proverbio le lusinghe d'amanti. Però desidero ogni consolazion vostra; ma, dal canto mio, non é possibile senza pregiudizio del mio onore. Gio. B. Vita della mie vita, credo ben che sappiate che cosa è onore, e che cosa anco su disonore. Onore non é altro che una stima, una riputazione; però sta sempre intatto l'onore, quando la stima e riputazione persevera la medesma. Onore è la buona opinione che altri abbian di noi: mentre persevera questa, persevera Tonore. E non è quel che noi siamo e quel che noi facciamo, che ne rendi onorati o disonorati, ma sì ben quel che altri stimano, e pensano di noi. CaR. Sii che si vogli de gli omini, che dirrete in con- spetto de gli angeli e de' santi, che vedeno il tutto, e ne giudicano P Gio. B. Questi non vogliono esser veduti più di quel che si fan vedere; non vogliono esser temuti più di quel che si fan temere; non vogliono esser conosciuti più di quel che si fan conoscere. Car. Io non so quel che vogliate dir per questo; queste paroli io non so come approvarle, né come riprovarle: pur hanno un certo che d'impietà. Gio. B. Lasciamo le dispute, speranza dell'anim.a mia. Fate, vi priego, che non in vano v'abbia prodotta cossi (I) Atto V. Scena XI. III. - Arti e debolezze di donne 27 bella il cielo: 11 quale, benché di tante fattezze e grazie vi sii stato liberale e largo, è stato però, dall'altro canto, a voi avaro, con non giongervi ad uomo che facesse caso di quelle, ed a me crudele, col farmi per esse spasimare, e mille volte il giorno morire. Or, mia vita, più dovete cu- rare di non farmi morire, che temer in punto alcuno, che si scemi tantillo del vostro onore. Io liberamente mi uc- ciderrò — si non sarrà potente il dolore a farmi morire, — si, avendovi avuta, come vi ho, comoda e tanto presso, di quel, che mi è pm caro che la vita, dalla crudel fortuna rimagno defraudato. Vita di questa alma afflitta, non sarrà possibile che sia in punto leso il vostro onore, de- gnandovi di darmi vita; ma si ben necessario ch'io muoia essendomi voi crudele. Car. Di grazia, andiamo in luoco più remoto, e non parliamo qui di queste cose. IV. IN TAVERNA Barra, Marca. ('> Marc. 0 vedi il mastro Manfurio che sen va.^ Bar. Lascialo col diavolo! Seguite il proposito inco- minciato: fermamoci qua. Marc. Or dunque, ier sera, all'osteria del Cerriglio, dopo che ebbemo benissimo mangiato, sin tanto che non avendo lo tavernaio del bisogno, lo mandaimo a procacciar altrove per fusticelli, cocozzate, cotugnate, ed altre bagat- telle da passar il tempo. Dopo che non sapevamo che più dimandare, un di nostri compagni fìnse non so che debi- lità; e Toste essendo corso con l'aceto, io dissi: « Non ti vergogni, uomo da poco! camina, prendi dell'acqua namfa, di fiori di cetrangoli, e porta della malvasia di Candia ». Allora il tavernaio non so che si rinegasse egli, e poi co- mincia a cridare, dicendo: « In nome del diavolo, sete voi marchesi o duchi? sete voi persone di aver speso quel che avete speso ? Non so come la farremo al far del conto. Questo che dimandate, non è cosa da osteria ». « Furfante, ladro, mariolo», dissi io, «pensi ad aver a far con pan tuoi? tu sei un becco cornuto, svergognato ». « Hai men- tito per cento canne », disse lui. Allora, tutti insieme, per nostro onore, ci alzaimo di tavola, ed acciaffaimo, ciascuno, un spedo di que' più grandi, lunghi da diece palmi... (1) Candelaio. Atto III, Scena Vili. IV. - In taverna 29 Bar. Buon principio, messere. Marc. ...li quali ancor aveano la provisione infilzata; ed il tavernaio corre a prendere un partesanone; e dui di suoi servitori due spadi rugginenti. Noi, benché fussimo sei con sei spedi più grandi che non era la partesana, presimo delle caldaia, per servirne per scudi e rotelle... Bar. Saviamente. Marc. ...Alcuni si puosero certi lavezzi di bronzo in testa per elmetto over celata... Bar. Questa fu certo qualche costellazione che puose in esaltazione i lavezzi, padelle e le caldaie. Marc. ...E cossi bene armati, reculando, ne andevamo defendendo e retirandoci per le scale in giù, verso la porta, benché facessimo fìnta di farci avanti.... Bar. « Bel combattere! un passo avanti e dui a dietro, un passo avanti e dui a dietro ": disse il signor Cesare da Siena. Marc. ...Il tavernaio quando ci vedde molto più forti e timidi più del dovero, in loco di gloriarsi, come quel che si portava valentemente, entrò in non so che suspizione:... Bar. Ci sarebbe entrato Scazzolla. Marc. ...per il che, buttata la partesana in terra, co- mandò a sua servitori che si retirassero, che non volea di noi vendetta alcuna... Bar. Buon'anima da canonizzare. Marc. E voltato a noi disse: « Signori gentiluomini, perdonatime, io non voglio offendervi de dovero! di grazia, pagatemi ed andiate con Dio! )\ Bar. AUor sarrebbe stata bene qualche penitenza con l'assoluzione. Marc. « Tu ci voi uccidere, traditore »: dissi io; e con questo puosemo i piedi fuor de la porta. Allora l'oste de- sperato, accorgendosi che non accettavamo la sua cortesia e devozione, riprese il partesanone, chiamando aggiuto di servi, figli e moglie. Bel sentire! l'oste cridava: « Paga- temi, pagatemi »; gli alti stridevano: « A' marioli, a' ma- rioli! ah, ladri traditori! ». Con tutto ciò, nisciun fu tanto pazzo che ne corresse a dietro, perché l'oscurità della 30 Parte prima notte faurlva più noi che altro. Noi, dunque, temendo il sdegno ostile, idest de l'oste, fuggivimo ad una stanza apresso li Carmini, dove, per conto fatto, abbiamo ancor da farne le spese per tre giorni. Bar. Far burla ad osti è far sacrifìcio a Nostro Signore; rubbare un tavernaio è far una limosina; in batterlo bene consiste il merito di cavar un'anima di purgatorio! — Dimmi, avete saputo poi quel che seguitò nell'ostariaP Marc. Concorsero molti, de quali altri pigliandosi spasso altri attristandosi, altri piangendo, altri ridendo, questi consigliando, quelli sperando, altri facendo un viso, altri un altro, altri questo linguaggio ed altri quello: era veder insieme comedia e tragedia e chi sonava a gloria e chi a mortoro. Di sorte che, chi volesse vedere come sta fatto il mondo, derebbe desiderare d'esservi stato pre- sente. Bar. Veramente la fu buona. — Ma io che non so tanto di rettorica, solo soletto, senza compagnia, l'altr'ieri, ve- nendo da Nola per Pumigliano, dopoi ch'ebbi mangiato , non avendo tropo buona fantasia di pagare, dissi al ta- vernaio: « Messer osto, vorrei giocare ». « A qual gioco )>, disse lui, « volemo giocare .3 qua ho de tarocchi ». Risposi: « A questo maldetto gioco non posso vencere, perchè ho una pessima memoria ». Disse lui: « Ho di carte ordinarie ». Risposi: « Saranno forse segnate, che voi le conoscerete. Avetele che non siino state ancor adoperate? » Lui ri- spose de non. « Dunque, pensiamo ad altro gioco ». « Ho le tavole, sai.^ ». « Di queste non so nulla ». « Ho de scac- chi, sai?» «Questo gioco mi farebbe rinegar Cristo». Allora, gli venne il senapo in testa: « A qual, dunque, diavolo di gioco vorrai giocar tu? proponi ». Dico io: « A stracquare a palle maglio ». Disse egli: « Come, a pall'e maglio P vedi tu qua tali ordegni P vedi luoco da posservi giocare?» Dissi: «A la mirella? » «Questo è gioco da fachini, bifolchi e guardaporci ». « A cinque dadi»? «Che diavolo di cinque dadi? mai udivi di tal gioco. Si vuoi, giocamo a tre dadi ». Io gli dissi, che a tre dadi non posso aver sorte. « Al nome di cinquantamila In taverna 31 diavoli », disse lui, « si vuoi giocare, proponi un gioco che possiamo farlo e voi ed io ». Gli dissi: « Giocamo a spac- castrommola ». « Va' », disse lui, « che tu mi dai la baia: questo è gioco da putti, non ti vergogni? » « Or su, dun- que^», dissi, « giocamo a correre ». « Or, questa è falsa » disse lui. Ed io soggionsi: « Al sangue dell'Intemerata, che giocarai! » «Vuoi far bene», disse, «pagami; e si non vuoi andar con Dio, va' col prior de' diavoli! ». Io dissi :_« Al sangue delle scrofole, che giocarai! » « E che non gioco? »_diceva. «E che giochi?» dicevo. «E che mai mai vi giocai P ». « E che vi giocarrai adesso.^ ». « E che non voglio? » « E che vorrai ? » In conclusione, comincio io a pagarlo co le calcagne, ideste a correre; ed ecco quel porco chepoco fa diceva che non volea giocare, e giurò che non volea giocare, e giocò lui, e giocorno dui altri suoi guattari: di sorte che, per un pezzo correndomi a presso mi arrivorno e giunsero... co le voci. Poi, ti giuro, per la tremenda piaga di S. Rocco, che né io l'ho più uditi, né essi mi hanno più visto. V-VI. CASTIGO E BEFFE — PLAUDITE Barra, Marca, Corcovizzo, Manfurio, Sanguino, ASCANIO. (') Bar. Quell'altro è ispedito. Che vogliam far di costui, del domino Magister ? Sang. Questo porta sue colpa su la fronte non vedi c'hè stravestito? non vedi che quel mantello è stato rubbato a Tiburolo? Non l'hai visto che fugge la corte? Marc. E vero; ma apporta certe cause verisimile. Bar. Per ciò non deve dubitare d'andar priggione. Manf. Verum; ma cascarrò in derisione app>o miei scolastici e di altri per i casi che me si sono aventati al dorso. Sang. Intendete quel che vuol dir costui? Corc. Non l'intenderebbe Sansone. Sang. Or su, per abbreviarla, vedi, Magister, a che cosa ti vuoi resolvere: si volete voi venir piggione, over donar la bona mano alla compagnia di que' scudi che ti son ri- masti dentro la giornea, perchè, come dici, il mariolo ti tolse sol quelli ch'avevi in mano per cambiarli. Mane. Minime, io non ho altrimente veruno. Quelli che avevo, tutti mi furon tolti, ita, mehercle, per lovem, per Altitonantem, vos sidera testar. (1) Candelaio, Atto V. Scene XXV, XXVI. V.