Friday, July 5, 2024

GRICE ITALICO A/Z C11

 

Grice e Catena: l’implicatura conversazionale della logica matematica -- logica arimmetica – la base arimmetica della metafisica – filosofia veneziana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist – consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’ an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale, indaga i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa cattedra in seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del latino. Lettore pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei.  Pubblica a Venezia “Universa loca in logica Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones” (Padova, Fabri); “Oratio pro idea methodi” (Padova, Percacino). Agostino Superbi, Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita e marauigliosa città di Venetia, per E. Deuchino. Domus Galilæ Biografia universale antica e moderna; ossia, storia per alfabeto della vita pubblica e privata di tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti; Catalogo breve de gl'illustri et famosi scrittori venetiani (Rossi); Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici della rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e logica. Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject, Catena writes two works, in one of which, Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas Disciplinas (Venezia), he tries to supply the lost mathematical basis for Aristotle's theory of demonstration as explained in the Posteriora Analytica. Dizionario biografico degli italiani.  Della sua vita si conoscono pochissimi elementi: nacque a Venezia nel 1501; lettore di matematiche presso l'università di Padova (la stessa cattedra che occupò più tardi Galileo Galilei). Morì di peste a Padova. L'importanza storica del C. consiste nel fatto che egli fu uno dei primi, nel sec. XVI, a porsi il problema della valutazione formale ed epistemologica della matematica euclidea, naturalmente dal punto di vista della logica e della filosofia aristoteliche, inserendosi in tal modo autorevolmente nella quaestio de certitudine mathematicarum che a metà del Cinquecento impegnò noti autori dell'università padovana, come Francesco Barozzi ed Alessandro Piccolomini, nell'ambito del più vasto dibattito europeo sulla methodus delle scienze.  ADVERTISING A questo riguardo assumono particolare importanza tre sue opere: Universa loca in Logicam Aristotelis in mathematicas disciplinas (Venetiis); Super loca mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis; Oratio pro idea methodi (Patavii). Nelle prime due il C. svolse un'analisi formale della matematica euclidea attraverso la quale concluse per una sua differenza strutturale, e quindi per una sua autonomia logica ed epistemologica, nei confronti della logica sillogistica aristotelica, basandosi principalmente sulla constatazione che le dimostrazioni matematiche non appartengono al genere tradizionale delle cosiddette demonstrationes potissimae, e giungendo ad affermare decisamente che la scienza matematica si differenzia nettamente da qualsiasi scienza di tipo aristotelico. La differenza metodologica che distingueva la matematica euclidea dalle restanti scienze in uso nel Cinquecento venne posta in rilievo dal C. nella terza opera, ove affermò chiaramente il legittimo costituirsi della matematica come metodo scientifico autonomo, intervenendo così costruttivamente nel dibattito sulla methodus, che ancora si trascinava in quegli anni, e contribuendo soprattutto alla creazione di un clima culturale favorevole alla rivoluzione scientifica galileiana con l'ampliare notevolmente la prospettiva gnoseologica tradizionale.  Oltre alle citate, il C. scrisse diverse altre opere: Astrolabii quo primi mobilis motus deprehenduntur canones (Patavii), che costituisce una correzione ed un aggiornamento di un'altra opera anonima, che fu pubblicata a Venezia, e che tratta dell'uso pratico del noto strumento astronomico; Sphaera (Patavii), un trattato di astronomia, redatto probabilmente ad uso degli studenti, in cui viene esposto il sistemato tolemaico, e che, pur basandosi naturalmente su trattati analoghi, allora notoriamente numerosi, rappresenta l'opera astronomica più compiuta del C.; Procli Diadochi Sphaera (Patavii), traduzione del noto trattato del matematico e filosofo neoplatonico; De primo mobili librum singularem; Ephemerides annorum XII; De calculo astronomico libros II; queste tre ultime sono citate dal Papadopoli e dal Poggendorff senz'altra indicazione e non se ne è rintracciato alcun esemplare.  Nel corso della sua attività accademica, il C. trattò successivamente del primo e del settimo libro degli Elementi di Euclide, della Sphaera del Sacrobosco. della teoria dell'astrolabio, della geografia di Tolomeo, dell'astronomia del sistema tolemaico, e, probabilmente delle "meccaniche" di Aristotele, come viene affermato da Baldi, che fu suo allievo, e da lui stesso in una sua opera (Universa loca); Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, Venetiis; Cinelli Calvoli, Biblioteca volante..., Venezia; Riccardi, Biblioteca matematica ital. dalla origine della stampa, Modena; Favaro, I lettori di matematiche nell'univers. di Padova…, in Istituto per la storia dell'Università di Padova, Memorie e docum. per la storia della Università di Padova, Padova, Giacobbe, La riflessione metamatematica di P. C., in Physis; Id., La riflessione epistemologica rinascimentale: le opere di P. C. sui rapporti tra matematica e logica, con riproduzione dei testi originali, Pisa; Ch. G. Jocher, Allgemeines Gelehrten-Lexicon, ad Indicem; Nouvelle Biogr. Universelle, ad Indicem;Biogr. Universelle; British Museum, General Catalogue of Printed Books; Poggendorff, Biogr.-Lit. Handw. z. Gesch. d. ex. Wissensch., ARTIVM ET THEOLOGIAE DOCTOR, PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO PATAVINO, SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis nunc et non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO, LOLOTILLON 0 V ENETIIS Apud Cominum de Tridinum Montisferrati. C. DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL song CO EXCELLENTISSIMO OPICORVM libri din Elenchorum Aristotelis quædamloca obscuriuſću la contincbant qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara, & per ea co tera loca maiori difficulta ti inherentia declaraban tur, ob id autem illis con tingit, quod veritatis amatores & philoſophiæ principes videri apud exteras nationes cupiebant, quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id autem, alįe na ſua feciſſe, vitio non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto(latinos hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis ſuos conceptus explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt ſemper lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude dignum effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium,ničí Reuerendus domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca. rena Canonicus Veronenſis, virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet, cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Aristotelis fco pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit, quod fi minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit; neque enim quæ omni. bus videntur accipit, neque quæ plurimu i,neque qnæ fapientibus, & his neque omnibus neque plu. rimum, neque probatiſſimis; ſed ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit,nam vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet, vel eo quòd lineas aliquas dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant Greci, & Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geometrico,ad quem locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris vinctum loris, & funibus reliquerunt Ariſtotelem, vt ab Alexandri tempore(vo reor) vſque modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea rint, illius loci notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo citarem nomine, vt amatores Aristotelis eos cauerent vt infames ſcopulos acróceraunię, fed eos prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria logiculos, legantfine liuore & vafricia expo fitores illius lociomnes, & has noftras declarationes non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi intellexerint, quanti ingenö fuit, ficut in cæteris ipſe Aristoles, hæc citra in Alatas buccasdixiſſe ve lim, quiſquevt intelligat, fed vt litterarum aliquando illuſores re primantur pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur igitur recta linea, a bquę feccetur quomoçunque contingat in puncto c, & ſuper vtranearī a ccb, ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro vnius & e alterius deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb, quiſeſe Tangantin puncto h ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d, illius autem ch b ſit centrum e, a punctis igitur d; & e,ſemicirculorum centris ducantur duæ lineæ ad h contactum, & intelligatur Triangulus d he, quoniam autem 3 5 dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ per dif finitionem circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ lineæ ec & ehſunt æquales, duæ igiturdc & ce duabus d h & eheruntæquales, duæ autem ille dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum latus d e trianguli d heeft æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh & e h,quod eſt impoſsibile contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim latera omnis trian guli quomodocunque ſumpta, ſunt maiora reliquo & non æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau. cem vitium non ex coprouenerat qex falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris, & immediatis, & exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi elementorum ſyllogiſthus affectus eſt,ſed error atque peccatum proceſsit ex co ofemicirculos defcribit non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius eſſe duo bus reliquis trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben tes, fic.n.linca a b & puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac, &db, rectam ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e alter a ec cuius centrum f,reliquus bed cuius centrum g, &a centro fprotrahatur recta fe fimiliter a punctog protraliatur gerecta, tunc triangulusfe g habebit latus f g maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic perſuadetur,lineafc eft æqualis lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad circunferentiam, fimiliter linca g deft æqualis geeadem ratione, fi igitur c d linea addatur lineis fc, & dg, equalibusfe & gcefficiunt linea fg latus trigoni fe gma jusduobus lateribus fe, & ge quod eſt impoſsibile per 20 primi clemcntorum,vel eo q lincas aliquas ducit non vi ducendæ funt d g paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a centro fad centrum g, illa non tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda figura apparet, ve linea abf,in g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per xi tertij clementora Euclidis, fi duo circuli fe contingunt & acentro ynius ad centrum akerius recta ducatur linea illa de neceſsitate applicabi tur contractui, ex mala igiturdeſcriptione attulit Ariſtoteles exem plum de ſyllogiſmo falſigrapho, qui oſtenſiuo fyllogiſmo oppo. Situs eft. Similiter vero e ſi cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem ere, eo quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum generum propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti &analogi, quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine continetur,obid, duodicit, qui magnicu dinem cubitalem,effe magnitudinem duorum cubitorum, &quid, quando dicit magnitudinem, et quantum, quando dicit,cubitorum duorum, hinc manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri quid,vthoc Ariſtotelis exemplo patet demagnitudine,aliud eft no tandum, quomodo vnum accidens,vt duorum,quod ad Arithme ticam pertinet,accidere magnicudini,quod ad Geometriam attineta. QVAEDAM enim statim &nominibus alia ſunt,vtacu to in voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem, acuto, obtufum contrarium est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat Ariſtoteles, quia et angulum norar, & vocem, # US Angulus accutus rectominor & contrarius eft obruſo, &voxac cuta graui vociopponitur, et graui contrariatur accutum in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed dubitatur,cum quantitati nihil fit contrarium, quo pacto acuto angulo obtufus contrarius fit? Dico quod angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan. titati adiuncta proueniens accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa pariterque pondus &lauitas funt quidem magnitudiniadiuncta, fed no eſ pondus,et leuitas, quatitas, ſi contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero queà conſiderando eft, quòd diameter cofta incom menfurabile, nihil. DEincommenfurabilitate coſtæ cum diametro abunde faris in pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe quippiam oppofitum ipfi incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam atque diametrum quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu, ſit de terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui tas contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro, vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem incommenſurabilitas in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia quæ in magnitudinibus re periuntur eſſe contraria,Pręterea & li opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum,quçſuntquantitates,co fta & diameter, contraria effe dicuntur, potus enim fitinon eft nifi quodammodo contrarius, delectatio autem, quæ ex potu prouenit opponitur contrarie triſtitiæ, quæ prouenit ex fiti, Præterea graue & leweſuntabſoluta quædam in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim, incommenſurabilitas autem relatio eft; quæ indiſcriminatim funda tur in coſta,ad diametrum & in diainetro ad coftam. CON SIMILITER autem et acutum,nam non eodem mo do in omnibus idem dicitur,nam vox acuta quidem velox,quemad modum quidem dicunt ſecundum numeros armonici. NOTA dignnm eft hocloco conſiderandum, a vox hoc lo co non accipienda eft pro humana voce tantum, ſed pro ſono, qui quidem fita cordulis inſtrumentorum, nam gratilior corda fitan gatur plures aeris percuſsiones facit quain crafsior cordula, fiea dem vi moueatur, modo inter percuſsiones multas aeris cordulæ gratilioris ad percuſsiones cordulæ craſsioris fi inultitudine repere ris duplam,diapaffon, fi fefqualteram, diapente, fi vero epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici continentiam inuenies, quia tamen Ariſtoteles de generatione animalium libro quinto capite feptimo pucat concinentiam fieri ex alia caufa quam ex proportione illo, rum ſonorum numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha. gorici volunt, ideodicit quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia Ariſtotelis alia atque diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri videbantur. ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero, nam vtrun. que eft principium. PRÍNCIPIV M lineæ punctus, principium autem nu merivnitas eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin pofterioribus demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin conftituunt atque componunt, principium tamé lineç atque finis,punctus eſt ex cuius fluxu linea fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico determinaui, non tamen linea ex punctis conſtat, VEL duplicis & dimidij. AN ſit ne eadein diſciplina duplicis atque dimidă conſiderare oportet, quod profecto allerere videtur ex capire de relatiuis, cum nemo ſciat duplum,niſi cuius ſit duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC autem non ſemper faciendum, fed quando non facile pojumus communem in omnibus vnam rationem dicere, quemad modum Geometra quòd triangulus duobus rectis æquos isabet tres angulos. NVLLI id in controuerſiam venit, an omnis triangulus ha beat tres angulos duobus rectis æquales, ſed illud dubium eft,an id quod rectilineumeft,habens angulos duobus rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid horuin in plus fe habeat, & non fit vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis æquales, atque comunius,an potius triangulum effe, ad quam dübitacionein, dico quod duobusrectis pates habere angulos, eſt quid communius, quam efſetrigonum, id autem inanifeſtum eſt de pentagono, cuius quodlibet latus, duo ex reliquis lateribus fec cat latera, id autem per primam partem 32, primiElementorum bis fumptam & per fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura ſubſcripta deduci facile eft, & fi habere tres çqua les duobus rectis conuertatur cum trigono,non tamen habere om nes angulos equales duobus rectis,conuertitur cum effe trigonuir. Dico igitur, quod habere omnes angulos equales duobus rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum latus ſeccat duo ex reliquis latera, habet tamen penthagonus quinque equales tri bus, qui tres duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes angulos duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt affectio trianguli neque angulorum triangu. li, fed quid communius trigono, vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius proprium,quod videturfoluere dubium fuper textu mo tum,fed affectio trianguli eft habere tantum tres equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri angulus duobus re b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun. dum accidens autē, quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe trian gulum, perhocco gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele, quod habere tres duobus rectis pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed per accidens, fic vt hæc predicatio, Iloſcheles habet tres duobusrectispares, ſit accidentalis,hec quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis textum facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt ex capite de per fe in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft &inferiori pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo, inferioriautem, per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus, primo igitur aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé & per accidens, vtpura circa triangulum, per fe quidem fic, tri angulus habet tres duobus rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles; vbi aduertendum,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius ſuo ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur inferius, & vt alienum a fui natura ſibi conueniat. SIQVIS infecabiles ponens lineas, indiviſibile genus earum dicat eſſe, nam linearum habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes ſecundum ſpecicm, indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem litteræ affequendam, me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum,vt Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id, quod Porphyrius habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario predicari, quod fi de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus manifeſtum erit, quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas genus id, quod eft indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob id, quia,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem deffinitionem ſuſcipien. tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit, vt aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint diuerfa, quod quidem contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus effe diceretur,tunc enim indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur (fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle, nullo modopoteft, propter contradictionem, ET ſi differentiam ingenere poſuit tam quimſpeciem,vt im par quidem numerum, Differentia quidem numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur participare differentia genus,nam omane quod eft, genus, velfpeties, vel indiuiduum eſt, differentia autem, neque fpeties, neque indiuiduum, manifeftum igitur quoniam non participat genus differentia, quare neque imparopetieserit, fed differentia quoniamnon participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex vnitatibus profuſa multitudo,paro; titur in numeruin imparem, &in numerum parem, vel perhas differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas, quarum neu includit numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis conſtitutiua differentia,eodem modo, & numerus prædi catur de pari in concreto & non de abſtracta paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus, vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia manifeſta, & nora Ariſtoteles cíle vo. luit, exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie pofirit, vt contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem, non enim neceſſariuin contingui. tatem continuitaternelle, led e conuerſo, continuitatem contigui tatem non enim omne contiguum continuatur, led quod cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe dico cuius partes copulantur ad terminuin vnum communem, qui quidem terminus elt tantuin potentia inter illas partes ipſius continui, nõ etiam actu, &opere, vt linea lineæ continuatur per punctum, qui non actu exiſtit, ſed tantum potentia inter illas duas lineas, velinter duas partes linex, quod & de partibus ſuperficiei, quæ per lineam in potentia copu lantur, &corporis partes, per ſuperficiem in potentia, Contiguum autein illud effe dico, quod alteri applicatur & iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per mediuin quod actu & opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus, concaua eniin ſuperó ficies ſuperioris orbis augem defferentis, & fuperficies connexa or bis differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu exiſtēres inedia, per quas continguantur adinuicem illi orbes, non tamen continu: antur adinuicem: Cælum primū continuum quoddam eſt, & con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem concauam ipfius pri mi mobilis actu exiſtentem,non tamen fequitur, primum mobile eſt contiguum cum nona ſphera, igitur continuum eſt cum nona iphera,quemadmodī non fequitur, quinque digiti adinuicem funt contigui, igitur quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur, quinque digiti ſunt continui, igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt quando clauditur manus, vel manus aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui,vel aquç contigui, li in anforæ aquam inanum ponas, vel etiain cirotececontiguantur, & ratio eft, quia vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur, ne vacuum daretur in natura. CONSIDERAN DV M autem eſt, fi quod translatiue. dictum eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam, confonantiam, nam omnegenus proprie deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia,non proprie,fed translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium vocum acuti gra. uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat, non quidem a ſo no, quæ eft aeris percuſsio, fed illa quidem eſt, quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc autem non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia, quæ nil aliud eſt, quam coeleſtium motuumdiuerſorum,in vnam munditotius conſeruationem apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei, quos gratis in libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam effe de quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin. no Scipionis nomen indidit, docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed illam quam libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit Ariſtoteles. AVRSV M ji non ad idem dicitur fpecies 2 ſecundum ſe, da fecundumgenus, vt fi duplum dimidiy dicitur duplum o multi plum dimide oporter dici, li autem non, non erit multiplam genus cupli, abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om. nia fuperiora genera ad dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes omnes fimul additæ in vnum exuperant totum illud cuius partes erant, vt duo, cenarius eſt abundans, quia 6,4, 3, 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent maiorem numerum duodenario, de quo quidem abun. danti, qui eſt fimilis centimanugiganti, non loquitur Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft, quod ſuperius eſt ad multiplum, ad ſuperparticularem, & ſuperparrienrem, abundans præterea,vthic accipit Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de multiplici, at& lu perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus ſub illis contentis, dicitur,duplum igitur triplum,quadruplumque cummultiplun lit & pariter vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non eritmultiplum,neque etiam duplum, itaque abundans vniuer lale magis quam multiplum eft. 1 era QVONIAM autem muſicum, qua muſicum eftfciens,elle muſica ſcientia qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit, nõ quathenus cantorem, qualitas eſt de prima qualitatis fpecie,quathenus autem ſcientia eft, &fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in prædicamentis determinatum. NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam numero conuenit, non tamen omni numero, ſed numero tantum pari,impari autem ob vnitatis interuëtum nequaquam, Veletiam melius erit dictu, diuifibilitas in duo æqualia, numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter omni numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in duo æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur, fic vtdiuiſibilitas in partes integrales cuilibetnumero conueniat, non diuiſibilitas in partes aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili. bilitas in tot partes, quot vnitates habet;in plus igitur ideft,quod diuiſibile eft, quam id,quod numerum eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum, quod in partes aliquotas &in partes integran tes diuiditur etiam ad continuum,ſequitur igitur recte,numerus eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id, quod in ali quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo, vt diui fibile eft, igitur numerus, LOGICVM problema. PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio,in qua vnum datur, & aliud (vt in pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam triangulum collocare, linea quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam datam, ſem per enim problema verſatur circa praxim,quapropter, problema Geometricum,eftpropofitio practica, Theoremavero Geometri. cum,eſt ſpeculatiua propoſitio,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad vtráque partem, dixit problema logicum, &non Geometricum debuifTe intelligi, inquit enim, logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt, &crebræ quidē, & bong ERIT enim ſecundum hoc bene poſitum humidiproprium, vt qui,qui dixit humidiproprium, corpus quod in omnem figuranı ducitur, vnum aßignauit proprium, o non plura,erit fecundum boc bene pofitum humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum,humi. dum enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit, ſuſcipit quan cunque figuram a re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere introducta fit, in illo vaſe locantehumidum, accipere igitur hocmodo figuram a re locante, proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON omne ſenſibile extra ſenſum faftum,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc ineft, eo quòd fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc,in his, quæ non ex neceſitate ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium, aštrum quod fertur fuper terram lucidiſſimum, tale vſus eſtin proprio (ſuper terram in, quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol, si adhuc ferratur fuper terram, eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium. CECVS enim huius quod eft, folem fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem,ſed videns, illius ſenſationem habet quan do folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum autem fol occiderit, & fub orizonte conditus fuerit, definit ſenſus percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis, illo deficiente, (quod contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram ) proprio, & Sol, effe defficeret, quod quia abſurdum, non igitur proprium eft folis eum videri ferri fuper terram, licet femper Sol ſuper terram fereatur, id etiam, haud folis proprium eft, cum fyderibus omnibus, Igni, Aeri ſem per conueniat, id autem quod proprium eſt, conuenit omni foli & femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea folem femper ferri ſuper Terram, & fi proprium ſolis ef fet,illud tamen non eſt ſenſibile, led immaginatum,perceptibile,vel intelligibile, particula tamen illa aftrum lucidiſsimum, ipfi tantum foli conuenit, CONSTRVENTI vero, fi tale aßignauerit proprium, quod non ſenſu est manifeſtum, aut cum ſit ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc benepoſitum proprium, vt quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum coloratum eſt, ſenſibili qui dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale quidem quod ma nifeſtum est ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum fit perficiei propriim. IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt, ſub. ftantia enim colorata eſt, quia corpus coloratum,etideo corpus co loratum eft, quia ſuum extremum eft coloratū, extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur ſuperficies eft, in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium,non ex natura ſu perficiei profluit, fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei, quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas, fed cum ſenſibili per fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit ſuperficiei, fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium ſuperficiei, proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura ſuperficiei. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque eorum cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc quidem verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud cuius proprium aſsignauit; non enim erit proprium,quod pofitum eſt elle proprium, vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro prium, non decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles determinauit de Geometra primo poſteriorum,vbi ait Geometram non mentiri concipientem 9 concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit, fed vtera quelocorum mutuo ſeſe alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī interne concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed linguæ ſæpe etiam contingit, quis enim id in feipfo non eft expertus. vt quan doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet (vt interiusprius mente concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin,non tamen id proprium eft Geometræ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat, ſed raſo etiam vni accidat. SIMPLICITER igiturnotius, quod prius eſt poſteriore, vt punctum linca, o linea ſuperficie, & ſuperficiesſolido, quem admodum vnitas numero prius enim &principiã omnis numeris. VIDETVR hic textus contra determinationem philoſophi primo de phiſico auditu capite de primo cognito, vbi determinat de circulo p priino cognoſcitur, quam quod fit figura plana vna linea contenta: pro cuius loci huius &illius intelligentia, fcire debes deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem explicatur,ipſa vero definitio per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife ftum facit, quod Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius punctum explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere, tur, vt furt declaratum capite de per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum, & fuperficies per lineam, & tandem libro 11, corpus per ſuperficiem deffiniuit, quo autem modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo vnitas in numero,id in na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in dubiữ verticur, quo nam modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea, &linae punétus noctiora fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, & ftereometram ab ſtracte conſiderentur. Dico quod cum abſtractione in his omnibus minor & maior fimplicitas repperitur,vt in puncto quam in linea &fic deinceps, Adid autem de primo phiſicorum de circulo nulla videtur oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté de ſinipliciori dictincte concepto loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere quædam fortaſſe aliter deffi niri non poffe, vtduplum, line dimidio. ID notandum euenit hoc loco, quod Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa examinara ibidemn determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle alterius, fed cuius eile eft ad aliud quodam modo refferri, vt dupli efTe, fic eft, vt abfque relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi, licet non cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft. OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem, vt quod, dies, eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem (qui incipit ab emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole vei neceffe eft, acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea, quæ ad aliquid deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur, id quod e diuerſo di uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare, fimul enim natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem & parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia. PRETER eas quas Euclidesin elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari numero dederunt,hęc Vna eít,qua in comparatione & non abfolute imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi que at, & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par, vnitatem imparem feptem ſuperet, & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat. Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur & non abfolure, SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur, name bipartite ſuma ptumest à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus tamen fa. cilis eſt, ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio, neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro numerato, vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in pofterioribusdeciaratum eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro quodam comu. ni ad numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus profuſus aceruus,fic enim quod bipartitīī par numeruseft, & ficin deffinitione ſuperioris, quod eſt bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a binario numero capias qui binarius inferioreſtad numerum parem,cum quaternarius, & ali quam plurrimi fint pares numeri,modoqui in deffinitione nu. meri paris vtitur bipartiri, ille quidem in ſuperioris definitione Vtitur ſuo inferiore, AVT rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra. TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë Colaresnon pof. funt illud ingredi & vltra progredi (quod in traſparenti aericone tingit,) ſed impediuntur a parte terræ, quæ pars ad folem reſpicit, ex alta autem terræ parte,luminis priuatio contingit, quæ priuatio luminis folaris fuper terram nox appellarur & cft liquis igitur no Etem definiat, fic inquiens nox eft priuatio luininis folis ob er iæ opacitatem proueniens, fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt corpus ex cuius opacitace nox fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione noctis, & noctem in deffitione terræ & vtrun que in vtriufque deffinitione ponitur, fequuntur quædam Ariſtore lis verba in textu de multiplici & ſubmultiplici, atque de duplo & dimidio, quæ quia alias declarata ſunt pretereunda duxi, fed id no. tandum eft quod in deffinitione priuatiui, vtputa noctis, ponitur poftiuum, vtputa terra, quod etiam in multis eft aduertendum, quia non ſolum ponitur pofitiuum,fed etiam priuatiuum, vtly pri uatio lurninis. Si autem aliquurum complexorum aßignetur terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum, quæ comple & tuntur ora tionem, fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non,manifeftum quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem plani habentis finis, cuius medium ſuperaditur extremis, ſi finalis linca ratio est,finis plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium fuperadditur extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re &ta autem est, quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad expofitionem textus deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione Argyropili et in textu Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex Euclide iuxta cheonem, le gitur enim in vtroque textu cuius medium ſuperadditur extre mis, vbi legi debet, cuius mediuin ' non reſulta ab extremis 86 Aueroes in expofitione fic interpretatur,cuius inedium non occu. lit duo extrema, & videtur afſentiri ipfi Platoni deffinienti rectă, recta inquit linea eſt, cuius medium non obumbrat extremna, cæ, terīt mens Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum deftiniatur often dere, vt fi homo gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua deffini tio, fíue terminus,aninal rationale mortale recte legens atque ſcri bens, tota quippehec ratio, huic toti coplexo, nempe, homo gram maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus aufferatur, &ab ly animal rationale mortalely recte legens atque ſcribens, vt fic dicatur, homo eſt aniinal rationale mortale, &gramaticus eft recte,legensatque ſcribens, peroptime data erit deffinitio primo ipſius complexi,homo gramaticus,quod Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans (de mente aliorum,) planum efle infini tum ſecundum longitudinem tantum, finitum ſecundum latitudi. nem, quod quidein terminatur linea recta, quæ eius finis ſecundū latitudinem ellet, modo ſiquis definiret lineam finalem rectam die cens,effe finem planihabentis (ſecundum latitudinem ) fines,cuius (quidein finis) medium non relultat ab extreinis,hæc particula, fi nes plani habentis fines, in definitione pofica recte conuenit lineæ finalis, fed hæc particala, cuius medium non reſultat ab extremis, nonconuenit illi particulæ pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta, velly linea, quia non conuenit niſi recrę lineç finicę, & non infi nitę, quęinfinita, vt fupponebatur, non habet medium, neque ex. trema,ideo deffinitio ipſius totiuscomplexi minime recte data erat quia ficut vna ablata particula in deffinitione conueniebat ablatę particule deffiniti, non fic reliqna particula deffinitionis conuenit relique particule complexi deffiniti, $ I autem differentia terminum alignauit confiderandum, fi eg alicuius numerun comunis est aſſignatus terminus, vt cum imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit, deter minandum est, quo pacto medium habentem, nam numerus qui dem, comunis in vtrique rationibus eſt, imparis autem coaſſum pta eſt oratio, habent autem &linea & corpusmedium, cum non fintimparia, quare non vtique erit deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in teruentum medium indiuilibilis denumerantis totum numerum cuius illa vnitasıncdium eft, linea autem & corpus & ſi medium habeat,linca quidem punctum medium, quod per 10 primielemen torum inuenitur fi diuidatur, & fuperficies medium habet diame trum, illa tamen media,vt nec punctum lineam,neque linea ſuperfi ciem dimittuntur, neque illa componunt ea, quoruin media ſunt, determinatū igitur eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea atque ſuperficies, & hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium interduas partes æquales,vnitas eſt, & non de pari, ficut etiam Ariftoteles ait in textu, ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex fiant; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum Eucli dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro ducitur, pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur, vt ex ſeptimo elementorum manifeftum eſt, non tamen idem prouenit per additionem, quia linea lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc milliesmillienamillia addieris adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies, neque fi puncta ad fe inuicem addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li vnitatibus, velvnitati,nu. merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex vnitatibus protufus, vt etiam in prædicamento quantitatis fuit declaratum. Avr fi eodem ab vtroque ſublato, quod relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi, co multiplum dimidij idem dixerit elje, fublato enim ab vtroque dimidio, reliquu oporteret indicare, non indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà quæ de duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum illud conſiderandum eſt, quod a nega. tionc dupli ad interremptionem multiplex fiquis argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum multiplum ipfo duplo, vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, & duplum ad dimidium, &multiplum ad ſubmultiplum. VIDET V R autem &in diſciplinis quædam ob definitionis deffe &tum, non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad latusſeccat planum linea,fimiliter diuidit &lineam &locum, definitione au tem di&ta ftatim manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem babent.loca d linea, eft autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele, definitū eft ly linea fec cās planum, definitio eft ly linea fimi a Jiter diuidēs lineam &lo ct, fic enim Jittera ordi netur, linea quæ ad latus ſeccat pla num, eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea recta, fieri enim non po teft, vt linea ſecet planum terminatum linea, quin il.. la linea terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea, id autē manifeſtum g eft ex fecunda, tertia, & quarta definitione tertń elementorum Euclidis, & alisexipfo tertio elemen forum, & xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco, vbi ait, oautem: deffinitio eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus, & differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens lineam, inodo cum linea prior fit plano, manife, ftum eft,quodde genere dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum, pofitis qui dem definitionibus (vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere, verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa media, ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco,non ſunt intelligenda princie pia, quæ definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur, quæ prima elementorum, ideo dicunturcum per ipfa, quæ proponuntur in alís ſcientñs probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam triangulum colo care proponit prima, primi elementorum, & pofita definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca. tum effe æquilaterum, & folum perilla media videlicet definition nem circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio, & animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit oftendere, fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe nt; non igitur latere oportet, quando difficilis argumenta bilis eft poſitio,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem, atque circulus ſunt quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17 primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum, fiue linea ſeccans planum ad latus, id totum complexum eft,atque compoſitum, & licut fieri non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam demonftretur, quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum, quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio,ly linea leccans ad latus planum, nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio, quę eſt,ly linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum, ita vtpar. ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores intelligunt orationes, fed oratio, pro quodam intelligatur comple xo indiſtantitamen, hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa, pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio, non intelligitur pro petitione, feu petito, quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per argumentum probabile,neque difficile, ne facile, cum ſit primum principium &non probetur, fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione, quæ probanda venit, ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft, quando inter probandam ipſam,contingit aliquod deffiniendī, quod com plexum fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio, & fortaffe omnino inpoſsibile, quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile in præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula accipienda eſt. VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri, neque ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium, quod octaua pars milliaris eft,pertranfiri non polle, inter genera menſu. rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua. OPORT ET autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe transferre, vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit; quod concludendum eft. DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad illam remi fecundumquam trallatio facta eft, & non debet effe dubia,contentiofa, & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam, vt primo poſteriorum declaraui, vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia latera, quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum & demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis, quantum autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū extremis,&aliquomodo diuerſum, vt in 10 clemë torum de diametro, &cofta eftmanifeftū,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res in difputationem alla tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet. CALCULATORES noſtri temporis characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in numerorī cognitionem trahuntur, ficut per voces in rerum cognitionem ducimur, IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria, fieri vt paria fint imparia, & maius fit æquale. SI diuiſim ſummas3.