-VI. - Castigo e beffe - Plaudite 33 Sang. Intendi quel che ti dico. Si non voi provar il stretto della Vicaria, e non hai moneta, fa' elezione d una de le altre due: o prendi diece spalmate con questo ferro di correggia che vedi, o ver a brache calate arrai un cavallo de cmquanta staffilate: che per ogni modo tu non ti par- tirrai da noi, senza penitenza di tui falli. Manf. « Duobus propositis malis minus est tolerandum, sìcut duobus propositis bonis melius est eligendum »: dicit Peripateticorum princeps, Asc. Maestro, parlate che siate inteso, perchè queste son gente sospette. Bar. Può esser che dica bene costui, allor che non vuol esser inteso? Manf. Nil mali vobis imprecar: io non vi impreco male. Sang. Pregatene ben quanto volete, che da noi non sarrete essaudito. CoRC. Elegetevi presto quel che vi piace, o vi legar- remo meglio e vi menarremo. Manf. Minus pudendum erit palma feriri, quam quod congerant in veteres flagella nates: id non puerile est. Sang. Che dite voi? che dite, in vostra mal'ora? Manf. Vi offro la palma. Sang. Tocca Uà, Corcovizzo, da' fermo. CoRC. Io do. Taf, una. Manf. Oimmè, lesus, of! Coro. Apri bene l'altra mano. Taf, e due. Manf. Of, of, lesus Maria. CoRC. Stendi ben la mano, ti dico; tienla dritta cossi. Taff, e tre. Manf. Oi oi, oimmè, uf, of of of, per amor della Pas- sion del nostro Signor Jesus. Potius fatemi alzar a cavallo perchè tanto dolor suffrir non posso nelle mani. Sang. Orsù, dunque. Barra, prendilo su le spalli; tu. Marca, tienlo fermo per i piedi, che non si possa movere; tu, Corcovizzo, spuntagli le brache e tienle calate ben bene, a basso; e lasciatelo strigliar a me; e tu. Maestro, conta le staffilate, ad una ad una, ch'io t'intenda, e guarda 34 Parte pritra ben. che si farrai errore nel contare, che sarrà bisogno di ricominciare; voi, Ascanio, vedete e giudicate. Mar. Tutto sta bene. Cominciatelo a spolverare, e guardatevi di far male a i drappi che non han colpa. Sang. Al nome di Santa Scoppettella, conta: toff. Manf. Tof, una; tof, oh tre; tof, oh oi, quattro; toff, cime, oimè...; tof, oi, oimè...; tof, oh, per amor de Dio, sette! Sang. Cominciamo da principio, un'altra volta. Ve- dete si dopo quattro son sette. Dovevi dir cinque. Manf. Oimè, che farro ioP erano in rei ventate sette. Sang. Dovevi contarle ad una ad una. Or su, via di novo: toff. Manf. Toff, una; toff, una; toff, oimè, due; toff, toff, toff, tre, quattro; toff, toff, cinque, oimè; toff, toff, sei. 0 per l'onor di Dio, toff non piìj, toff, toff, non più, che vogliamo, toff, toff, veder nella giornea, toff, che vi saran alquanti scudi. Sang. Bisogna contar da capo, che ne ha lasciate molte, che non ha contate. Bar. Perdonategli, di grazia, signor Capitano, perchè vuol far quell'altra elezione di pagar la strana. Sang. Lui non ha nulla. Manf. Ita, ita, che adesso mi ricordo aver più di quattro scudi. Sang. Ponetelo abasso, dunque, vedete che cosa vi è dentro la giornea. Bar. Sangue di..., che vi sono più di sette de scudi, Sang. Alzatelo, alzatelo di bel novo a cavallo: per la mentita ch'ha detta, e falsi giuramenti ch'ha fatti, bisogna contarle, fargli contar settanta. Manf. Misericordia! prendetevi gli scudi, la giornea, e tutto quanto quel che volete, dimittam vobis. Sang. Or su, pigliate quel che vi dona, e quel mantello ancora che è giusto che sii restituito al povero padrone. Andiamone noi tutti: bona notte a voi, Ascanio mio. Asc. Bona notte e mille bon'anni a V. S., signor Capi- tani©, e buon prò faccia al Maestro. V.-VI. - Castigo e beffe - Plaudite 35 Manfurio, Ascanio. Manf. Ecquis erit modus. Asc. Olà, mastro Manfurio, mastro Manfurio. Mane, Chi è, chi mi conosce? chi in questo abito e fortuna mi distmgue? chi per nome mio proprio m'ap- pella ? Asc. Non ti curar di questo, che t'importa poco o nulla: apri gli occhi, e guarda dove sei, mira ove ti trovi. Mane. Quo melius videam, per corroborar l'intuito e fìrm.ar l'acto della potenza visiva, acciò l'acie de la pupilla più efficacemente per la linea visuale, emittendo il radio a l'obiecto visibile, venghi ad introdur la specie di quello nel senso interiore, idesi, mediante il senso comone, col- locarla nelle cellula de la fantastica facultade, voglio appli- carmi gli oculari al naso. — Oh, veggio di molti specta- tori la corona. Asc. Non vi par esser entro una comedia? Mane. Ita sane. Asc. Non credete d'esser in scena? Mane. Omni procul duhio, Asc. A che termine vorreste che fusse la com.edia? Mane. In calce, in fine: ncque enim et ego risu ilia tendo. Asc. Or dunque, fate e donate il Plaudite. Mane. Quam male possum plaudere, Tentatus pacientia, Nam plausus per me factus est lam dudum miserabilis. Et natibus et manibus Et aureorum sonitu. Amen. VII. AVVENTURE LONDINESI Saulino. Che cosa me dici, Sofìa? Dunque li Dei prendeno qualche volta Aristotele in mano? Studiano verbigrazia negli filosofi P Sofia. Non ti dirò di vantaggio di quel ch'è su la Pippa, la Nanna, l'Antonia, il Burchiello, l'Ancroia, e un altro libro, che non si sa, ma è in questione, s'è di Ovidio o Virgilio, e io non me ne ricordo il nome, e altri simili. Saul. E pur adesso trattano cose tanto gravi e seriose? SoF. E ti par, che quelle non son seriose? Non son gravi? Se tu fussi più filosofo, dico più accorto, crede- resti che non è lezione, non è libro, che non sia essami- nato da' dei, e che, se non è a fatto senza sale, non sia maneggiato da dei; e che, se non è tutto balordesco, non sia approvato e messo con le catene nella biblioteca commune; perchè piglian piacere nella moltiforme re- presentazione di tutte cose e frutti multiformi de tutti ingegni, perchè loro si compiaceno in tutte le cose che sono, e tutte le representazioni che si fanno, non meno che essi hanno cura che sieno, e donano ordine e per- missione che si facciano. E pensa ch'il giudicio degli Dei è altro, che il nostro commune, e non tutto quello che è peccato a noi e secondo noi, è peccato a essi e secondo essi. Quei libri certo cossi, come le teologie, non denno esser communi agli uomini ignoranti, che medesimi sono scelerati; perchè ne riceveno mala instituzione. oribd. VII. - La biblioteca degli Dei 119 Saul. Or non son libri fatti da uomini di mala fama, disonesti e dissoluti, e forse a mal fine? SoF. E vero; ma non sono senza la sua mstituzione e frutti della cognizione de chi scrive, come scrive, perchè e onde scrive, di che parla, come ne parla, come s'in- ganna lui, come gli altri s'ingannano di lui, come si de- cima, e come s'inclina a uno affetto virtuoso e vizioso, come si muove il riso, il fastidio, il piacere, la nausea; ed in tutto è sapienza e providenza, e in ogni cosa è ogni cosa, e massime è l'uno dove è l'altro contrario, e questo massime si cava da quello. Saul. Or torniamo al proposito, donde ne ha diver- titi il nome d'Aristotele e la fama de la Pippa. Bruno, In tristitia hilariz, etc. 10. vili. LA FORTUNA 0 sant* asinità, sant* ignoranza. Santa stolticia e pia divozione, Qual sola puoi far Vanirne sì buone, CWuman ingegno e studio non F avanza; Non gionge faticosa vigilanza D'arte, qualunque sia, o 'nvenzione, Né de sofossi contemplazione Al del, dove t'edifichi la stanza. Che vi vai, curiosi, il studiare. Voler saper quel che fa la natura, Se gli astri son pur terra, fuoco e mare? La santa asinità di ciò non cura; Ma con man gionte e 'n ginocchion vuol stare. Aspettando da Dio la sua ventura. Nessuna cosa dura. Eccetto il frutto de l'eterna requie. La qual ne done Dio dopo Fessequie. (1) Dalla Cabala del Cavallo Pegaseo, 154 Parte terza A L'ASINO CILLENICO Oh beato quel venir e le mammelle. Che t'ha portato, e n terra ti lattare, Animalaccio divo, al mondo caro. Che qua fai residenza e tra le stelle! Mai più preman tuo dorso basti e selle, E contril mondo ingrato e del avaro Ti faccia sort'e natura riparo Con sì felice ingegno e buona pelle. Mostra la testa tua buon naturale. Come le nari quel giudicio sodo. L'orecchie lunghe un udito regale. Le dense labbra di gran gusto il modo, Da far invidia a' dei quel genitale; Cervice tal la costanza, ch'io lodo. Sol lodandoti godo: Ma, lasso, cercan tue condizioni Non un sonetto, ma mille sermoni. III. DISSERTAZIONI SOPRA L'ASINITÀ'" Oimè, auditor mio, che senza focoso suspiro, lubrico pianto e tragica querela, con l'affetto, con gli occhi e le raggioni non può rammentar il mio ingegno, intonar la voce e dechiarar gli argumenti, quanto sia fallace il senso, turbido il pensiero ed imperito il giudicio, che con atto di perversa, iniqua e pregiudiciosa sentenza non vede, non considera, non definisce secondo il debito di natura, verità di ragglone e diritto di giustizia circa la pura bon- tade, regia sinceritade e magnifica maestade della santa ignoranza, dotta pecoragme, e divina asinitade! Lasso! a quanto gran torto da alcuni è sì fieramente essagitata quest'eccellenza celeste tra gli uomini viventi, contro la quale altri con larghe narici si fan censori, altri con aperte sanne si fan mordaci, altri con comici cachini si rendono beffeggiatori. Mentre ovunque spreggiano, burlano e vi- lipendeno qualche cosa, non gli odi dir altro che: Costui, è un asino, quest azione è asinesca, questa è una asini- tade; — stante che ciò absolutamente convegna dire dove son più maturi discorsi, più saldi proponimenti e più trutinate sentenze. Lasso! perchè con ramarico del mio core, cordoglio del spirito e aggravio de l'alma mi si presenta agli occhi questa imperita, stolta e profana moltitudine, che sì falsamente pensa, sì mordacemente parla, sì temerariamente scrive per parturir que' scelerati (1) Cabala del Cavallo Pegaseo. — Declamazione al studioso, divoto e pio lettore. 156 Parte terza discorsi de' tanti monumenti, che vanno per le stampe, per le librarle, per tutto, oltre gli espressi ludibrli, dlspreg- gi e biasimi: l'asmo d'oro, le lodi de l'asmo, l'encomio de l'asino; dove non si pensa altro che con ironiche sentenze prendere la gloriosa asinitade in gioco, spasso e scherno? Or, chi terrà il mondo, che non pensi ch'io faccia il si- mile? Chi potrà donar freno alle lingue, che non met- tano nel medesimo predicamento, come colui che corre appo gli vestigli degli altri, che circa cotal suggetto demo- criteggiano? Chi potrà contenerli, che non credano, af- fermino e confermino, che io non intendo vera- e serio- samente lodar l'asino e asinitade, ma piuttosto procuro di aggionger oglio a quella lucerna, la quale è stata dagli altri accesa? Ma, o miei protervi e temerarli glodlcl, o neghittosi e ribaldi calunniatori, o foschi e appassionati detrattori, fermate il passo, voltate gli oc hi, prendete la mira; vedete, penetrate, considerate se gli concetti sem- plici, le sentenze enunciative e gli discorsi sillogistici, ch'apporto in favor di questo sacro, impolluto e sarìto ani- male, son puri, veri e demostratlvi, o pur son fìnti, im- possibili ed apparenti. Se le vedrete in effetto fondati su le basi de fondamenti fortissimi, se son belli, se son buoni; non le schivate, non le fuggite, non le rigettate; ma accettatele, seguitele, abbracciatele, e non siate oltre legati dalla consuetudine del credere, vinti dalla suffi- cienza del pensare, e guidati dalla vanità del dire, se altro vi mostra la luce de l'intelletto, altro la voce della dot- trina intona ed altro l'atto de l'esperienza conferma.__ L'asino ideale e cabalistico, che ne vien proposto nel corpo de le Sacre Lettere, che credete voi che sia? Che pensate voi essere il cavallo pegaseo, che vien trattato in figura degli poetici fìgmenti? De l'asino cillenico degno d'esser messo in croceis nelle più onorate academie che v'imaginate? Or, lasciando il pensier del secondo e terzo da canto, e dando sul campo del primo, platonico pari- mente e teologale, voglio che conosciate che non manca testimonio dalle divine ed umane lettere, dettate da sacri e profani dottori, che parlano con l'ombra de scienze e III. -- Dissertazioni sopra l'asinità 157 lume della fede. Saprà, dico, ch'io non mentisco colui ch'è anco mediocremente perito in queste dottrine, quan- do avien ch'io dica l'asino ideale esser principio prodot- tivo, formativo e perfettivo sopranaturalmente della specie asinina; la quale, quantunque nel capacissimo seno della natura si vede ed è dall'altre specie distinta, e nelle menti seconde è messa in numero, e con diverso concetto ap- presa, e non quel medesimo, con cui l'altre forme s'ap- prendeno; nulla di meno (quel ch'importa tutto) nella prima mente è medesima che la idea de la specie umana, medesima, che la specie de la terra, della luna, del sole, medesima che la specie dell'intelligenze, degli demoni, degli dei, degli mondi, de l'universo; anzi è quella specie, da cui non solamente gli asini, ma e gli uomini, e le stelle e gli mondi, e gli mondani animali tutti han dependenza: quella dico, nella quale non è differenza di forma e sug- getto, di cosa e cosa; ma è semplicissima ed una. Vedete, vedete, dunque, d'onde derive la caggione, che, senza biasimo alcuno il santo de' santi, or è nominato, non solamente leone, monocorno, rinoceronte, vento, tempesta, aquila, pellicano, ma e non uomo, opprobrio degli uomini, abiezion di plebe, pecora, agnello, verme, similitudine di colpa, sin ad esser detto peccato e peggio. Considerate il principio della causa, per cui gli cristiani e giudei non s'adirano, ma più tosto con glorioso trionfo si congratu- lano insieme, quando con le metaforiche allusioni nella Santa Scrittura son figurati per titoli e definizioni asini, son appellati asini, son definiti per asini: di sorte che, dovunque si tratta di quel benedetto animale, per moralità di lettera, allegoria di senso, ed anagogia di proposito, s'intende l'uomo giusto, l'uomo santo, l'uomo de Dio. Pregate, pregate Dio, o carissimi, se non siete ancora asini, che vi faccia dovenir asini. Vogliate solamente; perchè certo certo, facilissimamente vi sarà conceduta la grazia: perchè, benché naturalmente siate asini, e la di- sciplina commune non sia altro che una asinitade, dovete avertire e considerar molto bene se siate asini secondo Dio; 158 Parte terza dico, se siate quei sfortunati, che nmagnono legati avanti la porta, o pur quegli altri felici, li quali entran dentro. Ricordatevi, o fìdeli, che gli nostri primi parenti a quel tempo piacquero a Dio, ed erano in sua grazia, in sua sal- vaguardia, contenti nel terrestre paradiso nel quale erano asini, cioè semplici ed ignoranti del bene e male; quando posseano esser titillati dal desiderio di sapere bene e male; e per consequenza non ne posseano aver notizia alcuna; quando possean credere una buggia, che gli venesse detta dal serpente; quando se gli possea donar ad intender sin a questo: che, benché Dio avesse detto che morrebono, né potesse essere il contrario, in cotal disposizione erano grati, erano accetti, fuor d'ogni dolor, cura e molestia. Sovvegnavi ancora ch'amò Dio il popolo ebreo, quando era afflitto, servo, vile, oppresso, ignorante, onerario, portator de' còfìni, somarro, che non gli possea mancar altro, che la coda ad esser asino naturale sotto il dominio de l'Egitto: allora fu detto da Dio suo popolo, sua gente, sua scelta generazione. Perverso, scelerato, reprobo, adul- tero, fu detto quando fu sotto le discipline, le dignitadi, le grandezze e similitudine degli altri popoli e regni ono- rati secondo il mondo. Non è chi non loda l'età de l'oro, quando gli uomini erano asini, non sapean lavorar la terra, non sapean l'un dominar a l'altro, intender più de l'altro, avean per tetto gli antri e le caverne, si donavano a dosso come fan le bestie, non eran tante coperte e gelosie e con- dimenti de libidine e gola; ogni cosa era commune, il pasto eran le poma, le castagne, le ghiande in quella forma che son prodotte dalla madre natura. Non é chi non sap- pia qualmente non solamente nella specie umana, ma e in tutti gli geni d'animali la madre ama più, accarezza più mantien contento più e ocioso, senza sollecitudine e fa- tica, abbraccia, bacia, stringe, custodisce il figlio minore, come quello che non sa male e bene, ha dell'agnello, ha de la bestia; é un asino, non sa cossi parlare, non può tanto discorrere; e come gli va crescendo il senno e la prudenza, sempre a mano a mano se gli va scemando III. - Dissertazioni sopra l'asinità 1 59 ramore, la cura, la pia affezione, che gli vien portata dagli suoi parenti. Non è nemico, che non compatisca, abblan- disca, favorisca a quella età, a quella persona, che non ha del virile, non ha del demonio, non ha de l'uomo, non ha del maschio, non ha de l'accorto, non ha del barbuto, non ha del sodo, non ha del maturo. Però, quando si vuol mover Dio a pietà e comiserazione il suo Signore, disse quel profeta: Ah, ah ah. Domine, quia nescio loqui; dove, col ragghiare e sentenza, mostra esser asino. E in un altro luogo dice: Quia puer sum. Però, quando si brama la remission della colpa, molte volte si presenta la causa nelli divini libri, con dire: Quia stulte egimus, stulte ege- runt, quia nesciunt quidfaciant, ignoramus, non intellexerunt . Quando si vuol impetrar da lui maggior favore, ed acquistar tra gli uomini maggior fede, grazia ed autorità si dice in un loco, che li apostoli eran stimati imbreachi; in un altro loco, che non sapean quel che dicevano; perchè non erano essi che parlavano: ed un de' più eccellenti , per mostrar quanto avesse del semplice, disse, che era stato rapito al terzo cielo, uditi arcani ineffabili, e che non sapea s'era morto o vivo, s'era in corpo o fuor di quello. Un altro disse, che vedeva gli cieli aperti, e tanti e tanti altri propositi, che tegnono gli diletti de Dio, alli quali è revelato quello che è occolto a la sapienza umana , ed è asinità esquisita agli occhi del discorso razionale: perchè queste pazzie, asinitadi e bestialitadi son sapienze, atti eroici e intelligenze appresso il nostro Dio; il qual chiama li suoi pulcini, il suo gregge, le sue pecore, li suoi parvuli, li suoi stolti, il suo pulledro, la sua asina que' tali, che li credeno, l'amano, il sieguono. Non è, non è, dico, meglior specchio messo avanti gli occhi umani che l'asinitade e asino; il qual più esplicatamente secondo tutti gli numeri dimostre qual essere debba colui, che faticandosi nella vigna del Signore, deve aspettar la retribuzion dei danaio diurno, il gusto della beatifica cena, il riposo che siegue il corso di questa transitoria vita. Non è conformità megliore, o simile, che ne amene, guide e conduca 160 Parte terza alla salute eterna più attamente, che far possa questa vera sapienza approvata dalla divina voce: come, per il contrario, non è cosa, che ne faccia più efficaceme- mente impiombar al centro ed al baratro tartareo, che le filosofiche e razionali contemplazioni, quali nascono dagli sensi, crescono nella facultà discorsiva e si maturano nel- l'intelletto umano. Forzatevi, forzatevi dunque ad esser asini, o voi, che siete uomini. E voi, che siete già asini, studiate, procurate, adattatevi a proceder sempre da bene m meglio, a fin che perveniate a quel termine, a quella dignità, la quale, non per scienze e opre, quantunque grandi, ma per fede s'acquista; non per ignoranza e misfatti, quantunque enormi ma per la incredulità (come dicono, secondo l'Apostolo) si perde. Se cossi vi dispor- rete, se tali sarete e talmente vi governarete, vi trovarete scritti nel libro de la vita, impetrarete la grazia in questa militante, ed otterrete la gloria in quella trionfante eccle- sia, nella quale vive e regna Dio per tutti secoli de' secoli. Cossi sia ! * (]) Sebasto. è il peggio, che diranno che metti avanti metaffore, narri favole, raggioni in parabola, intessi enigmi, accozzi similitudini, tratti misterii, mastichi tropologie. SauliNO. Ma io dico la cosa a punto come la passa; e come la è propriamente, la metto avanti gli occhi. CoRlBANTE. Id est, sine fuco, plane,candi de; ma vorrei che fusse cossi, come dite, da dovero. Saul. Cossi piacesse alli dei, che fessi tu altro che fuco con questa tua gestuazione, toga, barba e supercilio: come, anco quanto a l'ingegno, candide, piane et sine fuco, mostri agli occhi nostri la idea della pedantaria. Cor. Hactenus haec? Tanto che Sofia loco per loco, sedia per sedia vi condusse? Saul. Sì. (I) Cabala del Cavallo Pegaseo. EMalogo primo — Sono interlocutori Se- BASTO, Sauuno, Coribante. III.- Dissertazioni sopra l'asinità 161 Seb. Occórrevi de dir altro circa la previsione di que- ste sedie? Saul. Non per ora, se voi non siete pronto a donarmi occasione di chiarirvi de più punti circa esse col diman- darmi e destarmi la memoria, la quale non può avermi suggerito la terza parte de' notabili propositi degni di considerazione. Seb. Io, a dir il vero, rimagno sì suspeso dal desio de saper qual cosa sia quella ch'il gran padre degli dei ha fatto succedere in quelle due sedie, l'una Boreale e l'altra Australe, che m'ha parso il tempo de mill'anni per veder il fine del vostro filo, quantunque curioso, utile e degno: perchè quel proposito tanto più mi vien a spronar il desio d'esserne fatto capace, quanto voi più l'avete differito a far o udire. Cor. Spes efenim dilata affligit animum, vel animam, ut melius dicam; haec enim mage significat naturam passibilem. Saul. Bene. Dunque, perchè non più vi tormentiate su l'aspettar della risoluzione sappiate che nella sedia pros- sima immediata e gionta al luogo, dove ere l'Orsa minore, e nel quale sapete essere exaitata la Veritade, essendone t olta via l'Orsa maggiore nella forma ch'avete inteso, per previdenza del prefato consiglio vi ha succeduto l'Asi- nità in abstratto: e là, dove ancora vedete in fantasia il fiume Eridano, piace agli medesimi che vi si trove l'Asi- nità in concreto, a fine che da tutte tre le celesti reggioni possiamo contemplare l'Asinità, la quale in due facelle era come occolta nella vie de' pianeti, dov'è la coccia del Cancro. Cor. Procul, o procal, este, profanil Questo è un sacri- legio, un profanismo, di voler fingere (poscia che non è possibile che cossi sie in fatto) vicino a l'onorata ed emi- nente sedia de la Verità essere l'idea di sì immonda e vi- t uperosa specie, la quale è stata dagli sapienti Egizii negli lor geroglifici presa per tipo de l'ignoranza. Saul. Alla contemplazione de la verità altri si promuo- veno per via di dottrina e cognizione razionale, per forza 162 Parte terza de rintelletto agente, che s'intrude nell'animo, exci- tandovi il lume interiore. E questi son rari; onde dice il poeta: Fauci, quos ardens evexit ad aethera virtus. Altri per via d'ignoranza vi si voltano e forzansi di per- venirvi. E di questi alcuni sono affetti di quella, che è detta ignoranza di semplice negazione: e costoro né sanno, né presumeno di sapere; altri di quella, che é detta igno- ranza di prava disposizione; e tali, quanto men sanno e sono imbibiti de false informazioni, tanto più pensano di sapere: quali, per informarsi del vero, richiedeno doppia fatica, cioè de dismettere l'uno abito contrario, e di ap- prender l'altro. Altri di quella, ch'è celebrata come divina acquisizione; e in questa son color, che, né dicendo, né pensando di sapere, ed oltre essendo creduti da altri igno- rantissimi, son veramente dotti, per ridursi a quella glorio- sissima asinitade e pazzia. E di questi alcuni sono naturali, come quei che caminano con il lume suo razionale, con CUI negano col lume del senso e della raggione ogni lume di raggione e senso; alcuni altri caminano, o per dir meglio, si fanno guidare con la lanterna