& 2. nunquam, quinque faciunt, ſecue autem fi coniunctim, &ceffatomnisinftantia. Neque dixit terna fium, & binarium, quia due ſpecies numeri, non componunt terº tiam fpeciem numerorum,ſed quinque vnitatcs pro materia quiné sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum. IN primo pofteriorum in de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum,proportionem proprie circa quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis pPomba proportionem proprie eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto vitioſe. IN QVARTO CAPITE. AVT quod idem eiuſdem duplum, & non duplum, duplum quidem in longuni, non duplum antem inlatum. CVM dederic eiufdem ad diuerfa: vt duo ad uſum &ad tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft,no autem dú pla in latū immo quadrupla elt a badac duo quod eft effe fuũ in potentia, quod manifeſtuin eſt, in triangulo a bccuius ca b'rectus eft, id autem manifeftum eft ex 46 primi Elementorum, Eucli dis, vel dicas ab duplam ad a cin longitudine, non autem in latiu dine, qua caret, eft dupla 1: 6 . NEQYE ſi triangulusduobus rečtis tres æquoshabet, & ei. velfigură,del primum,vel principium eſſe dicit;quod velfigura, del primum, vel principium eſt triangulus eft, nam non quathe nusfigura del primum pel principium, ſed quatbenus triangulus demonftratio erat. TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea. sum prima eſt,ita vt fic & figura, & prima, & principium,vt qui buſdam placet omnium figurarum rectilinearum,non tamen id ve tum eft fecundum Euclidis fcicum; vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat capite deſpecie ſupra porphirit, ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles, & determinat quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales, ratione corum quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem quathenus,fi gura,vel primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius accipian tur,figura,primüm principium inferunt triangulum efle, arguere. tur enim ex conſequente ad antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius, figura enim nedum triangulo conuenit, ſed pentagono &alijs multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium quoque in naturalibus, & his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo ſape ſumpto, Hoc autem ab accidente differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem,elle flauum of melse album ege cygnum,quod autem propter confequens in pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem funteadem er fibi ipſa poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter conſequens eft redargutio, eſt autem non omnino verum, viſifit album ſecundum accidens, nam &nix cygnusalbedo idem,autrurſum Melyſji oratio, ide elle poftulat,fa &tum eſſe, &principium babere', autæqualisfieri Geandem magnitudinem accipere,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co quod factum eſt, babet principium,fa &tum elle postulatstam quam ambo eadem fint eo quod principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto e in his que æqualiafa &ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo æqualia fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt, quare conſequens ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit philofa phus, primade accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere, cignus eft,igitur album eſt, & econuerſo,album eft,ige tur cygnus eft,determinat Ariſtoteles, quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum, a magis comune ad minus comuneargud do cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo enim nedum eft in cygno, fed etiã in niue, & alñs reperitur: Secundo vt Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly factum efle, & ly principium habere, vt recte fer quebatur fecundum Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet, principium habet igiturfactum eſt, principium enim habere, vni uerfalius eft quam factum effe cælum enim principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet &formam, attamen, non eft factum, quia fer cunduin falſam Ariſtotelis opinionem ſemper fuit, principiữenim.comune eft & ad id quod materiam &formă haber, & adid quod cæpit efle, in tempore modo a magis comune ad minus comune arguendo committitur error confequentis, Tertio loco, aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo, &æqualis magnitudonon couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis igitur inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo 'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus triangulis eft, fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam (quæ duabos lineis ali comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi idem, vipatet, in 1.. tertia primi, Elementorum,cuin de longiori æqualis breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio, ne 11.propoſuit probandum,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem ſunt,quod fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter ſe ſunt equalia, non propoſuillet illud in quinto eile probandum,quod Ariſtoteles confiderauit. QVARE manifeftum eft, quodeo demonſtraționes redargu. tiones funt &veræ quidem,nam quæcunque demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen furabilem diametra pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod incomenſurabilis;quare omnium oportet efle, nam alia quidem ea quæ in Geometriaſunt principia eorumque concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum commenſurabilem coſtæ ponat redar, guitur ab Euclide lib, 10 elementoruin propoſitione 115, vel leo cundum campanuin, per illam demonſtrationem, quæ ibi adduci. tur,quæ demonftratio,redargutio eft ipfius proteruiafferentis con. trarium, fic vt pro declaratione huius textus fatis fit, quod ipía de monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a proteruo, NAM ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum Geometriam Geometricus, " VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet quod oppoſitum eft ei, quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram videlicet non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo in quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit, fed de fyllogiſmo in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica tioni a Geometra pofita, vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error paratur in conſequentia,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur, & vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus, vt fi quis pſeudogeometra per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum commenſurabilem effe ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin potius fal fum ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico, hic Ariſtoteles Intelligatur, & non de Geometrico, vt in pofterioribus determi, nauit philoſophus, & per me fuit declararā, quo modo Geometra non paralogizat lad ſyllogizat, & id, hoc loco in memoriam reuo candum eft, quod in prioribusde prima figura dictum fuit, quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE. ET la cuis viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram de qua concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li. neis contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod habet tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod triãgulus aliquid aliud fit, a tali figura (qui triangulus eſt ) propter id quod omnes anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs, vtoninesanguli pentagoni,cu. ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua latera, talis pro fecto non diſputabit de triãgulo, quiaad intellectuin triangulinon reſpicit,fed ad aliud, vt ad talem pentagonum, no enim neceffe eft, vequicquid habet angulos duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod habent tres duobus rectis pares, fed quæ figura habet tan tum tres angulos duobus rectis pares,ille triangulus eſt. VNITATEs binarijs in quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic infunt illiautemſecus, SIQ VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt æqualia, inferre tentauerit quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes vnitates ſunt ęquales vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt æqualesvnitatibus binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales Vnitatibus binarij,igitur quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime coufequentiæ dicendum, quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur concedendæ ſunt vtræque & confequentia prima, fed fecunda confequentia interris matur, fi vero vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian, tur vtraque præmiſſarum eft falla & fequitur conclufio falfa, & les cundę conſequentiæ anteccedens eft falluin, & conſequentia fequi tur, & conſequens etiam falſum eſt. NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua, drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram, ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo inſcripti,poffe reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato, progreſſus eſt ad cir. culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à quadrato ad exagonum, & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati in fcripti circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in circulo, & fic preudographus factus eſt, Briſo fimiliter errauit circunſcribens circulo & infcribens circulo quadratum,vterque fo phiſtice proceſsit,et fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras, reliquus vero in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in conſequentia, & quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus quadretur fophiftice, tamen non fecun dum rem, vt non per principia propria, neque per deſcriptionetti diagramatum,hoceft per cõſtructionem debitam figurarum,nec ex neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera,vt quæ Brilonis, non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra. cis,vti Ariſtoteles inferius in hoc capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti cam habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam, namex eiſdem, diferendi modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte pſeudographa facit,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem, quæper lunulas non contentio Sa, Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis & theorematibus Geometriæ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria, fed etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt æqualia inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft, pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat principium Geometriæ, quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis, & negat etiam li. neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe curuum, & cur uum rectum, & dari duo puncta inmediata in linea circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea. VT impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft igitur numerus, numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis incremento vel im minutione, vt quinarius a quaternario, & ſenario, in his igitur vo cibus, ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale committitur in his quæ ad aliquid dicuntur, vt fimitas naſi quidem curuicas eft,modo fic ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium. Sed numerus eft impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis numerus reppetitur in concluſionc, inaniter factum. ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis confia gurationibus, vt illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non queamus. OVADRATVM, penthagonum, & cæteras figuras re. etilineas reſoluimus in triangulos,non tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta in fe ducta deſcribitur&, 45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ, vt ex quartolibro elemen torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum effe fatis textui Ariſtotelis,nifi dixeris, quod non ea facilitate idem componimus, qua facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo metria abſolute non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura rectilinea in triangulos refoluatur, fecus auteminri athmetica de mente pythagoræ, tefte Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum ſpecies, componitur ex præcedenu fpecie et triangulo,vt eo loco demonftratur, vel meliusex tot vni tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus triangulorum, vt illis declaratur locis. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв LIS IN MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas f 4 VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI,COLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN L MARCOLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN LCOLINI GROENIGLICHEN AD LECTORES. Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim. Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum, & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs, aut ly uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois, Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft, ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń, fubpena Ducatorum centum, áammißionis librorum; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori, pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano: LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK PETRVS CATHENA VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO LAVRETANO EPISCOPO NONENSI AC PATRONO S V O COLENDISSIMO. S. P. மரா NTER munera,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura nobiscontulit, uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes, ad poftremum haud quaquam adducitur ipſa ratio, nempe ad quamomnia prope quæhumana addicuntur ſubstan tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte ufus fuerit ipſum naturæ aduerſari, atſi bonis artibus que de periere iam &deciderunt, quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit & farcuerit, illum rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat, hac de caufaconſiderans hominum mentes eodem effe quo arua fato, quæ ſi excolantur bona ſinegligantur mala perfe runt germina,uidiſſem multos, qui philofophi nominari uolunt prepoſteris imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon stra, quibusuellicandisne unus quidem Herculesſatiseffet, uin Etum in inestricabiles laberinthos quin potius in carcerem te terrimum Aristotelem ut ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que stionibus &Græcis tenue intincti literis, bomis artibusnegletis, fimiles factifunt oculo, qui quòd in tenebris fit lucem flocifecerit Aij decreuiquoingenijuires,etiam fi exignas(nam apprime noui quàm fitmihi curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex illo obfcuro, id autem tam comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica exempla ſua expreſsiora redderem, quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe prefertim hoc tempore qua publi cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio incumbebam, ad huius etiam clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor tatio iuuamen ReuerendissD.. Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis &mecenatis optimi cuius expenſis opus imprimeba tur, hortabaturque me ille, ne opus hocpermiterem ex ire in ho minummanus fine duce aliquo cumpreſertim milta, &fere difi cilima hac tempestate contineret, que aut ab interpretibus uniuer fis omiffa, autoppoſita his effent que interpretati ſunt. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui & Ariſtoteleam Philo ſophiam uniuerſam cales, &qui has liberalesartes Latinis duri bus inuulgauit. Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia il lustraui, & quæ lucem claritatemque deſiderare uide bantur, curſimebreuis annotamenti lumine perui afeci, qua in reſi effe cerim quod uoluizesło iudex &cenfor. Has autem primores inge - ný nostri fæturastuo nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem dicatas uolui,quo plane intelligeres noftri animigratitudinem pro innumeris quibus me in dies cumulare deſideras beneficijs, eoque quod aliter non datur temeum reuerear benefactorem; neque ob aliud ſanete reuerear quàm quòd omni laude digniſsimum: Vale præfulum decus. ed RE agat, ueletium num in ſemen uiri, uelmulieris, uel inmatricem, { OTS PORPHYRII DE GENERE PETRI CΑΤΗΕΝΑ PRESBITERI VENETINOVA INTERPRETATIO. IcetVR & alio modo genus uniuſcuiuſque principium or tus, tam ab co, qui genuit, quám a loco in quo eft quiſ piam ortus. Dicitur quòd locus, os pater cauſe funteffè &trices genis ti, diuerfimodetamen,quippe pater aétiua fit caufa, locus uero conſer uatiua tantum,que ad cauſam effe's Etricem non immerito reducitur,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod, & locusnedum conſeruatiuum prin cipium est, fic ut genitum folummodo conſeruet poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum,ſed etiam adiuuin principium eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est ipſius Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo obliquo fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones, folis igitur, e planetarum aliorum lumine, ac motu, affectus locus, aštiue agit hoc pacto adgenera = tionem, atque parentes, fi fecus quis audiuerit, tunc sol, & pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae étis alterando aerem agatin ipſum, ca in contentum, quo autem pacto age quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia, o interræ fuperficie plantas. PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies, debita parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur., ut Facies priami dignaeſt imperio, ad cuius fi militudinem, ill. est, quefub aßignato generepoa nitur, curus pulcritudo, est differentia fpecifica, qua pulcritudine informe genus contrahitur, atque pulcrumfit. Et Trianguluun, figuræ fpetiem ſimili modo ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum, non figura in uniuerſum quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam, que una clauditur linea, & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui Triangulus Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua est, claudi tantum tribus reftis, qua etiam differentia pula crum redditur figure genus. Indiuidua funt'infinita. Non intela ligas hoc uelim, niſi potentia,qua infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur; ſed modo quodam diverſo, numerus enim, quicunque fit, aexiſtat, finitus eſt, terminatus,ſic pariter indiuidua on nia, quæ exiſtunt finita funt, sed que preceſſerunt omnia,o que futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret Ariſtoteles, numerus uero cum statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus eſt,« actu, o deſcenden do,uerum indiuidua duobus modis dictis funt infinita, unico autem modo ut quæ præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA ARISTOTELIS. DE QVANTITATE. ENARAI numeri partes, ut quinque, & quinque. Animaduerſione dignum exemplar hoc in loco pofuit Ariſtoteles, cum dixit quinque,& quin que partes eſe denarij numeri, non enim dixit quis narium, oquinarium denarium numerum compone re, quia nulla numerorun fpeties componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam ex unis indiuiduis eiufdem fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel quaternis, ant quinnis numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex unitatibus tamen quinis o quinis que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari fpeties conflutur, eas ſententia Euclidis, Nichomaci, atque Boetij. Similiter & in cor pore fuimere aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun potes, quo partes corporis copulantur. Punctum esse lincæ terminum, or lineam ſuperficiei, e ſuperficiem corporis nemo neſcit, niſi qui Euclidis doctrina dignus est, ſed illud unum maiori egeret indagine, quo nam pa&o lineaſitforſan etiam ima mediatus corporis terminus,ne id Ariſtoteles aſſerens, quippiam affe rat contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi Elementorum inquit ille, corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia nem ocraßitudinem habet, folidi uero terminus fuperficies est, uide ergo quod ſolidi terminusnonſit linea ipfa, ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea terminusfit corporis manifeſtum est, fi idquod Euclides ait deffinitione nona undecimi elementorum non ignores, solidus (inquit) angulus est, qui ſub pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem plano, ad unum ſignum conſtitutis, plurium linearum igitur contactus (nulla ſuperficierum habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub illis igitur lineis angulusfox Tidus contentus, terminusest illius folidi, ville lineæ termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium, quin etiam inmediati terinini funtillius corporis, cum linea continentes illos angulos in puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de angulo, quod fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci mi Elementorum, & in fequentibus quatuor problematibus idem uit,in quibus docet conſtruere corpora regularia, queſuis angulis tangant ſu perficiem concauam circumſcribentis pheri, qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus continentur, &punctus ille, nedum est linearum terris minus, fed etiam regularis corporis finis,cum ſit terminus omnium linearum, quo termino tangit fphærum,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum ueritatem habere, ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum Euclidis ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie, quòd non tantum lineis, ſedetiam ipſis pun tis terminata fit, fide ea, quæ rectis lineis claudatur fermofiat, øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis fuperficiebusclauditur, hocquod dictum est in telligatur. Adid uero, quod Euclides primo Elementorum ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione uigefima, refponde, quod uerum dicit, figura rectilinea, inquit, contineturfub lineis reftis, enon die cit contineturfub punctis, agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab terminari punctis. Ariſtoteles hoc uidens, dixit corpus lineis termia narinon tamenfub illis contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum. Vel etiam reétè dices, fi ita fenferis, quòd figura in uniuer. ſali, linea claudatur, neque una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie claudatur, neque itidem una aut pluribus, o neua tra deffinitio fic in uniuerfum accepta habet exclufiuam particulam,cum autem ad circulum uel ſpherum defcenderis,unum linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias elſe claufum,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula exclufiua abEuclide,vel di cas, quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met interpretatio, ubi enim dixe rit, in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum, statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis et Euclides non dixit quòd punctus, ſed quod angulus tangat fphærum. Rurſus in pago quidem, multos homines, Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen funt illis plures, & in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui quidem & ipfi multo funt illis plures.Aduertas Ariſtotelem utroque exi emplo, o paucos & multos dixiſſe, comparationem faciens hominum ad loca in quibusfunt, non habens rationens hominum ad homines, ut fimile exemplun daretur ſiquis dicat pauciaurcifunt in arca, @mule ti in crumena, fi in crumena eſſent tantum fex, decem in arca, DE HIS QVÆ AD ALIQVID. VADRATIONIS enim circuli, & fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe uidetur eft autem fcibilis ipſa. Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt Arift.afferens id quod ignorauit, quia ſi non ignoraſcet eam,habuiſſet illiusſcientiam, o non dixiſſet (niſi forſan mendatio) ſcientia quidem now dum eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus adtempus uſqueſuum proprijs principijs quadraturam inuenerit, nequecitra ad hanc ufq; horam,quis oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu,et ipfa non minoriproba tione egerent quàm ipſa circuli quadratio,fedquidper iftud exemplum utilitatis Ariſtot. attulerit, illud effe puto, ut ammoto fcibili, oſcien tia ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt, ut putacaufa nunquam cauſante nuſquam effectus erit, quadratio igitur circuli cum non ſit, nequefcientia de ip. fa quadratura circuließepoteft. Quid nam antiqui de quadratura ſe na ferint in fractionibus Mathematicis declarabitur. DE QVALITATE. VARTVM qualitatis gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma, & in fuper rectitudo, & curvitas, & quicquid eſt hiſce fimile. De figura fcias Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte conſiderata, Jed de figura in re figurata exiſtente,ueluti in fubie & o, idem de forma, rectitudine, atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen ordinem quendam feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit, à ſimpliciori ad magis compoſitum. Primo enim defi gura,quæ linea, uel lineis clauditur, fecundo de his, quæ ſimplici bus lineis, aut ſuperficiebus uniformibus, nempe uel tantum re tis, aut tantum curuis, uelſolummodo conuexis,aut etiain tantum concauis continentur, modus iſte ſecundus à primo non nihil differt, in hoc differentia est inter utrumque, quia primomodo de co quod planum eft, ueluti ipſa papyrus, ſecundo modo, de eo quod corpus, utmons, ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus) planum uocat, quod autem eft ualde craſſum, corpus appellat, ut montem, a facilioriperſuadens tya runculis ea,quæ etiam à uulgo principium cognitionis ſumunt. Triana gulus autem & quadratum cæteræque figuræ, non uidens tur talem rationem ſubire. Ariſtoteles parum ante dixit, que: nam ſint et, quæ magis, minufue ſuſcipiunt, ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis,modo uides quod neque trianguliis,nequequadras tum,qualia ſunt, fed quanta, que intenſione remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter, aut circuli ſunt oinnia. Senſus huius eft, quòd triangulus. quilibet, uel omnia que triangula ſunt, niſi id quod tribus clauditur lineis,aliud non eſt, a circuli omnes, nil aliud funtquam und çlaudi linea, in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma. nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN PREDICAMENT A culus triangulus eft, neque utrunque aliquid unum eſt, licet utrunque figura ſit,ſed hoc æquiuoce, & non uniuoce eſt. Neque te turbet hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo, « quadrato propoſuit,c finit ſena tentiam de triangulo, e circulo, & non de triangulo, quadrato, quia de triangulo o quadrato dicens, ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam circulă intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero, quæ rationein hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim quadratum ma gis quàm altera parte longius circulus elt, quippe cum neu trum circuli fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit comparatio rationem, alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur. Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt,cum igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat, neque quadratum circulus eft,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus est, idem age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito Ariſtot.ſententiam hanc eſe, o ſi quadratum, &altera parte longius circulus eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum, atque circulus, non eft qualis tas, fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte longiori, lymas gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id, quòd Aris ſtoteles determinauit in capite de quali oqualitate, quo loco ait quara tum qualitatis genus eft figura,ad quodfoluendum, dicas figuram capi uno, atquealtero modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to quocunque, cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in quarto qualitatis genere, alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui largitur tale eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non refutat. Neque musica, cuiuſpiam musica, niſi generis ratione ad aliquid, & ipsa dicatur. De uniuersali Aristoteles,& non para ticularimuſica loquens, ſiue humant uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa intelligatur, biffariam eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu genere ipſo caufetur,et quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt, primo modo ad fubie &tum quod genus uocat, tan quàm ad effectricem caufam reffertur, ut ad ſonum numeratum, non due tem ad Platonem in quo recepta est, relatiue dicitur. Vel etiam dicas, quòd refertur rationefuigeneris, ut quatenus scientia adfcibile. ARISTOTELIS. IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONTSRATIVIS scientisprius eſt nimirum atque pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine priora ſunt. Scito elementa, ut deffinitiones, petita, animi conceptiones precedere ipfis propoſitiones in ſcientijs, id quod in Euclidis methodo patet,proa poſitio nem ſubſequitur expoſitio, quam expoſitionem statim deſigndz tio diagrammatisconſequitur, hancdeſignationem (que beneficio petia torum tantun fit) determinatio, determinationem demonſtratio, ſexto loco epilogus, ſiue propoſitionis repetitio. Vel dicas elementa,ipſatana tum eſſe petita reſpectu deſignationis tantummodo. Elementa etiam non tantum principia,utdeffinitiones,petita, & conceptiones animi, reſpectu propoſitionum, que per ea probantur dicuntur, fed ipſa propoſia tiones probatæ, quatenus ad alias fequentes propoſitiones probandas fumuntur, dicuntur elementa, hac de caufa, quidam uolunt libros quindecim Euclidis uocari elementa, alij nero non ob id, quindecim libri dicuntur elementa,ſed quia fingulis libris fua affiguntur principia, ut apud Campanum, ſed neuter modus dicendi placet, quin potius elea menta dicuntur oinnia, quæ in illis quindecim libris continentur, nedum propter deffinitiones, petita, Oʻanimi conceptiones,ut iſti, neque prou pter hoc, quòd alique prime propoſitiones, que demonſtratæ funt, fint pro alijs propoſitionibus fequentibus probandis principia, &elea menta,ut illi dicunt, quia tunc ultima propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam, cum ipſa ultima eſſet, ſed elementa, atque principia omnia illa dicuntur, reſpectu omnium propoſitionum per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad illos quindecim libros. IN PREDICAMENTA DESPETIEB.V.S. MOTVS. i bЬ & CRET 10 ', alteratio non eft. Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo Geometri co (quod etiam multis modis in Arithmetica Boetius docet)Gnomon quidem,ut in fecundo clementorum deffinitione ſecunda ha betur,figura eſt ſex laterum,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente circa diametrum, « ſuplementis duobus, quefigura ab Euclide primo elemen torum propoſitione tirgeſima quar ta habetur, quæ est 6, quam fi huic addideris quadrato a, quadratiſpe ties minime alteratur, licet fiat acre tio quantitatis, ſic ut in hac figu ra ab, quod una diuerfa peties alteri fpetiei addita non uariet fpes tiem,exempla plus centum in tabule Pythagora, apud Nicomachum, Boetium,in numeris inuenies, ut pu ta ex duobus longilateris altrinfecus ad quadratum pofitis, bis medio fumpto quadrato, quod fit, quadra = tumest,licetfacta ſit acretio, ut ex duobus, fex, vbis quatuor, ut ofto, ſexdecim exoritur,qui etiam quadratus eft, pari modo,ex duo bus quadratis, er bis fumptomedio longilatero, nempe ex quatuor, e nouem,bisfumptoſenario longilate ro, uiginti quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i. 13 est, que intelligas uolo ex in ateria primi quadrati, atque longilateri, ut ex ipſis unitatibus, ego non de numeris tūlis formaliter fumptis, cum prius corrumpaturſpeties preceden tis quadrati minoris, atque longilas • teri, in aliam petiem maioris quas drati, qui ex illis oritur, acretio. igitur ubique facta eſt, nulla intera ueniente alteratione in fpetie ipſius quadrati, licet e gnomonis atque longilateri apertiſsime facta fit alte ratio. Aduertas tamen, ad id quòd Ariſtot. ait in hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum, ſic, utfpetiesquadrati nõ alteratur.licet • fiat acretio, in Geometria uniuerſali ter ueritatem habet, fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris de fpetie ſubalternāte,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties ſubalternata, oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim,addus gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim, fit impariter par, uidelicet triginta fex, quorums uterque, o fifit quadratus, diucrfarum tamen fpetierum funt, ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani feftum eft,quod exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni uerfaliter Ariſtotelem intelligas de quadrati, quatenus quadratum eft ', Apetie, hoceſt de fpetie quadrati in uniuerfum, non de quadratiſpe= tie ppetialifsima. vel etiam dicas quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in Geometria uniuerfaliter non autem uniuerfaliter fimpliciter, hoc oft non in omnibus difciplinis. 11 14: IN PRIMVM LIB. IN PRIMO PRIOR V M AN T E SECVNDVM SEC.TV M. n A M fine uniuerſali nô erit fyllogiſmus aut non ad pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur enim mulicam uoluptatem & c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de ſcriptionibus, ut quòdæquicruriæquales, quiad baſin, ſintadcentruin ductæ a,b, fi igitur æqualem accipiata, c, d, angulum, ipſib, d, c,non omnino exiſtimans æquales, qui ſemicirculorum, & rur. fus c, ipfi d,non omnem aſunens eum qui ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus, totis Angulis, & ablatorum, æqua les eflc reliquos e,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab æqualibus æqualibus demptis,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni oportet uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes anguli ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem circuliſunt æquales per primam deffinitionem tertij elementorum,peripheria eiuſ de circuli uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me dietas circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia cumque omnes recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe quitur igitur, quod duo anguli a, c, d,cb, d, c, ſemicirculorum eiufdem circuli a, b, c, d, ſint ad inuicem æquales, hæc perfuafio fiat ei, qui non omnino exiſtimat æquales, qui ſemicirculorum, rurfus inquit c, ipſi d, angulus uidelicet uterý; minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto angulo, ideſt,toto angulo ſemicirculib, d,c, e a cd, quod ſic perſuadetur, árcus c, d, eiuſdem est peripherie, que unir formis eſt, c, d, eſt unice, om eadem re&ta,ſi igitur utrunque angus lorum minoris portionis ab utriſque ſemicirculorum angulis detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e, of, erunt æquales æquicrurus igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad bafim poſitos æquales angulos, quod demonſtratum fuit,ſumpta iſta uniuerſali, ſi ab equalibus æqualia aufferantur, reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR VM ANTE TERTIVM SECTV M. ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere, ut de bono,aut fcientia,priuate auten fecundum unamquainque, funt plurima quare principia quidem quæ ſecundum unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au tem,ut Aſtrologicam experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ, acceptis enim apparentibus fufficienter, ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c. Compertum eſt aſtrolabio ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad uſas finem Virginis, quam à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o hiſtoria traditum eft, propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem tres habere orbes, quorum medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis apparentibus, facile eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in unaquaque diſciplina, prima principia hiſtoria data, &dereli Eta ſine probation funtpofteris, quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis (hiſtoriæ enim proprium eft ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de principijs aliquafiat demonſtratio,illam « impro priain, a poſteriori, feu à ſigno eſſe, nemoeſt quineſciat. ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM. On oportet autein exiſtimare penes id, quod exponimus, aliquid accidere abfurdum nis hil cnim utimur eo, quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum Geometra, pedalem, & rectam hanc, fine latitudine dicit, quæ non ſunt: Textushic exponitur primo pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto intellectus ea poſsit ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ nunquam, fub fenfu fuerunt? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod animam eſſe, intelligit intellectus, quam tamen nunquam uidit oculus, aut manus tetigit. Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus ſenſationem habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem artem abſtraftam, quætamen kon eſt, niſi indeterminatis, ſingularibus hominibus, fic etiam li ncam ſuperficie?n intelligit, que tamen non ſunt, niſi in linea atrd. mento picta, o ſuperficie, in corpore naturali, IN SECVNDO PRIORVM CAPITE DE PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic facere,utſtatim cens ſeat quod propofitum eſt, contingit uero, & in alia tranſeuntes apta nata per illud mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie pio,uelutiſi,a, monftretur per b,b autein per C, c autem natun efſet monitrari per a accidit cnim ita ratiocinantes ipſum a,per ipſuninet a monſtrare, quod faciunt, qui coalternas putant fcribere latent enim ipſi ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt poſsibile monſtra: re non exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans tibus unumquodque eſſe dicere, fi eft unumquodque, ſed ita omne erit per feipfum cognoſcibile, quod impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare, quod e ſit a, &id oftendatur per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus (e est b, beſt a, igitur e eſt 4. Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc, e eſt b, fit per hoc medium f, ut in hoc Syllogiſino (e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b) Cuius minor, uis delicet hæc, & eft c,fiprobetur. Tunc reſumitur prima concluſio pris mi Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt c,igitur e eftc) &fic e eft a,quia e eſt a, Ofic error ijte uerfatur in probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c, oper a, propoſitio uero que probanda proponebatur, hæcuidelicet,e eft a, per tria media per b., perc, & per a, probatur, ſimiliter errant illi, qui nituntur probare parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales duobusreftis, quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a, b, c. cuius latusbc, ſi protendatur,caufabitur augulus d, c, d, exterior equalis duobus angulis a, b, intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N catis, ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis, à punéto c, parallela dua catur ipſi b, a, quæ fitc, e, patea bit per ſecundam partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum, - quòd triangulus a, b, c, habebit tres duobus re&tis æquales. Si aus tem fumatur probandum quod b, a, uc, e, fint parallelæ, per hoc medium, quia triangulus b, a, c, habeat tres duobus re&tis æqua. les, ideo ipſe parallelæ ſunt, ſic, exterior æqualis eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis, qui exterior angulus a, c, d, in duos pars titur angulos in a, c, e,we, c, d,, c, e æqualis eſt b, a,, ere, c, d, eft æqualis a,b, c; quorum utrunque probatur per lis neas eſſe parallelas,ut per uigeſimamnonam primi elementorum,feques retur igitur, quod a,b,oc, e, parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut b, a,oc, f, parallelæ funt,quia triangulus a, b, c, habet tres duoc bus rectis equales, fed a, b, c, triangulus habet tres Angulos duos bus reftis equales, quia a, b, & c,e, parallelæ ſunt,igitur a, b,a col, parallele ſunt,,quia parallelefunt, quod uanum eft, oprobare quipe piam prius per aliquod pofterius, quod pofterius æget illo priori adſui probationem. Aliter exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec, d, queſit parallela ipſi a, b, per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat angulus e, c, d, æqualis angulo 4,6,6, & argue poſtea,quod d, 0,4, ſit æqualis angulo b, a, 6, quod eſſe non poteſt, niſi b, d,egu c, d," parallele fupponantur, fic b connectatur inductio, quia Trian gulus a, b, c, habet duobus reftis æquales,parallelæ funt a,b, c,d, &quia paralellæ funt, ideo Triangulus habet duobus rectis æqualis, igitur paralella funt, quia parallele fit. a: í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM idem utique falſum per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue niens, ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco, & fi triangu lus haberet plures rectos duobus. Quod autem parallela a, b, c, d, coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e, 8, 6, maior eft angulo intrinſeco g, b, d, (quod quidem ſummitur falfum, pe nes quodſequitur impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam igi tur communem fententiam, ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis, illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi protrahantur. Et fi triangulushaberet plures rectos duobus. Duo Anguli g, h, k,68, k, h, ſuntmaiores duo. bus re&tis, multo magis igitur b, h, k, d, k, h, ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a, h, k, k, h, ſunt minores duobus res a. h b & is, quia omnes quatuor 6, h, k. a, b, k. d, k, h. @c, k, h. og ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam primi Elementorum bis fumptam,igitur b, a, d, c, f adpartem a, c, protracte concurs rent, per illam animi conceptionem,fire &ta ſuper duas reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una parte minores duobus reétis, illa duæ lineæ ad illam partem protracte neceſſario concurrent. ! Co Cс PRIORVM ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT SECVNDVM SVSPITIONEM. ELVTI fia, ineft omnib, buero omni c, a omni c inerit, fi itaque quiſpiam nouit quòda ineſt omni, cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil prohibet ignorare c, quòd eft, ut ſia duo recti, in quo autem b, triangulus,in quo uero c, ſenſibilis triangulus, fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c,fciens quod omnis trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit idem. Textum ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea, quæ ibi dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur, omne b eft a, omne c eſt b, igitur omne ceſta, uel omnis triangulus habet tres duobus rectisæquales, qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus, igitur qui conſtitutus eft in tabula habet tres: duobus reétis æquales,ſed ſimul dicas o charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos duobus rectis æquales, omnec fen. fibiletriangulum eſt triangulum, igitur omne c ſenſibile triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis. Cum teneret quis hanc uni uerfalem, omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis nondum fciebat, quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi, quòd han beret tres, uidelicet duobus re &tis æquales, niſi potentia, non autem actu; quàm primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore, statim intua. lit, «cognouit, quod ſenſibilis triangulus, tres duobus rectis pares haberet. Cum autem ait ſuſpicarinanque poſſet aliquis, non eſſec, non eft intelligendum, ſic ut Græci, o omnes exponunt, quaſi quod ignos retur an fit c, fed hoc non uult Ariſtoteles dicere,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet aliquis non eſſe c, hoc intelligas modo, quod stante prima uniuerſali, poterit ignorare anc, habeat tres duobus re &tis equales, licet non ignorauerit c effe, fed ignorabit c eſſe huiuf modi, utputa, quod habeat tres duobus rectis æquales; ſcietigitur po tentia in uniuerſali propofitione, Waétu ignorabit in particulari ante quàmfiat fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto,feu fa & ainduftione Geos trica de qua inprimo posteriorum Textufecundo)a & tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus duobus re&tis tres pares habeat,nihil igitur prohibetfi. Cij 20 IN SECVN. RIO. ARIST. mulſcire, ignorareidem ſecundum diuerſa, ut ſcire potentia iniſud uniuerſali, & antequam fiat inductio, oignorare ſimpliciter, ut pus ta in particulari. DE ABDVCTIONE. UT Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb, c, nanque & fic proximius ipfi cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e,re etilineum, in quo uero z circulus, fi ipfius é z ſolum eſſet medium,hoc, quod eft cum lunulis, æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum cognofcere. In predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit determinatum quantum fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem, e de quadratura fuſius in fragmena tis noftris, fuper Logicis, multa declarabo, quo ad preſentem te - xtum Ariſtoteles facit fyllogifmum, cuius minor, cumſit dubia e oba ſcura, dicit unum eſſe medium ad probandam illam, arguit e, rectilis neun, d quadratur, ſed z, circulus fit reetilineum, igitur circulum quadrari,poſſet quis eſſe prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho, Hypocrates chiusprobare per id medium, quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere, diuerſis tamen medijs, alio enim mos do tentauit Antipho, o aliter Hypocrates chius, qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum, eo artificio, quo Euclides docet ultima ſecundi Elementorum, oſyllogiſmus connectatur ſic, ut fimul dicam characteres, me terminos Ariſtotelis, e, rectilinea figura, d quadratur, fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d, quadratur. IN PRIMVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA INTERPRETATIO. TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere, alia nanque, quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft, quod dicitur intelligere oportet, quædam autein utraque, ut quoniam omne quidem, quod eſt, aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt, Triangulum autem quoniam hoc fignificat; ſed unitatem utraque, & quid ſignificat, eſt quia eft, non eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis. Græci omnes, pariter & Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco Ariſtotelem, nedum qui ſcripſerunt, fed etiam recens tiores, quihac tempeſtate eum interpretantur, & priuatis colloquijs, epublicis etiam lectionibus. Anſammultorum errorum pofteris omnis bus prebuit. Ioannes Grammaticus Cognoinento Philoponus, ſuper hoc Textu in cuius expoſitione plufquain errorum mille contra Ariſto telis ſententiamfcripſit, qua decaufa, ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ logicorum utilitati conſulens, lucidum, facilein, atque clarum Aris stotelem in hac parte reddere decreui, o inſaniam ignorantiæ depri = mere, ne etiam in futura tempora amplius à forticulis doctrina tamclan rißimiPhilofophilabefactetur, ſcito in primis, tres eſſe modos pres cognofcendi, quos Aristoteles ponit, in hoc Textu, unicuique hos rum modorum aptißimum,atquefacilimum exemplum poſuit, feruans exemplorum ordinem cum ordine modorum precognofcendi, ſic, ut primo precognofcendi modo primum exemplum aptet,ſecundo modoſe cundum, atque tertium tertio. Nequete perturbet, quod Ariſtoteles IN PRIMVM LIB. ait, dupliciter fit neceſſarium præcognoſcere'. Tripliciter autem dixes rim ego, primo autemmodo, opus eft præcognoſcere, quia eſt tantum, alio autem modo, quid eft id, quod nomen dat intelligere folummodo quos duos modos ab inuicem ſeiunctos, in tertio modo in unum aggregat uerum methodum compoſitiuam ſeruans. Duo igiturfunt modi precos gnoſcendi, alter quidem in parte oſeparatim, reliquus uero in totum, oin parte quidem biffariam. Vnus tantum quia eft,reliquus uero tans tum quid ſignificet, in toto uero ille eft modus, qui horum utrunque in ſe comple &titur. Exempla Ariſtotelis multos Geometric ignaros turs batosego stupidos reliquerunt, qui ab Apoline reprehenfi, &fpreti à Platone, uagantes fomniauerunt, hoc in loco, tria attůlliſje Ariſtotes lem exempla, in ſcientijs diuerſis. Nempe Methaphisica,Geometria, O Arithmetica, quod chimericum eſt, ex ipſa uunitate magis uanum, fi enim ueftigijs fapientum Methaphiſices,Geometrie, & Arithmetica, prima limina attigiſſent, non incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim, quod artificio, id Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum uniuerſale est, tria exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus fpeculatiuis, &uniuerſalißimis attuliffe, ſic, uttandem concludant in ſua expoſitione Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere, &uarias plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere, ut tandem tria formoſa, &pulcru exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione, datum eſſet unitas, queſitum triangulus, e principium Methaphiſicum, ualeat pereatque cim ins terpretibus hæc interpretatio. Non est Ariſtotelis confuetudo, exeine pla afferre (aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi,ut do&trina, que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura, atque diffi cilis, fole clarior, atque perfacilis omnibus reddatur, quid rogo cons fufius, quàm in una re logica explicanda, tria exempla mutila, o tim diuerfa afferre? ut in unotantum quia,in alio exemplo,folum quid,c. in tertio exemplo, ey quia, &quid, ut tandem in piſcem definat fora mofa demonſtratio. Dico, omnia tria exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque determinata Arte; uel diſciplina Geometrica, quicquid Niphlus fentiat & fequaces, ex nulla eſt alia ueritas in hoc Ariſtotelis Textu, neque uerus fenfus, qui ad Ariftotelem faciat preter hunc, quem fubfcribo, uelint nolint omnes atque uniuerſi, qui philoponifena tentie initi uidentur, quem nullo modo ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito primum, quod de lineis re&tis a centro ad circunferentiam du &tis POSTERIORVM ARISTOT. Veruin eſt dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non equales, ut etian de quolibet quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia,uel in terſe nonſunt æqualia, uerum est dicere quia eſt,ſed alteram partem hu ius diſiun £ ti fummit Geometra deffinitione xv. primi Elementorum, cum Similiter alterum alterius diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi elementorum, &hoc est uerum, quia est linearum à centro ad circunferentiam protractarum, ut adinuicem ſintequales, « prima ani mi conceptionis,utſiab æqualibus equalia auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum poſitum est,quid hæc uox, Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra deffinitione xxi. primi Elemen torum, ex ſignificatfiguram tribus re &tis lineis contentam,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit, Quatenus tamen quæritur,nondü habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem,quæ quidem unitas, a quid ſignificet, quia eft,utrunque habet. Hanc ego unitatem contra oma nes loquentes, « ad Ariſtotelis ſententiam aio, eſſe non eam, qua unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab illa unitate, quæ eſt principium numeri dicitur, nempe una linea recta data ſuper quam triangulum collocare oportet, ſiue ille fit æquilaterus, ut Euclides proponit, uel iſoſcelesaut gradatus, ut Arisſtoteles querit in uniuerſum, quod quidem Proclum diadocum,& Cam panumfuper primum primi Elementorum, non latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in decimaquarta primi Elementorum, tàm quàm queſitum, in qua quidem decimaquarta primi Elementorum ni hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea concludi tur, quæ linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum Euclidis, de qua lineæ unitate precognoſcitur, quid, utſit a puncto in punctum breuiſsima extenſio per diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum, precognoſcitur etiam, quia est,cum ipfa detur in prima pros poſitione primi elementorum. Ab Euclidis igitur methodo non recedens Ariſtoteles facilitat, declarat exemplis ubique locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana Ariſtotelis interpretatio eft, alia, ut dixi nulla, fomnia igitur quæcunque diluantur, putas ne Arie ftotelem afferre illud Methaphiſice principium, nullo modo ad artem ali quam peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica inſtituendo? ubi Methodus? que maior ordinis peruerſio? quis nam in Logicum eua dere poterit niſi prius Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11 nam, IN PRIMVM'LIB. 2 tate plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas. De unitate aus temdicit Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere, ſicut docet Euclides pros poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum, fi unitas numeret quemli bet numerum, quoties quilibet tertius aliquein quartum, erit quoque, pernutatim,ut quoties unitas numerabit tertium, toties ſecundus quar tum numerauerit, datum inquit Ioannes, eſt unitas, quæ eft principium numeri, de qua habetur &quid, & quia eft, o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes ueritatem quidem dicere, licet non ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod Ariſtoteles neq; exponitur, & quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit,ut quod unitas,quæ eſt principium numeri, fit datum,non enim eſt unitas datum in ſextadecima ſeptimi Elementorum, fed unitas cum refpeétu ad numerum aliquem, quem numerat, eſt datum, que = ſitum autem eſt, ut ipfa tertium numerum numeret, ut ſecundus nus merus numerat quartum, quemadmodum amplius declarabitur in de tris plici errore circa uniuerſale.Preterea dignitas ſiue premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt duodecinaſeptimi Elementorum, que probatur per precedentes, onon eſt immediatum principium,exponitigitur Ariſtoc telem per unam demonſtrationem, quæ non procedit per immediata prin cipia, quod non eſt imaginandumin hoc propoſito, preualet igitur ex poſitio de unitate lineæ, quia ibifit deductio per immediata principia ut per xv.deffinitionem,& prima animi conceptionem primi Elementorum Ecce quàm aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis. Die co igitur datum, eſſe unam rectam lineam, quæſitum, ut ſuper ipfarn trigonum conſtituatur, &quod, id conſtitutum, ſit trigonum, probas tur per decimamquintam deffinitionem, vprimam animi conceptionem primi elementorum. TERTIVS TEXT V S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem. Aliorum vero, & fimul notitiam capientem, ut quæcunque, con= tingunt eſſe ſub uniuerſalibus quorum haa bent cognitionem; quòd quidem omnis triangulus habet tres Angulos æquales duobus rectis præfciuit, quòd uero hic, qui in ſemicirculo cft, triangulus fit, fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM ARIST. ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles, primus, qui eft per reminiſcens tiam,de quo nondubitarunt antiqui. Alter uero, es ſecundus est, quo de nouo aliquid ſcimus, qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo, ſit noſtra expoſitio. Ioannes Grammaticushanc para ticulam, fimul inducens cognouit, interpretatur fic,ut per inducen tem intelligat eum, qui habens triangulum in ſemicirculo pićtum, ofub penula abſconſum, oftendat eum triangulum eſſe, quaſi abijciens penus lam, ey aperiens manum obijciat ipfum triangulumoculis uidere uolens tium, &Latini omnes fimiliter,& Aueroes fequuntur ipſum in hac interpretatione. Non poſſum non mirari hominisiftius alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium,que quidem interpretatio, fi ads mitatur,statim uidetur, quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus, id do ceat, quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti textu,Nemoaccipit talem propofitionem,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle triangulum,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd neſciebant eameffe parem, quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas. Ioannes &omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod illa littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo triangulus fit, fimul inducens cognouit;cognouit quidem quodfit triangulus, per induétionem, id eſt per oſtenſionem ad oculum, aperta manuin qua abfcondebatur, ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul, quod ridiculum est, o uſque ad hæc tempora, falfum pro uero habitum,henuga deſtruunt Ariſtotelis ſententiam; non enim Ariſtoteles de trigono in ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum ſit, neque igitur estopus, ut dubium remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd trigonum ſit, quia ut dixi, hoc non reuocatur in dubium, ſed has bita, hac uniuerſali,omnis triangulus habet tres æquales duobus res Etis, dubitatur an qui in ſemicirculo eft triangulus, &qui quidein a &tu uideturſit huiufmodi, utputa, quòd habeattres angulos equales duo bus rečtis, quod quidem manifeftatur non per ſenſitiuum indu &tio s nem, quia per illam oftenditur tantum quòd fit triangulus, ut illi mda li interpretes exponunt. Neque id oftenditur per inductioncm Topia cam, que à particularibus ad uniuerfalem procedit, ocontrariatur huic poſterioriſtico proceſſui, quifit ab uniuerſali ad particularia, rea ftat igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur Ariſtoteles, quam dicunt aliqui elle ſenſitiuam, aliter tamen ſenſitiuam quàm loans nes Grammaticus intelligat, dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1 D IN PRIM VM LIB. couptatur in Syllogiſmoſic, omnis triangulus habet tres angulos equat les duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo, eſt triangulus, igitur hic qui in ſemicirculo, habet tres duobus rectis aquales,ecce inquiunt,quos modo minor eſt ſenſitiua, quia ponitur illud pronomen oftenfiuum, isti funt in errore maiori forſan quàm precedentes, putant eniin quod illud pronomen, &fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum, quid igitur dicendum erit de hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius, huic Apolini coronam Papus, iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum; ueletiam iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat, non ne omnia ifta pronomina oſtenfiua, funt ad intela lectum, & ſi quandoque per accidens ad ſenſum ſint oſtenſiua? ideo pronomen in iủa minori, ſiper accidens oftendatad ſenſum, oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum, aliter cecus non poffet illum Syla logiſmum efficere, quòd manifefte falfum eft, ueritas non eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes,quod ila inductio nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris, fed hic qui inſemicirculo est triangulus, fub illa uniuerſali nota, omnis triangulus habet tres angulos æquales duobus reétis, illam quidem diſpoſitionem premijarum in figus ra &modo, uocant inductionem, hoc autem non facit fatis ad Ariſtotea lis litteram; quia ante quam inferatur concluſio, neſcitur de triangulo conſtituto inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales niſi po= tentia, poſt quam autem illatafuerit concluſio,fcitur a &tu, o noi ama plius potentia, quòd uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma pletus ſyllogiſmus, fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula,habet tres æqua, les duobus rectis. Agamus igitur & nos,o. Ariſtotelis litteram prius diſponamus, ſubinde ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo conſtituto fimul inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum particularem trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis, &hoc,inducens, uerbum hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram Geometricam,reliquam ſyllogiſticam, quæ etiam ordine ponuntur in littera Ariſtotelis dicentis,antequàm in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus, quæ duo uerba, non ſunt fynow nima, ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum, inductum ſit, uel fa& usfuerit fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non utitur termin nis ſynonymis,neque Ariſtoteles multiplicat uoces, terminos ean dem rem ſignificantes. Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio, &aliam ifta uox,fyllogiſmus,ſignificat, non gūteſt indu &tio aliqua POSTERIORVM ARISTT. prediétismodisfupra citatis, ut probatum fuit, relinquitur igitur, ut inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus reitis is,qui infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque excogitari poſsit quàm Geometrica induétio. Ila autem huiufmodi est, fuppofita deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum, Angulus c b d eft æquas lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele - mentorum Euclia dis, &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam partem uigeſimenone primi elementorum, totus igitu * cbe, eſt æqualis duobus angulis cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet duobusrectis, igitur angulia, cum eodem c b a, funt equales duobus reétis,quod inducendum erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non erat abſcon fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat inductio de qua Ariſtoteles intelligit, quam inductionem quis unquam utcun queetiam intin &tus litteris dicet, unum eſſe fyllogifmum? quofyllogif mounico (it inferius declarabo) poteratidemfyllogizari, neque enthis meina unum eft, cum ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und tantum conſequentia eft, quòd neque Topica, inductio, patet; quia ibi à ſingularibus ad uniuerfalem progredimur,in hac autem induétioneper decimamtertiam Guigeſimănonam primi Elementorum,quæ uniuerſales magis funt quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi Elementorum per quam patet intentum de triangulo in tabula conſtituto. Neque mi reris quod in hacinduétione non fumitur illa maior, omnis triangulus habet tresangulos æqualesduobus re&tis, quia illa fumiturin inductione fyllogiftica, in inductione uero Geometrica, fumitur decimatertia,cui gefimanona primi Elementorum, in utraque induktione cumGeometri ca,tum etiam fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad particulare,uel ad minus uniuerſale, Syllogiſtica uero induétio,ex duabus premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit, quafyllogiſtica indu &tione fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum partitionem loan.Grammatici,uel Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna, pero expoſitione Tex.clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum, & alibi, habita o ſcita hac uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales duobus reétis,fatur modo aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo, ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur, quod qui in femicirculo eft triane gulus, ſit huiuſmodi, ſicut ſcita decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia, quod qui in ſemicirculo eſttriangulus, duo bus rectis tres habeat pares,licet nefciat, an qui in ſemicirculo,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem, o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem, quæ ſemper ex ueris, primis, caufis ila latiuis conclufionis, ex magis notis procedit, non autem ex immediaa tis ſemper, nequc ex cauſis quedant eße, fed ex his tantum, quæ dant propter quid iŪationis, tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam uoco,non est una conſequentia, fed plures, ut plurimum, neque per immediatafemper procedit,fedalternatim per immediata, oper ea que probatafunt procedit,inmediata autem, uoco propoſitiones per fe notas, etiam illas propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant fequentes, de hoc quidem toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit, nifi per particulas illas, utſupra commemoratas, ut ex ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut de enthymemate, quòd pluries fumitur in tali induétione Geometrica,o de fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non tamenadunun tantum,ſed ad pluresfyllogif mos, neque uelim dicas propter hoc, quod Logica, Geometriam debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que natura nobis ſuccurrit. Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per inedium ultimum cognofcitur, ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de fubiecto quoppiam. Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed in fua ues ritate duo errores continentur, primus eft, quod interpretatio non est ad propofitum, fecunduserror, quia id quodaiunt contradicit huicloa ÇO Ariſtotelis, inquiunt enim, quod per medium, ſcitur ultimum, hoc est, quod ultimum. Nempe maior extremitas concluditur per medium de ipſa extremitate minori. V.ideas quanta fit horum hominum uanitas, Ariſtoteles negatiue loquitur. Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi autem uani exponunt, per medium ultimum cognofcia tur, aduertendum quod medium in propoſito intelligit Ariſtoteles,quod non tantum fitu,medium intelligas, quod bis in premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam, quodquid eft ipſius rei, ut POSTERIORVM A R IST. fparfim in primo poſteriorum, e in ſecundo manifeftuin eſt, in pri moenim, Textu 201. Juxta partitionein philoponi, uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem; ait Ariſtoteles, quod uniuerſale mon ſtratur per medium, &non particulare; uerbi gratia,hic non per mea dium,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates eſt riſi bilis, ly enim hono, non eft quodquid est, ſed eſt ſubiectum, hic uero per medium, omne animal rationale eſt riſibile, omnis homoeſt aniinat rationale, ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium, fi inftes fic,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal rationale,igitur Socrates est riſibilis. Dico quòd hoc non eft per fe,eta primo de Socrate, quòd fit animal rationale, nec etiam riſibile per ſe, & immediate,argués igitur fic,omnis triangulus habet tres æquales duo bus rectis,fed qui in ſemicirculo, eſt triangulus, igitur qui in ſemicir= culo habet tresæqualesduobus rectis. Ibi enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed potius ſubie &tum, feu genus, ibi igitur non eſt demonſtras tio, licet fit fyllogifmus, &fi adhuc inftetur,quod per decimumtertiam &uigefimamnonam prini,demonftretur quòd qui in femicirculo, ha beat tres equales duobus rectis, igitur ei qui in ſemicirculo eſt, non con uenit; quia triangulus;fed per decimamtertiam euigeſimamnonam pris mi Elementorum. Dico quod in inductione Geometrica, qua de triana gulo in ſemicirculo cöftituto oftendebatur,quod habet tres æquales duos bus rectis per decinătertiam (uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit triangulo quatenusſit in femicirculo deſcriptus, fed ut trian. gulus eſt, ut oſtenditur ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elemen torum,fecundoautem, &per fe non immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur ſingularium (quorum quodque non predicatur de ali quo ſubiecto, quiafingularenon predicatur deſubiecto aliquo, ut in pre dicamentis determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est, non per medium, ultimum cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie iorem extremitatemineſſe minori,fedhoc non permedium, id est non per quod quid est. Si vero non eft ita,quæ in Menone contin. get dubitatio, aut enim nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti quidam ni. tuntur foluere dicendum eft particula illa. Si uero non eſt ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab uniuerſali ad particulare progre diendo; tunc, quæ in Menone eſt, contingit dubitatio, particuld illa: Non enim iam. Yerbum illud iamfuturi temporis eſt, fic utfit ſens I N P R IM VM LIB.ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos fcire de nouo,quod id addiſcimus, quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas poſt hac, eo modo, quo illi nitebantur foluere, fed eo palto ut predocui, it de omni dualitate fciens quod par ſit, de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea fcis potentia, quodſcit par. Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt. Exponunt Latini &Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil fcia rede nouo,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos, qui dices bant quod de nouo fcimus, &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem,hoc argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe parem, nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire, ita eſſe, ſübinde atulerunt Platonici dualitatem dicentes, igitur fciebatis etiam hanc dualitatem, quam manu tegebamus eſſe pas rem, quod tamen effe non poteſt, quia nefciebatis ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio, prius fatebantur ſeſcire omnemdualitatein eſſe par rem, &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe, quod manifeſtum contradictorium eft, reſpondebant autem illi, qui dicebant nosfcire de nouo, quod interrogati de omni dualitate, an par effet, reſponderunt non de omni dualitate abſolute, fed de dualitate quam utique dualitatem effe ſciebant, modo de illa, quæ abfconfam tenebant, oque non erat fibi nota, ut eſſe dualitas, non fatebantur illam eſſe parem, quia neſciebant illam effe dualitatem, ita ut hec expoſitio, eotendat, ut Ariſtoteles res prehendat illos, qui dicebant nos ſcire de nouo, quia male foluebant Argumentum Platonicorum, xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni. Cos. Expositio autem mea, e directo opponitur, huic omnium expofie tioni, ſic ut Ariſtoteles arguat Platonicos male foluentes argumentum dicentium nosfcire de nouo, & contra hos dicentes, quòd fcimus deno uo, nihil in hoc Textu dicit Ariſtoteles. Pro cuiusfententia declaranda, Queritate, est in primis aduertendum, quod in hoc textu, quoſdam in telligit Ariſtoteles dicentes, quòd de nouo nos fcire contingit aliquid, quod tamen etiam preſciebamus in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo argu mento probant intentum contra tenentes, quòd ron ſcimus quippiam de nouo, quorum negantium de nouofcire reſponſionem redarguit Ariſtoa teles, einterargüendum, peccant og errant in perſuadendo id, quod probare nituntur, quem errorem, &peccatum dicentium nos de nouo ſcire, non redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas, altera est, quia eft adeo manifeftus, ut fine reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM ARIST. meil, habita intelligentia primi textus huius primi, reliqua caufa quare: non eos redarguit est, quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem, dicens omnis doétrina, o diſciplina intellectiua a diſcurſiua, ex præexiftens ti fit cognitione, ex preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue laribus ad uniuerſalem, hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali ad fingulare procedit, ideo eos non reprehendit Ariſtoteles, quia, quifq; per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter arguendum. Inquiunt enim arguentes, noftis neomnem dualitatem effe parem necne? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam dualitas tem, quam non exiſtimabant eſſe, quare neque parem, en dicebant iſti arguentes, ſciebatis in uniuerſali, quod omnis dualitas est par, otas hoc, ideſt paritatem de hac dualitate, qua manu abſcondebatur neſciebatis, quiaignorabatis quid eſſetin manu, num dualitas,uel quips piam aliud, autnihil, « nunc uos fcitis iam per apertionem manus prius eam tegentis, in particulari hanc determinatam, & particularem dualitatem eſſe parem, ecce quomodo ab uniuerſalicognitione deuentum fuerit in cognitionem particularis, quod prius dubium apud uos erat. isti ſic arguentes peccant contra primum textum, utſupra dixi, ocon tra Tex. 112. Neque per ſenſum eft fcire, putabant autem isti ars guentes illam intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam. Quia tamen cum Ariſtotele in intentione, quod de nouo fcimus, & quia etiam error in perſuadendo manifeſtus eft, ut predocui, de intelle &tiua quidem & diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos,tam quàm non concludentes propoſitum, quodfatebantur, & diuertit ſe ad Platonicosmale foluentes argumentum,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de nouo addiſcere, uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic, non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem, neque dixerunt ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem,ſed dixeruut dualitatem, quam utique nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id, quod manu tegebatur effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted,an parfit,uel etiam impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe parë uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire, quam quidem dualitatem eſſe nouerant, uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil fciebant, nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant IN PRIMVM LIB. 3 idem uno modo, ut in uniuerſali de illa dualitate,quòd effet par, u idem ut quod effet par ignorarent in particulari, atqui ſciunt cuius des monſtrationem habent, & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni, de quo utique nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit, ſed fimpliciter acceperunt; illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c. Similiter reſponderunt illi, quod ſciebant omnem dualitatem efle parem. Verba hæcfunt Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu interrogat, aut nulla propoſitio accipitur talis, quòd quem tu. noſti eſſe numerum dualem, nofti ne eſſe parem? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe triangulum, quòd habeat tres æquales duobis reétis? ſed accipit de omni numero duali, ede omni figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam inerudito colloquio fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem nofti, quòd par fit,autnon?ines ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem reprehendit Ariftot. reprehendens quidem Platonicos malefoluentes, cui non illos de nouo fci re dicentes perperam arguentes; &modum fciendiquo de nouo fcimus fimpliciter id, quod potentia ſciebamus epylogando dicit, Sed nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit aliquis ſic in particula ri, ante ſciuiſſe in uniuerſali, & in particulari priusignos raſſe, abfurdum enim non eft,fi nouit quodam modo, quod addiſcit, ſed ita eſſet abfurdum, ut inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus &expoſitio fiat ſuper Textu fecundo priorum, in capitulo de Deceptione ſecundum fufpitionem, qué etiam Textum perperam interpretātur pſeudo philofophi. De dualitate autemſiquis nunc interrogaretur, noſti ne omnem dualitatem eſſe parent nec ne? annuat quod ſic, o ſi offeratur abfconfa in manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in potentia parem effe, licet neſciat a & u, quod dualitas ſit,e eft fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione, cui dubium eft fecundam eſſe pres ftantiorem prima?niſi quis dicat primam eſſe preſtantiſsimorum philo fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium prefertim iuniorum mentem Ariſtotelis interpretantium, fecunda uero interpre tatio noua est, o hominis uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra tam preclariſsimosphilofophos, quihæc uerba, &fimilia proa ferunt ex Macrologia loquuntur,non ualentes intelligere nifi ea, que auctoritate proponuntur, fpreta ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM ARIST. neruditus est, quipPomba Platonicos, qui ætatem confumpferunt in fua opinione de reminiſcentia, argumentari contra Peripateticos, niſi a Peripateticis prouocati ſint? &quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur? quo pa &to excitabuntur, nifi co argumenti modo, quem in ſecunda interpretatione narrauimus? deinde quare magis redarguit Ari ſtoteles ſemiperipateticos illos, qui conueniebantfecum in concluſione, quàm illos, quie diametro cpinabantur contra ipfum? depoſitaigitur emulatone iudicet id quiſque, quodmagisueritatem ſapit, uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum, & erit,fifecunde interpretationi be rebit, primafpreta, &neglecta omni ex parte. TEXTVS NON VS. ERA quidem oportet eſſe,quoniam non eſt fcire quod non eft,ut quòd diameter fit fie meter. De diametro, coſta pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus, & in Methaphy: ficis, quapropter, hoc loco declarabo eius fententiam, ut poſteafit omnibus in locis clara, primoſcire debes, quod uera eſſe oportet ea, quæ fciuntur, ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in concluſione, &non pro ueritate, quæ in prins cipijs est, a hoc probat indire & te, quia fi falfum ſciremus, utputa quod diameter eſſet commenfurabilis coſte, tunc imparia æqualia paribus fierent, o e conuerſo, ut ſi paria equalia imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis, quod estfalfumſi igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris, fed pofuit, quòd fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris, quod eſſe non poteft per immea diatam contradi tionem.Diametrum igiturincommenfurabilem cofte ef ſe noſcimus, quia impar pari æqualisnon eſt,in qua re,talis eſt demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum, qua ducitur ad hocincommodum, pofita iſta, quòd diameterſit commenfurabilis co ftæ,fequitur, quod numerus impar eſſet par, quod eftcontra primum principium ab Euclide poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam nono Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum. In quare demonftranda fit diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum, quia illa communis, mene Б IN: P R I MVM LIB. b Cee '. fo... h............. g k.... ei6 fo L. m 64 kıż8 h 81. a. fura,fehabebit ad illas duas lineds, diametrumfilicet, &coſtam a bigo á c, ficut unitas ad unum atque ad alium numerum,unitas enim ut duos numeros illos metitur, ſic illa communis menſura diametrum, o coſtam dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte, quòd quoties continebitur in uno ats que altero numerorum unitas, toties illa communis menfura, quæ linea eft, continebitur in diametro, atque coſta, fint ergo numeri e @ f, qui ſint minimi in fua proportione, eritque ob hoc, alter eorum impar, quod fic probatur, fi enim uterque eorum effet par, non eſſent iammis nimi in fua proportione, ſi enim par uterqueſit,uterque biffariam die uidi poſſet, outraque mediet asunius ad utramque alterius medietatem eandem haberet rationemficut totum ad totum,quorumfunt medietates, ut patet de octonario atq; ſenario, cuius medietates ſunt quatuor, & qut tuor, atque tria etria,eadem enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi inſua proportione quod est contra aſſumptum, quia fuæ medietates effent minores, quadratiigitür illorum minimorum e « f, ſint ge h, ſi ergo e eſſet impar, a f par, erit quoque per trigeſimam noni Elementorum g impar, fit itaque k duplus ad h, eritque k par,ex deffinitione prima noni Eleinentorum, quia igitur a b ad a c, ut e -ad f, erit per decimamodtauam fexti, ego decimāprimam octaui Elementorum, quadratum ab ad quadratum ac, ut g ad h, eſt itaque g duplus ad h, ſic enim est quadratun a b ad quadratum a c per penultimam primi Elementorum, quia ita k, etiam dupluseft ad h per affumptum,ſequitur per nonam quinti Elemen torum, ut g numerus impar,ſit equalis K numero pari. Quod fi e fit par, f impar, erit proportio f ad dimidium e, quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIST. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad, o ideo erit quadrati a c ad quadratum a d, ficut proportio numeri h, quieſt impar per trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L, quifit m, cui K poa natur effe duplus, eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum, erit h duplus ad m. Cumque Kſit etiam duplus ad m, erit per nonam quinti, impar b, aequalis K nus mero pari, quod impoßibile à principio proponebatur demonftrandum C f............ go!" k...... A Et ſi diceretur, quòd uterque eorum, quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar, ut quinque ad tria, ut ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b, eritigitur utraque eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum, ſit itaque K duplus ad h, eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum,quia igis. tur a bad a c, ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum vundecimam octaui,quadratum ab ad quadratum a c, ut g ad h, eſt. itaque g duplus ad h, fic enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi elementorum, & quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur, per nonam quinti elementorum, ut g numea rus impar ſit, æqualis k numero pari, quod est impoſsibile. Illatum, ſeu concluſio habita per hanc induftionem Geometricam eft,quod impar par ſit, Ariſtoteles autem dicit, quòd diametrum effe comenſurabilem coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit conclufum, wnor af fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est. Vt autem fiatconcluſio Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id, quod aſſumptum fuit, aduertendum, quod ut Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non parallogizat, fed tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ in omnibustenet, cs.com cludit,nequeinquit, parallogizat Geometra, ut textus 62 probat Arift. ſubinde aliud etiam eſt aduertendum, ut in Topicis determinatAri ſtoteles, oſparſim in Logica fua, quod illa formalis eſt conſequentit, quando ex oppoſito confequentis infertur antecedentis oppoſitum, mos do cum ex contradiétione poſita, ut diametrum cofte eſſe commenfuram bilem,ſequutum fit quòd impar numerus fit par, exoppoſito igitur con ſequentis, ut per numerus eft æqualis impari, igitur diameter coms menſurabilis ex coſte, id autem fequitur ex falfo poſito, ut quod ime parſit æqualis pari,igitur id quodſciretur, non eſſèt ex ueris, ſedpoſie tum fuit quod ex ueris oportet eſſe, igitur manifeſta eſt contradi&tio,res linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta commenſurabilis, eft igiturfalfum, igitur nonſcitur, quia uera effe oportet,quæfcim us TEXTV EODEM VEL TEX. V. OSITIONIS autem, quæ quidemeſt utram libet partium enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe, fuppoſitio eft, quæ ue ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio eft.Ponit enim Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem, lup pofitio enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein eſt. Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft, ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa deffinitio,poft quam intellecta ſit,etiam poſitio,cõmuni uoce diéta,et legatur textus fic paulatim,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum quis interroget, an unitas fit, uel non fit? annuat quòd ipſaunitas fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio, os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad unitatem, ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam reperitur, ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque parteſuper ſe numeri,esſuper illos, alij circumponantur, id toties fieripoterit,quousq; ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum fuerit,at ubi ad ill.im deuentum erit,non fit ultraproceffus,ut cir ca tres,quatuor,& duo,etfuper hos,quinq; c unum,medium horū aggre gatorī erit ternaris, hoc exemplari 1 2 345 signum eftigitur unitate eſſe principium impartibile omnium numerorīt, ut Boetius in Arithmetica, docet,modo, exſententia Ariſtotelis, non eſt idem,unitatem fupponere, oipſam deffinire, quæ deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque unum effe dicitur, uel eft principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili, diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam indiuifibilium fecundum magnitudinem, quæ indiufibilianon componunt diuiſibile ali quod. Age igitur,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio nem procedere ex fuppofitionibus, etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex immediatis dignitatibus, que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo in precedenti declaratione concludebatur,numerū imparé eſſe parë,quia ex poſitione, quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non ex dignitate &deffinitione intelle &ta,atque poſita. TEXT. DECIMUS ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere & ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum, quē 110 cainus demonſtrationein. Eft autem fic, eò quod ea ſunt,ex quibus eft fyllogiſmus,necef ſe eſt, non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII. ey xxIx. primiElementorum actu, non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda, omniaautem prima cognofceremus,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que illius XIII. XXIX. primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio tamennosafficeret, fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio, fedfatis,quod hoc fieri poßit,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum, ut declarabo fuſius Tex. 108. huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior eft, quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta, quam conclue fionis notitia,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB. trigeſimeſecunde primi Elementorum, ſunt magis nota, oſcite,quàng illa fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni. Aduertendum quòd magis credere,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam aliud eft, à credere per demonſtrationem, & propter quid, fe ptima, atque octaua propoſitiones quinti Elementos rum, primo intuitu quando inſpiciuntur, facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs credimus primointuitu, quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis, ideo Ariſtoteles ait, aut: quibuſdam, non ſemper omnibus primo intuitu. Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod deinonſtratur. Sed & cete. Ada uertas quod & finotitia principiorü uideatur diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt uniri intellectui concluſionis notis tia,niſi per notitiam principiorum,quæ uidebatur ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus, &principijs que precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin omnilinea punctum finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta intelligas, que atu punéta habet terminantia, ficut homoactu eſt animal, o fi etiam de circulari intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde circulas ri expoſitio uideturfuperftitiofa, aliena à nas tura exempli, quia exempla per magisfaciliadantur, ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod fit linea recta, de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM ARIS T. TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe autem funt, quæcunqueſunt in co, quod quid cft, utTriangulo ineſt linea, &: punctum lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft, & quæcunqueinſunt in ratione di cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit ſuper hoc textu, uel étiam id quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot. declarandum, uidetur enim quod tex. his contradicat que: determinat Ariſtoteles contra Platonem, uidelicet quodlinea non compo natur ex punctis, præcipue ſexto phiſicorum, primo de generatione, tertiometaphiſice,ubiex fententia concludit lineam non poſſe ex punétis componi, quid autem ſuper hoc textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras dictis dici poßit notaui in prædicamétis, capite de quantitate, uerba aus tem illa, quia ſubſtantia corum ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea terminat ſuperficiem triangularem ', pun &tum lineam termis nat, o nullo modo intelligendñ eſt compoſitiue, ſic ut puncta lineam com ponant, nec etiam linea triangulum, tametfi aliter ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter textus hic concipiatur, ftatim fequitur, utſi linea ex punctis componeretur, quod diameter o coſta eiuſdem quadrati eſſent comenſurabiles, quod textu nono, eſſe falſum « impoßibile oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram dimetiretur, nempe per pū &tum, quod eft contra Ariftot. sententiam, & contra Euclidis ſcitum. Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro, &ſic pars effet æqualis toti, ut coſta ipſi diametro, pro cuius indu &tione, ſit quadratum a b cd, cuius diameter a d, Cofta uero a c, in qua fuſcipiantur duo puncta e, f, immediata ſi poßibile ſit, ut aduerfarius ueritatis diceret, cum com ponatur ex punétis,à quibus, e, of, pun &tis duæ lineæ rectæ aufpicens tur innitia tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum e regione pri me coſte collocatam,certü eft, quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam diame trum in duobus pun &tis, quæ etiam puneta in diametro immediata erunt, propter hoc quia lineæ protracte ex hypotheſiſunt immediate, igitur ſi recte lineæ tot protendantur à coſta in coſtam oppoſitam,quot pū &ta fue rint in ipſa coſta, per tot etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë linee, nec erit in diametro punétum aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua fic protracta ab immediatis pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia tunin eſt. Uligas, o achi poßit rcula à ma eguna dicera IN PRIM VM LIB. diata alterius coſte, ut patet in hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic etiam &, ipſih, ſi l, fit immedias tum ipſi m, patet propoſitum,fi au tem interl,om, intercipiatur pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum excitetur paralles lus K, o, ipſif, 8, uel ipſie, he tunc ipſa cadet inter gb, ut in pun Eto, o, igitur g h, non erant imme diata,quod eſt contraaſſumptum,uel extra utrumqueg,oh, uerſus b, ueld, & tunc k o, neutri linearū f8, web, erit parallelus,quod eſt contra conſtructionem, patet igitur quòd tot eſſent in diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non componatur ex pun ftis, fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum, fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor, ocirculus bc, maior,ficira cunferentia maioris componatur ex punétis,duo immediata puneta fi gnentur b @c, &per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad c, hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur circunferentiam in uno,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in minori circulo, ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex partibus æqualibus numero, ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee a, b, 4, C, ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto, fit ille d, ſu = per illam a c, erigatur linea recta perpendicularis per xi.primi Elea mentorum ſecansſilicet eam in pun. &to d, quæ fit d e, que erit contina gens minorem circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum, iftad, c.cum linea 4 b, ex xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 2 d IN Elementorum conftituit duos angulos rectos, aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c facit duos angulos rectos ex conftru &tione, duo igitur anguli a de, obde, funt æquales duobus angulis a de, cde per tertiam petitionem prini Elementorum Euclidis, dempto igis tur communiangulo a d'e, reſidua eruntæqualia, igitur angulus b.de erit æqualis angulo c d é, &pars toti, quod eftimpoßibile. Adiſtud diceret aduerfarius, quod db, odc, non includunt ali = b. quem angulum; quia poſſet tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c, quod est oppoſitum po ſiti, quia b c, poſita ſunt ima mediata, quando igitur diceretur, quod angulus c de, estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio, quia per angulum b d c, nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil mediat, e in concurſu bdoc din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe ipſa uideatur ua na, negandoangulum, ubi duæ rectæ line: bd, cd, concurrunt quæ expanduntur in eadem ſuperficie, oapplicantur non directe, o fit contra deffinitionem anguli, deffinitione ſexta primi Elementorum, negando etiam à b inc poffe duci lineam, neget primum petitum primi Elementorum, tamen quia aduerſarius non putaret iſta inconuenientia, quia ſequuntur ad id, quod ipſe dicit, ideo contra reſponſionem aliter ar. guo, angulus c d e includit totüm angulum b de, oaddit ſaltem pun Aum ſuper b de, o ſiproteruias quòd non addat angulum, & puns Etus per te, eſt pars, igitur c d e addit ſuper 6 d e partem aliquam, igitur c d e eſt totum adb d e. Aſſumptum patet, uidelicet quòd c de addat ſuper bd e, quia ſi angulus dicatur fpatium interceptum inter lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles concipit in queſtionibus meca nicis, queſtione octaua, tunc pun &tus primus lineæ b d extra circunfes rentiam minorem nihil erit anguli bde, o eſt aliquid anguli c de, igitur c d e maior est b de, a probatum fuit, quòd æqualis, igi tur aperta contradi&tio, fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie neas,includat lineam includentem,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra circunferentiam minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0 th I N PRIMVM LIB. guli c d e, addit, igitur utroque modo angulus c d e punctum fuper angulum b de, patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis bus ad inſtantias, quod linea non componatur ex punétis, neque recta; neque circulari, ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue, o non compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe, oexemplo loquitur de cauſa quæ dat eſe, vel etiam dicas, quod punétus,in deffinitione Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata. TEX. X X. ALIAS I X. T rectum ineſt lincæ & rotundum. Verbum il lud rotundum legit Aueroes circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic ut pro uerbo rotundum,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est proprium,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum inquiens:In primis enim lineæ illi, que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti latitudinem contraris quodam modo ineſſe apparent, concauum ſilicet,&conuexum. Rotondum uero proprie corpori conuenit, non lineæ, ut etiam placet Ariſtoteli libro fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur difplicere etiam Ioan ni Grammatico, &quodſit iſta mens Ariſtotelis, utfic legatur manife ftum eſt, per ea, quæ textu decimo ait, non enim, contingunt non ineſſc aut fimpliciter, aut oppofita,ut lineæ rectum aut obliquum,capiens ob liquum pro circulare. TEXT VSvs X. T par & iinpar numero. Par quidem ille eft, qui ab impari unitate differt cremento uel diminue tione, ut quinque à quattuor, uel à fex unitate, Vel par eſt, qui biffariam ſecatur, impar uero, qui ne in duo æqualia diuidatur, impedimento eft unia tatis interuentus. POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ. XXV. ALI AS XI. NIVERSALE autem dico, quòd cum fit de omni, & per ſe eſt, & ſecundum quod ipfum eſt. Ioannes Grammaticus & fequaces determinant, ut hæc tria inter ſeſint diſtincta, fic quod id, quodper ſe eſt inſit abſque eo, quod fecundum, quod ipſum eſt, 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales duobus reétis,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum, quia fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina (qua etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus reftis non tamen ſecundum quod ipſum. Alio autem modo per fe,id dicitur alicui conuenire, quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum, ita quod, id quod non conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe, niſi quodam modo, fic quod perſe non immedia = te, oſecundum quod ipſum, diſtinguntur tanquam magis &minus uni uerfale per fe autem immediate, &ſecundum quod ipſum, hec quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem, Peccauit igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod particulariter uerum est, uniuerfaliter autem falfum, Triangulo igitur immediate, cu per ſe, o ſecundum quod ipſum conuenit habere tresduobusre&tis æqua les, quodam autem modo non per ſe ipſi iſoſceli conuenit habere tres duobus rečtis equalis. Vt Ariſtoteles ſententia, hæc ſit, quòd per ſe immediate, ſecundum quod ipſum, idem fint, neque ab inuicem in aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum, “ſecundum quod ip fum, hec duo uere diſtinguuntur, ut Ioannes ſuisexemplis, immo Ari ſtoteles in Texu,exemplomanifeſtat. HET luben 10a TE X. X X VI. ALIAS XI I. ## ling PORTET autem non latere, quoniam fæpe numero contingit errare, & non eſſe quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur uniuerſale demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil ſit accipere ſuperius,peti fingulare, aut Fij 44? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia. Aduertendum Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes, ſiue Greci, Latini, uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis Textum, &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele, quòd litteram pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt. Circa Ariſtotelis litteram, an tequim ad eius interpretationem acMilani, falſit as loannis, oſequa tium est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum, loans nes adfert exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus declaratione, ait enim Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil fit, neque uox quidem, utputa nomen aliquod fictitium,& acceptum,cui tamen in re nihil refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re conuenit,fic tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod, ita ut nulla ſit res, neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens. ipſe autem loannes explicat Ariſtot. litteram cirs ca illud, cui eſt accipere fuperius, &circa illud, cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra,' Sol, øMundus, &triangulus, horum omnium ex tant nomina, ut manifeftum eft; o ſingulum ſuperius est ad ſua indiuis dua, nempe ad hancterram, ad hunc Solem, ad hunc mundum, ad -Scalenonen, perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum ipfe adferat exemplum de eo, cui ſit accipere fuperius, cui nomer impofitum eſt, Textus autem Ariſtotelis dicat, cum non fit accipere fuperius. T E X. XXVII. i VT fi quid eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus. Ioannes Toto errat Cees loo.fequentes ipfum, circa litteram e doctrinam Ari stetelis,textusfic habet. Si quid eft,illud tamen innominatum fit in differentibus fpetie res bus. Ioannes inquit, non exiſtente commune aliquo de quo non exiſtente, prebet exempla deexiſtentibus, contra feipſum V etiam de nominatis in differentibus petie rebus, contra Ariſtotelis textum, ait enim Ariſtoteles. Sed innominatum ſit in differens tibus fpetie rebus, exempla adfert Ioannes de Triangulo, qui nominatur, eft in pluribus fpetiebus differentibus, ut in Iſopleuro Iſoſcele, Scaler.one, o fimiliter de quanto prebet cxemplum loane nes, quod nedum nomen habet, fed in differentibus fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. par A @ etiam in pluribus generibusdifferentibus eft, neque mireris uelimſi Joannes ocæteri expoſitores aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint &iuerit uſque Gorcie inficias, obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis. Ut contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę funt in te, ineft quidem demonſtratio, & erit de omni, ſed tainen non huius erit primi uni uerfalis demonftratio, dico autem huius primi, ſecundum quod huius demonſtra tionem, cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces prefertim Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus philoſophus, og fequaces multi fimiles ſine nomine, pleni nominis bus, quos in interglutiendam uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit, cū ad exempla deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus modis errandi circa univerſale dixit, loan nes (eg peius cæteri) circa finem comenti huius textus fic ait,in reliquia trium modorum exempla per bec exponit, uerū non utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi, propofitum enim exemplum ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio ordiri otexere modos errandi cum exemplis, ſicut modo cuique errandi correſpondeat pros prium &peculiare exemplum, ut quemadmodum tres numerauerit ers randi modos circa uniuerfale, tria exempla, ipſis correſpondentia fubiecit, ſic ut primum exemplum primo errandi modo, fecundum exem plum; ut in littera Ariſtotelis ponitur fecundo modo errandi correſpon deat, otertium exemplum ipſi tertio modo errandi apte conueniat, quo ordine confuſionem omni ex parte inter cxempla os modos errandi fuæ giens, in primis ſuo artificio, modum errandi &exemplum fibi corre fpondens notificauit circa id quod debet effe medium demonſtrationis, ſe cundus errandi modus &exemplum fibi correſpondens, cõcernitfubies Sum demonſtrationis, tertius modus errandi circa uniuerfale cum exem plo ſibi coherente, concernit totam demonftrationem, feu arguendi mo dum qui dicitur permutata proportio, errauit igitur Ioannes v omnes alij, qui aliter quam ut hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum, non intelligentes. I N P R I M VM LIB. Pro declaratione igitur uigeſimi fexti textus, fit hæc noftra prima ina ter expoſitores dilucidatio uel ſi difpliceat, dicas eam eſſe ſecundam,uel etiam millefimam. Primī modum errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis reétis, tanquam de ſubiecto, concluditur hec paßio, nempe quod non intercidant; uidelicet quòd parallelæ ſint ſeu equidiſt antes, per hoc, tanquam per medium, quia linea recta ſuper duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor angulis rectis, ideo ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium, quod cum linea recta ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos quomodolibet æquales, utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c. d les, uel alternos obtufos ſibi inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes, iterum per hoc medium quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas fecerit exterio rem angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ paraller le ſunt, &adhuc per iftud medium, ut fi linea recta cadens ſuper duas rectas lineas, fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis,ut probant X X VII. XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee parallelæ ſunt. Modo ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum mediorum di&torü,eſſe uniuerſalem,erraret primo errore circa uniuerfale,quia nullibi medium eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft cómunisad omnes quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad intrinſecum et extrinfecum ex eadë parteſumptos, et ad duos intrinſecos ex eademparte acceptos, niſi quis uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres nominutos angulos, utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum equalitas,ratio eſſet, ut cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium,ul tra quodfit falfitate plenum, eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non ne etiam in concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum? ut puta in his angulis qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas rectus lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1. per quas cadit, caufat uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb, ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. ternis angulis intelligenda eſt illa equalitas, ut natura illa communis tantum ſit equalitas coalternorum, hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca, uel dicas analo gam, ad equalitatem retorum, acu torum, obtuforum angulorum, @etiam dico, quod totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta naturd,una abſoluta (utputa) eſt unus atq; alter angulorum, reliqua natura eſt reſpectiua et ad aliquid, ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur pro medio, tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per æqualitatem non con cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě talium angulorī, Et dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt, ſed etiam per æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos intrinſecos,quorīt alter acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re & tis, quæ omnia non habent unum ſuperiusuniuocum, igitur non eft aliquid accipere ſus perius ad hæc omnia, igitur petimus tunc ſingularia media in propoſito concludendo, &ſicerramus, ſi nobis uideatur uniuerſale demonſtrare primū. Error igitur iſte circa uniuerſale,eſt circa medium demonſtratio nis quod quidem medium uniuerfale, cum non fit, fingularia media peti mus, ſimile habes huic per XXVII (XXVIII primi Elementorū, Euclidis per quas Ariſtoteles manifeſtat propoſitum. Itidem fimile per quintam, fextam, a ſeptimum fextiElementorum,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia, o non per unum uniuerſale medium, triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in Euclide habes xui primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx, quibus lo cis ſimile huic probat, quod duæ lineæ,in dire&tum cõiun&tafunt et lines und, ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non eft aliquid unis accipere fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio, immo.eft ipſius Ariſto telis ad unguem, quam Ioannes grammaticus, neque nouus aliquis, ſiue antiquus etiam interpres, non percepit, hoctextu affert Ariſtoteles les cundum errandi modum, à primo modo errandi longe dißimilem, atque diuerfum, in primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur IN PRIM VM LI B. 1 fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in hoc aue, tem ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen. ei impoſitum eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe=; cies, ideo illa, &fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus, innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum, quiail Leſpecies non ſunt, ut folis, terre, mundi natura, eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre, quia plures ſpecies terre nonſunt, fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet ſuademonſtratio uniuerſalis, quia no eft aliud primum cælum,erraret quia non de hoc cælo, primofitdemöſtra tio, fed de natura coeli, ut eft quid uniuerfalius ad hoc primum cælum, ſeu de cælo, fine contratione ad hoc ſingulare cælum, quam doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis, &quidem aptißimis, fole cans didiorum reddit; inquit enim in exemplo fecundo, quod quidem fecundo errandi modo correſpondet, oſi triangulus non effet aliud quàm 1f0a) ſceles, ſecundum quod Iſoſceles eſt. Videretur utiqiie ineſſe primo,has bere tres æquales duobus rectis, cum nullus effet alius triangulus,uel nul la alia eſſet ſpecies trianguli quam fofceles, &tunc error ſecundo mos: do contingeret. Explico Ariſtotelis ſententiam. In primis eft aduerten dum, quòd triangulus re ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies triangulorum, fo pleurum, iſoſcelem oScalenonen, quod ſi tamen per imaginationem ponamns, quod non haberet ſub ſe ljopleurum, neque Scalenonen, per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum, tantum haberet ſpeciem unā, ut iſoſcelem, eſſet tunctriangulu: innominatus in Scalenone atque Iſos: pleuro, quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur, ut fic,Scalenon eft triangulus, Iſopleurus eft triangulus, iam illæ ſpecies duæ triangu. lorum effent, quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum oſtendat. propoſitum. His ſuppoſitis, ſiquis de foſcele concluderet; quòd tres haberet æquales duobus reétis,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des monftratio, quia nullus eft alius triangulus, quam foſceles, crraretſes. cundo errandi modo, quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe, nempe triangulum, de quo primo concluditur talis affectio, & talis era, ror multa diuerſa à prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit circa.medium, & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum demonſtrationis. Aliud, ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum, In hoc ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum, ut triangulus, Tertio illud innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein? POSTERIORVMARIST DS autemfecundo modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum, uideli cet in Iſopleuro w Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum, Hic aue tem nominatum ſit tantum in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum octauum textum cã acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex inextricabılı labirintho egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin interpretatione, perperam ej tortuoſe ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc, aliquando, non temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait ipfe, non exacte fit audiendum, fimili modo ergo ijtud uerbum, Nunc,haud,inquit,temporaliter audiendum eſt, quin po tius, exacte, o ſecundum Methodum demonftratiuam, Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris intineti temerario aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad explicandum Ariſtotelem uens toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes plicis binis uel ternis terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis epiſtolis ſuos codiculos imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe expoſituros Ariſt.uocantų; fepe illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint ſue infanie, et ut uidean tur etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere illuſtraſſe, cum nondum pri ma philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi cum ſua ignorantia, uelfuis fericis ueftibus addifcere poft multa těpora incipiant,oſiferico indueti,atque equoinfedentes, o rabini facti addiſcere uerecundantur. fufcipiant eam quam decet philofophum, ueftem, o Euclidis honeſtate accedant ad Socratem; ne fintpoſt hac, fomenta praua difpofitionis preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis terrarum gymnaſijs. Qui dam alij interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine fenfu relinquunt, quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio, et legatur textus ut lacet in greco, quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt, onon legatur, loco de ly nunc, non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies, ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera, queunaſola eft, quă inferius fübi ciam, et nulla alia ab ifta uers effe poteft, ad Arijtotelem redeundo, textum expono. Proportionale, quod commutabiliter eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum, eft tertij modi, pro cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem; Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo ſitio,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam, ex Ariſtotele igitur habetur, quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex Euclide uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero, quod tantum in quana titate proprie reperitur proportio, quæ quidem eſtæqualitatis, in equalitatis; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum Boetium in primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem,equalitatis proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad duo, inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius, terminus autē minor, et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum eftminus terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor, Præter hæc ſcito, quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem, fiue etiam alterius generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur. Quibus pras intelectis o declaratis, uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia bus in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia,aliena docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft,partem uero inferius ad ipfum uni uerfale, Mododico,quòd antiqui philofophi qui precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi modo, putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem, que tamen erat in par te demonstratio,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait philoſos plus quemadmodum demonftratum, eft aliquando, uidelicetabantiquis POSTERIORVM ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem,atque Euclidem preceſſerūt,quia ipfi non aduerterunt quod quantum, eſt id (id eſt natura aliqua) quod fum perius accipitur, nominatum eft in pluribus differentibus fpecie res büs, differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere aliquid ſuperius, o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon erat nominatuin in pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem, quod hic conſideratur, eft in pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale onnibus quantis, fiue illa diſcreta, ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki, feuetiam permanensſit, ut numeri ſunt,lines, folida, tempora, &alia huiufmodiſpecie differentia, feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui deſingulis demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et perſe attribuitur, ut ipſi quan titati, quatenus tale. Nunc dico, nedum in eo Ariſtoteleo quidem tempo të, & à philofophis reéte fapientibus, ſed etiam oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur demonſtratio uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum docet, propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando, arguendo permutatim in numeris ſeorſun, in lineis feorfum, cæteris feorfum, nunc au = tem non contingit iſte error his, qui ſequuntur Euclidis ſcitum, quia nunc, ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur, hoc eſtmo:. dusiftearguendi primo per fequantitati conuenit, quægenuseft ergo üniverſale adomnia quanta, hæc autem eſt mea interpretatio, uera og germanaipſi Ariſtoteli, ut etiam ipſe ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime declarat propoſitum. Propter hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian ĝulum demonſtrationeaut una, aut altera quod duos re čtos habet unuſquiſque Iſopleurus feorfum & Scalenon,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum, quòd duos rectos habet, niſi ſophiſtico inodo,rieque uniuerfaliter triangu huum,ne quidem fi nullus eſt, pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod trianguluseft cognouit,neque fi om= nem triangulum,ſed quatenus ſecundum numerum, ſecun dum autem fpeciem no omnem, & fi nullus eſt, quem non nouit. Non eſt ſurdaaure pretereundum artificium fummum, quod in hoc exemplo Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de triangulo, comple &ti duos errandi modos, vel facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa IN PRIMVM: LIB. do, atque tertio, cum primum defingulo modo, fecundo &tertio, fe. paratim exempla aptißima e peculiaria pofuit, ftatim attulit aliud exemplum utrique, ſecundo uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com. poſitiuam methoduin etiam in exemplis feruauit. Littera autem per particulas, ſic declaratur; inquit enim, demonſtratione aut una aut al tera; una enim demonſtratione numero fieri-non poteft, ut deIſopleuro folcele, C Scalenone, concludatur quod tres equales duobus reftis habeat, uia igitur fpecie demonſtratio erit, qua de his tribus triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur, quod tres habeat æquales duobusree Atis, ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione aut una aut altera; ac fi dices ret pluribus numero demonſtrationibus, de tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod tres duobus rectis pares habeat hæc autem demonftratio, nullo modo intelligi potest, quòd fyllogiſtica ſit, quia tuncmaior pre. miſſa acciperet de uniuerfalitriangulo, quod haberettres equales duo bus reftis,ſic fyllogizando, omnis triangulus habet tres angulos æquam les duobus rectis, ſed Iſoſceles, uel Iſopleurus, uel Scalenon, eſt triangulus, igitur foſceles, uel Iſopleurus,uel Scalenon habet tres, æquales duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel particulatim abſque illo diſiunto, fed uno tantum affumpto triangulo, non ne, ſcio de triangulo uniuerſaliter, in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres æquales duobus reftis? quod e diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de Iſopleuro, et cæteris fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triangulo,niſiper accidens,per accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi, quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale in cognitionem particulariñ deueniretur,qui error non eſt, ſiquis autem di ceret, ut fic intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica, aut alte ra Geometrica, dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia ſequeretur idein incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex litteram Aristotelis, ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis deueniremus in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe textu Il docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat, ſed agit,hoc textu,& in hoc, exemplo, de errore, qui opponitur uero modo ſciendi,onon de mo: do, quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1 / 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed triangulus iſoſceles est, igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares, &de alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per particularia, uel etiã altera,nempe Geoinetrica. Pro cuius ellucidatione, eft fciendun; ultra ea, quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu tertio, quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun demonſtrat quod triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos æquales duobus-rectis, fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris (non dico Ariftelis deuoratos, res uel potius carnium «acephalorum ſeptem, unis bycis uoraces, quiafi uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis do& rinam tenent,quam falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione oſtendens de 1fofcele, quòd habeat tres e qualesduobus reftis per decimamtertiam O vigeſimumnonam primi Elementorum, aut altera numero, eadem ta menſpetie de Iſopleuro & Scaleno.ne idein oftendat, ita quòd de ſingus lis trianguloruin þetiebus inducat, quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum tres equales duobus, nonduin cognouit inquit, triangus lum quòd duobus reftis æquales habet, niſi ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe huiufmodi, ne quidein fi nullus eft, preter, hec, triangulusalius, non enim quod triangulus eft huiufmodi cogno uit, nequeſi omnem triangulum, hoc habere contingut, utputs duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum, ideft fecundum nume rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien, in uno uidelicet uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem, id eſt ſe cundumnumerum trium triangulorum petieruin, ſeparatim,quem non nouit. Erraret igitur duplici errore ille, qui putaret eße unia uerſale fubie&tum, & totum, id quod effet particulare fubieétum, parsfubieétiut, quia tunc acciperet in parte totum, id eft partem, to tum effe exiftimaret. Si autem triangulus immaginetur faluari in unica tantum fpetie, ut in iſoſcele, tunc exemplum intelligatur, aptari feo cundo modo errandi tantum, non etiam tertio. Vides igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa uniuerfale,quorum cuique proprium, &peculiare exemplum aptauit. Neque legas poſt hac lyaliquando, prominus exacte, nequely nunc,pro exacte ita,ut neutrum,tempusſignificet, fed utrunque temporaliterlegatur, neque 1 i IN P R I M V M L I B. legendum eſt ly nunc pronon, ut quidam, qui nullus homo est facit. Ad id autem quod Ioannes de Gorgia tetigit, aie quod quantitas, natura ipſa, qualitatem precedit, fic ut quantitas, fit prior ipſa qualitate non dico tempore necetiam natura ſed ordine, oid quod propriumquan titati eſt prius est proprio qualitatis, fimiliter et modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij, ut eſt proportio, & modus arguendi, qui dicitur permu. tata proportio, funt hæc quantitati propria oſibi primo conueniunt, deinde etiam qualitatibus ſecundario « improprie attribuuntur. Quem admodum etiamSyllogiſmus, qui omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per attributionem, de eo tamen primo oproprijsſime Logicafa cultas agit, quòd ſi ſubſtantijs quantitate prioribus, quis tribuat come mutabiliter proportionari, tunc uniuerfaliter reſponde, quod omnibus entibus poteft attribui commutabiliter proportionari improprie tamen, oper quandam attributionem fecrındariam, quatenus omnia entia,has bent quantitatem molis, aut uirtutis in ſe,o ſic Plato attribuit in Gori gia commutabiliter proportionari illis qualitatibus improprie, opro ut ille qualitates includunt quantitatem uirtutis, quæ funtgradus pera feftionis. TE X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit uniuerſaliter, & quando nouit fimpliciter, manifeftum eft utique. Quoniain, li idem erit triangulo eſſe & Iſopleuro, aut unicuique,aut omnibus fi uero non idem fed alteruin & cætera. Littera ſic exponatur, fi eadem deffinitio quæ trianguli est, cſJet ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris, aut unicuique 1fos pleuro iſoſceli o Scalenoniſeparatim, aut etiam omnibus fimul in com muni à quanon ſit alia deffinitio ipſis conueniens, ſi uero non idem, id est finon est eadem unica deffinitio, quæ bis omnibus æque primo conue ! niat, fed alterum, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus lineis rectis claufa, fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus claufa, iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus, una inequali claufa, gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa, ecce modo, quàm diuerſa ſint deffinitiones, fi ineſt igitur tres habere his omnibus, hoc quidem eft unicuique, fecundum quod eſt triangulus, uelfecundum quod eft figura tribus rectis claufa, o non POSTERIORVM ARIST. has pro eta quia illis lireis equalibus, uel inequalibus claudatur. Vtrum autem fecundum quod eft triangulus, aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo ſecundum hoc, eſt primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio, manifeſtūeſt, quando remotis infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto,triangulo infunt duobus rectis pares, fed æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to infunt tres duobus rectis pares, fed non inſunt tres duo bus rectis pares figura & termino remotis, quia etiam ipfis inſunt duobus rectis tres æquales, fed eis non primo, ut fi gura que clauditur termnino uel terminis, quo igiturprimo reinoto, cui priino conuenit; remouetur, & habere tres, fi itaque triangulus remoueatur, remouebitur & habere tres duobus rectis pares, & ſecundum hoc igitur, id eft few cundum triangulum ineſt, & aliis per ipſum & huiuſmodi trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio. Littera fic ordináta, artificiun Ariſtotelis est conſiderandum, in hac regula, quam prebet ad cognofcendum, quando erit uniuerfaliter demonſtratio, ego exem plum eft contraſecundum modum errandicirca uniuerſale,ſic,utſeruans hanc regulam,non errabitſecundo modo errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis accidentibus indiuiduorī,utremoto ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut habere tres duobus reétis pares, as enimfeu aneum effe,non conuenit fpeciebus triangulorum, niſi quia indiuiduis triangulis conuenit remota,fubinde fpecie trianguli, ut Ifofcele remoto, non pro pterea remouetur affectio uniuerſalis, quæ eft habere tres duobus reétis pares, quia in alijs fpetiebusſaluatur natura,cui primo conuenit habere tres,ut in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur naturatrianguli,cui prinoco uenit habere tres,tertio remouet genus ad cuiusremotionem remouetur villa affeétio,ut remotafigura, &tres habere duobus re &tis pares remo uetur, Quarto cultimo remota deffinitione generis, ut remoto termino figura enim eſt, que termino uel terminis clauditur, remouetur og illa affectio ſed non primo, primo enim conuenit ipſi triangulo, triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa affectio, habere tres duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur quòd triangulus habet tres angulos equalesduobus reātis, eft uniuerſaliter. & eft Te i IN PRIMVM LIB. TEX. XXXVII. ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus alterum eft, ficut Arithmeticæ, & Geometriæ,non eft enim Arithmeticam demonftrationem accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines numeri fint. Gnarus Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do loquutuseft inquiens,niſi magnitudines numeri fint, fed fuæ regulæ uniuerfalis exceptionem faciens, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas magnitudines nunquam fieri numeri nifi numeri nuo merati, o adhuc numeri illi numerati non fit diſcreta quantitas, ſic ut illinumerati numeri, non copulentur ad aliquem communem terminum, ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum copulantur communem,fed ad comunem terminum copulantar ille magnitudines que numeri funt per folum tamen intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur ille quidem magnitudines quæ numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter quã ſint, eas percipiat oppoſito modo, fed eas tantum conhder atparticunt Latim, no intelligendo eas niſi priuatiuenon effe coniunctas,non tamen in telligendo eas negatiue, non effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id,quod Euclides proponit propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi b, ut unit as ad e, quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt ſubmultiplex e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft propoſitum, Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima partē linet a, à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis, punctus copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte, manet idem, immo eſt communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen intelligit primam, atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio Arithmetico,ut puta nume ro in constructione, «æqua proportionalitate ad probandam affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi utitur uns decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe ftio ne de magnitudinibus, hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum Magnitudines, numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter dimetiantur, diameter igitur quadrati, Oſuacostanunquam funt, neque dicentur quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala - tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuerfaliter, quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis fenfum, inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo, non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror, ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis,eum admiror quòd cum aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem, &quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin,neque pueritia,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe, niſi dixeris, quòd ipſe elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu, quo multa peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico uerbo cupientes Aueroiſtas dici, ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis explicanda propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere ſunt ante quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam,quòd non de ſeparato illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus intelligere,ut quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur, pertranfeo tamëhæc inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et utfic docentes falfo,reſipiſcăt, et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et intelligeret &alios post millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum contingit in quibuſdam, po fterius dicetur. littera fic intelligi debet, magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam,nempein temporibus, ideft quádo ipfa tempord, ut numeri concipiuntur, Poſterius dicetur,ut in libris de philoſophia et de anima.Hoc loco habemus artificium ab Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum abufius mille,o latinorü millies millena millia errorum cognoſci mus,De interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non dico,fed intelli gas uelim, ut quot uerba proferunt, tot mendacia contra Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis enim legit Grecos, Latinos, o noftri temporis expoſitoresAriſtotelis, non uideret conſiderauerit, illos ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá, in libris de anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices, quis modus iſte obfcuritatis eſt, per ignotißima declarda re ea, quæ aliquo modo ignota funt? eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare, oper poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti declaratores,hominem eſſe philoa fophum, animaſticum, & methaphiſicum antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles attulit tria exempla in fecun do textu,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam,qui poftquàm exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem, quomodo contingit, posterius dicetur, fic ut id,quod inphilofophia dicit, nonreuocetin logicis declarandis, fedt diuerſo,exceptione qua in hoc locofacit,Pombaur tanquam nota in philofo phia, ut ex notis ad ignota o utex uniuerfali ad particularia tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx. libro Elementorū ut des claratum eft, & non ex philofophiæ locis, vt proMilanius utpúta ex his, quæ in Geometria notafunt, ad ea declaranda, quæ inlogicis traa & antur, ut uera methodo, à notis diſcuramus adignota, fed fi idem in theologos ſacrosobijcias, qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas queſtiones loca uniuerſalis philofophiæ adducunt, igitur ipficra rant,refpondeo, In thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur tanquam ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium theoremata adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda. Ita ut ultra modum quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem, ſunt quidam alij modi intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus deuotionis fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias indoctis tribuit intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in epiſtolis fratris noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum, non intelligentes, Alius mo POSTERIORVMARIS T. 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi facras litteras prouenit ex ingenij uiuacitate tantum, qui modusmultas hærefes attulitfidelibus. Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis philoſophic, &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione fanétifpiritusmoliaturfua duricies, hoc quidem tertio modo non intelligit aliquis facras litteras, niſi inſtructus illis difciplinis, que precedunt ipfam reginam theologiam, valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium, nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini, &præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi ordinem. Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt. pofterius dicetur, ut in libris philofophiæ, dixi tamen ego ex decimo Elementorum. Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum căcipiatur, fed Eye clides quo modo per principium Arithmeticum de magnitudineaffeflio demonſtretur atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft, extrema & mcdia eſſe, fi namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc Geo metrię non eft demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina, ſed neque quòd duo cubi ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media oextrema debeant effe eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione medium, ſeu medium ad probadum, quod eft, aut principium, uel etiam propoſitiopredemonftrata,que fus mitur ad probandam aliam, propofitionem; extremorum autem nos mine (ubiait extrema) intelligende funt ipſa concluſiones, utfitfenfus facilis, premiſſão concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne que quòdduo cubi unus cubus fit, Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint?duo prius feparatim erant,quiſi in unum redigan tur, unum tantum efficiunt,ut due lincæ etiam una linea tantum efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum,vltra aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra ſimilitcr duo cubiunus cubus eft,quod etiam Geo metra non probat, his habitis odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua innani interpretatione, duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum, quod eft di&tu, quod duo cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum,ifta interpretatio opponitur littere Ariſtotelis; li ttera anim affirmatiuc loquitur, quòd duo cubi unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV M LIB. ) uus philofophus exemplificat negatiue, quo mododuo eubi non faciunt unum cubum; reiciatur igitur ſuainterpretatio, & Philoponi expoſitio ſuſcipiatur, quæ hoc in loco fatis conſiderata eft, atque docta;Ratio enim quare non demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non uerſatur Geometra circa genus folidorum, ut circa ſuuinſubiectum, fed uerſatur tantun circa planorum genus, ut circa proprium ſubiectum, Stereometra autem habet demonſtrare, quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut ftatim explicabo inferius, cum de duplatione are delorum, & in fragmentis logicis de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione, eptuplatione, es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert Apolonij peri gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata, opermepri ſtino candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis,utdecet appoſitis, ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis notitia, aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata, eſto ſiuis ut trium eſſet pedum, quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are duplationem, qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius orbis Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata,atý; corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita,fþreti igi tur propter hoc delij ab-Apoline, & graue peſte adhuc laborantes, ad Platoně confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios reliquit dicens eis, ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum eandem proportionem continuam. Et tunc ſcirent duplare Aram, formam habětem cubicam, In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius perigeus, duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram delij,fubinde ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus, quarum altera ſit longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum, fecunda uero lineaſit ed, que deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto pedum fex,ina ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua proportionam litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur duæ data, primafit b c, quæ erat longitudo prime Are, e a b.longitudo tras bis, &ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb a b c o compleaturparallelogrammum bd; per tertiam atque tri geſimamprimam primi Elementorum;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur circulus a d.c, os produ catur linee b a,b c, per fecundum poſtulatum primi Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f &, per lineam f g tranſeun b tem per punétum d, ita ut fe, æqualis fit lineæ e g, hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum. (De quo, forſan poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod ex fe æqualis eft ipfi dg per hipoteſim, @primam animi conceptionem. f a f 6 f 6 6 G gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a TE lik mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo dufte linee rette f b, feſecant circulum ad punéta a v d, quod igi tur fit ex bf in fa, per trigeſimamquintam tertij Elementorum,æqua le eſt ei, quod fit ex ef, in fd, ac eadem ratione, &quodfit ex b & in c g æquale est, ei, quod fit ex dg ing e, aquale autem eft id quod fitex dg in g e, ei quodfit ex e f in f d, utraque enim utrij que equales funt, e f ſilicet ipſi d 8, og f d, ipſi eg, igitur, ego quòd fit, ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex bg ing c, eſt igitur, 62 IN PRIM VM.; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam partem decimequinteſexti Elementorum, ita g c ad f a,fed ut fb adb 8, fic es fa ad ad per iij.fextiEleé mentorum, igitur per xi. quinti Elementorum g c ad f a,ut f a ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum, ut dc adc 8, fic cg ad fa, quia utraqueeft,ficutea, que est fb ad b 8, altera per fecundam partem xv. reliquaper quartam fexti;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem triangulorum, est autem dcdqualisipfi ab,04 d, ipſi b c per xxxiij. primiElementorum, igituraut ab ad cg ita f a ad ad, erat autem, out f bad bg, ideft ut a bad c g,fic cg ad fa, igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia, o ipſa fid, ad b c, quatuor igitur rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom portionales funt,o propter hoc erit; uta bad b c, ita quifit ex 4 b cubus, ad cubum, qui ex g cega qui ex g c, ad illum qui fit ex f a, e qui ex fa, ad illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi Elementorum, igitur ut a b ad b ©, ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c, fed a b dupla fumpta fuità principio, ipſius b.c, eft igia tur cubus, qui exfa, duplus ad cu bum, qui ex b c, quod demon - g strandum errat. Berlin. g c.8 F G f 6 f 6 6 a. 6 6 G 8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d. o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM ARIS T. Eleg TEX. XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes funt & fcientiæ, ut lunæ deffectus, Quee dam noua queſtio à quodam nouo interprete moues tur, circa particulas in textu poſitas, unde eft, quòdfæpefiat demonſtratio of ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper, nequeſe pe eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici ignorantia queex duplici menſtruoſitate contingit, uidelicet Solis Lune, quia ille, qui eam mouerit, neque in die, neque nocte uidet, quid uelit Ariftoteles, ſi tamen alta uoce Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc apponeretforſan miringam, ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui quidam homo erat,fed nunc nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ menſtruo folutionem,uel potius ligas mina tribuit auditoribus centum. Videas, ſepeenim inquit nofter nos uus interpres, fit Lune eclipſis, quia quandofit,tunc orientalibus quar ta hora, occidentalibus autem hora tertia, magis autem occidentalibus hora ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis tendentibus prima non & is hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille interpres do&tus,quid ſepefit, ut puta intot horis noftis, utfecunda&tertia atque alijs plu rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia, in dialogis &fabelis, quas apud ignem raulieres habentreponenda magis, quàm àuiro quoquo moa do etiam docto redarguenda eft, uel etiam à quouis audienda. Litteraſic ordinetur, eorum demonſtrationes & fcientia ſunt, eorum dico, que fæpefiunt. Dico igitur lunc deffe tusſæpe, atque ſemper fieri in plenie lunio, quum terra diametraliter ponatur inter Solem Lunam, quod quidemnon in omni plenilunio contingit, fed cum sol in capite, & Lue na in cauda draconisfuerit, quod Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium obumbrat extrema, quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus quàm doctor, &ille est, quem ſuperius dixi hae, bere grauitatem maioren, quàm pondus, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano Gymnaſio in primis meis le &tionibus publicis dederam, explicans deffinitionem lineæ rectæ, que eft, à pun Ao in punctum breuißimaextenſio, aut cuius medium ex æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft, cuius medium non reſultat ab extremis, ſic explis IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem lineam, ut facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur, linea recta eft, cuius medium non obumbrat extrema, neque eſt hæc mea explicatio rectæ lineæ, Contrda ria illi à Platone datæ, cum hæc in Geometria, illa uero Platonis in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia igna rus Grecarum litterarum eſſem, ut ille efuriens greculus non lingua ne que natione, fed apparentia tantum, Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam le&tionem Latinam vidiffe, qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius medium non obumbrat, cum Græcus textus, affira matiue legatur fic cuius medium obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam, oad propoſitum à quo uidebar digredi redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper & ſaepe fit Luna defectus, de qua Luna menſtruata habetur ſcientia, per medium illud, quæ eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter, que cauſa pro pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe pe fiat demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune, hoc non tangit Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper, non determinant ly demon ſtrationes, olyſcientia,fed determinantlydeffe &tusLune; illis igia tur cauſis contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille phantaſticus, ſecunda uel tertia hora noétis. TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno. quoque principiorum, fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud, non eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, & inmediatis, eſt enim ficmon, ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum,per commune enim demonſtrant rationes huiuſmodi, quod & alí ineſt, unde & alíjs conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura circuli fenferint, dicam quid fenferim ego, habita prius notia littere, &cognito textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus, immediatis, fiat demonſtratio, non autem fiat ex præmißis proprijs, opeculiaribus illi generi,de quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per talia principia primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 6 tla,immoneq; illa erit demonftratio, quia per principia fieret talis pros ceſſus, que non tantum arti Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari poffunt, quo errore Brifo.crrauit tentans reducere aream circuli ad figuram rectilineam quadratam, quæ t alia erant principia datur max ius, datur minus, igitur datur æquale, quidamſciolus laborat, ut hæc principia uniuerfalia,propria fiant ipſiGeometric,dicens,daturquadra tum maius circulo, datur quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun sequale ipſi circulo, et gloriaturinnani, & hoc fuum chimericâ con tulerit cum yno do&tißimo huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam, fed et demonftrationem eam effe affirmauit; fcito enim, quòd os folidis, e linels, o numeris coaptatur iſta dedu &tio, ut datur numerus maior denario eminor denario, igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis, dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad oſtendendum intenti, quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia principia,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia,ut ex his quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper trigeſima ciufdem,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co, quod egit contra regulam de proprijs principijs,quicquid de confequentia fitprætermittens tanquam non res Marguendum, ut oppoſitum ſuedat& regul«. De quadratura, errore Brifonis, Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque iuniorum trattabo in fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin. TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm ut dictum eſt, Geometricæ in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ in harınonicas. XXXVII textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non pertinet de BRAVAS PRINT monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum, ratio, ut ibi declarani aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca diuerſagenera, alter circa planum, & reliquus circafolidum, hoc au fem textu dicit, quod geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum, ait enim geometrice in mechanicas, pro qua apparenti contradictione, eft aduertendum quòd Stereometrica per principia Gear I IN PRIMVM.LIB. metric probantur quia in terminis corporis, qui ſunt ſuperficies, ille geometricæ demonſtrationes attribuuntur, ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in mechanicas,conuenit, o ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS XXIIII. VID quidem igitur fignificent, & prima, & quæ ex his funt, accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia quidem, eft accipere, Alia uero demonftrare, ut unitas, & quid rectum, & quid triangulus,effe autem unitate accipe re & magnitudinem,altera uero demonftra re. Dedatoibi quid fignificent de dignitatibus ibi & priina. De que fito ibi, & quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato; primum eft in decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad aliquemſecüdum numerum, ficut quilibet tertius adaliquem quar tum,concluditur q, ipſa unitas, itafe habebit ad tertiã numerum, ſicutfc cãdus numerus ad quartum,fecundã exemplum eftde data linea in prima propofitione primiElementorum,de qua demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus lineis re&tis continentibus,Iſopleurum, uel ifo feelem, uel Scalenonem,uel etiam exemplum hoc apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de linea recta, quòd ſit biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in xxx 11 primi Elementorum, ubi de dato Trigono concluditur. habeat tres angulos duabus re&tis paresnon tantum, quid ſignificentoportet preaccipere, fed etiam iſta effe, vt tan dem de dato nonfolum quidfignificet, quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo quidſignificet effe, vtrumque fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit unitas,et unitatem effe,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles, uerbum hoc, magnitudinem, intelligendum eſt, rectam lineam,ut decima primi elementorī,et triãgulum,ut trigeſima ſe cīda primi elemétorum,quem triangulum,et reetū, explicite protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas, quid rectiem, Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere & magnitus dinem, hoc loco aduertendum est Ariſtotelem, ſeiunctam poſuiſſe unita tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe in unico uerbo hoc, magnitudinem, propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM ARIS T. effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis, de. qua quidem unitate alia affe&tio concluditur, quàm de unitate linee, de qua loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis apparet exlittera, quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium queſitum, ut hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721, pe Court Alle Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus utimur in demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ, alia uero cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá. túeft in eo (quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem, ut lincã elſe huiufinodi. &rectum, De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de dignitatis bus prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria Geometrie ſunt ifta, utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro fonditate,hacde caufa dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa finitione, & reétum, vt puta recta linea est, que ſua ex æquali intera iacetſigna,uel linea recta eft à punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas lineam, &rectum, Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que complexa funtloquitur: non de incomplexis utde linea tantă, ca de recto tantum ſed, dehoc cöplexo linea est longitudo illa tabilis; ¢ linea recta eſt,quæ ex æquali ſua interiacet ſigna,de linea in uniuerfali, fubinde de contracta uſpecificalinea recta exempla explicăs, Communia autein ut æqualia ab æqualibus ſi auferas,quòd æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores interpretum et inter pretes Arifto, non intelligentes hunc locum; naturam Geometrie ſcien tie perdunt, dicentes Geometram per principia communia procedere, id autem eft contra ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do &tria nam. Pro cuiusdifficultatis nodo extricando, aduertendum quod princi pium iftud,de quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam in demonftratione ponitur, nec eo utimur niſicontrate, oquae dam determinationeadgenus aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti parteaccepto,nulli enim fcientia eft, aut diſciplina, que utatur illo principio pro utrag; diſiunéti,fed pro altera tantū parte, Sinile de hoc (& alijs huiufmodi) principio, fi ab.equalibus æqualia auferas, que re MON jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B. Manent,æqualia funt, audiendum eft, nulla quippe diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic quòd Geometra nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur, utfi ab equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ,uel fuperficies,aut anguli funtæquales,quão primum autem principium hoc contrahitur, non eft amplius commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt. - iſtud effe commune, inquit enim,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non contrahatur, quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius, ftatim enin fequeretur contradi&tio, quod eſſet commune ono commune, doétrina hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens;fufficiens eft autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū get nus contrahitur, de principijs loquens,ubi de datis dixerit, & tertio lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon &Campanus non contracteinquatuor primis libris Elemento rum, a quod Euclides affixit illud principium primo libro, dico quod Căpanus &TheonbreuiloquioStudentes accipiuntipſum principiū fne Contractione, femper tamen op ubique uolunt ipſum intelligi contra &te cum determinatone ad illud genus ad quod-co utimur, aliter. errarent, Euclides autem primo libro affixit, quid utitur ipfo con tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi fortiuscontra hanc expo fitionem precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet, statim haberea tur circuli quadratura per hæcprincipia contra&ta, datur quadras tum maius circulo, datur quadratum minus circulo igitur dabitur quadratum æquale circulo, refpondeo, quò du os errores commiſit Briſo, o talis argutus doctorolus inter arguendum, primo quia Brie so per principia comunia, iſte audem do&tor per contra &ta illa princi pra, feduterque in æquiuocisarguebat, circulus enim et quadratum equi uoce funt figuræ altera enim curuilinea reliqua uero re&tilinea eft, hunc errorem fecundum non inuenies in mea hac expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est, de crrore autem Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3 Logicis. Idem enim faciet & fi non de omnibus accipiat fed in magnitudinibus folum, Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus quàmprimum explicuerit, quæ namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia Geometria, linee uidelicet, &lia neæ recte, •fubiunxerit, que nam ſint communia principia exent plum prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod æqua lia ſint remanentia, ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone trahantur ad proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens, ſuffia ciens eſt,unum quodque iſtorum, quantum in genere est, fufficiens quie dem acſi peculiaribus atqi proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio, æqualia ab æqualibus ſi auferas æqualia remanent, non quidemſi de omnibus accipiat, non quidem dico demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus & uniuerfaliter ſine contractione utatur, fed demon, ſtrabit quidem, inquit Philofophus,ſi in magnitudinibus folum, id eſt contracte o determinatim,eo ufus fuerit.Vtfic, fi ab æqualibus lineis ſuperficiebus, angulis, Arithmeticus, fi ab æqualibus numeris æqua les lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas quod æquales linea fuperficies anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles quód iftud principiumſic contractumreddatur propriumipſi Geometra, og Arithmetico &unicuique artifici in fua arte, ac fi peculiari epros prißimo uteretur, non procedit igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id, quia per cominunia procedit Geometria, ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria, ut quidam ingeniofus noftri teme poris immaginatur. Sunt autem propria quidem & quæ acci piuntureſſe, circa quæ, fcientia fpeculatur, quæ ſunt per le, ut Arithmetica unitates, Geometria autem figna & lineas. Euclides in Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam incluſiue accipit unitates, ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda wtrigeſima prima primi Elementorum, lie neas uero in primt, ſecunda,& tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum. Hæc enim accipiunt eſſe, & hoc eſſe, idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato precognoſcatur utrunque &quid &quia est, accipiunt eſſe,id est deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe,nempeactueſſe, uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt, quod eſſe potentia,uel effe aptitudinedicunt. Horum autem pafsiones funtper fe quid quidem figni IN PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt, ut Arithmetica quidem quid par, Sicut uigefimaquinta noni Elementorum, aut impar, ut trige fimanoni Elementorum, Aut quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum, &quilibet numerus à duobus duplus,ut xxxv. eiufdem, a eut declaraui ſuper textu xx. de altera parte longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic intelligantur termini exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid irrationale,ut XI. X. Elementorum, aut inflecti per contactum in unico puncto ex xij.ex xv.tertij Elemen. aut concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima Elementorum Geo metrie Vitellionis. Animaduerſione dignum est hoc, quod Geometra nunquàm hanc affectionem, ut irregularitatem deunica lineafola con = fiderat, neque etiam de una tantum linea id concludit, quicquid Cama panus ſentiat, fed id de linea una ad aliam comparata atque relata, cum qua non habet uliquam communem menſuram, ut est diameter wcofta quadrati. Inflexio uero in una atque eadem linea circulari eft, quætan gat aliam rectam lineam uel alium circulum interne, uel etiam exterins, in unopuncto tantum, quia inflexa non fecat nequere & amlineam, nes que etiam circulum, quorum utrumlibetfaceret linea recta, eifdem ! recte linee 6 circulo non contingenter neque in directum applicata. Quod autem fint paſsiones per fe demonſtrant per coin munia & ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia funi liter. De datis dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe, de monſtrant artifices Arithmeticus OGeometra per communia, idef per uniuerſalia principia (que tamen unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ prius demonſtrata funt, affectiones illas predis Etas, ſicut etiam aſtronomus facit, utper ea quæ in Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones probatas in Aſtronomia concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun. TEX. XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin defpicere, ut genus non ſupponere effe, & fit manifeftum quoniam eft,non eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo niam numerus fit, & quoniam calidur, & frigidum fit. Natura enim &per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST. $ 200 ill 0 si est, quonian calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi fitione aliqua intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido, quando calidum eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu, quandoeft notum quia est dati, deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato, an fit? Quod noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum, de eo enim eft necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod numerusaétu est mente con: ceptus, ac fiexifteret aétu, uel aptitudinem ad exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc, quod numerus neque nataraneque fenfu aetud liter percipiturquòd fit, fed tantun intelleétu dignofcitur, @ hæc duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione facit exceptionem dicent, & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent ſi fint manifeltæ, ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem ſignificet. Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud nomen, quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab uniuerſaliregula,qua dixit fecundo textu, alia nana que quia funt prius opinari neceſſe eſt,utomne quidem quod est,aut affir mareaut negare uerum eſt, quia eſt, o textu xlvi.aliud prebet exem plum, utæqualiaab æqualibus fiauferas, quòd æqualia reliqua ſunt, de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft. Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint, quaſi natura dico, utputa quia notis ter minis ipſarum dignitatum, statim notum est, quia est ipſarum dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non est,fa tis,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt pré cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam, ueram,ut quòd circulus fit figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo ad circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit, igitur ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est,non ſecludit ipfum quid est, ut exponit loan.Gram. Alexander, A queſito ſecludit aliquádo quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet excludat àſubiecto ipſum quia,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in littera,ubi ait,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit Arift.genus no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon accipiturquidſignificet est propoſitione xiiij.primi: Elemen.quod est,indiređã linea una,quod quidē quid ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10 & IN PRIM VM LI B. preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi Elementorum, quodnon queratur, quia eft, quando est notum,id apertißime dicit philofophus textu fecundo ſecundi Poſteriorum,inquit enim,inuenien tes autem, quia deficit pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit,nó queremus utruin, cum autem fcimus ipſum quia,ipſum propter quid querimus & c. TEXTVS LII ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes, quòd non oportet falſo uti, Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe unius pedis,quę unius pedis non eft, autrectam lincam, non ree &tam cxiſtentem, ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam lineam triangulum collocare, etiam in decima primi Elementorum datam lineam rectam, eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea, que atramento pingitur, uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen dicendum eft, Geometram errare, quia non ad id intentionem dirigit Geometra quod oculis fubijcitur, fed ad id potius, quod intus animo concipit, dirigit intentionem, ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et mentiri, Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam, quam ftilo pinxerat, fed fecundum intus conceptam lie neam, demonſtrationem percurrit,idem habet Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non errat etiam Geometra cir ca formam fyllogiſticam, ut textu 59 62, ait Ariſtoteles, igitur cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non geometri. cæ? & in unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt Geoinetricæ? & utrum quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex oppoſitis fyllogifo mus, POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus; an paralogiſinus? In unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes, ficut in Geometria, In geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri, uno quidem modo,ut nihil fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an icoceruus habeat tres æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit Icoceruus, & quid ſithabere tres duo bus reétis æquales, hic interrogans habet ignorantiam fecundum nega. tionem, quia omnis habitus negatur in eo de illa re, quam querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de illo, quod querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat nanque que nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur, ſcit etiam, quisnam ſit duarum linearum concurſus, &quatenus iſta nouit et interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non eft Geometrica quæſtio, et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum habitum, quo fcit lineas rectas, ceas in infinitum pro trahi polle, et concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu, ſtat hec ignorantia, ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus, quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum, qui præter uoces re ipfa nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti, interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate,ut medietas toni ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni, hoc eſt ſemitonium uerum adinueniſſe, ignorans pauper, quod proportio totius nerui ad totum neruum eadem eft, que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam @decimamnonam ſeptimi Elemětorum, erat igitur non Armonica quæa ftio, qua quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet? Verus autem Geo. metra ille eft, qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem, neque fecundum priuationem, «ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque interrogationes partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed interrogationesfacit omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in tabula, habeat tres æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat, circa uffumptam materiā,ut tex. 52. determinauit phi lik line et K IN PRIM VM LIB.. lofophus,non errat circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat in forma, in ſua induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus igitur error in Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc eandemfententia habet Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo loco innumeras Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT autem quofdam non fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque conſequentia, ut & Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit. Scito Ariſtotelem Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica errabat parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit,ſed aduertendum eſt in materia parallogiſmi, quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia, quia ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima ponit non minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit aliter exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi auctoritate, qui Proclus, ſi ita fenferit, ut ioana nes refert, perperam hunc locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit, non autem ait, quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit, id cito creſcit ſicut ipſe loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic, 1,2,4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, $ 12, 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis Cenei dico ex doctrina Eucli dis deffinitione undecima quinti Elementorum, &ex deffinitione primi Geometrie uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur non termini, ut loannes Proclus facies bant,arguebat ſic Ceneus,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata Analogia, ſed ignis augetur in multiplicata Analogia, igitur ignis cito creſcit,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem error parallogizando à Geometra non committitur, igitur certiſie ma, ca in primo certitudinis gradu Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST. 248 2 3 3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI, C. qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis, quæ funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt accidens. Secunda pars trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt, quodomnis triangulus duos bus rectis paret habeat, id autem probat prima pars trigefimaſecunde,& ſecunda, o prima pars uigefi menone, &tertia decima primiElementorum, quæ omnes propoſitio nes concurrunt ad probandam illam conclufionem, quæ conclufio ſi in fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin illareſolui poteſt, que ſupra commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam methodum, ab illis principijs ad illam illatam conclufionem, reſolutiuam methodum ab illa conclus fione ad illa principia regrediendo, quihabitus reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum eft re &te fapientis. Cumautem conclufiones in mathematicis fequantur ex determinatis principijs, tunc ibi facie lior eft reſolutio à concluſione in principia quàm in Topicis, ubi ex uagis, ofolum apparentibus, quandoque etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij 7.6 IN PRIMVM LIB. @non ex unis principijs concluditur quippiam de hac re, abundantius infragmentis nostris mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus fum. TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX. & fit par eſt ers VGENT VR autein, non per media, ſed in aſſamendo, ut a de b, hoc autem de c, rurfus hoc de d, & hoc in infinitum. Et in Iatus, ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus, uel infinitus,hoc autem fit in quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus imparin quo c,eft ergoade c, & fit quantus numerus, in quo d par numerus in quo e, go a de e. Exépla duo attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu mendo, primo exemplī prebet in numerisin poſtfumendo,ut a numerus, de b numero impari, et b,de numero c primodicitur igitur a numerus de c numero primodicitur, In latus ſumendo numero pariter exemplificat, pro cuius notia, imaginare arborem porphirianam,cui fimilē in numeris finge, &numerum quantū,qui etiam potentia infinitus eſt, loco ſubſtans tiæ apta; infinitus ait propterhoc, quia omnes imparis atque paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum crefcunt,potentia continet,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties continet, his autem numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus, quia quicunque daretur, aut par effet, aut impar, qui non poteft effe communis pari &impari, fed talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem uti iſto uer bo, uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat magis ad dialecticuin, ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet, ins finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum inſuis fpetiebus, & numerus fic acceptus diuiditur in imparem, atque pa rem, &imparis numeri diuiſio est, in primum numerum,ocompofi tum, prinus autem numerus dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque numerum,o ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3, 5, 85" 7, 13. Compoſitus numerus eft, qui alio numeroaf e,oo ab unitate diuerſo, dimetitur, ut 9, aut 25, à ternario, & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem, atque imparem, et par quidem numerus ille eſt,qui biffariam ſecari poteft, ohic partitur in pariter parem, qui in duo æqualia fecantur, partes eius, quoufquc POSTERIORVM ARIST. 1 ad unitatem uentum ſit, ut trigeſima. In pariter imparem qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non fufcipiunt ſectios niem,ut quatuordecim. In impariter partem, qui quidem in duo æqualia diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia, fed hæc partitio, uſque ad unitatem non peruenit, ut trigintaſex, de quibus Euclides libris ſeptia mo o octauo, nono Elementoruin, Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo Arithmetice, Quo autem ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit exemplumſuum, numerus infinitus fiue quantusſit a numerus autē quantus &determinatus ſub ipſo ſit b, numerus alius nempe infes rior ad b ſit cog,par autem numerus quantus ſit d, qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum fuit fupra, eft ergo a ded, &etiam de e k lo In latus autem dixit,quiane dum per rectam lineam arboris, fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11 in Exemplum in poſt.fummendo. 5, Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111: 11CTUS -is 14 impar primus 13 50 ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis. 16 14 pariterper impariterpar pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod exemplum in numeris eſt contractius, quàm prius propofuerit per litteras,ideo ne labores in numeris tot numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras, ibicommemorat, exempla duoin numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne alia aliterdefiderentur. mo. 6 8 IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X X. Iffert autem quia & propter quid fcire primo quidem in eadem ſcientia & in hac dupliciter uno quidein modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus, non enim accipitur prima cau fa, quæ uero fcicntia proprer quid, per pri mam caufam eft. Hoc quidem primo modo non prebet exemplum aliquod philofophus, quicquid Aueroes, Philopou nus, fequaces fentiant, fed exemplum profecundo modo appofuit unicum folummodo pro quia, de ſintillatione planetarum, de rotons ditate autem Lune dedit etiam exemplum,pro fecundomodo quia,quo ta men exemplo declarat etiam quo pacto fieret propter quid demonſtratio O ob id imminutus aut ſuperfluus non fuit, quia primo modo textus est clarus ſatis, c profecundo modo quia,duo exempla prebetin diuers ſis ſcientijs, utrunque exemplum est in ſcientijs medijs, alterum est in optica, reliquum est in Aſtronomia, &quia textus est ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad inductionis modum. Primo declaro prie, mum modum, quo, quia à propter quid differt de quo primo modo,quo, quia a propter quid differt nullum dat exemplum,ubi ait uno quidem modo,fi non per immediata fiat fyllogif. ita habet textus Philo ponio Aucrois Argiropilus autě habet, uno quidē modo fi ratio tinatio non per ea, quę uacant medio fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio, omelius meo iudicio, cum illud uniuerſalius fit uer bū, fenfus tamen ille est, utfi fiat deduétio, non per immediata,erit demon ſtratio quia; ut fide homine concludatur reſpiratio, eo quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd reſpirat, eo quòd pulmonem habet, eritdemonſtratio propter quid, oin utroque modo,concluditur res spiratio follogifmo ut omne animal reſpirat,cæt.velomne habens pul: monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum,Olegatur ratiotinatio, Tunc exemplum dari poteft pro primo modo, quando non per immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij. primi Elementorum probatur per uigefimamnonam primi elementorum, & non per immes diata principia, fic ut fenfus fit, quod illa que probantur per alias pro poſitiones probatas prius, talia quidem probatione quia probataſint illa uero queprobanturper immediata principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST. zmo citer fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes: FUS IN • prie quo, dem philo atio ogil uer tur, ut eſt queſitum primi, ſecundi, atque tertij problematum primi Elea mentorum,que quæfita per immediata principia demonſtrantur, facta prius deſcriptione, ut conuenit, neque dicendum est, ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid,quando perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco, non imme diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam, quæ per prima probare poſſunt, cum demonftratio fiant ex primis, & im mediatis, oppungat,ut immediatafint, o non fint primaabſolute. Et in Geometria etiam alio modo quia eſt, differt à propter quit, ut quando ab effeétu ad caufam progreffus fit, neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur equalitas laterum,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur, utputa quando ab equalitate laterum trianguli infertur æqualitas angulorum illa latera reſpicientium, ut prima pars quintæ elementorum Euclidis proponit. Atio autemmodo per immediata quidem non auteng percauſam, ſed per notius eorum que conuertuntur, ut lucidum non ſcintillare,o prope eſſe, fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz. cida, ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft, non ſcintillare, quàm prope effe, &notius eſt creſcere per increa menta lucida rotunda, quàm eſſe rotundum, & primum eft per fenfum per induétionem in fingulisplanetis notummagis, non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed econtrario.Secundum etiam, ut quod incremento creſcere,non eſt caufa rotunditatis, licetfit notumfolummo do per ſenſum, non autem per inductionem à pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico incremento creſcente certi fumus, *cum per ipfa, fiunt inductiones, quòd planeta propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt quid, quod fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit demonſtratio, ifti igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per priora quidem, non tas men immediata procedit. Alius autem per immediata non tamen per priora, fed ea quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex prio ribus fit, atque ex immediatis. Amplius quare planetæ, haud fcina tillare uideantur fuſius ſuper problemateultimo quintadecimæfectio nis problematum Ariſtotelis fiet per me declaratio, quæ etiam faciet fatis huic textui, eft tamen hoc loco aduertendum Ioannem dicere fira MON mal, het, pw atur non ros illa IN PRIMVM LIB. tillationem prouenire, quod protendentes uifus ufque ad aſtra fixa de biliores fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per extramißionem radiorum, ut Thimeo &Empedocli placituin erat, quos Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De Senſu &ſenſili. In hac igitur parte reiciendus est Philopo nus, niſi exemplo loquatur famoſo. Alterum De rotunditate Lune fus per problemate oftauo eiufdem feftionis aperietur, ubi querit Ariftote les unde eſt, quòd Luna uideatur plana, cum fit rotunda. TEXTVS LXV. ALIAS X XX. MPLIVS in quibus inedium extraponitur etenim in his nó propter quidſed ipfius, quia demonſtratio eft, non enim dicitur caufa, ut propter quid non reſpirat paries, quia eſt ani mał. Tertium modum quo quia in eadem ſcientia à propter quid differt, nunc affert Ariſtoteles inquiens amplius eft, que quando neque cauſa probat 1,ut primus modus effe&tum infert, neque est,quando ex effectu caufa infertur, fed quando ex nega: tione pene cauſe infertur ipſius effe &tus negatio, feu etiam econuerfo, ut quia non funt parallele, ideo alterni anguli non funt æquales, opdo ri modo, quia extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex eadem parte, igitur parallele non funt; oeſt hic modus tertius, quo quia à propterquid differt in eadem ſcientia, dixi quando ex negationepene caufe, oc. Quia parallelas effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les,nifi fuper ill. linea recta ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli fintæquales,ficut animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt pulmo, totalis autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă affeétionem in perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria & Mechanica ad Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum, fi id quod ait Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur,onera qua mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra mouerentur,ultrd rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit, etiam ratio propter quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao taud uel undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez cunda, minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote, quia ana gulus fcytalarum longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus POSTERIORVM ARIST. 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft quàm angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala quam rota,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa nicis declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas,quibus utuntur lapi cide in trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat, ut Boetius re&te fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus Greculus ſentiat, fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem propter quid ratio, ab Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor tio non poteſt diuidi in duo equalia, ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus autem cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia ſemitonia diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam. Apparentia, ipfa eft phenomena de qua Euclides, e Aratus poeta agunt, atque VergiliusAgricolas docens tempus quo mila lium feminaredebent, ait in Georgicis loquens de occafu hellaco, Candi dus auratis aperit cum cornubus annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit aſtro,rationemſiqnis agricola deſideret, cur eo tempore cda nis, qui et Alabor dicitur, occidat beliace,id totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid redet; Sol enim in orbe eccentrico à propria intelligentisex occidente in orientem motus, quicquid fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, & fequaces,accedit annud orbita ad illud fydus, quod eft in geminis &fuo maximofplendore, non finit illud uideri, id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum Tauri, attingit extremam partem Tauri, tunc enim canis perdit lumen ſuum, non uidetur amplius, propter So lis ad ipſumſydus uiciniam, quouſque iterum per motum eccentrici ab co fydere ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit; hi ſunt igitur modi quatuor, quibuspropter quid, à quia differt, tres quidem funt in eadem ſcientia fubalternante,oquartus, quando id quoddemon ſtrandum eft inſcientia media,per ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt, probatur, in quo quarto modo, funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB. -7. Sunt autem hæc quæcunque alterum quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati cæ enim ſecundum fpeciein funt, non enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed no quatenus Geometrica,de fubiecto funt. In præcedenti particu la huius textus dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero propter quid,quòd uniuerfalium ejt, per caufas habetur,ait,propter quid autem mathemde ticorum, hi enim habent caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter neſci unt ipſum quia, ficut illi uniuerſale conſiderantes, fepe quædam ſingula rium neſciunt propter id, quod non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat philofophus, dicens eos noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico more, ea non intendere quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia igitur ipſius,quiu à propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e quidemfcientiæ, quia quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã quiddam fecundum fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum ſubſtantium,fed etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto materiali exiſtens, Mathem matice enim, nempe quæ propter quid fient, circa fpccies ſunt, dubita. tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o ſciétia propter quid circa ſpeciesſit, quo nam puto, in quia, & quo modo in propter quid fpecies intelligatur. Dico, quod quia ſenſibilium eſt, ut ait Ariſtoteles, utitur, quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata perci piunt, fed propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali, ut ſuperficie, linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de ipſis inipſis cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra quatenus in ſubiecto funt,ſed preciſius abſtractione, ea conſides rat, fi talia nufquam, ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam, ficut hæc ad Geome triam, & alia ad iftam, ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar giropoli in hac, precedenti particula facilior,atque candidior eft, quàmfit textus Philoponi, ne uidear tamen in precedenti particula, e hac preſenti, litteram ſequi, quam pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt, fæpe encruat; loannis textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute continentur quam, contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc Procli interpretatio, ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. terno quodã ordine pofitæ funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia &huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua, quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria, per ea quæ in perſpectiua funt notamanifeſtantur, qu: autê in pera fpectiua, per ea quæin Geometrianoșa, fuerunt, ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus Iridibus appareant; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo, per fcientias ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum, ſcienriarun fe has bent fic, ut medicina ad Geometriam, q eniin uulnera, cir cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ. Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus,qu& namfcientiæ effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut aſtrologia ' et mathematicaet na ualis, o harinonica quae mathematica, oque fecundum auditum, in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt, id quod circa planum uerfatur, medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le,id, eft, quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce, neque fubalternatæ,ut in chierurgia,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum, difficultate fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi propter quid, primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni parte æqualiter diftat cas o, ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie 20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo, differt ipſum propter quid ab ipfo quia, quodelt, peralia fciené Stianu nrruinqué, ſpeciilari, Huiuſmodi au Matem funt, quæcunque fic fehabent, utals terum fub altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic intellis gatur per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus univerfalem. Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid, quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer quid, perfpeétiuauero, quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom pter quid autem mathematicorum. Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd, uidet ipfam quantitatens minorem, quamſi idein oculus fiat in b, quia inquit perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b, quam ab eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc, quod di cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo, quodne que percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes, quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim ponëdum in illis. Ego autem econtrario dico, totum neruiim rei, eſſe in exempli intelles ione, ubi ait, quod perſpectiuus oftendit maius uideri id, quod de prope eft, demonftratione quia, o Geometra, idein propter quid, demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum, qua uigefimaprimaprimi Elemen.non propter quid demon ſtratur, fed demonſtratione quia, ut demonftratio quia diſtinguitur, a propter quid primo modo, ficut textu 64. declaratumfuit, quòd illa des monftratio, quæ per mediata a probatas propoſitiones procedit, eft demonftratio quia, diftinguiturab illa ineadem ſcientia, quæ proces dit per immediata principia,quæ demonftratio propter quid dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu,determinatur quòd demonftratio uig eſi miprima primi Elementorum eſt, quia, hoc autem exemplo perſpectis uo dicit, quod eft propter quid, contradictio igitur manifeſta uidetur. Dico de mente Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu fexagefimoquarto,dicentis. Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per immediata,ſimiliter w propter quid, unde aduertendum, quod demonftratio, quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum,que per uigefimam decimāfextam primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc. POSTERIORVM ARIST. es mentorum, quæ per immediataprincipia procedit comparetur demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone ftrationein, tunc propter quid dicetur, quia perſpectiuus pier eam pros bat intentum, u ſictricic apparentis argumenti explicite funt,fc cundum philofophiſcitum. TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IGVR A R v M autem faciens ſcire maxime pri ma eſt, etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes ferunt, ut Arith metica, & Geometria, & perſpectiua, & fes re (ut eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem,aut enim omnino,aut licut frequentius, & in plurimisper hanc fi guram (quieſt propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica, que tanquam fictitium quoddam, uanißimum, &nullo Greco & Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles, etenim Mathematicæ ſcientiarum, per banc primam figuram demonſtrationes ferunt, non igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam inductionē, utibifuit des terminatum. Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui ea profert& fcri bit; quæ nonfunt notæ earum, quæin anima paßionumſunt, cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant, fed potius tanquam ficcamcucurbitain, in qua nonniſi uentus reperitur, quia tamen nonfo lummodo fapientuin habenda eft ratio, stultis etians atque infipientibus pariter reſpondendum effearbitror, ne in fua ignorantia glorientur ua ne. In hoc textu Ariſtoteles nil aliud determinat, niſi quod preſtantior est prima, quàm fecunda & tertis figuræ,&quód Mathematica hac fepe utuntur, &hoc quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex. dicens, oin plurimis per hancfiguram, que eſt propter quidfyllogif mus fit, modo quid refert, ſi Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum, quo modofyllogiſmo utitur Geomes tra, &quomodo inductione Geometrica?fimodo quis ex hoc textu uca lit inferre, quod illa indu&tio Geometrica non detur, ipfe faciet mendas cem Ariftotelem, dicentem in tertio textu, quòd nedum fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB., oinduétione, ſcitur quòd triangulus in femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis. TEX. LXXXVII. ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his, quæcun queipſa quidem inſunt, fecundum ſeipſa rebus, ſecundum feipſa uero, dupliciter, quæcunque enim in illis infunt in co quòd quid eft, & in quibus, ipſa in eo quodqınd eft inſunt ipſis, ut in numero, impar, quod ncit quidem numero, eft autem ipfe numerus in ratione ipfius, & iteruụn multitudo,aut diuiſibile in ratione nua meri, horum autem neutrum contingit infinita eſſe,nec ut impar numeri, Secundum fe ipſum bipartitur, ut quando prie mum deffinitio de deffinito predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione, ut numerus est multitudo ex unitatibus aggreguta, ut Euclia des ait fecundadeffinitione ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est: impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū, neq; etiä numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus, quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit, ut fi quippiam, nume rus eſt, id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur,oſi quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet, ſic ut exempluinprimum Ariſtotelis, ſit circa diuiſionem, fecundum exemplum de deffinitios ne, quia tamen addit, aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem reperitur quod diuſibile in numeri ratione ponatur, quatenus nu merus eſt, fed in deffinitione numeri paris; recteponitur, ut diuidatur in æqualia, ut primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft, qui in duo æqualia poteſt diuidi, & quicquid in duo equa lia diuiditur, id numerus effe patet, fiueboc de numero, quo numerisa mus, feude numero numerato, hoc intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam, in his exemplis ſeruauit Ariſtot. primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco infpecie contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt in imparem atqueparem; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica, definitio estſecunda septimi Elementorum, deffinitio autem paris; patet ex prima definitione noni Elementorum. Horum autem omnium nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in imparem atque parem, impar in primum, compoſia tum, compoſitum in quadratun, o non quadratum, igitur quadratus compoſitus impar numerus eft, onumerus, eſt impar compoſitus qua dratus, feu numerus eft impar prinus, er prinus, impar numerus eft, ſicuti status eſt innumero,ut tandem ſit ultima particulaque à par te fubieéti ponatur, ſiiniliter ſtatus erit in alijs particulis, que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum,ncque igitur in deorſum infinita pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís, de quiz bus intentio eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes, neque in deorfum diuiſionein feu partitionem animaduertit. d ac 38 mi TEX. LXXXVIII ALIAS XXXVII. for ONSTRATJslautem his, &e. Non te prea terit, quòd habere tres duobus reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni, neutri tamen per alte, rumconuenit,fed utriqueperhoc, quodfigurarea Eilinea trilatera eft, idfæpe fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi Elementorum.. other VA 16. TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum in alís eſt principium fimplex, hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui quidem untia, in melodia,alle tem diefis, aliud autein in alio, fic eft in fyllogitno unum, propofitio immediata, Secundum antiquos rumfcitum, ut Campanus refert ſuper oriaus xiiij. Elementorum unumquodqueintegrum in xij.partes æquales per rationen og intelle Etum diuiferunt, ipſum totuin fic diuifum in partes illas, aſſem uoc4 = werunt, undecim earum dixerunt deuncem, decem dextantem, nchem IN PRIM V M. LIB: dodrantem, o &to beſſem, feptem ſeptuncem, fex uero partes femiffen, quinque quincuncem, quatuor trientem, tres quadrantem, duas ſexa tantem, unam autem appellauerunt unciam, quam unciam in minorafra gmenta nonfecat philoſophus, quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium fumit ipfum integrum, tanquàm ab immediato prins cipio,ex quo,fumiturfimile, quod in fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit refolutio in terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit, id autem eſt, quod qui Logicam ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei, ut in adagio dicitur, operam fimul ooleum perdet, quid per dieſim intelligat, notum erit fitonum ſimpli cem, interuallum integrum, nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus partes eſe impoßibile quis prius perceperit, ut etiam in tex. Lix. prædemonftratum eft, duas tamen in partes inæquales diuidi, quarum altera maior eft, quæ apothomen, ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ minusfemitonium nuncupatur, oip fum minus femitonium in duas partes æquales diuiditur, quartum utras que dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis, ut Boetio atque Nicomas co primo libro Muſicæ,capite xxi. placet,idprincipium toni eft, quid minimum. Practici uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum linearumfuper alias duas ſic *quam incifionem fignant ipfi practici Cantores, ſuper eam notam, ſub quain deſenſus toni, faciunt defen fum ſemitonij, ſed id cantoribus relinquatur, prima dieſis acception Ariſtotelis ſententiam explicat, quia dieſis in illa acceptione, eft minia mum conſideratum à mufico, fiue id, quodminimum eſt in concinentia conſideratum, ſicut uncia in ponderibus oimmediata propofitio in de monſtrutione fyllogiſtica, o boc intelligas de minutijs integri, non de minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud Boetium libro tera tio capite octauo agit,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non faciunt pretermito. MAGIS tur POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX. AGIs autein ſeiinus unumquodque, ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam fecundum aliud,utmuficun Coriſcum,quá do Coriſcus muſicus eſt, quàm quod homo muſicus fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod particularis demonſtratio ſit uniuerfali potior. Quis nam fit muſicus aperit Nicomacus atque Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft, quinon ex eo quod manu cytheram pulfat, fed ille qui rationis imperio cantillenas rum distonice, cromatice,atque enarmonice ratum, atque firmum ſta tum agnoſcit diiudicat, atque imperat, qua re intellectu,quærit Ariſto teles,num illa demonftratio, qua Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus co:rcluditur, quod eft, an particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior, Cui rationi reſpondendum; ut Ariſtoteles innuit per interemptios nem, negando quodCoriſcusſit muficus per fe, fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt de eſſe quain de non eſſe, & propter quam non errabi tur quàin proptcr quam crrabitur eſt au tem uniuerſalis huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt proportionale,ut quo = niam quod utique fit talc,erit proportionale, quod ncque linea; neque numerus, ncque ſolidum, neque planum eft, fed præter hæc aliquid. illud idem totum quod text. xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi Ariſtoteles text. xx v dixit hæc uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu, magis aperit dicens, proces dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque lined, &cæt. fed pre ter hæc aliquid, quod quidem eſtipſum quantum, quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis, neque illudeſſe tale immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut immaginabatur,lo4nnes gram M IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia illud,analogum eſſet, quod à propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto textu reſpondens ad fecundam difficulta tem. TEXTVS XCIIII. S IGIT VR triangulus in plus eft, & ratio eadem, & non fecundum æquiuocationem, conuenit triangulo & Iſoſceli, & ineſt oinni triangulo duobus rectis æquales,non utique triangulus ſecundum quod eſt Iſoſceles, led Iſoſceles ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles hoc textu uniuers falem demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem eſſe, o eft quando per rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem concluditur eademet affeétio de par. ticulari aliquo, ut habere tres æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte x x x 11primi Elementorum de triangulo primo, deinde de iſopleuro, ſoſcele, oScalenone non primo, fed quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis concluditur perfyllogifmum, uel etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde primiElementorum Eft in hoc textu non minima conſideratione dignum, quod etiam non eft prætereundura immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt, quia o nomine for rede uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur, utpuu tafigura,quæ tribus reétis lineis clauditur, non tamen per ipfam ratios nem, cõcluditur de Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les, ſed per primam partem trigeſimæ ſecunda, eper uigeſimā nonam Otertiä decimă primiElementorum, quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ Ariſtotelis,de ratione uniuoca,Di cendum, quod naturaexemplieſt, ut non conueniat. Cum re in omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res ipſa.Dico fecundo quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque perpéfum,quod nulla demonftratio mathematica eſt potißima, & ob idmathematicæ nul leſunt ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in nulla conclu ditur aliqua affectio deſubie &to per deffinitionem fubie &ti,quod tamen uo lunt uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem paßionis ut alij determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane dem deffinitionem,fiue uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua POSTERIORVM ARIST. ineſſeſubie o uniuerſali, &eadem ineſſeparticulari per eandem deffini tionem, quòd de uniuerſali, immediate & per fe,de particulari autem non immediate, neque per ſe, ſed per uniuerſale concluditur, ideo uniuer. falis ipſa particulari demonſtratione potior, atque præftantior est, ut fi per rationale mortale, concludatur de homine riſibilitas, &deinde per id, de Socrate, quod fit riſibilis, illa in qua de homine, quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft potior, ſicuti de triangulo uerbigratia,in fecunda parte trigeſime ſecunde primi Elementorum, &etiam de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus reftis, illa tamen inductio,que probat de triangu o potioreſt illa industione, quæ de iſoſcele idem cons cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde de particulari trian. gulo concluditur, hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum intel ligendafunt. TEXTVS XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus propter quid, & tunc opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid fciamus, quàm hoc, aut quòd fiat, aut quòd fit, & cetera uſque ibi, Cum igitur cognoſcamus quidē, quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis, quoniam æquitibiarum,adhuc decft propter quid, quia triangulus, & hoc, quia eft figura rectilinea, ſi aus. tem hoc, non amplius propter quid aliud, tum maxi mc ſcimus & uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu Ariſtoteles determinatquòd, tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas procedit nofter reſolutiuus diſcurſus, ait enim cum igitur cognoſcamus quidem quod, hi, quiſunt extra æquales ſunt quatuor rea &tis, o redit rationem, quoniam equitibiarum, ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere, pentágone, adiecit proximiorem cau Jam dicens, quia triangulus, quia tamen trianguli diuerfa funt latera,ut curua, conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta,conuexa a recta,ut omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis udhuc proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus, uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id, quod exem = plo, Ariſtoteles ait, paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB. mnes extrinfecos angulos, quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi elementorum duo anguliad c, pofiti æquales duobusrex & is, eadem ratione duoilli ad a, o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis, fed per fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum, tres intrinfecifunt æquales duobus re&tis, igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter fumptus, hahet tres an gulos duobus reétis equales, ſed ali quis habet duos angulos rectos, tertium acută, et quidam triangulus eft qui habet tres angulos rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis theoremate pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr pro poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet trianguli fint minores duobus rectis, nec etiam eſt contra fecundam partem xxxl primi Elemen. Euclidis, quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres duobus reftis æquales, ratio, quòdnulla inter hos fapientißia mosſit contradictio, eſt, quia de rectilineis Euclides, de fphelaribus ues ro Ptholameus & curuilineis triangulis agit, quod aduertens Ariftotea les adiecit, quia est figura rectilinea; ut fit abſolutus fenfus, quod equis tibia figura trilatera rectilinea, habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis equales. TEXTV S CI. I MPLIV's autein & fic, uniuerſale enim ina. gis demonſtrare eft, co quòd eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio, pro xime autem immediatum eſt, hoc autem eft principium;fi igitur quæ ex principio eſt, ea quæ non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM ARIST. cipio, ea quæ minus eft, certior eft demonſtratio. Hoc textu Ariſtoteles apponit extremammanum determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari demonfiratione dignior, in quo quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis., difta tamen ohic ab Ariſtotele tertio tex tu, ibi, quorundam enim hoc modo diſciplina eſt, onon permedium ube timum cognoſcitur, ut quæcunque iam fingularia eſſe contingit, nec de fubiecto quopiam, ubi aduertit quod quidammodus est, quo fciuntur af fertiones deſingularibus, onon per medium,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur de particularibus per medium, fed non primo de eis, ut declaraui in textů tertio 'nonageſimoquarto huius, affectiones uero que de uniuerſali cognofcuntur, he quidem per medium cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis demonſtratio, eſt ipſa particulari potior, quia particularis non per medium, uniuerfalis uero per medium demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis demonſtrare est,eo quod eft per medium de monstrare,id autem Geometrico exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis cognouit, quia omnis triangulus habettresduobus rectis æqualesfciuit, quodammodo, & quod ifcoſceles duobus reftis tres pares habet,utputa potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu, potentia etiam fcit. ea, quæfub. ipfo continentur, &ſi non cognouerit 1fofcelem quòd actu,oper aper tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces interpretabane tur) triangulus ſit, hanc habens propoſitionem,hæcparticula legenda eft, cum particula aduerfatiua fic,hanc autem habens propoſitionem, nempefciens tantum potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés, uniuerſale nullo modo cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus rectis, neque potentia, neque actu, non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt uniuerfale ad triangulum,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet. Accedit ad hoc etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu, non ſcitur potentia fuum particulare, fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī,quifieripoteft,ut propter id,ſuū uniuerſale potentia fciatur? non etiam actu fcitur uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile potētia, non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari habetur de particularibus difciplinam eſſe, particularem eſſe demonſtratioa nem quæcunquefit illa,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter uniuerfalem o particularem demonſtrationem. Preterea etiam nos tatu dignum habetur, contra omnes interpretes, id autem eft, quod ali IN PRIMVM LIB. quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians ſcimus, introducit eos, qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis, quod de nouo ſci mus inquiunt enim, noftis ne quod omnis dualitas par ſit,nec ne? Vel etiam, quòd omnis triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem Platonicis attulerunt dualitatem, uel triangulum manu aba fconfum dicentes, ecce quomodo uos de nouoſcitis, hanc dualitatem eſſe parem, quia priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt locum, ſic ut nedum ipſi intelligant, fed eshi qui cos audiunt ita faſcinentur, ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim ſine propoſito, quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa, ueltriangulo conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales haberet, quia neſciebant illam eſſe dualitatem, vel illum effe triangulum, putant iſti exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes, anon aduertunt, quòd id dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit, quod illi qui dicebant de nouo fcire, male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum, egr reſpondentes perperam, dicebant fe nonſcia re eſſe purem, niſi quam dualitatem eſſe ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit, quòd qui ſcit omnem dualitatem eſſe parem, uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet, fcit quòd dualitas ſitpar, quod Ifofceles, tres duobus reftis æquales habet potentia, licet neſciat a &tu perſenfum, quòd iſoſceles triangulus ſit, quem locum à me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum propter fal fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem. TEXTVS CVII. ALIAS XLII. T ca certior quæ non eſt de ſubiecto, ca quæ eſt de ſubiecto, ut Arithmetica armo nica. Numerus, ſubiectum eſt in ipfa Arithmetica qui quidem abſtractißimus est, nullum materiale ſubie &tum concernens, Armonica, uero de nume ro ſonoro, uel magis, de ſono numerato, quod magis concernitmateriain, ut fonum ipſum., qui fonus numeratus, ſub iectum in armonia eft, ut Boetio placet libro primo muſices, modo Arithmetica cum circa ſubiectum minus immerfum matericfit, certior POSTERIORVM ARST. estquamſit ipſa Armonia, quæfubie£tum conſiderat magis immerſum ipſimateria, eftigitur alia certioraltera propterſubiecti maioremabe ſtractionem? TEXTVS CVIII. T quæ eft ex minoribus certior eſt, & prior ea, quæ eft ex appofitione, utArithmetica Geometria. Dico autem ex appoſitione,ut unitas fubftantia eft fine poſitione, pun. tum autein fubftantia pofita,hoc autem eft ex appoſitione. Hoc in primis conſiderandum eft, quod hoc textu non loquitur Ariſtoteles de ſubie&to fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus abſtracteconſideratur, quia id in precedenti tex. determinauit; una enimſcientia determinat de abſtracto numero, reli qua uero defono numerato, unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est ſubiectum in Arithmetica, niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione, utin 15 ſeptimi ElementorumEuclidis,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium librorum Arithmeticæ Euclidis. Dico autem,ut unitas, ſubſtantia eſt, fine appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta, hoc est ex appoſitione,Nicomacus,Boetius, Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus, in primis lordanus, o Euclides recte interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent, quem locum obſcurant rabini cum * ueſtra excellétia ex appoſitione nominati,heu me, in manusquorü inter pretum incidifti Ariſtoteles? quæ hominum dementia te torquet: erant ne ſimile hominum genus tuo tempore, ita inſipidi atque macrologia op preßi, qui Platonem, quique te audirent, expoliati Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc tempore nedum iuuenes non recte imbuti lite teris, fed magis ſeneſcentes in fua, non tua philoſophia homines, exurs gant Romani uiri, liberalibus diſciplinis præditi, quorum bonarum are tium hereditas, negligentia pofteritatis, uerfa eft ad extruneas nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur, eo locum hunc inter pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto affe & a, uellined, uelalio quoppiam alieno, fed punctus, uel linea', ſeufuæ perficies, uel etiam corpus,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus unus, uel una ſuperficies, aut corpusunum, uel plurafint: Plura autem pun & a, eſſe non poffunt, niſi prius punctum unum,uel unafuperficies,aut corpus unumfit, minus igitur eft unitas, quim punétum unum, Pombaiam IN PRIMVM LIB. ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat: non ut fuum fubie &tum, fed ut id, quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur tanquàm pars ad ſuum totum. Vnum pun &tum, feu lineam unam, uel etiam unum corpus Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam,pun & um &corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens, ex pluribusfacit fuam conſiderationem,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat abſtractiſsime, nulli reiappoſitam. Ex hac declaratione patet id quod Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima, eſt, duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti, ſecunda ex certitudine, ex certitudine dico, non ut quis dam inueterati in philofophia craſſa exponunt, uidelicet ex demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico, quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt, atque minus compoſito, quàmſint ſubiecta librorum,librum de anima precedentium, ex precedentis textus, atque huius expoſis tione id totum colligas uelim, ex precedenti, ſi de anima, ex præfens ti autem ſi de anime particula, loca libri de anima intelligantur. Claret etiam, ex hac noftra interpretatione,quod Mathematicæ diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia, quia non funt circafubftantias, ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte, philoſophus non erubes fcitaſſerere', ofequaces,quia illas inquit merito dicendasſcientias los quitur, quæ tantum circa fubftantiasfunt; non autem que circa accia dentia, ut funt Mathematicæ, quod apud Ariſtotelem nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere e in primis ſcientie, ſecundum nos & re ipfa funt, ex fententia doétifsimi Boetij in principiofue Arithmeticæ,ubi ait, ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt, quæſunt circa res, quæ nunquàm mutantur, fed fua natura femper funt,utſunt fubftantia,a quantitates; quo nammaiore auctore hec noſtra ſentens tia corroboratur, quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc præexpoſito textu ! qui in fua doctrina conftans, punctum ſubſtantiam appellit, itidem unitatem ſubſtantiam dicit, ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ, quæ circa fubftantiasfunt, in primis Arithmetica atque Geometria merito (quics quid balbitiant alij) ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia tamen de mente Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias, non ob id, quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia procedunt, ſed quia affectiones que in ipſis con cluduntur, non perdemonſtrationem, quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat, concluduntur ut declaratum fuit textu nonageſia men, mo POSTERIORVM ARIST. moquarto,merito ſcientia non funt, ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men indagari, quis uelit. TEX. CXII. ALIAS XLIII. 3 EYE per fenfum eft ſcire id, Exemplis duobus. Altero Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico, declarat Ariſtoteles, ſi enim ſenſus uifus uideret id, quod intellefius percipit fecunda par te trigeſimæſecundeprimi Elementorum,quód trian gulus. uidelicet, habet tres duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens, fed ut fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret,o huius rationem reddit dicens, necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter, ſcientia autem eſt in cognoſcen= douniuerfale, unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente augem Lune, uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij, uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter hoc diceremur fcientes, quia illud, quod uiá deretur,effet ſingulare, &cum ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius uniuerfalis, ſequitur, quod per ſenſum non eft fcire. Aliter etiam exponaturſic, ut ſi eſſemusſuper planetum, qua Luna est, &in illa parte planete que terram, & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra uerſus idem centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum uifus, quòd deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non plures percipit ecclipſes ſimul neque actu,neque potentia,fed unam tantum,necobid tumen ſcientes dice remur, non enim uniuerfalis est ſenfus, fed particularis ut ait, ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes demonſtrationem ha bemus, non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de purticularibus, ut Tex. iij. fuit determinatum, fed ita intelligas, quod ſenſus eft tantum particularium, intellectus autem utriuſque, Sunt tamen quædam reducta ad fenfus defeétum in propofitis & c. · In hac particula huius textus, idem perſuadet diuerſo exemplo, quòd. videlicet neque per ſenſum eſt ſcire, in prima huius textus particulas Exemplum attulit in phænomena eGeometria, in hac autem particula exemplum est in perſpectiua, eft etiam quoddam aliud diuerfum, quia precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi. In hac auten pars N IN PRIM VM LIB. ticula exemplum præbet de multis illuminationibus faétis per uitra pera forata, ſiue foraminailla ſint pori uitrorum, feu etiam foramina ſint ma gna,artificio quodam facta, que fenfusuifus in multis uitris confpiciens, compertum haberet, &manifeſtum eſſet, & propter quid illuminat, id eft,propter,quid illuminationes multæ fierent,quoniam, ut inquit,uis deremus quid ſeparatum in unoquoque uitro, id est foramina multa, per qua radijtranſeuntes illuminationes multe fierent in pariete e re gione collocato, uel in pauimento domus,quapropterſi plures eclypſes ſimul perciperet fenfus uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam hoc euenire ex obiectu terræ inter Solem of Lunam, illud de Luna ex emplum nullo modo diuerfum eſſet ab iſto de uitris perforatis, niſi quod alterum in Phænomena, reliquum eſſet in perſpectiua; Ne.credas tam men propter multas irradiationes a uiſu ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul, uel poris in uitris per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur fciens,ſed ex his fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens, illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum eclypſi uiſa, fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad minus uniuer ſalia, ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter multa foramina fiebant, nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA Textus particulam illam, Aut æquale maius, autminus, Scire eſt, quod primi Elea mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem, ut fi una quantitas comparetur ad aliam eiufdem genes ris, aut erit ei æqualis, aut eadem maior, uel e46 dem minor, ut quatuor, ad quatuor, uel ad tria, aut ad quinque,ſi comparentur, fieri nequit, quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam di &tarum comparata, fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur, verumquidein poteft effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum, fedfi ad plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius Textu, Neque omnium. uerorum principia funt eadem, neque con ueniunt,ut unitates punétis non conueniūt, læ quidem enim non habent poſitionein,illa autem habent, Deappoſitione in punétis, eo pacto intelligas, ut tex.108 declaraui. Exemplo enim loqui tur de principijs,non quidem ex quibus inferatur conclufio, fed ex qui dus compoſitumfit, quia ex unitatibus pluribus ſimul coaceruatis com ponitur numerus, ex pluribusautem punctis non componitur quippiam ut terminaui tex. xix.huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates, que funt numerorum principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas enim,uel etiam unitates non ſupponunt punétum,uel punéta,punétus 'tamen uel puncta eſſe non poſſunt, quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint,non igiturconueniunt inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite, wepropter non appoſitionem, puncti ipſi unitati, unitas enim non ideo unitus est, propter unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem, ®ultra ait, quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta, hecuero in continua conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII. VONIA'M autem idein multipliciter dicitur eft autem, ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum uere opinari inconueniens eſt, ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones) idem, fic eiufdem eſt, ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem non eſt idem, Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media tamen diuerſa, falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum commenſurabilem coſte eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis demonftrationibus inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit in qua re tex: 1x. huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe diameter incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin, par numerus, impar effet, Circa idem igitur contingit diuerſitas, feu idem multipliciter dicitur, ut quòd diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta. Nij IN SECVNDVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA: V ENETV S. ** 3 TEX T VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit, aut hoc, quærimus in nume rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non, ipſuin quia quærimus. Luna enim defficit in ſe a lumine, a patitur menſtruum, propter interpoſitam terram diame traliter inter Solem u Lunam, Sol autem non defficit lumine unquam in ſe, fed tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis res peritur fimul cum Luna hoc quidem prouenit, ex eo quod inter afpes Eum noſtrum o corpus folare interponitur Lund, quæ cum ſit core pus denfum, coppacum magis quàm alia pars fui orbis impedit fo lares radios, enon finit eos ad afpe&tum nostrum protellari. Dubita tur circa id quod fuit di&tum paruin ante,o quód fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in ſequentibus,ufque ad textum nonum an Luna defficiat penitus lumine, quando patitur menftruum, quod eſt querere,an Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes, propterea quod, quandotota eclypfatur uidetur non nihilhabere luminis, apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius rotunditas extra plenilunium, ad quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum habet lumen,niſi à Sole ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia liquorem aquæum, cauſaaus të apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ rotunditatis antequam POSTERIOR V MARIS T. fit in oppoſitione Solis eft, quă ſtatim declarabo quibuſdam paucis pres intellectis, cum ipſa ſint corpus denfum &politum quemadmodum cæte ra fydera, radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad ipfam pertingunt non talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram reuerberantur, Tempore autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu nõ attın gunt lunam, ſed tunc radij aliorum fyderum, qui debiliores ſuntſolaribus radijs, pertingunt corpus lunare, &fua tenui uirtute Lunam illuftrat, ob id Luna uidetur habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et pro pter hanc eandem caufam dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple nilunium. TEXT VS I x. + 1 1 + VID conſonantia, ratio numerorü,in acu to & graui, & propter quid conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem has bent numerorum graue & acutum, utrum eſt conſonare acutum & graue, utrum ſit in numeris ratio corum,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt ratio querimus. inter ea quæ elucidan da funt in hoc textu, idin primis occurrit, notatu dignum; graue enim Cum motum fuerit, citius ad quietem redit quam leue æquali pulſumo tüm, Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic notandum quòd neruus cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum efficere ſedmul tos, quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur, ut diſtins Eti, propter celeritatein unius poſt alium, Exemplum præberem de Tur bone,uiride, aut rubra linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur uiridis, aut rubcus, ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi foni illi, qui leuiori neruo procreatifunt,comparentur has beanto ad illos ratione, ut quatuor ad tria,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi ueroeam quæ eſt nouem adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient, quæ quatuor ad duo, que concinentie, cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ funt generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon,o biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur, o ſibi do toresqui Calepino student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant, Alia exempla à tertio textu uſque ad undecimum,que Ariſtoteles præbetfua Palade in mathea 1  IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ quiaaliàs in præcedétibus dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed quæ di&ta funtfuper hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi enim nonfuerintplures pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce, căcinentia quidem reperitur inter re, ala licet nõ niſi ſingula,&fingula uox emittatur,non igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia, ſed primo inter graue ego acutum reperitur, quæ autein uocum diftantia inter ſe reperiatur, ut debita; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis accepto, cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est, ſed'in dubium occurrit illud, quod muſicifaciunt, quando fuper breuem ſillabam, plus temporis cona ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la festinant, ita ut ea,quæ naturaſunt breues, fiant longe, &quæ longe ſuntſillabæ,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica, fed Barbara o contra ufum loquendi appareat, Ad quod dico, ſequen tia dubia quæ funt,an concinentia proueniat ex mouente, ut Aristoteles in libris degeneratione animalium, uel ex motis rebus, ut in rethoricis, an exnumeratis pulſibus, ut hoc textů tangit, quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia clarafient, fed pro declaratione littera, huius tex tus,uideturexpoſitio feciſſe fatis. TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de aliquo demonſtrat, ut quia eſt, aut non eft, in deffinitione autem nihil alterum de altero prædicatur, ut neque animal de bis pede,neque hoc de animali,neque de plano figura, non eniin planum figura eſt, neque figura planum eft. Euclides póst quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin deffinitione quinta, ſtatim de angulis planis, e de fiquris planis adiecit deffinitiones, que figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu quia in ſuperficie plana ſunt deſcripte, fi gura plana, hefunt due particulæ deffinitionis, quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum, & id que in plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit, quia eft hoc de hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat, et q latus trigoni, quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri fubtenſo minori angulo. POSTERIORVM ARIST. TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM eft autem & fic, propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo exiftente rectus eft,fit igitur rectus in quo a, inediun duorum rectorü in quob, qui eft in feinicirculo in quo c, eius igitur, quod eſt a rectum inelle c, qui eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem ipſi b, duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe. Euclides xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte, ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic, ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum c, quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd, ſecans arcum a b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri dia,db, ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum,ficut duæ unitates bi narium numerum, quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter proponat id, quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi çularis à puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de deter minato, ubi perpendicularis ſecat ar cum, re & tus ſit, licet illa due medietates formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti, quæ pro materia recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij, Ideo aliter declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura præfcripta,ſit angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum, c uero in ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b, quæ uero uni veidēfunt æqualia inter ſe funt æquae lia, cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt medietas duorum res. & orum, or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit eidem b æqualis, c ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c, in ſemicircula conſtitutus rectus eſt, quod propoſuit Ariſtoteles, quis ſit angulus rer IN SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi Elementorum, quod autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit medietas duorum rectos rum, patet per trigeſimam tertij Elementorum, quodetiam omnis alius angulus in quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis 6, utputa 0, patet per uigeſimam tertij Elementorum, qubi in priori expoſitione di cebatur,quòd duæ medietates erant materia totius relti anguli, hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli b, ſunt materia torius anguli recti, fic ut demonftretur, quod angulus, qui in ſemicirculo conſtitutus, eſt re ctus, per materialem caufam, quæ materialis caufa, ſunt iple partes recti anguli ipſum integrantes. TEXTVS LIII. ONTINGIT autem idein & gratia alicuius eſſe, & ex neceſsitate, ut propter quid pe netrat laternam lumen, etenim ex neceſsitas te pertranſit, quod in parua eft partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo, Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis,quæ propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius, exemplum eſt in optica,inaterialis caufa eft uitrum, fi nalis,neolfendamus; fornalis eft illa compago uitrorum,lignorumq;, effi ciens autem,eſt ipſe luterne artifex,quantum ad matheſimſpectat non eft niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios fractos ipfius ignis in corpus disphinum, per quos illuminationes fiunt. TEXTVS LVI. ALIAS XII. CLIPSIS Lunæ futura, preſens, atque prete rita,medio interpofitionis terre, diametraliter in ter Solem & Lunam,nunc, olum, & in futurum con cluditur, cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis uelprope, o ſub'nadir Solis. SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS XIIII. IGVt ergo non funt puncta, adinuicem co pulata, ticque, quæ facta ſunt, utraque enim indiuifibilia funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur, statim haberetur, lineam ex pun &tis componi quod impoßibile effe demonftratum eft in primo, textu Wdecimo octauo. TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co autein in plus ineſſe quæcúque, infunt quidem unicuique uniuerfaliter,Atuero & alij,ut eft aliquid quod oinni Trinitati, in eft fed & non Trinitati, ficut ens ineft Trini tati, ſed & non numero, numerum quemlibet ex materia oforma conſtare nemo eft qui neſciat, aliter cnim numerorumſpecies noneſſent numerofinitæ, potentia ueroinfis nite per unitatis additionem, fpecies autemexgenere odifferentia con ftat, genus uero materia differentia autemforma eft in numero, materia numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres unitates materia eft numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit ineſt Trinita ti népe ternario numero,o hoc prædicatū, ens, extra genus arithmetică eft, quod quidem ens, alijs multo diuerſis genere à numeroconuenit. Impar uero & ineft omni Trinitati& in plus eſt. Etenin ipſi quinario ineft, fed non extragenus, ens quidem alijs ab arithmetico genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his, quæ infra arithmeticum genus continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario &alijs multis. Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot accipiantur primum, quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in plus. inquit quouſque tot dccipiantur primum, uerbum hoc, primum intelligatur ex æquo, feu ad equate, ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non fint ſuper abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod ille,qui tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet phi bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta,ut unumquodquefit LO 6 IN SECVNDVM LIB. cum non in plus, nempeunaqueque particula deffinitionis uniuerſalior ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale,capaxbeatitudine, que omnes particu ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior eft ip sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur, an illa, quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt, utunapromultis fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana,claufa,tribuslineis re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis deffinientibus,quarū una,et altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo triangulo rectilineo? Dicendum confequenteradAriftotelem pro pter particulam illam, tribus lineis reftis, illam non eſſe deffinitionem, fit uniuerſalior ipſo triangulo rectilineo, quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm deffinitiones,nifidixeris, quodAriſtote les intelligit de his particulis definientibus, quæ recto cafu, & non oblis quo explicantur, & fic proprie dicerentur deffinitiones, que interpreta tio qualiſcunque fit,non habetur ex Ariſtotelis littert, neque tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe eſt fubftantiam rei eſſe, ut trinitati in cft oinni,numerus,impar, primusutroque modo, & ficut non menfurari numcro, & licut non componi ex numeris, hæ duæ particulæ,numerus,impar,nõ patiuntur, difficultaté,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint, ſed particula iſta primus utroq; modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior ternario numero,propter altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut unitatefola metiri poßit, multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario,atque ternario, et alijs multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut ternario, qui ex binario ounitate conſtat, ſimiliter binario,qui conſtat non ex pluribus numeris,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII, quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur quòdaliud fit dimetiri numero; &aliud numeris dia uerſis componi, ut ſeptenarius, nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex diuerfis numeris,ut ex binario o quinario,c. ex ternario &quaternario, primo enim modo aliquis poterit effe pris inus, qui compoſitus erit fecundo modo ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen eorum dimetia tur eorum alterum, var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter POSTERIORVM ARIST.to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti, &tertia deffinitione feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt,hoc igitur loco dico, quod Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum,fed famoſe, ut philofophoa rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae tiua, que c irrationales, e integrantes dicuntur, quàm partes ali quote,qua rationales, odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis fcitum, non niſi partes proprie fumpte, que aliquotæfunt, numerum componunt; quod etiam Nicomachus & Boce. tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi dixeris quod etiam fecüdum Euclia dem,non omnem numerum,qui alium componit compoſitum dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII ALIAS XXV. ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini pretereunt, Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid, fed fcopum rei non tetigit iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis, Textus Ioannis grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu pulchram Ariſtot.doctrinam, quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum, ſeu Bu, rinam inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes, qua Ariſtotelis doctrina ex Aueroico textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico, Argi ropilo uidebis neceſſario effluere, loannis textus ita habetur, fi uero ficut in genere, finiliter fe habebit,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim eit cauſa in lineis, & in numeris, & eadem, inquantum quidem lineæ, alia eft,in quantuin nero habens augınentun tale, eadem eſt, fic in omnibus, Argilopilus ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter,ueluti propter quid etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum, eft enim alia caufa in lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea rum rationem fubit,eadem autem, ut tale habet incremen tum, & codem in omnibus modo; Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum modum generis,eft eis. affection IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine, uerbi gratia, cur quando permutantur: fint proportionalia, huius cnim caufæ in lineis & numeris ſunt diuerfæ, qua autem addit, hac ſpecie additionis, hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi propter uarietatem textuum, quam etiam ob id, quod interpretes: non ita interpretari uidentur, ut textui Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes aut nug & potius, præter Aueroin, qui magna come mentatione, confuſo tamen ordine dicit aliquid, faciens ad Aristotex: lis ſententiam, non tamen aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro vera igitur Ariſtotelis ſententia, in primisſcire debes, quod mas gnitudines ſeu continue quantitates, &multitudines feu quantitates die ſcrete omnes, uerfantur circa unum genus quanti, omnes enim quane titates funt, quæ antequàm permutentur, proportionalia eſſe debent, ut affeétio hæc,permutata proportionalitas,ſeu permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus proportionalibus, ratio autem qua concluditur hoc; de lineis, fuperficiebus,temporibus, vt corporibus, eadem de numeris concluditur, primum demonftratur propoſitione dea cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia principia, opropos ſitiones diuerſas ab his propoſitionibus &principijs, quibus de nume ris eadem permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum, propoſitione decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li neiseft,quia diuerſa e uniuerſalior, atque per diuerſa media, à ratio: ne qua idem de numeris concluditur, huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ, cauſas has, eas uoco, quæ folum dant propter quid & de his cauſis, que etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim, quia tamen dicebam,quòd non concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de proportionalibus quantitatibus. Si modofieret queſtio, o cauſainueftigaretur,quare quantitates dicantur proportionales, uel que nam ſint quantitates proportionales, aut quando proportionales funt, Ariſtoteles dicit unam eſſe cauſam in omnibus, cum difcretis tum etiam continuis, quæ eft ex additione fimili utrobique pro cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta quinti Elementorum, minime negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe fecundum proportionem unam, prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt, quarum prime otertiæ æques multiplices, ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat &, fimiles fuerint uel additione, ueldiminutione,uel æqualitate,eodem ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple. V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu difcrete ſint, feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis additio,ueldiminutio,feu æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait in textu Ariſtoteles, in quantum uero habens augmentum tale, eadem eft fic in omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem autem eſſe colorem colori, & figuram figuræ, aliam efſe alñ æquiuocum enim eft fimile in his. Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere latera, & æquales angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos omnesæquales, es latera illosæquales angulos continentia proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet commus nefiguris ocoloribus, niſi nomenclaturam, non autem rem naturam unam, in coloribus enim non concernes, neque latera, neque angulos. Habent autem fe fic propter conſequentiam ad inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt cauſa, unumquodque tamen accipienti, cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor rectis æquales, qui funt extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus, in omnibusautem æqualiter. Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra,textus hicdeffétis uus eft, & mutilus apud Ioannem Grammaticum & Argiropilum, ma. gne commentationis textus est clarior, ſed non ad plenumfacit fatis,ut mens Ariſtotelis, fatim appareat. Caufe illationis, ſeu conſequentie, que mutuæ funt, feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea, quæ pri mo libro tex. xcvij. di &ta fuere inſpiciendum eſt, oultra aduertas quod uniuerſaliuseft habere omnes angulos extrinfecos æquales quatuor res Ais,quàm eſſe triangulum,uel quadrangulum,aut pentagonum,uel exago num, aut quippiamtale feorfum, fi autem accipiatur fic reétilineum est, igitur omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor re& is, oecon uerfo, fic infertur, omnes anguli quiſunt extra funt æquales quatuor rectis,igiturid cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo uet bo, re &tilineum, comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co penthagonus, fed omnes figuræ re& ilinec, hoc igitur uult Ariſtoteles quandoinquit, quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales, uniuer Jalius eſt trigono, otetragono, ſi uero hec omuia accipiantur, ut in hoc uerbo, rectilineum, omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto habentſe propter confequentiam,ut ad inuicem caufa «cu us caufa, &cui eft caufa. ilo: CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA MENS CONCIPERE POTEST. FINISI RE G I S T R V M.. A B Omnes ſuntduerni. 37 Pac. 4. lined s publicis, à publicis. fac.4.li.6 incumbebam,abſtinere decreui..li.io laberinthos,labyrinthos.li.21 literis litteris ubique. Pd.4 li.3 comode, commode.li. 11 prefertim, præfertim ubique. li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles, Ariſtotelis. Facis li.24 age, aie. Fac. 6.li. 2 pulcra, pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie percubique. li. 32. quinnis, quinis. lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7 lin.6 neſcit, fcit.Fa.8 li.25 comunem,communem ubique. F2.13 li. 3 precedentis,precedentis ubique F &c.14 li.9 affumens, afſummens ubique. li.16 ſempliciter, fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20 probation, probatione. Fa. 26 li. 26 reſumitur, reſummitur ubique. Fd. 19.3 1 Geotrica, Geomes trica. fac.20 li. o quadrati, quadrari. li. 10 e e Spoffet, effe poffet. li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li. innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12 fcit,ſit.fac.31.li.12 atulerunt attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu. fac. 34.li.7 ſilicet, ſcilicet ubique. fuc.36.li.4 Textus, Textu. li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2 queſtione, queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus, primus. Fac.49 li.16.fue, ſua. fac.49.li.20 induéti, induti. fac. stili. 12recte,recti. fac.53 li. 11 A'riſtelis, Ariſtotelis.fac.53 li. 12 bucis, buccis ubique. li. 6 nltera, altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24 puerost, pueros, li. 25 illeuatus, eleuatus. fac.59 li. 7 olas, ollas. li. 3i ſimilitcr, ſimili ter. li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi. li.25. apolini, apollini per,, ubique.lin. 28 pret, preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet, ſcilicet ubique.fac.62 li. 23 rrrat, erat. fac.64. lin. 31 nos tid, notitia.fa.67 li.14 prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68 li. 20 queſitis, quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares. fac. 76 li.16.notia.notitia. fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27 preciſiua, preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li. 8.ſcienriarum, ſcientiarum. lin. 21.chierurgia, chirurgia. fac. 86 li. 10. neft, ineft.li. 17.angregata, aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum, prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28. redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea, fequaces. li. 32, balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum,uitrum. Et fi qua alia (que non funt pauca ) pretermiffa funt, diligens le& tor surum colligat &mufcas abigat.Grice: “The motivation behind my Immanuel Kant Lectures, Aspects of reason and reasoning, was to shed light on what Catena calls ‘demostrazione potetissima’.” Grice: “The Latin language – and the Italian language to some degree – allows for some fine inflections: there’s potius, which when cmbined with esse, gives posse, or potere – the ‘t’ is sometimes inarticulated as a ‘d’, as in ‘poderoso’, which goes for potius. Now, the interesting thing about potius, as Ross, and Mansel, and Aldrich and some Italian semioticians have found out – dealing with Roman law – is that a demonstrazione cn be ‘able’ (potis), in the positive degree. When it becomes comparative, the demonstrazione becomes ‘dimonstratio potior’, i.e. not able, but abler not capable, but capabler. Finally, if it’s the ablest or capablest, it’s demostrazione potissima, or demonstratio potissima. The ‘scuola padovana’ goes on to qualify ‘dimonstrazione potisima’ into two types, ‘dimonstrazione potissima affirmative,’ and ‘dimostrazione potisima negativa’. These are higher types of demonstration than the ‘demonstratio potior affirmativa’ and ‘demonstratio potior negativa’.” Petrus Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena. Keywords: logica matematica, logica aritmetica, logica arimmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Catone Maggiore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.

 

Grice e Catone: Minore – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Roma). Filosofo italiano. Marco Porcio Catone -- M. Porcio Catone il Giovane ha come maestri due stoici, Atenodoro Cordilione -- che si reca a visitare a Pergamo perchè lo seguisse a Roma ove lo tenne come ospite -- e Antipatro di Tiro. In Sicilia Catone Uticense conosce l’accademico Filostrato. Nei suoi ultimi giorni in Utica, Catone Uticense ha vicino a sè lo stoico Apollonide e il liceale Demetrio. Catone Uticense e questore e pretore.Catone Uticense i oppose ai triumviri e nella guerra civile si schiera con Pompeo. Dopo Tapso, Catone Uticense si reca a presidiare Utica, ove si uccide.Catone Uticense coltiva con molto successo l’eloquenza e si compiace di introdurre discussioni filosofiche nelle orazioni. Catone Uticense scrive anche giambi. Cicerone chiama Catone Uticense perfettissimo stoico e nel "De finibus" gli assegna l'esposizione delle dottrine etiche di quella scuola di cui aveva studiato intensamente le opere. A statesman and a philosopher, he studied the philosophy of the Porch. He was a pupil of Antipater of Tyre and later befriended Apollonides and Demetrius the Peripatetic, and looked after Athenodorus Cordylion. A staunch republican, he committed suicide when he believed the ultimate victory of Giulio Cesare in the civil war was inevitable. He was much admired by Cicerone and many regarded him as an embodiment of traditional Roman values, just as his great-grandfather, Cato the Censor, had been before him.

 

 

Grice e Cattaneo: l’implicatura conversazionale longobarda -- Vico e la sapienza italiana – il dialetto milanese e il sostratto latino -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like me! I taught at Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians (and indeed the ‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but Hebrew – He famously claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a librarian! – From a semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon the philosopher must consider when dealing with communication – he explored semantics, but also ‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously, pragmatics – He was interested in comparing systems of communication in Homo sapiens sapiens and other species – and being an Italian, he was especially interested in how Roman became Latin – he opposed the Tuscany rule!” --  Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre, un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio, un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici della filosofia romana.  Il suo amore per le lettere humanistiche classiche lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi, che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini, i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità, oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti.  Risale il suo saggio dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione all'assunto primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della Svizzera italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del regno lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica non violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei confronti della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta del filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne pensasse di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero, non vedo perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky.  Purtroppo l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza, fecero capire a C. che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a cercare il favore del volgo. C.  e i suoi amici parteciparono quindi e contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico. Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana, guidata da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini.  In seguito alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a Castagnola, nei pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere maggiormente la sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di partecipare alla vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal giogo del papa, al fine di formare una generazione liberale e laica che era alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara, anda a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria, per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e negata.  Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo, comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di “contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario, permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti individuali.  Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.  Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli, le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie esigenze.  La libertà economica è fondamentale per C. -- è la prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico, rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa, alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento alternativo a quello dei Savoia.  In accordo con il Tuveri redattore del Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il diritto di ademprivio, per usi civici.  A lui è dedicato l'omonimo istituto di ricerca. Altre saggi: “Scritti filosofici”; “Interdizioni israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio – associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale – diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino – cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane; Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di ALIGHIERI (si veda) di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. C. e le cinque giornate di Milano  Secondo una tesi, non comprovata e non accolta dai dizionari biografici, C. sarebbe nato a Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi. Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali nientemeno che C.. Ma C. deve aver passato qui soltanto alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (Tortora), da Filosofico (Fusaro)  Arch. Fant Milano  Bertone, Camagni, Panara, La buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia, Battezzatti. C. genealogy project, su geni_family_tree. Il Famedio, su  del Comune di Milano; Lacaita, Gobbo, Turiel La biblioteca di C., Le riforme illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio introduttivo a Notizie naturali e civili della Lombardia, come riportato da Pazzaglia in Antologia della letteratura italiana,  Il monumento milanese che lo raffigura reca l'iscrizione, A C.  -- La massoneria italiana, Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani. Fonte:// manfredi pomar.com/.  l'Enciclopedia, alla voce "Politecnico", in La Biblioteca di Repubblica, POMBA-DeAgostini; Petrone, Massoneria e identità, Taranto, Bucarest; Fiorentino, Non proprio un modello: gli Stati Uniti nel movimento risorgimentale italiano; Teodori, "C., Garibaldi, Cavallotti": i radicale anti-clericali, anti-papa, in Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull'Unità d'Italia, Rubbettino; M. Politi, D. Messina, G. Pasquino, Teodori, Dibattito "Risorgimento laico". Presentazione del saggio di Teodori, su Radio Radicale, Milano, Fondazione Corriere della Sera. Tuveri, in Rassegna storica del Risorgimento; Ambrosoli (scelta e introduz. di). C. e il federalismo, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, Archivi di Stato,  Bobbio, Una filosofia militante: studi su C., Einaudi, Torino; Campopiano, "C. e La città considerata come principio ideale delle istorie italiane", in "Dialoghi con il Presidente. Allievi ed ex-allievi delle Scuole d'eccellenza pisane a colloquio con Ciampi", M. CampopianoL. Gori; Martinico, E. Stradella, Pisa, La Normale. C. e Tenca di fronte alle teorie linguistiche di Manzoni, in «Giornale storico della letteratura italiana; Colombo, Montaleone, C. e il Politecnico, Angeli, Milano, Frigerio, dir. de Rougemont, Bruylant, Bruxelles, Fubini, Gli scritti letterari di C., in Romanticismo italiano, Laterza, Bari. Lacaita, L'opera e l'eredità di C., Feltrinelli, Milano. Puccio, Introduzione a Cattaneo, Einaudi, Torino); C. nel primo centenario della morte, antologia di scritti, edizioni Casagrande, Bellinzona, Antonio Gili, Pagine storiche luganesi, Arti grafiche già Veladini, Lugano; Lacaita, Economia e riforme in C., Ibidem; Cotti, C. in una lettera inedita di Lavizzari, C.: studio biografico dall'Epistolario»; opera di  Michelini (Milano, NED), C. scrittore, in Manzoni e la via italiana al realismo, Napoli, Liguori, Cattaneo una biografia. Il padre del Federalismo italiano, Garzanti, Milano; Il ritratto carpito di C., Casagrande, Bellinzona; Cattaneo federalista europeo, in «Il Cantonetto, Lugano, Fontana Edizioni SA, Pregassona,  L'istruzione educante nel pensiero di C., Carlo Moos, Carlo Cattaneo: il federalismo e la Svizzera, Mariachiara Fugazza, Una lettera inedita di Cattaneo a De Boni. La Repubblica Romana, Ibidem, Moos, C.  in Ticino, Bollettino della Società Storica Locarnese, Tipografia Pedrazzini, Locarno, Michelin Salomon, C.. Una pedagogia socialmente impegnata, Messina, Samperi; Mario: C. Cenni. Cremona. Cantoni, Il sistema filosofico di C., Milano; Torino: Dumolard, Matteucci, Romagnosi Cinque giornate di Milano Federalismo in Italia, Ferrari (filosofo) Liceo di Lugano Stati Uniti d'Europa Sostrato (linguistica) Università Ca. C. su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  C., in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su Enciclopedia Britannica, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su siusa. archivi. beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere C., su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere C., su storia.camera, Camera dei deputati. Raffaelli, C., in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  Colombo, C., in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Opere Scritti di C. in classicis; Scritti di C.: testi con concordanze e lista di frequenza Indice Carteggi di C. Altro Cronologia della vita di C. su storia dimilano. C. Il contemporaneo dei posteri a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita  Filosofia Letteratura  Letteratura Politica  Politica Risorgimento  Risorgimento Categorie: Patrioti italiani Filosofi italiani Politici italiani Professore Milano Lugano Scrittori italiani Personalità del Risorgimento Positivisti Insegnanti italiani Filosofi della politica Repubblicanesimo Linguisti italiani Sepolti nel Cimitero Monumentale di MilanoPolitologi italiani Federalisti Deputati della VII legislatura del Regno di Sardegna Deputati dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati della IX legislatura del Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di C., Comitato di Redazione matania edoardo ritratto di c.  xilografia, Matania, Ritratto di C., xilografia, di Prato  La centralità della figura di C. nell’ambito della cultura italiana  giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso l’etnografia e la psicologia sociale. La sua personalità di studioso poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico e, non da ultimo, il linguista.  Nel quadro di questa ricerca intellettuale così ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta partecipazione popolare allo sviluppo della società civile.  Proprio sugli interessi linguistici di C. concentreremo la nostra attenzione mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il vincolo unitario in senso geografico e sociale» (Vitale), perché è da essa che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua faceva sì che C. potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua – rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità di cultura e di vita civile nazionale.  Questa impostazione spiega poi la sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini nuovi, non antitetici,  i rapporti fra i dialetti e la lingua, riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.  Il primo scritto di linguistica di C. è quello sul Nesso della nazione e della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato come parte di un lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale, condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di questioni linguistiche, C. già in questo primo scritto – il cui carattere storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità e testimonianza delle vicende della storia dei popoli.   La funzione sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di quello del loro svolgersi immediato (Lewis). Il nucleo che tiene insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso C. non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i “sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (Mauro).  Poli C. mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per l’opera di VICO, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di Romagnosi e Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica dell’illuminismo. Proprio dal saggio di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul Politecnico nello stesso anno. L’interesse per le età primitive e per la vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione denotano la presenza di motivi vichiani, con i quali C. corresse certi eccessi del razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di Rosmini, Gioberti e anche Mazzini.  L’illuminismo nella sua opera «si rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio). Rispetto al Romanticismo la posizione di C. è contrassegnata da una sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro osserva che parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale, definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma di ingenuità, che come aspirazione democratica.  Sui rapporti tra romani e barbari e sulle origini della lingua italiana C. tornò diverse volte in altri scritti successivi quel saggio, sostenendo la derivazione dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal latino volgare per C. era necessario tener conto anche dell’influsso esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani (etrusco, umbro, celtico ecc..).  Questa è l’importante teoria del sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti. Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare la posizione che C. ha assunto nel dibattito sulla questione della lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del tempo. C., infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento, della linguistica normativa. Di fronte al problema di come la lingua italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un concetto di popolarità che egli non condivideva:  «la dottrina della popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti» In alternativa, C. opponeva una forma di lingua che costituisse un punto d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo stesso tempo illustre, «insieme austera e moderna» (Timpanaro), adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già fatto riferimento, C. dimostra inoltre di avere due maggiori capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva nell’avere ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue è dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei vocaboli – principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e dei fratelli Schlegel che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle sue idee linguistiche. Biondelli pubblica sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo anche importanti opere dei comparatisti, informando così il pubblico italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno indotto C. a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee.  In questo saggio C. critica l’idea che dall’affinità delle lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo (Marazzini). Per Schlegel il sostrato svolgeva soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito; per C., al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro). La parentela linguistica non è quindi nel sistema di C. identità di origine, bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni, dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali. Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo:  «Le lingue vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione promovono sempre più l’unificazione dei popoli.  Non è che una lingua madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse, assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e infine mettono foce commune in lei. (C.) Sulla base di queste considerazioni, C., nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi – come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso, “ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono Epicuro, VICO e Cesarotti Sempre contro Schlegel, rivendica la giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel articolo osserva infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano derivare da semplici nomi con un articolo affisso (C.).  Psicologia delle menti associate carlocattaneoeditoririuniti La polemica con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti successivi come le Lezioni di ideologia, dove, ad esempio, confutava il sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio. Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto recisamente la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio (Prato) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante della linguistica tanto cara ai romantici.  Proprio nel Saggio sul principio istorico delle lingue europee, C. si propone di verificare il rapporto tra fenomeni linguistici e tradizioni culturali, considerando la ricerca linguistica in stretta correlazione con una riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia analitica degli Idèologues – che era rappresentata per gli scrittori italiani soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di aver esaminato con acume e precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in una prospettiva il più possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era tuttavia consapevole anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato come proprio oggetto di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e indipendente dal rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della ‘statua’ condillachiana gli appariva emblematica di un concetto destorificato della natura umana» (Gensini). Non a caso alle conferenze tenute presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, C.volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate, dove il termine di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti. (C.). La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da C., non può che radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità. (C.) Il linguaggio stesso è la società (C.), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte del corso di Filosofia che C. aveva tenuto presso il liceo di Lugano.  Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia rappresentava la sola reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di C. e che spaziano dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori forme di sviluppo e approfondimento.    Dialoghi Mediterranei.  Per un ritratto complessivo di C. e dei rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio e Mazzali. Studiati in particolare da Timpanaro. Si veda anche Gensini; Benincà; Geymonat. Negli Annali universali di statistica, si leggono ora in C. Si trova in C. [Anche per Giordani la lingua è il vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni). Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre sul Politecnico(ora in C.) di cui viene criticato il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. Questa teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense pagine di Timpanaro e Timpanaro. Qui lo scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. Su questo si può cogliere l’eco della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo con passione e interesse. Sulla linguistica dei comparatisti si veda Morpurgo Davies.  Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro. Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. Pubblicato sul Politecnico è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più ampio e originale. Qui C. fa riferimento a Uber die Sprache und Weisheit der Indier, Sulle idee filosofico-linguistiche di Schlegel vedi Timpanaro; In particolare su Cesarotti e sul suo Saggio sulla filosofia delle lingue, che è stato per Cattaneo una lettura importante vedi Gensini. Pubblicate postume da Bertani nella raccolta di Opere edite e inedite, ora in C. Ideologia è del resto il titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il liceo di Lugano: si trova ora in C.; Alessio, C. illuminista”, in C.; Benincà, “Linguistica e dialettologia italiana”, in Lepschy; Bobbio,  “Introduzione”, in C., Scritti filosofici, Firenze, La Monnier, C. Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, a cura di A. Bertani, Firenze, Le Monnier. C. Scritti filosofici, letterari e vari, a cura di F. Alessio, Firenze, Sansoni; C., Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, Firenze, Le Monnier. C., Scritti su Milano e la Lombardia, a cura di E. Mazzali, Milano, Rizzoli. Cecioni, Lingua e cultura nel pensiero di Pietro Giordani, Roma, Bulzoni. Mauro, Idee e ricerche linguistiche nella cultura italiana, Bologna, Il Mulino. De Mauro, Il linguaggio tra natura e storia, Milano, Mondadori Università. Formigari,L’esperienza e il segno. La filosofia del linguaggio tra Illuminismo e Restaurazione, Roma, Editori Riuniti. Formigari, L. e Lo Piparo,  a cura di, Prospettive di storia della linguistica. Lingua linguaggio comunicazione sociale, Roma, Editori Riuniti. Gensini, Volgar favella. Percorsi del pensiero linguistico leopardiano da Robortello a Manzoni, Firenze, La Nuova Italia. Gensini, Cesarotti nei dibattiti linguistici del suo tempo”, in Roggia; Geymonat; C. linguista. Dal “Politecnico” milanese alle lezioni svizzere, Roma, Carocci. Lepschy, a cura di, Storia della linguistica, Bologna, Il Mulino; Lepschy, “Presentazione”, in Timpanaro; Lewis, Prospettive di antropologia, Roma, Bulzoni. Marazzini, Conoscenze e riflessioni di linguistica storica in Italia nei primi vent’anni dell’Ottocento”, in Formigari e Lo Piparo, Mazzali, Introduzione”, in C.  Morpurgo Davies, La linguistica, in Lepschy; Prato, Filosofia e linguaggio nell’età dei lumi. Da Locke agli idéologues, Bologna, I libri di Emil. Roggia, a cura di Cesarotti. Linguistica e antropologia nell’età dei lumi, Roma, Carocci. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi. Timpanaro, Sulla linguistica dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino. Vitale; La questione della lingua, Palermo, Palumbo. Almagià, Anghiera, Pietro Martire d’, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana; Baldi, L’origine del significato romantico di ‘ballata’, in Id., Studi sulla poesia popolare d’Inghilterra e di Scozia, Roma, Edizioni di storia e letteratura. Biondelli, Atlante linguistico d’Europa, Milano, Rusconi-Chiusi. C., Epistolario, raccolto e annotato da Caddeo, Firenze, Barbèra. Id.; Gli antichi Messicani, in Id., Scritti storici e geografici, a cura di Salvemini e Sestan, Firenze, Le Monnier; Tipi del genere umano, in Id., Scritti storici e geografici, a cura di Salvemini e Sestan, Firenze, Le Monnier, Lezioni, in Id., Scritti filosofici, a cura di Bobbio, Firenze, Monnier; On the origin etc. Sulla origine delle specie con mezzi di scelta naturale, ossia la Conservazione delle razze favorite nella lotta per vivere, di Darwin, Londra, in Id., Scritti letterari, a cura di Treves, Firenze, Monnier; Id. Carteggi, serie I. Lettere di C., a cura di M. Cancarini Petroboni e M. Fugazza, Firenze-Bellinzona, Monnier-Casagrande. Id.; Carteggi, sLettere dei corrispondenti, a cura di C. Agliati, G. Albergoni e R. Gobbo, Firenze-Bellinzona, Le Monnier- Mondadori-Casagrande. Cella, I gallicismi nei testi dell’italiano antico, Firenze, Crusca. Cortelazzo; Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli. Cotugno, «Rinascimento» e «Risorgimento», in “Lingua e stile”; Ancona; Carteggio,  D’Ancona-Mussafia, a cura di L. Curti, Pisa, Scuola Normale Superiore; Filippi, L’uomo e le scimie, in “Il Politecnico”; Forcellini E. Totius latinitatis Lexicon, Padova, Tipografia del Seminario, Bettinelli. Foscolo, Epoche della lingua italiana, in Id., Opere, a cura di Puppo, Milano, Mursia, Fugazza. C., Scienza e società, Milano, Angeli. Galton F., C., Osservazioni meteorologiche sincrone fatte in Inghilterra e ridutte in forma di mappa dal Sig. F. Galton di Londra, in “Il Politecnico”; Geymonat, C.  linguista, Roma, Carocci, C.  prepara le Lezioni di Ideologia a Lugano, in “Nuova informazione bibliografica”; Gherardini, Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi, Milano; Bianchi. Id., Supplimento a’ vocabolari italiani, Milano, Bernardoni. Giovannetti, Nordiche superstizioni. La ballata romantica italiana, Venezia, Marsilio. Lacaita, Gobbo, Priano., Laforgia (a cura di), Il Politecnico” di C.. La vicenda editoriale, i collaboratori, gli indici, Lugano-Milano, Casagrande; Marazzini,  L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, Bologna, il Mulino. Mussafia, Reihenfolge der Schriften Ferdinand Wolf’s, Wien, Hof- und Staatsdruckerei. Ramusio, Navigationi et viaggi, Venezia, Giunti, vol. III Ranalli, Vite di uomini illustri romani dal risorgimento della letteratura italiana, Firenze, Pagni. Romanini, Se fossero più ordinate, e meglio scritte. Ramusio correttore ed editore delle Navigationi et viaggi, Roma, Viella. Rusconi, Sopra i lai o canti degli anglo-normanni, in “Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca italiana”; Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra anni Cinquanta e Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un paragrafo dedicato all’originarsi della poesia da canti e balli popolari, con particolare attenzione alla cosiddetta ballata. Ciò consente di riconoscere in Cattaneo, che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione, il perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano coinvolto suoi maestri, colleghi e amici. Curiosità e passioni s’intrecciano con letture, alcune delle quali avranno eco nella seconda serie de "Il Politecnico", altre rimarranno limitate alla pratica didattica e si possono in parte scoprire grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su C. linguista – recensione Resurggimento.  Anche  il  latino  è  lingua  di  tutta  Italia,  ma  gl'Italici  non  sono tutti  romani. I dialetti  ne  sono  testimonianza.  La  serbata  integrità  nativa  delle  molteplici  favelle  del  Caucaso di  fronte  alle  indo-perse  riflette  l'imagine  di  quelle  che  popolano  l'Italia  innanzi  che  la  copre LO STRATO LATINO. Ne  invasioni  armale,    importazioni  di  civiltà,  ne  sovrapposizioni di  lingue  alterarono  i  confini  etnografici  dei  tusci,  dei  liguri,  dei  cisalpini,  dei  veneti  e  d'ogni  altra . Non  conosciamo ancora  le  svariate  forme  naturali  del  nostro  paese,  e  nemmeno  i  nostri  dialetti  e  le  riposte  loro  derivazioni. Non  conosciamo  i  secreti  nessi  che  collegano  questa  lingua nostra  alla  civiltà  precoce  della  Persia  e  dell'  India,  e  alla  lunga  barbarie  dell'  antico  settentrione. La  filologia  puo classificare  le  duemila lingue  e  dialetti  morti  e  vivi  in  famiglie,  come  si  costuma nelle  faune  e  nelle  flore.  