della fede, cattivando l'in- telletto a colui, che gli monta sopra, ed a sua bella posta l'addirizza e guida. E questi veramente son quelli, che non possono essi errare, perchè non caminano col proprio fal- lace intendimento, ma con infallibil lume di superna in- telligenza. Questi, questi son veramente atti e predestinati per arrivare alla Jerusalem della beatitudine e vision aperta della verità divina: perchè gli sopramonta quello, senza il qual sopramontante non è chi condurvesi vaglia. Seb. Or ecco come si distingueno le specie dell'igno- ranza e asinitade, e come vegno a mano a mano a conde- scendere per concedere l'asinitade essere una virtù necessa- ria e divina, senza la quale sarrebe perso il mondo, e per la quale il mondo tutto è salvo. Saul. Odi a questo proposito un principio per un'altra più particular distinzione. Quello ch'unisce l'intelletto nostro, il qual é nella sofia, alla verità, la quale è l'oggetto III. - Dissertazioni sopra l'asinità 163 intelligibile, è una specie d'ignoranza, secondo gli caba- listi e certi mistici teologi; un'altra specie, secondo gli pirroniani, efettici ed altri simili; un'altra, secondo teo- logi cristiani; tra' quali il Tarsense la viene tanto più a magnificare, quanto a giudizio di tutt'il mondo è passata per maggior pazzia. Per la prima specie sempre si niega; onde vien detta ignoranza negativa, che mai ardisce affir- mare. Per la seconda specie sempre si dubita, e mai ardisce determinare o definire. Per la terza specie gli principii tutti s'hanno per conosciuti, approvati e con certo argu- mento manifesti, senza ogni demostrazione e apparenza. La prima è denotata per l'asino pullo, fugace ed erra- bondo; la seconda per un'asina, che sta fitta tra due vie, dal mezzo di quali mai si parte, non possendosi risolvere per quale delle due più tosto debba muovere i passi; la terza per l'asina con il suo pulledro, che portano su la schena il redentor del mondo: dove Tasina, secondo che gli sacri dottori insegnano, è tipo del popolo giudaico, e il pullo del popolo gentile, che, come figlia ecclesia, è parturito dalla madre sinagoga; appartenendo cossi questi come quelli alla medesima generazione, procedente dal padre de' credenti Abraamo. Queste tre specie d'igno- ranza, come tre rami, si riducono ad un stipe, nel quale da l'archetipo influisce l'asinità, e che è fermo e piantato su le radici delli dieci sephiroth. Cor. 0 bel senso! Queste non sono retoriche persua- sioni, ne elenchici sofismi, né topiche probabilltadi, ma apodictiche demostrazioni; per le quali l'asino non è sì vile animale, come comunmente si crede, ma di tanto più eroica e divina condizione. Seb. Non è d'uopo ch'oltre t'affatichi, o Saulino, per venir a conchiudere quel tanto, che io dimandavo che da te mi fusse definito: sì perchè avete sodisfatto a Coribante, sì anco perchè da li posti mezzi termini ad ogni buono intenditore può esser facilmente sodisfatto. Ma, di grazia, fatemi ora intendere le raggioni della sapienza, che consi- ste nell'ignoranza ed asinitade iuxta il secondo modo: cioè, con qual raggione siano partecipi dell'asinità gli pirro- 164 Parte terza nianì, efettici et altri academici filosofi; perchè non dubito della prima e terza specie, che medesime sono altissime e remotissime da' sensi, e chiarissime, di sorte che non è occhio, che non le possa conoscere. Saul. Presto verrò al proposito della vostra dimanda: ma voglio che prima notiate il primo e terzo modo di stoltizia e asinitade concorrere in certa maniera in uno ; e però medesimamente pendeno da principio incompren- sibile ed ineffabile, a constituir quella cognizione, ch'è di- sciplina delle discipline, dottrina delle dottrine e arte de le arti. Della quale voglio dirvi, in che maniera con poco o nullo studio e senza fatica alcuna ognun, che vuole e volse, ne ha possuto e può esser capace. Veddero e considerorn o que' santi dottori e rabini illuminati, che gli superbi e pre- sumptuosi sapienti del mondo, quali ebbero fiducia nel proprio ingegno, e con temeraria e gonfia presunzione hanno avuto ardire d'alzarsi alla scienza de' secreti divini e que' penetrali della deitade, non altrimente che coloro , ch'edificaro la torre di Babelle, son stati confusi e messi in dispersione, avendosi essi medesimi serrato il passo, onde meno f ussero abili alla sapienza divina e visione della veritade eterna. Che fero? Qual partito presero? Fermaro i passi, piegar© o dismesero le braccia, chiusero gli occhi, bandirò ogni propria attenzione e studio, riprovar© qual- sivoglia uman pensiero, rmiegaro ogni sentimento natu- rale; e, in fine, si tennero asini. E quei, che non erano, si trasformar© in questo animale: alzar©, disteser©, acumi- nar©, ingr©ssar© e magnific©rno l'orecchie; e tutte le po- tenze de l'anima rip©rt©rno e unir© nell'udire, c©n asc©l- tare s©lamente e credere: c©me quell©, di cui si dice: In auditu auris obedivit mihi. Là, c©ncentrand©si e cattivan- d©si la vegetativa, sensitiva e intellettiva facultade, hann© inceppate le cinque dita in un'unghia, perchè non potes- sero, come l'Adamo, stender le mani ad apprendere il frutto vietato dall'arbore della scienza, per cui venessero ad essere privi de' frutti de rarb©re della vita, © c©me Pr©mete© (che è metaf©ra di medesim© pr©p©sit©) sten- der le mani a suffurar il fu©co di Gi©ve, per accendere III. - Dissertazioni sopra l'asinità 165 il lume della potenza razionale. Cossi li nostri divi asini, privi del proprio sentimento ed affetto, vegnono ad in- tendere non altrimente che come gli vien soffiato a l'o- recchie dalle revelazioni o degli dei o de' vicarii loro; e per consequenza a governarsi non secondo altra legge che di que' medesimi. Quindi non si volgono a destra o a sinistra, se non secondo la lezione e raggione, che gli dona il capestro o freno, che le tien per la gola, o per la bocca, non caminano, se non come son toccati. Hanno ingrossate le labbra, insolidate le mascelle, incontennuti gli denti, a fin che, per duro, spinoso, aspro e forte a digerir che sia il pasto, che gli vien posto avante, non manche d'essere accomodato al suo palato. Indi si pa- scono de' più grossi e materialacci appositorii, che altra qualsivoglia bestia, che si pasca sul dorso de la terra; e tutto ciò per venire a quella vilissima bassezza, per cui fìano capaci de più magnifica exaltazione, iuxta quello: Omnis qui se humiliat exaltabitur. Seb. Ma vorrei intendere, come questa bestiaccia potrà distinguere che colui, che gli monta sopra, è Dio o dia- volo, è un uomo o un'altra bestia non molto maggiore o minore, se la più certa cosa, ch'egli deve avere, è che lui è un asino e vuole essere asino, e non può far me- glior vita ed aver costumi migliori che di asino, e non deve aspettar meglior fine che di asino, ne è possibile, congruo e condigno ch'abbia altra gloria che d'asino? Saul. Fidele colui, che non permette che siano tentati sopra quel che possono: lui conosce li suoi, lui tiene e mantiene gli suoi per suoi, e non gli possono esser tolti. 0 santa ignoranza, o divina pazzia, o sopraumana asinità! Quel rapto, profondo e contemplativo Areopagita, scri- vendo a Caio, afferma che la ignoranza è una perfettis- sima scienza; come per l'equivalente volesse dire, che l'asinità è una divinità. Il dotto Agostino, molto ine- briato di questo divino nettare, nelli suoi S o 1 i 1 o q u i i testifica, che la ignoranza più tosto che la scienza ne conduce a Dio, e la scienza più tosto che 1 ignoranza ne mette in perdizione. In figura di ciò vuole ch'il reden- 166 Parte terza tor del mondo con le gambe e piedi degli asini fusse entrato in Gerusalemme, significando anagogicamente in questa militante quello che si verifica nella trionfante cit- tade; come dice il profeta salmeggiante: Non in fortitu- dine equi voluntatem habebit, neque in tibiis viri benepla- citum erit ei. Cor. Supple tu: Sed in fortitudine et tibiis asinae et pulii fila coniugalis. Saul. Or, per venire a mostrarvi come non è altro che l'asinità quello con cui possiamo tendere ad avvicinarci a quell'alta specola, voglio che comprendiate e sappiate non esser possibile al mondo meglior contemplazione che quella che niega ogni scienza ed ogni apprension e giu- dicio di vero; di maniera che la somma cognizione è certa stima, che non si può saper nulla e non si sa nulla, e per consequenza di conoscersi di non posser esser altro che asino e non esser altro che asino; allo qual scopo giunsero gli socratici, platonici, efettici, pirroniani ed altri simili, che non ebbero le orecchie tanto piccole, e le labbra tanto delicate, e la coda tanto corta, che non le potessero lor medesimi vedere. S e b. Priegoti, Saulino, non procedere oggi ad altro per confirmazion e dechiarazion di questo: perchè assai per il presente abbiamo inteso; oltre che vedi esser tempo di cena, e la materia richiede più lungo discorso. Per tanto piacciavi (se così pare anco al Coribante) di rive- derci domani per la elucidazione di questo proposito; ed io menarò meco Onorio, il quale si ricorda d'esser stato asino, e però è a tutta divozione pitagorico; oltre che ha de' grandi proprii discorsi, con gli quali forse ne potrà far capaci di qualche proposito IV. METAMFISICOSI one? Onor. Quella de l'uomo è medesima in essenza spe- cifica e generica con quella de le mosche, ostreche ma- rine e piante, e di qualsivoglia cosa, che si trove animata, o abbia anima: come non è corpo, che non abbia o più o meno vivace e perfettamente communicazion di spirito in se stesso. Or cotal spinto, secondo il fato o provi- denza, ordine o fortuna, viene a giongersi or ad una spe- cie di corpo, or ad un'altra; e, secondo la raggione della diversità di complessioni e membri, viene ad avere di- versi gradi e perfezioni d'ingegno e operazioni. Là onde quel spinto o anima, che era nell'aragna, e vi avea quel- l'industria e quelli artigli e membra in tal numero, quan- tità e forma; medesimo, gionto alla prolificazione umana, acquista altra intelligenza, altri instrumenti, attitudini e atti. Giongo a questo che, se fusse possibile, o in fatto si trovasse, che d'un serpente il capo si formasse e stor- nasse in figura d'una testa umana, e il busto crescesse in tanta quantità, quanta può contenersi nel periodo di cotal specie, se gli allargasse la lingua, ampiassero le spalli, se gli ramificassero le braccia e mani, e al luogo, dove è terminata coda, andassero ad ingeminarsi le gambe; intenderebbe, apparirebbe, spirarebbe, parlarebbe, opra- rebbe e cammerebbe non altrimente che l'uomo; perchè non sarebbe altro che uomo. Come, per il contrario, l'uomo non sarebbe altro che serpente, se venisse a con- traere, come dentro un ceppo, le braccia e gambe, e Tossa tutte concorressero alla formazion d'una spina, si incolubrasse e prendesse tutte quelle figure de' membri e abiti de complessioni. Allora avrebbe più o men vivace 170 Parte terza Ingegno; In luogo di parlar, sibilarebbe; in luogo di ca- minare, serperebbe; in luogo d'edificarsi palaggio, si ca- varebbe un pertuggio; e non gli converrebe la stanza, ma la buca; e come già era sotto quelle, ora è sotto queste membra, mstrumenti, potenze e atti; come dal medesimo artefice, diversamente inebriato dalla contrazion di ma- teria, e da diversi organi armato, appaiono exercizii de diverso mgegno, e pendeno execuzioni diverse. Quindi possete capire esser possibile, che molti animali possono aver più ingegno e molto maggior lume d'intelletto che l'uomo (come non è burla quel che proferì Mosè del serpe, che nominò sapientissimo tra tutte l'altre bestie de la terra). V. ARISTOTELE-ASINO E I SUOI SEGUACI Onorio. Or essendo io, come ho già detto, nella region celeste in titolo di cavallo Pegaseo, mi è avvenuto per ordine del fato, che per la conversione alle cose inferiori (causa di certo affetto, ch'io indi venevo ad acquistare, la qual molto bene vien descritta dal platonico Plotino) come inebriato di nettare, venia bandito ad esser or un filosofo, or un poeta, or un pedante, lasciando la mia imagine in cielo; alla cui sedia a tempi delle trasmigra- zioni ritornavo, riportandovi la memoria delle specie, le quali nell'abitazion corporale avevo acquistate; e quelle medesime, come in una biblioteca, lasciavo là, quando accadeva ch'io dovesse ritornar a qualch'altra terrestre a- bitazione. Delle quali specie memorabili le ultime son quelle, ch'ho cominciate a imbibire a tempo della vita de Filippo macedone, dopo che fui ingenerato dal seme de Nicomaco, come si crede. Qua, appresso esser stato discepolo d'Aristarco, Platone ed altri, fui promosso col favor di mio padre, ch'era consegliero di Filippo, ad esser pedante d'Alexandro Magno; sotto il quale, benché erudito molto bene nelle umanistiche scienze, nelle quali ero più illustre che tutti li miei predecessori, entrai m presunzione d'esser filosofo naturale, come è ordinario nelli pedanti d'esser sempre temerarii e presuntuosi; e con (1) Cabala, Dialogo secondo 172 Parte terza ciò, per esser estinta la cognizione della filosofìa, morto Socrate, bandito Platone, e altri in altre maniere dispersi, rimasi io solo lusco intra gli ciechi; e facilmente possevi aver riputazion non sol di retorico, politico, logico, ma ancora de filosofo. Cossi, malamente e scioccamente ri- portando le opinioni degli antiqui, e de maniera tal scon- cia, che né manco gli fanciulli e le insensate vecchie par- larebono e intenderebono come io introduco quelli ga- lantuomini intendere e parlare, mi venni ad intrudere come riformator di quella disciplina, della quale io non avevo notizia alcuna. Mi dissi principe de' peripatetici; insegnai in Atene nel sottoportico Liceo; dove, secondo il lume, e per dir il vero, secondo le tenebre, che regna' vano in me, intesi e insegnai perversamente circa la na- tura de li principii e sustanza delle cose, delirai più che ristessa delirazione circa l'essenza de l'anima, nulla pos- sevi comprendere per dritto circa la natura del moto e de l'universo; e, in conclusione, son fatto quello, per cui la scienza naturale e divina è stinta nel bassissimo della ruota, come in tempo degli Caldei e Pitagorici è stata in exaltazione. Seb. Ma pur ti veggiamo esser stato tanto tempo in admirazion del mondo; e tra l'altre maraviglie è trovato un certo Arabo, ch'ha detto la natura nella tua produ- zione aver fatto l'ultimo sforzo, per manifestar quanto più terso, puro, alto e verace ingegno potesse stampare; e generalmente sei detto demonio della natura. Onor. Non sarebbono gli ignoranti se non fusse la fede; e se non la fusse, non sarebbono le vicissitudini delle scienze e virtudi, bestialitadi ed inerzie, e altre suc- cedenze de contrarie impressioni, come son de la notte e il giorno, del fervor de l'estate e rigor de l'inverno. Seb. Or, per venire a quel ch'appartiene alla notizia de l'anima (mettendo per ora gli altri propositi da canto) ho letti e considerati que' tuoi tre libri, nelli quali parli più balbamente, che possi mai da altro balbo essere inteso; come ben ti puoi accorgere di tanti diversi pareri ed estra- vaganti intenzioni e questionarii, massime circa il dislac- V. — Aristotele - asino e i suoi seguaci 173 dar e disimbrogliar quel che ti vogli dire in que* confusi e leggieri propositi, gli quali, se pur ascondono qualche cosa, non può esser altro che pedantesca o peripatetica levitade. Onor. Non è maraviglia, fratello; atteso che non può in conto alcuno essere, che essi loro possano apprendere il mio intelletto circa quelle cose, nelle quali io non ebbi intelletto; o che vagliano trovar construtto o argumento circa quel ch'io vi voglia dire, se io medesimo non sa- pevo quel che mi volesse dire. Qual differenza credete voi essere tra costoro e quei, che cercano le corna del gatto, e gambe de l'anguilla? Nulla, certo. Della qual cosa precavendo ch'altri non s'accorgesse, ed io con ciò venesse ad perdere la riputazion di protosofosso, volsi far de maniera, che chiunque mi studiasse nella naturai fi- losofia (nella qual fui e mi sentivi a fatto ignorantissimo), per inconveniente o confusion che vi scorgesse, se non avea qualche lume d'ingegno, dovesse pensare e credere ciò non essere la mia intenzion profonda, ma più tosto quel tanto, che lui, secondo la sua capacità, posseva dagli miei sensi superficialmente comprendere. Laonde feci, che venesse publicata quella Lettera ad Alexan- d r o, dove protestavo gli libri fisicali esser messi in luce, come non messi in luce. Seb. e per tanto voi mi parete aver isgravata la vostra conscienza; ed hanno torto questi tanti asinoni a disporsi di lamentarsi di voi nel giorno del giudicio, come di quel che l'hai ingannati e sedutti, e con sofistici apparati di- vertiti dal camino di qualche veritade, che per altri prin- cipii e metodi arrebono possuta racquistarsi. Tu l'hai pure insegnato quel tanto ch'a diritto doveano pensare: che se tu hai publicato, come non publicato, essi, dopo averti letto, denno pensare di non averti letto, come tu avevi cossi scritto, come non avessi scritto: talmente quei cotali, ch'insegnano la tua dottrina, non altrimente denno essere ascoltati, che un che parla, come non parlasse. E finalmente né a voi deve più essere atteso, che come ad un che raggiona e getta sentenza di quel che mai intese. 174 Parte terza Onor. ...Slamo dovenutl a tale, ch'ogni satiro, fauno, malenconico, embreaco e Infetto d'atra bile. In contar sogni e dir de pappolate senza construzione e senso alcuno, ne vogliono render suspetti de profezia grande, de recondito misterio, de alti secreti e arcani divini, da risuscitar morti, da pietre filosofali, ed altre poltronarie da donar volta a quei ch'han poco cervello, a farli dovenir al tutto pazzi con giocarsi il tempo, l'intelletto, la fama e la robba, e spendere sì misera e ignobilmente il corso di sua vita. Seb. La intese bene un certo mio amico; il quale, a- vendo non so se un certo libro de profeta enigmatico, o d'altro, dopo avervisi su lambiccato alquanto dell'umor del capo con una grazia e bella leggiadria andò e gittarlo nel cesso, dicendogli: — Fratello, tu non vuoi esser in- teso; IO non ti voglio intendere; — e soggiunse, ch'an- dasse con cento diavoli, e lo lasciasse star con fatti suoi in pace. Onor. E quel ch'è degno di compassione e riso è, che su questi editi libelli e trattati pecoreschi vedi dovenir attonito Silvio, Ortensio melanconico, smagrito Serafino, impallidito Cammaroto, invecchiato Ambruogio, impaz- zito Giorgio, abstratto Reginaldo, gonfio Bonifacio; ed il molto reverendo Don Cocchiarone pien d' in finita e nobil maraviglia, sen va per il largo della sua sala, dove, rimosso dal rude ed ignobil volgo, se la spas- seggia; e rimanendo or quinci, or quindi de la litteraria sua toga le fimbrie, rimanendo or questo, or quell'altro piede, rigettando or vers'il destro, or vers'il sinistro fi.anco il petto, con il texto commento sotto l'ascella, e con gesto di voler buttar quel pulce, ch'ha tra le due prime dita, in terra, con la rugata fronte cogitabondo, con erte ciglia ed occhi arrotondati, in gesto d'un uomo fortamente ma- ravigliato, conchiudendola con un grave ed enfatico su- splro, farà pervenir a l'orecchio de' clrconstanti questa sentenza: Huc usque ahi philosophi non pervenerunt. Se si trova in proposito di lezion di qualche libro composto da qualche energumeno o inspirato, dove non è espresso e donde non si può premere più sentimento, che possa V. - Aristotele - asino e i suoi seguaci 175 ritrovarsi in un spirito cavallino; allora, per mostrar di aver dato sul chiodo, exclamarà: — 0 magnum mysteriuml Seb. Ma vorrei saper da Saulino (che magnifica tanto l'asmitade, quanto non può esser magnificata la scienza e speculazione, dottrina e disciplina alcuna) se l'asinitade può aver luogo in altri che negli asini; come è dire, se alcuno da quel che non era asino, possa doventar asino per dottrina e disciplina. Perchè bisogna che di questi quel che insegna, o quel che è insegnato, o cossi l'uno come l'altro, o né l'uno né l'altro, siano asini. Dico, se sarà asino quello solo che insegna, o quel solo ch'è inse- gnato, o né quello né questo, o questo e quello insieme. Perchè qua col medesimo ordine si può vedere, che in nessun modo si possa inasinire. Dunque, dell'asinitade non può essere apprension alcuna, come non è de arti e de scienze. Onor. Di questo ne raggionaremo a tavola dopo cena. Andiamo, dunque, ch'è ora. Cor. Propere eamus. VI. L'ASINO ACCADEMICO <» L'Asino. Or perchè derrò lo abusar de l'alto, raro e pelegrino tuo dono, o folgorante Giove? Perchè tanto talento, porgiutoml da te, che con sì partlcular occhio me miraste {indicante fato), sotto la nera e tenebrosa terra d'un ingratissimo silenzio terrò sepolto? Suffnrò più a lungo l'esser sollecitato a dire, per non far uscir da la mia bocca quell'estraordinario ribombo, che la largita tua, in questo confusissimo secolo, nell'interno mio spi- rito (perchè si producesse fuora) ha seminato? Aprisi, aprisi, dunque, con la chiave de l'occasione l'asinin pa- lato, sciolgasi per l'industria del supposito la lingua, rac- colgansi per mano de l'attenzione, drizzata dal braccio de l'intenzione, i frutti degli arbori e fiori de l'efbe, che sono nel giardino de l'asinina memoria. Micco. 0 portento insolito, o prodigio stupendo, o maraviglia incredibile, o miracoloso successo! Avertano gli dii qualche sciagura! Parla l'asino P l'asino parla? 0 Muse, o Apolline, o Ercule, da cotal testa esceno voci articulate? Taci, Micco, forse t'inganni; forse sotto questa pelle qualch'uomo stassi mascherato, per burlarsi di noi. Asino. Pensa pur. Micco, ch'io non sia sofìstico, ma che son naturalissimo asino, che parlo; e cossi mi ricordo aver avuti altre volte umani, come ora mi vedi aver be- stiali membri. Micco. Appresso, o demonio incarnato, dimandarotti chi, quale e come sei. Per ora, e per la prima, vorrei sa- (I) L'Asino cillenico. — Interlocutori sono l'AsiNO. Micco PITAGORICO, Mercurio. VI. - L'asino accademico 177 per, che cosa dimandi da qua? che augurio ne ameni? qual ordine porti dagli Dei? a che si terminarà questa scena? a qual fine hai messi gli piedi a partitamente mo- strarti vocale in questo nostro sottoportico? Asino. Per la prima voglio che sappi, ch'io cerco di esser membro e dichiararmi dottore di qualche colleggio o academia, perchè la mia sufficienza sia autenticata, a fin che non siano attesi gli miei concetti, e ponderate le mie parole, e riputata la mia dottrina con minor fede, che — Micco. 0 Giove! è possibile, che ab aeterno abbi gìamai registrato un fatto, un successo, un caso simile a questo? Asino. Lascia le maraviglie per ora; e rispondetemi presto, o tu, o uno de questi altri, che attoniti concor- reno ad ascoltarmi. 0 togati, annulati, pileati, didascali, archididascali e de la sapienza eroi e semidei: volete, piacevi, ewi a core d'accettar nel vostro consorzio, so- cietà, contubernio, e sotto la banda e vessillo della vostra communione questo asino, che vedete e udite? Perchè di voi, altri ridendo si maravigliano, altri maravigliando si ridono, altri attoniti (che son la maggior parte) si mor- deno le labbia, e nessun risponde? Micco. Vedi che per stupore non parlano, e tutti con esser volti a me mi fan segno, ch'io ti risponda; al qual, come presidente, ancora tocca di donarti risoluzione, e da cui, come da tutti, devi aspettar l'ispedizione. Asino. Che academia è questa, che tien scritto sopra la porta: Lineam ne pertransito? Micco. La è una scuola de Pitagorici. Asino. Potravisi entrare? Micco. Per academico non senza difficili e molte con- dizioni. Asino. Or quali son queste condizioni? Micco. Son pur assai. Asino. Quali, dimandai, non quante. Micco. Ti risponderò al meglio, riportando le prin- cipali. Prima, che, offrendosi alcuno per essere ricevuto. 178 Parte terza avante che sia accettato, debba esser squadrato nella dl- sposlzlon del corpo, fisionomia ed ingegno, per la gran consequenza relativa, che conoscemo aver il corpo da l'anima e con l'anima. Asino. Ab love principium, Musae, s'egli si vuol ma- ritare. Micco. Secondo, ricevuto ch'egli è, se gli dona ter- mine di tempo (che non è men che di doi anni) nel quale deve tacere, e non gli è lecito d'ardire in punto alcuno de dimandar, anco di cose non intese, non sol che di di- sputare e exarninar propositi, e in quel tempo si chiama acustico. Terzo, passato questo tempo, gli è lecito di parlare, dimandare, scrivere le cose udite, ed esplicar le proprie opinioni; e in questo mentre si appella ma- tematico, o caldeo. Quarto, informato di cose si- mili, e ornato di que' studii, si volta alla considerazion de l'opre del mondo e principii della natura: e qua ferma il passo, chiamandosi fisico. Asino. Non procede oltre? Micco. Più che fisico non può essere: perchè delle cosa sopranaturali non si possono aver raggioni, eccetto in quanto riluceno nelle cose naturali; perciochè non ac- cade ad altro intelletto, che al purgato e superiore' di con- siderarle in sé. Asino. Non si trova appo voi metafisica? Micco. No; e quello che gli altri vantano per metafi- sica, non è altro che parte di logica. Ma lasciamo questo, che non fa al proposito. Tali, in conclusione, son le con- dizioni e regole di nostra academia. Asino. Queste? Micco. Messer sì. Asino. 0 scola onorata, studio egregio, setta formosa, collegio venerando, gimnasio clarissimo, ludo invitto, e academia tra le principali principalissima! L asino er- rante, come sitibondo cervio, a voi, come a limpidissime e freschissime acqui; l'asino umile e supplicante, a voi, benignissimi ricettatori de' peregrini, s'appresenta, bra- moso d'essere nel consorzio vostro ascritto. VI. - L'asino accademico 179 Micco. Nel consorzio nostro? Asino. Sì, sì, signor sì, nel consorzio vostro. Micco. Va per quell'altra porta, messere, perchè da questa son banditi gli asini. Asino. Dimmi, fratello, per qual porta entrasti tu? Micco. Può far il cielo che gli asini parlino, ma non già che entrino in scola pitagorica. Asino. Non esser cossi fiero, o Micco, e ricordati, ch'il tuo Pitagora insegna di non spreggiar cosa, che si trova nel seno della natura. Benché io sono in forma d'asino al presente, posso esser stato e posso esser appresso in forma di grand'uomo; e benché tu sia un uomo, puoi esser stato e potrai esser appresso un grand'asino, secondo che parrà ispediente al dispensator degli abiti e luoghi e disponitor de l'anime transmigranti. Micco. Dimmi, fratello, hai intesi gli capitoli e con- dizioni dell'academia? Asino. Molto bene. Micco. Hai discorso sopra l'esser tuo, se per qualche tuo difetto ti possa essere impedita l'entrata? Asino. Assai a mio giudicio. Micco. Or fatevi intendere. Asino. La principal condizione, che m'ha fatto dubi- tare, é stata la prima. £ pur vero che non ho quella in- dole, quelle carni mollecine, quella pelle delicata, tersa e gentile, le quali tegnono li fìsionotomisti, attissime alla recepzion della dottrina; perchè la durezza di quelle ri- pugna a l'agilità de l'intelletto. Ma sopra tal condizione mi par che debba posser dispensar il principe; perchè non deve far rimaner fuori uno, quando molte altre par- zialitadi suppliscono a tal difetto, come la sincerità de* costumi, la prontezza de l'ingegno, l'efficacia de l'intel- ligenza, e altre condizioni compagne, sorelle e figlie di queste. Lascio, che non si deve aver per universale, che l'anime sieguano la complesslon del corpo; perchè può esser, che qualche più efficace spiritual principio possa vincere e superar l'oltraggio, che dalla crassezza o altra indisposizion di quello gli vegna fatto. Al qual proposito 180 Parte terza v'apporto l'esempio de Socrate, giudicato dal fisogno- mico Zopiro per uomo stemprato, stupido, bardo, effe- minato, namoraticcio de putti e incostante; il che tutto venne conceduto dal filosofo, ma non già, che l'atto de tali inclinazioni si consumasse: stante ch'egli venia tem- prato dal continuo studio della filosofia, che gli avea pòrto in mano il fermo temone contra l'empito de l'onde de naturali indisposizioni, essendo che non è cosa, che per lo studio non si vinca. Quanto poi all'altra parte principale fisiognomica, che consista non nella comples- sion di temperamenti, ma nell'armonica proporzion de membri, vi notifico non esser possibile de ritrovar in me defetto alcuno, quando sarà ben giudicato. Sapete ch'il porco non deve esser bel cavallo, né l'asino bell'uomo; ma l'asino bell'asino, il porco bel porco, l'uomo bell'uomo. Che se, straportando il giudicio, il cavallo non par bello al porco, né il porco par bello al cavallo; se a l'uomo non par bello l'asino, e l'uomo non s'innamora de l'asino, né per opposito a l'asino par bello l'uomo, e l'asmo non s'mnamora de l'uomo.... Micco. Sin al presente costui mostra di saper assai assai. Seguita, messer Asino, e fa pur gagliarde le tue raggioni quanto ti piace; perché iVe Fonde solchi e ne Farena semini, E */ vago vento speri in rete accogliere, E le speranze fondi in cuor di femine, se speri, che dagli signori academici di questa o altra setta ti possa o debbia esser concessa l'entrata. Ma, se sei dotto, contentati di rimanerti con la tua dottrina solo. Asino. 0 insensati, credete ch'io dica le mie raggioni a voi, a ciò che me le facciate valide? Credete eh io ab- bia fatto questo per altro fine, che per accusarvi, e ren- dervi inexcusabili avanti a Giove? Giove con avermi fatto dotto mi fé* dottore. Aspettavo ben io, che dal bel giu- dicio della vostra sufficienza venesse sputata questa sen- tenza: — Non é convenevole, che gli asini entrino in A- cademia insieme con noi altri uomini. — Questo, se stu- VI. — L'asino accademico 18| dioso di qualsivoglia altra setta lo può dire, non può essere raggionevolmente detto da voi altri pitagorici, che con questo, che negate a me l'entrata, struggete gli prin- cipii, fondamenti e corpo della vostra filosofia. Or che differenza trovate voi tra noi asini e voi altri uomini, non giudicando le cosa dalla superficie, volto ed appa- renza? Oltre di ciò dite, giudici inetti: quanti di voi er- rano ne l'academia degli asini? quanti imparano nell'a- cademia degli asini? quanti fanno profitto nell'academia degli asini? quanti s'addottorano, marciscono e muoiono nell'academia degli asini? quanti son preferiti, inalzati, magnificati, canonizati, glorificati e deificati nell'academia degli asini? che se non f ussero stati e non f ussero asini, non so, non so come la cosa sarrebbe passata e passa- rebbe per essi loro. Non son tanti studii onoratissimi e splendidissimi, dove si dona lezione di saper inasinire, per aver non solo il bene della vita temporale, ma e de l'eterna ancora? Dite, a quante e quali facultadi ed onori s'entra per la porta dell'asinitade? Dite, quanti son im- pediti, exclusi, rigettati e messi in vituperio, per non esser partecipi dell'asinina facultade e perfezione? Or perchè non sarà lecito, ch'alcuno degli asini, o pur almeno uno degli asini entri nell'academia degli uomini? Perchè non debbo esser accettato con aver la maggior parte delle voci e voti in favore in qualsivoglia academia, essendo che, se non tutti, almeno la maggior e massima parte è scritta e scolpita nell'academia tanto universale de noi altri? Or se siamo sì larghi ed effusi noi asini in ricever tutti, perchè dovete voi esser tanto restivi ad accettare un de noi altri al meno? Micco. Maggior difficultà si fa in cose piìi degne e importanti: e non si fa tanto caso, e non s'aprono tanto gli occhi in cose di poco momento. Però, senza ripu- gnanza e molto scrupolo di coscienza, si ricevon tutti ne l'academia degli asini, e non deve esser così nell'aca- demia degli uomini. Asino. Ma, o messere, sappime dire e resolvimi un poco, qua! cosa delle due è più degna, che un uomo ina- 182 Parte terza sinisca, o che un asino inumanisca? Ma, ecco in veri- tade il mio Cillenio: il conosco per il caduceo e l'ali. — Ben venga il vago aligero, nuncio di Giove, fido inter- prete della voluntà de tutti gli dei, largo donator de le scienze, addirizzator de l'arti, continuo oracolo de' ma- tematici, computista mirabile, elegante dicitore, bel volto, leggiadra apparenza, facondo aspetto, personaggio gra- zioso, uomo tra gli uomini, tra le donne donna, desgra- ziato tra' desgraziati, tra' beati beato, fra tutti tutto; che godi con chi gode, con chi piange piangi; però per tutto vai e stai, sei ben visto e accettato. Che cosa de buono apporti ? Merc. Perchè, Asino, fai conto di chiamarti ed essere academico, io, come quel, che t'ho donati altri doni e grazie, al presente ancora con plenaria autorità ti ordino, constituisco e confermo Academico e Dogmatico gene- rale, acciò che possi entrar e abitar per tutto, senza ch'al- cuno ti possa tener porta o dar qualsivoglia sorte d'ol- traggio o impedimento, quibuscumque in oppositwn non oh- stantibus. Entra, dunque, dove ti pare e piace. Né vo- gliamo, che sii ubligato per il capitolo del silenzio bien- nale, che SI trova nell'ordine pitagorico, e qualsivogli 'altre leggi ordinane: perchè, novis intervenientibus causis, novae condendae sunt leges, proque ipsis condita non intelliguntur iura: interimque ad optimi iudicium iudicis ref erenda est sententia, cuius intersit iuxta necessarium atqiie commodum providere. Parla, dunque, tra gli acustici; considera e con- templa tra' matematici; discuti, dimanda, insegna, de- chiara e determina tra' fisici; trovati con tutti, discorri con tutti, affratellati, unisciti, identificati con tutti, do- mina a tutti, sii tutto. Asino. Avetel'inteso? Micco. Non siamo sordi. VII. DALLE TENEBRE ALLA LUCE <•) Elitropio. Qual rei nelle tenebre avezzi, che, liberati dal fondo di qualche oscura torre, escono alla luce, molti degli esercitati nella volgar filosofia ed altri pa- ventaranno, adn aranno, e, non possendo soffrire il nuovo sole de' t; i chiari concetti, si turbaranno. FlLOTEO. Il dift ' o non è di luce, ma di lumi: quanto m sé sarà più b lo e piìj eccellente il solc: tanto sarà a ' de le notturne strige odioso e discaro di vantaggio. Eli. La impresa che hai tolta, o Filoteo, è difficile, rara e singulare, mentre dal cieco cibisso vuoi cacciarne e amenarne al discoperto, tranquillo e sereno aspetto de le stelle, che con sì bella varietade veggiamo disseminate per il ceruleo manto del cielo. Benché agli uomini soli l'aitatrice mano di tuo pietoso zelo soccorra, non saran però meno vani gli effetti de ingrati verso di te, che varii son gli animali che la benigna terra genera e nodrisce nel suo materno e capace seno; se gli é vero che la specie umana, particularmente negl'individui suoi, mostra de tutte l'altre la varietade per esser in ciascuno più espres- samente il tutto, che in quelli d'altre specie. Onde ve- dransi questi, che, qual'appannata talpa, non sì tosto sen- tiranno l'aria discoperto, che di bel nuovo, risfossicando la terra, tentaranno agli nativi oscuri penetrali. Quelli, (1) De la Causa, Principio et Uno. Dialogo primo. — Interlocutori sono; Elitropio, Filoteo, Armesso. Bruno, In tristitia hilaris, etc. 14. 184 Parte terza qua! notturni uccelli, non sì tosto arran veduta spuntar dal lucido oriente la vermiglia ambasciatrice del sole, che dalla Imbecillità degli occhi suol verranno invitati alla caliginosa ntretta. Gli animanti tutti, banditi dallo aspetto de le lampadi celesti e destinati all'eterne gabbie, bolge ed antri di Plutone, dal spaventoso ed erlnnico corno d'Alecto richiamati, apriran l'ali, e drizzaranno il veloce corso alle lor stanze. Ma gli animanti nati per vedere il sole, gionti al termine dell'odiosa notte, rin- graziando la benignità del cielo, e disponendosi a ricever nel centro del globoso cristallo degli occhi suoi gli tanto bramati e aspettati rai, con dlsutato applauso di cuore, di voce e di mano adoraranno l'oriente; dal cui dorato balco, avendo cacciati gli focosi destrieri il vago Titane, rotto il sonnacchioso silenzio de l'umida notte, raggiona- ranno gli uomini, belaranno gli facili, inermi e semplici lanuti greggi, gli cornuti armenti sotto la cura de' ruvidi bifolchi muggiranno. Gli cavalli di Sileno, perchè di nuovo in favor degli smarriti Dei, possano dar spavento ai più de lor stupidi gigantoni, ragghiaranno; versandosi nel suo limoso letto, con importun gruito ne assordiranno gli sannuti ciacchi. Le tigri, gli orsi, gli leoni, i lupi e le fallaci golpi, cacciando da sue spelunche il capo, da le deserte alture contemplando il piano campo de la caccia, manda- ranno dal ferino petto i lor grunniti, ricti, bruiti, fre- miti, ruggiti ed orli. Ne l'aria e su le frondi di ramose piante, gli galli, le aquile, li pavoni, le grue, le tortore, i merli, i passari, i rosignoli, le cornacchie, le piche, gli corvi, gli cuculi e le cicade non sarran negligenti di re- plicar e radoppiar gli suoi garriti strepitosi. Dal liquido e instabile campo ancora, li bianchi cigni, le molticolo- rate anitre, gli solleciti merghi, gli paludosi bruzii, le oche rauche, le querulose rane ne toccaranno l'orecchie col suo rumore, di sorte ch'il caldo lume di questo sole, diffuso all'aria di questo più fortunato emisfero, verrà accompagnato, salutato e forse molestato da tante e tali diversitadi de voci, quanti e quali son spirti che dal pro- fondo di proprii petti le caccian fuori. VII. — Dalle tenebre alla luce 185 FlL. Non solo è ordinarlo, ma anco naturale e necessario che ogni animale faccia la sua voce; e non è possibile che le bestie formino regolati accenti e articulati suoni come gli uomini, come contrarie le complessioni, diversi i gusti, varil gli nutrimenti. Armesso. Di grazia, concedetemi libertà di dir la parte mia ancora; non circa la luce, ma circa alcune circustanze, per le quali non tanto si suol consolare il senso, quanto molestar il sentimento di chi vede e considera; perchè, per vostra pace e vostra quiete, la quale con fraterna caritade vi desio, non vorrei che di questi vostri discorsi vegnan formate comedie, tragedie, lamenti, dialoghi, o come vo- gliam dire, simili a quelli che poco tempo fa, per esserno essi usciti in campo a spasso, vi hanno forzato di starvi rinchiusi e retirati in casa. FlL. Dite liberamente. Arm. Io non parlare come santo profeta, come astratto divino, come assumpto apocaliptico, né quale angelicata asina di Balaamo; non raggionarò come inspirato da Bacco, né gonfiato di vento da le puttane muse di Parnaso o come una Sibilla impregnata da Febo, o come una fatidica Cas- sandra, né qual ingombrato da le unghie de' piedi sin alla cima di capegli de l'entusiasmo apollinesco, né qual vate illuminato nell'oraculo o delfico tripode, né come Edipo esquisito contra gli nodi della Sfinge, né come un Salomone inver gli enigmi della regina Sabba, né qual Calcante , interprete dell 'olimpico senato , né come un inspiritato Merlino, o come uscito dall'antro di Trofonio. Ma parlare per l'ordinano e per volgare, come uomo che ho avuto altro pensiero che d'andarmi lam- biccando il succhio de la grande e picciola nuca, con farmi al fine rimanere in secco la dura e pia madre; come uomo, dico, che non ho altro cervello ch'il mio; a cui manco gli dei dell'ultima cotta e da tinello nella corte celestiale (quei dico che non beveno ambrosia, né gustan nettare, ma si vi tolgon la sete col basso de le botte e vini rinversati, se non voglion far stima de linfe e ninfe, quei, dico, che sogliono essere più domestici, familiari e conversabili 166 Parte terza con noi), come è dire né il dio Bacco, né quel imbreaco cavalcator de l'asino, né Pane, né Vertunno, né Fauno, né Priapo, si degnano cacciarmene una pagliusca di più e di vantaggio dentro, quantunque sogliano far copia de' fatti lor sin ai cavalli. Eli. Troppo lungo proemio. Arm. Pacienza, che la conclusione sarà breve. Voglio dir brevemente, che vi farò udir paroli, che non bisogna disciferarle come poste in distillazione, passate per lam- bicco, digente dal bagno di maria, e subblimate in recipe di quinta essenza; ma tale quali m'insaccò nel capo la nutriccia, la quale era quasi tanto cotennuta, pettoruta, ventruta, fiancuta e naticuta, quanto può essere quella Londriota, che viddi a Westmester; la quale, per iscalda- É toio del stomaco, ha un paio di tettazze, che paiono gli borzacchini del gigante san Sparagorio, e che, concie in cuoio, varrebono sicuramente a far due pive ferrarese. Eli. e questo potrebbe bastare per un proemio. vili. LA CENA FILOSOFICA*" Armesso. Or su, per venire al resto, vorrei Intendere da voi (lasciando un poco da canto le voci e le lingue a pro- posito del lume e splendor, che possa apportar la vostra filosofìa) con che voci volete che sia salutato particolar- mente da noi quel lustro di dottrina, che esce dal libro de la Cena de le ceneri? Quali animali son quelli, che hanno recitata la Cena de le ceneri? Dimando, se sono acquatici, o aerei, o terrestri, o luna- tici? E lasciando da canto gli propositi di Smitho, Pru- denzio e Frulla, desidero di sapere, se fallano coloro che dicono, che tu fai la voce di un cane rabbioso e infuriato, oltre che tal volta fai la simia, tal volta 11 lupo, tal volta la pica, tal volta il papagallo, tal volta un animale, tal volta un altro, meschiando propositi gravi e seriosi, morali e naturali, ignobili e nobili, filosofici e comici? FlLOTEO. Non vi maravigliate, fratello, perchè questa non fu altro ch'una cena dove gli cervelli vegnono governati dagli affetti, quali gli vegnon porgiuti dall'efficacia di sa- pori e fumi de le bevande e cibi. Qual dunque può essere la cena materiale e corporale, tale conseguentemente suc- cede la verbale e spirituale; cossi dunque questa dialo- gale ha le sue parti varie e diverse, qual varie e diverse quell'altra suole aver le sue; non altnmente questa ha le proprie condizioni, circonstanze e mezzi, che come le proprie potrebbe aver quella. Arm. Di grazia, fate ch'io vi intenda. _ FlL. Ivi, come è l'ordinario e il dovero, soglion tro- varsi cose da insalata, da pasto; da frutti, da ordinarlo; da cocina, da spedarla; da sani, da amalatl; di freddo, di caldo; di crudo, di cotto; di acquatico, di terrestre; di do- (1) Ibid. Seguito. 188 Parie terza mestico, di salvatico; di rosto, di lesso; di maturo, di acerbo; e cose da nutrimento solo e da gusto, sustanziose e leggieri, salse e insipide, agreste e dolci, amare e suavi. Cossi quivi, per certa conseguenza, vi sono apparse le sue contrarietadi e diversitadi, accomodate a contrarie e di- versi stomachi e gusti, a' quali può piacere di farsi pre- senti al nostro tipico simposio, a fine che non sia chi si lamente di esservi gionto in vano, e a chi non piace di questo, prenda di quell'altro. Arm. e vero; ma che dirai, se oltre nel vostro convito, ne la vostra cena appariranno cose, che non son buone ne per insalata, né pe pasto; né per frutti, né per ordinario; né fredde, né calde; né crude, né cotte, né vagliano per l'appetito, né per fame; non son buone per sani, né per ammalati; e conviene che non escano da mani di cuoco né di speciale? FlL. Vedrai che né in questo la nostre cena é dissimile a qualunqu'altra esser possa. Come dunque là, nel più bel del mangiare, o ti scotta qualche troppo caldo boccone; di maniera che bisogna cacciarlo de bel nuovo fuora, o piangendo e lagnmando mandarlo vagheggiando per il palato, sin tanto che se gli possa donar quella maFadetta spinta per il gargazzuolo al basso; o vero ti si stupefa qualche dente; o te s'intercepe la lingua, che viene ad esser morduta con il pane; o qualche lapillo te si viene a rom- pere e incalcinarsi tra gli denti per farti regittar tutto il boccone; o qualche pelo o capello del cuoco ti s'inveschia nel palato, per farti presso che vomire; o te s'arresta qualche aresta di pesce ne la canna, a farti suavemente tussire; o qualche ossetto te s'attraversa ne la gola, permet- terti in pericolo di suffocare; cossi nella nostra cena, per nostra e com.un disgrazia, vi si son trovate cose corri- spondenti e proporzionali a quelle. Il che tutto avviene per il peccato dell'antico protoplaste Adamo, per cui la perversa natura umana é condannata ad aver sempre i disgusti gionti ai gusti. Arm. Pia - e santamente. IX. LODE DEL NOLANO e» Teofilo ....Or che dirò lo del Nolano? Forse, per essermi tanto prossimo, quanto io medesmo a me stesso, non mi converrà lodarlo? Certamente, uomo raggionevole non sarà che mi riprenda in ciò, atteso che questo talvolta non solamente conviene, ma è anco necessario, come bene espresse quel terso e colto Tansillo: BencKad un uom, che preggio ed onor brama, Di sé stesso parlar molto sconvegna. Perchè la lingua, ov'il cor teme ed ama. Non è nel suo parlar di fede degna; L'esser altrui precon de la sua fama Pur qualche volta par che si convegno. Quando vien a parlar per un di dui: Per fuggir hiasmo, o per giovar altrui. Pure, se sarà un tanto supercilioso, che non voglia a proposito alcuno patir la lode propria, o come propria, sappia, che quella talvolta non si può dividere da sui pre- senti e riportati effetti.... Gli Tifi han ritrovato il modo di perturbar la pace altrui, violar i patrii genii de le reggioni, di confondere quel che la provi da natura distinse, per il commerzio radoppiar i difetti, e gionger vizii a vizii de l'una e l'altra generazione, con violenza propagar nove follie, e piantar l'inaudite (1) Cena dalle Ceneri. Dialogo primo 190 Parie terza pazzie ove non sono, conchludendosi al fin più saggio quel che più forte; mostrar novi studi, instrumenti ed arte di tirannizar e asassmar l'un l'altro; per mercè de* quai gesti tempo verrà, che, avendono quelli a sue male spese im- parato per forza de la vicissitudme de le cose, sapranno e potranno renderci simili e peggior frutti de sì perniziose invenzioni.... Il Nolano, per caggionar effetti al tutto contrarli, ha disciolto l'animo umano e la cognizione, ch'era rinchiusa ne Partissimo carcere de l'aria turbulento; onde a pena, come per certi buchi, avea facultà de remirar le lontanis- sime stelle; e gli erano mozze l'ali, a fin che non volasse ad aprir il velame di queste nuvole, e veder quello, che veramente là su si ritrovasse, e liberarse da le chimere di quei, che, essendo usciti dal fango e caverne de la terra quasi Mercuri ed Appollini discesi dal cielo, con molti- forme impostura han ripieno il mondo tutto d'infinite pazzie, bestialità e vizii, come di tante vertù, divinità e discipline, smorzando quel lume, che rendea divini ed eroici gli animi di nostri antichi padri, approvando e con- firmando le tenebre caliginose de' sofisti ed asini. Per il che già tanto tempo l'umana raggione oppressa, talvolta nel suo lucido intervallo piangendo la sua sì bassa condi- zione, alla divina e provida mente, che sempre nell'in- terno orecchio li susurra, si rivolge con simili accenti: Chi salirà per me, madonna, in cielo, A riportarne il mio perduto ingegno? Or ecco quello, ch'ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime ed altre, che vi s'avesser potuto aggiongere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari; cossi al cospetto d'ogni senso e raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti que' chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati ì ciechi, che non possean fissar gli occhi e mirar l'imagin XI. - Lode del Nolano 191 sua in tanti specchi, che da ogni lato gh s'opponeno; sciolta la lingua a' muti, che non sapeano e non ardivano esplicar gl'intricati sentimenti; nsaldati i zoppi, che non valean far quel progresso col spirto, che non può far l'ignobile e dissolubile composto; le rende non men pre- senti, che se fussero proprii abitatori del sole, de la luna ed altri nomati astri; dimostra, quanto siino simili o dis- simili, maggiori o peggiori quei corpi, che veggiamo lon- tano a quello, che n'è appresso, ed a cui siamo uniti; e n'apre gli occhi a veder questo nume, questa nostra madre, che nel suo dorso ne alimenta e ne nutrisce, dopo averne produtti dal suo grembo al qual di nuovo sempre ne riac- coglie, e non pensar oltre, lei essere un corpo senza alma e vita, ed anche feccia tra le sustanze corporali. A questo modo sappiamo, che, si noi fussimo ne la luna o in altre stelle, non sarreimo in loco molto dissimile a questo, e forse in peggiore; come possono esser altri corpi cossi buoni, e anco megliori per sé stessi, e per la maggior fe- licità de proprii animali. Cossi conoscemo tante stelle, tanti astri, tanti numi, che son quelle tante centenaia de migliaia, ch'assistono al ministerio e contemplazione del primo, universale, infinito ed eterno efficiente. Non è più impriggionata la nostra raggione coi ceppi de' fantastici mobili e motori otto, nove e diece. Conoscemo, che non è ch'un cielo, una eterea reggione immensa, dove questi magnifici lumi serbano le proprie distanze, per co- modità de la participazione de la perpetua vita. Questi fiammeggianti corpi son que' ambasciatori che annunziano l'eccellenza de la gloria e maestà de Dio. Cossi siamo pro- mossi a scuoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio de l'infinito vigore; e abbiamo dottrina di non cercare la divinità rimossa da noi, se l'abbiamo ap- presso, anzi di dentro, più che noi medesmi siamo dentro a noi; non meno che gli coltori degli altri mondi non la denno cercare appresso di noi, l'avendo appresso e dentro di se, atteso che non più la luna è cielo a noi, che noi alla luna. Cossi si può tirar a certo meglior proposito quel che disse il Tansillo quasi per certo gioco: 192 Parie lerza Se non togliete il ben, che ve da presso Come torrete quel, che ve lontano? Spreggiar il vostro mi par fallo espresso, E bramar quel, che sta ne l'altrui mano. Voi sete quel, cK ahandonò se stesso. La sua sembianza desiando in vano: Voi sete il veltro, che nel rio trabocca. Mentre F ombra desia di quel ch'ha in bocca, Lasciate l'ombre, ed abbracciate il vero; Non cangiate il presente col futuro. Io d'aver di meglior già non dispero; Ma, per viver piii lieto e più. sicuro. Godo il presente e del futuro spero: Cossi doppia dolcezza mi procuro. Con ciò un solo, benché solo, può e potrà vincere, ed al fine ara vinto e trionfarà centra l'ignoranza generale; e non è dubio, se la cosa de' determinarsi non co' la molti- tudine di ciechi e sordi testimoni, di convizu e di parole vane, ma co' la forza di regolato sentimento, il qual bi- sogna che conchiuda al fine; perchè, in fatto, tutti gli orbi non vagliono per uno che vede, e tutti i stolti non possono servire per un savio. INDICE DEL VOLUME Prefazione Pag. VII PARTE PRIMA I. Presentazione e soggetto del Candelaio 5 A gli abbeverati nel fonte Caballino 5 Alla signora Morgana B ... 6 Argumento ed ordine della Comedia 7 Antiprologo 8 Proprologo 9 Bidello 13 II. L'innamorato e le arti magiche d'amore 15 III. Arti e debolezze di donne 24 IV. In taverna 28 V-VI Castigo e beffe - Plaudite 32 VII. Avventure londinesi 36 Vili. Bottegari, Servi, Furfanti 42 IX. Preludii alla « Cena delle Ceneri » - Cerimonie di tavola 48 X. Delle donne 54 XI. Pedanti 58 XII. Dottori ed Archididascali 68 PARTE SECONDA I. La vecchiezza di Giove 79 II. Gli Dei a consiglio 88 Orazione di Giove 89 III. La provvidenza di Giove 104 IV. Uomini e bestie 107 V. Momo e Marte 110 1 94 Indice del volume VI. Ricchezza e Povertà Pag. I 1 2 VII. La biblioteca degli Dei 118 Vili. La Fortuna 120 IX. Sonno ed Ozio 1 22 X. La Vergine 130 XI. La Bilancia 132 XII. Orione 134 XIII. La Tazza 137 XIV. Il Centauro 139 XV. 11 Pesce 141 PARTE TERZA I. Epistola dedicatoria a don Sapatino 147 II. In lode de l'asino 153 A l'asino cillenico 1 54 III. Dissertazioni sopra l'asinità 155 IV. Metamfisicosi 167 V. Aristotele - Asino e i suoi seguaci 171 VI. L'asino accademico 1 76 VII. Dalle tenebre alla luce .... * 183 Vili. La cena filosofica 187 IX. Lode del Nolano 189 PROFILI Ogni volume L. 2,70 - Serie di 6 volumi L. 15 I. 1. B. Supino - Sandro Botticelli (3i ediz.), 2 A. Alberti - Cario Darwin (3» ediz.). 3 . L. DI S. Giusto - Gaspara Stampa (2. edziz.) (Esaurito). 4. G. Setti - Esiodo (2»edÌ7.) (Esaurito). 5 P. ArcaRI - Federico Amiel. 6. A. Loria- Malthus (3»ediz.). 7. A. D'Angeli - Giuseppe Verdi (2* ediz.) (Esaurito). 8. B. Labanca - Gesìi di Nazareth (3*ediz.) (Esaurito). 9. A. Momigliano - Carlo Porta. (Esaurito). 10. A. FavaRO - Galileo Ga- lilei (2* ediz.) (Esaurito). 11. E. Troilo - Bernardino Telesio. (Esaurito). 12. A. RiBERA - Guido Ca- valcanti (Esaurito). 13. A. BUONAVENTURA - A'i- colv Paganini. (Esaurito). 14. F Momigliano - Leone Tolstoi. (Esaurito). 15. A. Albertazzi - Torquato Tasso (Esaurito) 16. I. Pizzi - Firdusi. 17. S. Spaventa F. - Carlo Dickens. 18. C. Barbagallo - Giuliano l'Apostata 19. R. Barbiera - / Fratelli Bandiera. 20. A. ZerBOGLIO - Cesare Lombroso. 21. A. Favaro - Archimede. 22. A. Galletti - Gerolamo Savonarola. (Esaurit^o). 23. G. SecrÉTANT - Alessan- dro Poerio. 24. A. Messeri - Enzo Re. 25. A. Agresti -Abramo Lincoln. 26. U. Balzani - Sisto V. 27. G. Bertoni -Dan/e (2* ediz.) 28. P. Barbèra -G.S. Bodoni. 29. A. MichielI - Stanleu- 30. G. Gigli - Sigismondo Castromediano . 31. G. Rabizzani - Lorenzo Sterne. 32. G. Tarozzi- G.G. Rousseau. 33. G. Nascimbeni - Riccardo Wagner. (Esaurito). 34. M. Bontempelli - San Bernardino. 35. G. MuONl - C. Baudelaire. 36. C. Marchesi - Marziale. 37.G.RadicI0TTI - G. Rossini. 38. T. Mantovani - C. Gluck. 39. M. Chini - F. Mistral. 40. E. B. Massa -G.C.Abba. 41. R. Murri - Cavour. 42. A. Mieli - Lavoisier. 43. A. Loria - Carlo Marx. 44. E. BuoNAiUTi - S. Agostino. 45. F. LoSINI - /. Turghienief. 46. R. Almagià - Colombo. 47. E. Troilo - G. Bruno C. 48. P. Orsi - Bismark- 49. E.BuONAIUTi -S. Girolamo. 50. G- Costa - Diocleziano. 51 . F. Belloni Filippi - Tagore. 52. G. Loria - Newton. 53.G.MUONI - GustavoFlaubert 54. e. Marchesi - Petronio. 55. e. Barbagallo - Tiberio. Leggere nei Profili: GIORDANO BRUNO DI ERMINIO TROILO FONDAZIONE LEONARDO PER LA CULTURA ITALIANA Palazzo Doria - ROMA - Vicolo Doria. 6-a CONSIGLIO DIRETTIVO. Consiglieri eletti dall'Assemblea dei Soci: FERDINANDO Martini, Presid. ,- Orso Mario cordino, V. Pres.; Roberto almagìV e Giuseppe Chic venda. Consiglieri di dirillo : // Ministro degli Esteri (AMEDEO Giannini, Delegato); Il Ministro della P. I. (GIO- VANNI Gentile, Delegato) ; Il Ministro delle Colo- nie (Ferdinando Nobili Masìuero, Delegato); Il Ministro dell'Industria (MICHELE ARNALDI, Dele- gato); Il R. Commissario dell' Emigrazione (TOMASO PERASSI, Delegato); La Società della Messaggerie Ita- liane (Giulio Calabi, Delegato); A. F. Formig- GINI {Socio fondatore). La fondazione, eretta in ente morale, mira ad inten- sificare in Italia e a far nota all'estero la vita intellet- tuale italiana valendosi di mezzi pratici ed efficaci finora intentati. Soci promotori. Quota libera non inferiore a L. 1000 Soci perpetui, » » » » 250 Soci ANNUALI, con V Italia che Scrive . . » 12,50 Estero » 15 — Con diritto anche a 3 Guide » 20 — Estero » 25 — / nomi dei Promotori e dei Soci perpetui sono co- stantemìnte ripetuti nelle pubblicazioni della * Leonardo». Le loro quote ne costituiscono il patrimonio intangibile. PQ Bruno, Giordano A615 In trisbitia hilaris
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