La  scienza  della lingua  è  luce  aggiunta  alla  scienza  dei  luoghi,  dei  tempi  e  dei  monumenti, a  rischiarare  il  buio  della storia.  Per  lei  si  scoprono  le  cause  onde  i  popoli  comunicarono  tra  loro  con  certi  modi  peculiari  i  propri  pensieri. Per  lei  si  rileva,  da  lieve  indizio  di  scrittura  salvata,  una  gente  ignota  alla  storia. Si  sorprendono sorelle  nazioni  che  l' idioma  apparentemente  diverso  inimica e  in  un  dialetto  si  palesano  segni  di  origine  disforme e  di  ANTICHI ODII IN NAZIONE STIMATA OMOGENEA.  Per  lei  si  assiste  al  ritorno  su  straniere  labbra  d'un  vocabolo  esulato dalla  patria  in  età  remota. Per  lei  si  rintracciano  in  una  valle  le  reliquia  di  una lingua  fuggita  dalla  pianura  negl’ attriti  del  commercio  o  della  conquista. Per  lei  si contemplas  il  transito d'una  favella  celebrata  da  una  letteratura e  l'ascensione d'oscuro  dialetto  del Lazio a  dignità  di  idioma  illustre  in  compagnia della  fortuna  militare del popolo romano. Per  lei  rilucono  le  affinità  e  le  diversità  delle  lingue  tutte. La  nostra  lingua italiana  ha  una  nota  affinità  primamente  col  latino -- e  colla  altra  lingua  dal  latino  derivata: il francese. Queste  lingue  viventi  e  li  innumerevoli  loro  dialetti  si  classificano  dai  linguisti  sotto  il  nome  commune  di  lingue  romane  o  romanze  o  latine. Come  una  famiglia, si  deduce  che  i  dialetti  e  pronuncie  provinciali  sono  fili  conduttori  ad un’origine  prima. Si  deduce  che  la  varietà dei  dialetti,  delle  pronuncie  e  dell'aspetto  degl’italiani trova  esplicazione  e  commento  nella  varietà  delle  stirpi  e  di quella lingua  dei romani. Si  deduce  che  l'azione  cementatrice  della  lingua dei Romani  s’ è  compiuta  soltanto  sovra  popoli  barbari, e  tali  sono  gl’ europei  alla  comparizione  delle  caste  asiatiche;  che  avendo  raggiunto  un  certo  grado  di  coltura,  ì  baschi  RESISTENO alla  lingua  dei Romani. Quando  noi  troviamo  nel  tedesco  e  nel  gotico  la  radice  della  parola  latina  iraesagus,  dobbiamo indurre  che  qualche  antichissima  relazione  vi  fu  tra  li  avi  dei  Romani  e  li  avi  de' Goti.  Nello  stesso  modo  in  cui  possiamo  riferire  l'italiano ed il  francese – o lingua gallica, come preferisco -- alla  commune  loro  madre,  la  lingua  latina, o dei romani, come preferisco,  possiamo  riferire il  latino,,  il  greco,  il  sanscrito,  il  zendo  ad  una  commune  origine  celata  nella  notte  dei  tempi. Se  si  paragona  la lingua dei romani alle  due lingue  sue  figlie, l’italiano e il gallico, si  trova  che  queste,  cioè  le  lingue  moderne,  hanno  maggior  copia  di  voci  astratte.  La lingua dei romani  ha  la  voce  “fortis” -- ma non  ha  la  voce  “forza.” Da  vir  abbiamo  della lingua dei romani la  “virtus”,  l'italiano  e  il  francese  virtù,  vertu. Ma  l'italiano e  il  francese  hanno  inoltre  le  parole  derivate  “virtuoso”,  :virtuosamente”,  vertueux,  vertueusement;  e  il  francese  ha  inoltre  il  verbo  évei^tuer.  Le  voci  italiane  ente,  entità,  essenza,  essenziale,  essenzialmente,  se  vengono  ricondotte  alla  forma  della lingua de romani: ens,  entitas,  essentia, essentialis, essentialiter, non  si  trovano  mai  nei romani antichi ,  ma  solo  in  quelli  dei  bassi  tempi. L’'inglese,  che  per  una  metà  de' suoi  vocaboli  deriva  dall'antica  lingua  anglo-sassone e  per  l'altra  metà  dalla lingua dei romani. Nelle  lingue  indo-europee  la  radice  è  quasi  sempre  unisillaba.  Una radice  bisillaba  -- come  animo,  columna,  vidua,  susurrus,  titubare,  vacillare,  oscillare tentennare,  dondolare --  si  puo  considerare  o  come  raddoppiamento  o  come  derivazione  di una voce  semplici  più  antiche. Nella lingua dei Romani, un  verbo  semplice  p.  e.  mitto,  fero,  traho  colle  sue  inflessioni  di  persona,  di  numero,  di  tempo,  di  modo,  e  coi  diversi  casi  de' suoi    participj. produce  nella  sola  forma  attiva ,  circa  un  centinaio    inflessioni  -- mitto,  mittis,  mittens,  missuriis  etc.  etc. -- coir  aggìuiìta  delle forme nella voce passiva  -- mittor,  mitteris,  missus,  mittendus -- e  dei  nomi  ed  aggettivi  verbali  -- missio,  missilis y missivus --  ne  forma duecento.  Questo  numero  può  ripetersi  tante  volte  quanti  sono  i  verbi  derivati  e  composti,  p.  e.  mittito,  AD-mitto,  A-mitto ,  eie.  epperò  dalla  sola  radice  unisillaba  di  mitt-o  possono  diramarsi  tremila  suoni  piu  o  meno  diversi,  ciascuno  dei  quali  esprime  un'idea  in  qualche  grado  modificata  e  distinta. P.  e. , nelle  tre  voci  mitto,  misi,  mitfam,  vi  è  per  lo  meno  la  differenza  del  tempo; nelle  voci  missuris  e  mittendis  sono  espresse  tutte  quelle  idee  che  in  italiano  significhiamo  con  dire:  a  quelli  che  manderanno ,  ovvero  a  quelli  che  devono  essere  mandati.  Cosicché  qui  tre  sillabe  della lingua dei Romani  equivalgono  da  sette  a  tredici  sillabe  nella lingua degl’italiani. Codesti  tremila  vocaboli  nell’  idioma  primitivo  sono  rappresentati  da  una  sola  sillaba:  “mit.”  È  come  la  quercia  rappresentata  da  una  ghianda.  Qualunque  sia  dunque  la  dovizia  delle  forme  nelle  lingue  derivate, abbiamo  questa  legge  di  linguistica  che  le  lingue  veramente  primitive  hanno  potuto  consistere  in  poche  centinaia  di  radici  monosillabe. È   un  fatto  linguistico che  la lingua dei Romani, la  lingua madre,    nel  propagarsi  di  paese  in  paese  e  nel  venir  adottate  da  numerose  persone,  hnnno  perduto  gran  numero  delle  loro  inflessioni.  La lingua degl’italiani  paragonata  alla lingua dei Romani, non  ha  più  i  verbi  passivi,    i  participi  futuri,    i  partecipali,    il    genere   neutro,  e  le  declinazioni  dei  nomi  sono  ridutte  a  due  sole  desinenze: singolare  e  plurale.  Per  rilevare  le  affinità  non  basta  paragonare  isolatamente  una  lingua  con  un'altra,  ma  è  necessario  ravvicinarla  a  tutta  la  serie  delle  lingue  della  stessa  famiglia. A  prima  vista  non  appare  similitudine  tra  il  vocabolo dormire  e  il  tedesco  traumen,  che  vuol  dire  sognare. Ma  appare  di  più  nell’  inglese  “dream”,  che  ha  le  stesse  consonanti  della lingua dei Romani e  lo  stesso  senso  del  tedesco. Inoltre  nelle  due  voci  della lingua dei Romani, somniis  e  somnium,  e  nelle  italiane  “sonno”  e  “sogno”  si  trova  il  doppio  senso  di  dormire -- e  sognare. La  pronuncia  della lingua dei Romani e della lingua degl’italiani proviene  dalle  loro  origini, ossia  dal  genio  imitativo  più  o  meno  delicato,  dalli  organi  vocali  più  o  meno  flessibili,  e  dalle  abitudini  passate  in  tradizione.  E  più  facile  mutare  il  VOCABOLARIO dagl’italiani,  dargli  una  nuova  lingua,  che  mutare  la  sua  pronuncia.  Questa  pronuncia sopravvive  nei  dialetti,  anche  dopo  che  le  lingua e mutata.  Ancora  oggi,  la  pronuncia e  il  dialetto  segnano  in  Italia  precisamente  i  confini  antichi  della  Gallia  Cisalpina  e  della  Carnia  con  la  Venezia ,  la  Toscana  e  la  Liguria. In  Italia, due  soli  dialetti  hanno  aspirazione:  il  toscano  e  il  bergamasco.  I  due  dialetti  più  dolci  (forse) sono  il  veneto  e  il  siciliano,  alle  opposte  estremità dell'Italia. VICO rinvenne  nelle  radici  latine  le  vestigia  d'una  antica  sapienza italica e fa  essendo  a  quei  tempi  ignota  ancora  la  scienza  linguistica  e  non  osservata  la  consonanza  della lingua dei Romani col  zendo  e  col  sanscrito,  Vico  attribuì  quella  sapienza alli  aborigeni  dell'Italia,  e  perciò  scrive  il  De  antiqiiissima  Italorum  sapientia  et  latinae  linguae  originibus  emenda, a correttamente! Carlo Cattaneo. Keywords: cinque giornate, community, communita, diada, monada, associazione, contratto sociale, conversazione, psicologia filosofica, psicologia, sociologia filosofica, ego e alter ego, logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia, il natale di Cattaneo – regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cattaneo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I love Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that Cattaneo translated Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is that instead of focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha soggiornato al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di cui su suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”. Insegna a Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica delle teorie della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico” (Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto, Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario, Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano); “Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena, diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza. Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica” (Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto, Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano, Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano, Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’ della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu, Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della Politica, Bari, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e l'opera, testo della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna dell'U niversita di Sassari, in »Studi sassaresi«, Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo, in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre); Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio, nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione” e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure), giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza, autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge, che da il  titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi, nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo, C. indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia del diritto e  pre-annuncia il suo intero percorso filosofico caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la conoscenza del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il problema della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque *descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema giuridico della rivoluzione.  Il concetto di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua identita, in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi, Cattania. IL tema del rapporto tra Diritto e Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che ha pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante Alighieri”, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari., “Goldoni e Manzoni. illuminismo e diritto penale” e “Suggestioni penalistiche in testi letterari. Nella Introduzione del volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti soprattutto il diritto nel teatro  Sono stati compiuti degli studi sul significato giuridico di alcune opere di Shakespeare daJhering  e  Kohler ed è stato esaminato il pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono occupati Carrara, Vaturi , Vecchio, Mossini  e lo stesso Cattaneo.  Vi sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi giuridici rilevanti come il “Kolhaas” pubblicato da H. von  Kleist  e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj,l’ Autore rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella letteratura è particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto di diritto penale – di due grandi autori italiani: Goldoni ed Manzoni.  Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva da alcuni elementi di contatto: Goldoni passò l’ultima parte della vita in Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e scrisse l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo Autore e verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese e la rivoluzione italiana” un saggio che fu pubblicato postumo e che, secondo C.,  è ispirato a sentimenti di libertà  i due scrittori  hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed ottimista,  esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e drammatici  della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere affronta il problema religioso.  Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione espressa da Ferdinando Galanti che evidenzia che Goldoni diede all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe, parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato, nel cammino della verità, l’opera di Goldoni.  Questo giudizio è ripreso da Federico Pellegrini in uno scritto che indica come elemento comune <il rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i drammi. Pellegrini raffronta ed accosta  i personaggi delle opere dei due letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano. Il Mazzoleni ha istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”  commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza.  Il Petronio nel suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica”: “Una prima volta con l’illuminismo, col Parini e Goldoni; una seconda con il romanticismo lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo dopoguerra” Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre Manzoni narra di lotte intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità: scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle opinioni altrui”   C. evidenzia anche che un breve cenno comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche daJemolo  il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato giurisprudenza, cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una figurazione di avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di soldato: Manzoni nel mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine imperitura di Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei Governatori e quello del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro atroce dei giudici della Colonna infame.  Padoan ha rilevato in un suo scritto che anche oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare in Goldoni una polemica contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un atteggiamento di interesse verso il mondo degli umili, che non fu senza influenza sul Manzoni. C. conclude l’introduzione al volume affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a giustificare la trattazione dei due autori in un unico volume , la sua analisi prende in considerazione la visione del problema giuridico dei due scrittori ed analizza il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo.nelle sue fondazioni filosofiche, nella misura in cui fare questo è possibile; a tal fine ritiene che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto, indicato anche nel titolo è l’illuminismo   L’autore evidenzia che nel Goldoni avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo diversi problemi giuridici in molte sue commedie, si risente, in modo non marcato, l’influenza dell’Illuminismo, che è la radice della sua satira sociale, della sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali, come in Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza giuridica, che satireggia i pubblici funzionari e  gli avvocati, raccogliendo l’eredità del grande nonno Beccaria. C. ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia rintracciabile, nel pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato dai principi fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono individuare essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della persona umana. L’autore riferisce degli Studi su Goldoni avvocato rilevando che la critica ha tenuto presente in modo primario del significato letterario delle sue opere  un breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da un grande recensore contemporaneo al commediografo Schiller nelle due recensioni  alla traduzione tedesca dei “MÉMOIRES.”  nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente dell’Italia risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”  soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come il tipo ideale dell’avvocato. Gli scritti italiani più importanti dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente  ricordati nelle bibliografie goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di C. Il primo è l’articolo “Goldoni avvocato” di Pascolato il secondo è di Cevolotto, avvocato di Treviso  Pascolato rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un dilettante della giurisprudenza ed afferma la reale e profonda cultura giuridica attestata dall’esercizio dell’attività forense a Pisa dove vinse persino tre cause in un mese e che evidenziano il carattere schietto e buono anche in mezzo ai volumi dei dottori; Cervolotto esamina gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad Udine, la sua attività di coadiutore del cancelliere criminale a Chioggia e la sua laurea in legge a Padova. Un capitolo è dedicato alla attività professionale a Pisa dove esercitò più nel criminale che nel civile. Il penultimo capitolo è dedicato all’esame degli aspetti giuridici delle commedie goldoniane specie la commedia “L’Avvocato veneziano” che costituisce una esaltazione del foro veneto e altre note commedie. Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza dubbio giurista, oltre che avvocato di valore non certo mediocre o comune evidenziando i buoni studi benché saltuari da lui compiuti e la sua conoscenza di molte questioni giuridiche presenti nelle sue opere. Cattaneo cita anche gli studiCozzi  e di Zennaro  Il secondo capitolo è intitolato “Goldoni, la procedura criminale e Il problema penale”  e C. riporta un passo dei “Mémoires” di Goldoni che tratta il tema della procedura criminale ed è commentato dal Pascolato che rileva che <<quella procedura criminale, colla continua ricerca della verità, coll’assiduo studio dei caratteri, lo aveva ammaliato: è una lezione interessantissima per lo studio dell’uomo. Di verità e di caratteri Goldoni faceva allora provvisione per i giorni, ancora lontani, della sua gloria. E intanto voleva diventare cancelliere  Goldoni sottolinea la presenza nel diritto vigente di limiti posti all’inquisizione dell’imputato, a tutela di questi ma non appaiono nelle sue opere chiari intenti riformatori della procedura criminale. IL terzo capitolo è intitolato “L’Avvocato veneziano: Goldoni fra diritto civile e diritto naturale” C. rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i due fondamentali temi della commedia: la difesa della onorabilità della professione forense mettendo in scena la figura di un avvocato onesto ed onorato e la contrapposizione di due sistemi giuridici e giudiziari, quello di diritto comune e quello veneto, dando a quest’ultimo la preferenza;  la commedia come è stato evidenziato da alcuni studiosi, rompe una tradizione letteraria e teatrale di derisione e messa in cattiva luce della figura dell’avvocato, dell’uomo di legge che troveremo invece nella figura completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli ne “I Promessi sposi”   Il quarto capitolo si intitola “Il giusnaturalismo illuministico di Goldoni: La Pamela e altre opere”  C. rileva che le radici illuministiche e giusnaturalistiche  del Goldoni si manifestano in rapporto alla procedura penale, al diritto penale, al problema delle fonti del diritto, ai rapporti fra la funzione del giudice e le opinioni dei giuristi. Il giusnaturalismo e l’Illuminismo di Goldoni si manifestano soprattutto nelle opere teatrali aventi come oggetto, o come sottofondo, il tema fondamentale della uguaglianza fra gli uomini, al di là delle differenze fra le classi sociali. Tra le opere significative per questa prospettiva giuridica teatrali emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la Dama”, “Il Feudatario” “Le femmine puntigliose” il dramma giocoso per musica “I portentosi effetti della Madre Natura” e la tragicommedia (così definita dall’autore stesso) in versi “La bella selvaggia” che trattano il contrasto tra natura e società, infine la commedia in versi “La peruviana” che vengono esaminate negli aspetti più essenzialmente rilevanti sotto il profilo filosofico-giuridico dall’autore   che conclude il capitolo affermando che: “Quando si trattava dei valori supremi, come la pace, anche Goldoni sapeva essere religioso e invocare la grazia del cielo”  La seconda parte del volume è dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni.  Il primo capitolo si intitola “Studi su Manzoni e il diritto”  e Cattaneo passa in rassegna gli studi esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente o all’idea di giustizia nel pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della sua opera. L ‘autore commenta il lungo articolo di Zino, “Il diritto privato nei “ Promessi Sposi”, esamina poi l’articolo di Alessandro Visconti “Il pensiero storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue opere”.. Il più importante e più completo studio sul pensiero giuridico di Manzoni è il volume di Roberto Lucifredi. “Manzoni e il diritto”. Tale volume si conclude con alcune considerazioni generali sulla mentalità giuridica di Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni era molto dotato per lo studio del diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore delle discipline giuridiche, un ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso più nobile della parola e della funzione.. Nel 1939 Fortunato Rizzi ha pubblicato il volume “Alessandro Manzoni. Il Dolore e la Giustizia”  di cui la terza parte è dedicata al problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il saggio di Opocher “ Il problema della giustizia nei Promessi Sposi”  in cui ribadisce che tutto il capolavoro manzoniano è essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude affermando: ”I Promessi Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso cui la Provvidenza sana le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire soprattutto, la storia attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze, facendone lo strumento della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda ha pubblicato uno scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni”  in cui ribadisce che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una grande aureola giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico di Rosmini; per lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai contrastare con la morale. Concludo ricordando la  strenna natalizia dell’editore Giuffrè pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il titolo “<Se  a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei Promessi Sposi” con saggi di noti docenti quali E. Opocher e Cotta.  In “Valori morali, giustizia, diritto naturale” C. ritiene opportuno esaminare la concezione manzoniana della giustizia, anche nelle sue premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di pensieri inediti e di scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due postille redatte da Manzoni e da un brano scritto dallo stesso C. deduce che il grande scrittore lombardo esalta la tesi della certezza delle verità morali, tra le quali l’idea del giusto istituendo un paragone tra verità morali e verità matematiche.  Secondo C. questo brano manzoniano è affine alla dottrina platonica delle idee espressa nel dialogo “Parmenide” , vi è inoltre una affinità con Kant che afferma che non è cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù dall’esperienza, perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di ambiguo e di mutevole secondo le circostanza. In realtà è sulla base  della idea di virtù che si giudicano gli esempi empirici di virtù e di comportamento morale.  L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini, il più grande filosofo italiano, la cui filosofia si fonda sull’idea dell’essere e cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle idee” .Va anche evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena identità fra morale e religione, come si rileva dalle “Osservazioni sulla morale cattolica “ dedicato alla critica della distinzione fra filosofia morale e teologica. Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi umane non raggiungono mai la giustizia, viceversa, la religione conduce naturalmente alla giustizia, senza ostacoli, perché si appella alla coscienza, perché porta a dare volontariamente (in vista di un bene futuro), il che non provoca opposizioni, ma solo ringraziamenti e benedizioni.  In “Le gride e l’illuminismo giuridico ne < I Promessi sposi>”.  C. rileva che se il problema morale e religioso della giustizia pervade tutta l’opera di Manzoni, ed in particolare il suo celebre romanzo, Stampa, figliastro dello scrittore lombardo, narra che Manzoni dichiarò che la prima idea del suo romanzo gli venne dalla lettura della grida fatta vedere dal dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate pene contro coloro i quali <con tirannide> e con minacce costringono un prete a non celebrare un matrimonio.  Dall’esame dei brani di ”Fermo e Lucia”  e dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante critica al sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste, inoltre, descrivendo criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto la dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere  Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del  colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da parte dell’autorità  Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti, a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è sottoposta ogni mossa dei cittadini  Lo scrittore lombardo critica anche la comminazione di pene sproporzionate, misura considerata ingiusta ed inefficace per la prevenzione dei crimini, l’impunità dei colpevoli è indicata dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva severità o crudeltà delle pene.   Il quarto capitolo si intitola  “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale”. Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”; l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo, relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti.. Questo brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base della teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare esorbitante rispetto alla effettiva colpevolezza del reo, mirata esclusivamente a <dare un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed utilitaristico; in tal modo viene peraltro giustificata  la punizione dell’innocente. In altri passi del celebre romanzo manzoniano si rileva un atteggiamento mirato ad indicare non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia e l’inutilità della prevenzione generale, unitamene ad una condanna della moltiplicazione dei supplizi, che finisce per favorire l’impunità, come messo n evidenza dagli scritti di molti giuristi illuministi. Significativo è a riguardo la conversione dell’Innominato e le ragioni per cui il potere pubblico non intende procedere contro lo stesso per i suoi passati delitti, in al modo viene dimostrata l’inefficacia della punizione nel caso di una persona che ha cambiato vita perché questa potrebbe avere solo l’effetto opposto a quello voluto  Nel penultimo capitolo il commento di Manzoni sulla situazione del bando di Renzo dal Ducato di Milano dopo le vicende della giornata di San Martino denota la tesi dell’impunità come risultato dell’eccessiva proliferazione di minacce legislative e del carattere esorbitante, situazione che porta ad una frattura tra il comando legislativo e l’esecuzione della pena.  C. conclude istituendo un parallelo sostanziale ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant, dato che:  “la visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare del diritto penale è svolta in una prospettiva anti-empiristica e ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un <liberalismo cristiano >, vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione collettivistica e <sociale>”   Il quinto capitolo si intitola“ La storia della Colonna Infame”  L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il prevalere dell’interesse generale  e sociale sui diritti individuali sta alla base dello scritto “Storia della Colonna Infame”  due anni dopo l’edizione definitiva de “I Promessi Sposi”.. Di recente tale opera ha sollevato critiche severe sotto il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di non essere uno storico, ma di guardare alla storia da moralista, sul modello del cosiddetto <astrattismo> illuministico settecentesco, e quindi di non studiare le vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare i comportamenti umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata formalizzata da Benedetto Croce . Dopo una lunga ed attenta analisi dello scritto e di alcuni dei suoi maggiori studiosi C.conclude che i punti di vista in relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante contributo sono tre:Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della storia, affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori discussioni interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo. Tale scritto manzoniano, come ha sottolineato Rovani, <non è per nulla inferiore alle altre opere del Manzoni, anzi rivela il suo ingegno e la sua dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie giuridiche>  Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più giuridica del Manzoni. Il significato più importante del saggio è quello morale, come rilevato da Tenca, Rovani e Passerin d’Entreves e consiste nella difesa del libero arbitrio, della libertà del volere e nella rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la sua lezione etico-giuridica   Il sesto capitolo si intitola “Manzoni e la criminologia”  L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi. Vi sono studiosi come Graf e Sergi  che hanno creduto di vedere in tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi” dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada del determinismo. L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica   e lo scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi  C. conclude che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del positivismo penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione di giustizia e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa sociale. In “Manzoni teorico generale del diritto?”, secondo C.,  la forma mentis giuridica di Manzoni appare evidente anche negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa si manifesta in modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia”  oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione francese. C. mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro presente nel libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi e le leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di una teoria generale del diritto. Le osservazioni riguardano  in particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo C. di rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico, per dirla come Kelsen  e definisce alcune norme <leggi costituzionali>, le leggi così designate sono le <norme di competenza> di Ross  e le norme secondarie di Hart, cioè le norme che conferiscono il potere di emanare, modificare, abrogare le altre norme, concernenti direttamente il comportamento dei cittadini. Manzoni si preoccupa di esaminare quali fossero le norme di statuto, di competenza o secondarie, espressione del potere longobardo, le quali regolavano la permanenza delle leggi romane, che regolavano il comportamento dei cittadini di origine romana.  L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione francese”  Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi visse molti anni in Francia nel periodo napoleonico,  scrive il “Trionfo della Libertà“ un poemetto di sentimenti giacobini ed anti-monarchici  con la condanna delle spietate repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un giudizio equanime su Napoleone  dapprima glorioso e poi rapidamente caduto e rileva la caducità degli idoli umani  Nel dialogo “Dell’Invenzione” Manzoni  esamina la figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di <mostro> del politico francese pur non abbandonando la tesi di una responsabilità avuta da Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne storiografie  Lo studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni con la Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero Bonghi “La rivoluzione francese  e la rivoluzione italiana”   I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla Rivoluzione francese sono  La mancanza di un giusto motivo per la distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati del Terzo Stato che ne furono gli autori. Questa distruzione avvenne indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti. Il nesso di queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal popolo francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali;  Manzoni peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della situazione dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal diritto divino mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i presupposi giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese  Il letterato lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo  dal Terrore, al Direttorio, al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della Rivoluzione francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo” Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione americana sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il merito di evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche della Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica, come in altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche la sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore assoluto dell’idea del diritto, che è <una verità>  Tale considerazione induce C. a proporre un altro parallelo fra la posizione di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un popolo alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della Rivoluzione francese; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato non equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e, nel momento della sua caduta,pur  proscritto e ricercato all’Hotel de la Ville, benché fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione popolare esitò e si chiese <Au nom de qui?>   come è attestato dalla sorella Charlotte  Nella lunga ed articolata conclusione  C. ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi elementi in comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore evidenzia che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati sull’attività forense di Goldoni, sul significato riformatore delle sue commedie e sulle implicazioni politiche del pensiero di  Manzoni. Il punto di vista seguito nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato del diritto come <categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche caratteristiche e dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente, posto in relazione con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli aspetti giuridici e dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di Goldoni e Manzoni non è stato disgiunto all’esame dei temi della riforma sociale e della riflessione politica nella loro attività letteraria. Il punto di vista seguito sempre dall’autore , come da lui steso dichiarato, è stato quindi¨<quello dell’ autonomia del diritto , ma non inteso secondo una prospettiva meramente logico-formale, bensì basato su una fondazione filosofica, e dotato di rilevanza politica. . L’angolo visuale usato come punto di riferimento per i due letterati è l’illuminismo giuridico. L’illuminismo  è coevo di Goldoni, che anticipa Rousseau nella proclamazione del principio dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema della riforma sociale,come è riconosciuto da numerosi interpreti delle sue opere. I rapporti tra Goldoni e l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel passo dei “Mémoires “ sulla procedura criminale e nelle commedie L’uomo prudente e L’Avvocato veneziano . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma l’autore ha cercato di indicare la presenza di una eredità Illuministica, con riferimento ai problemi giuridici, ne “I Promessi sposi” e nella “Storia della Colonna infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di superamento delle concezioni illuministiche.  Il docente ritiene di rifiutare la tesi diffusa di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente dall’angolo visuale della linea agostiniana-pascaliana con venature giansenistiche negando il profondo legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni si dimostra erede dell’illuminismo per l’habitus mentale razionalistico del suo pensiero, per la sua considerazione della ragione e per la sua ricerca delle radici razionali della fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa propria l’eredità migliore dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si contrappone al filone ateo e materialistico  di alcune correnti.   Ragonese   e Caretti  hanno bene sottolineato i rapporti tra Manzoni  e l’illuminismo. C. conclude il suo saggio ribadendo che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano ed illuministico (e kantiano) della dignità umana.  In Goldoni questo principio è meno evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura umana, al di là delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed opere drammatiche, in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un livello di maggior profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de “Il Conte di Carmagnola”   Nella Appendice  viene riproposto lo studio di Pascolato “ Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia” Cattaneo pubblica “Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il libro, che  è dedicato alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano, tratta le opere di numerosi letterati. Il libro, che si articola in 12 capitoli ed una appendice, tratta di  scrittori  che nelle loro opere hanno affrontato il  tema della pena o problemi di natura giuridica. Il lavoro, rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria  Il primo saggio scritto riguardava Parini, un “poeta civile” rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato, è seguito il saggio su Collodi, l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità costituita una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra cui il grande giurista liberale Carrara..Il terzo saggio è stato dedicato a Foscolo che nello scritto < L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi relativi alla pena  Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e il diritto penale”  Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta ALIGHIERI ed il diritto penale.. C. rileva che gli studi di storici e filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di Dante hanno trascurato l’aspetto penalistico. ALIGHIERI non si è occupato di diritto penale ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di rapporti tra colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli descritte nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive della legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la prospettiva morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle legislazioni penali attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati puniti fuori e dentro la città di Dite che può corrispondere  ad una distinzione tra peccati e delitti, il più rilevante contributo indiretto dato da Dante al diritto penale è il criterio di graduazione delle gravità delle colpe e le corrispondenti pene come è stato evidenziato da Vecchio. Il maggior contributo diretto di  Dante alla cultura giuridica moderna sono l’affermazione del principio di uguaglianza e di personalità delle pene e l’affermazione della volontà del volere dell’uomo quale presupposto della conseguente valutazione del merito o del demerito delle sue azioni.  C. conclude che:” Certamente, fare apparire Dante come un grande giurista, un grande penalista, può risultare sforzato e retorico. Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e lecito ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al diritto penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per qualunque problema, religioso, filosofico, umano;  ricordo che mio Padre diceva che nella Commedia <<c’è tutto>>”  Nella introduzione ho accennato a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto, un tema caro a molti studiosi  Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e L’Illuminismo giuridico”.   C. rileva che Parini, sacerdote non per vocazione ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali illuministici di riforma civile ed attraverso una delle sue Odi  riprende le idee illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio umanitario della doverosità della mitigazione delle pene considerando l’inefficacia di pene eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque una continuità di principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e Rosmini, cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari relativi al problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale cristiana ed illuminista.  C. conclude il suo saggio affermando che Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e si fa portavoce dei suoi più significativi valori.  In “Foscolo e la giustizia come forza,” C. rileva che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo tempo segnato dalla rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli scritti di natura penalistica  il poeta accoglie i principi della dottrina giuridica illuministica, come la difesa della certezza del diritto ed il rispetto delle garanzie processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della retribuzione morale e quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è intitolato. “Le <veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei giuristi”  un libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita anonima nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann, che l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen deutschen Original Romanen>. C. evidenzia che nelle pagine dedicate a temi giuridici viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a metterlo al servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato ad una macchina o ad una marionetta, il rimprovero ai giuristi che si assumono il compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale, che dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza svincolata dalla morale  sono chiari segnali di una aspirazione ad umanizzare il diritto, specie quello penale. In “Heine e la satira delle teorie della pena”, C. analizza il breve scritto che Heine aveva aggiunto quale appendice al suo volume “ Lutezia”Lo scritto è dedicato  al problema della riforma delle prigioni ed alla legislazione penale e porta il titolo <Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung>.  Il saggio, pur nella brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali della pena. C. suggerisce  che l’analisi critica del poeta si traduce in una satira delle dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e dell’emenda e coglie i punti centrali di tali concezioni. Heine sottolinea l’ingiustizia della teoria dell’intimidazione generale  ed evidenzia il carattere patriarcale e paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il principio di una prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena, Heine ritiene che bisogna agire con durezza, reclusione ed addirittura con la pena di morte concepite come prospettiva di difesa sociale. C. rileva che è sempre più chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale, cioè la critica delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva  cioè l’indicazione di un fine positivo nella funzione penale.  Heine critica inoltre il sistema carcerario filadelfiano e quello auburniano  In “Victor Hugo e la pena come fonte di delitti,” C. rileva che il problema giuridico penale è presente nell’opera letteraria di Hugo con una severa critica del sistema penale dell’epoca e la sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge chiaramente nel celebre romanzo “Les Miserables”  e nel suo protagonista l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena sproporzionata ed inumana, che è causa di nuovi delitti e di una spirale indefinita di reati e pene successive. Il tema è sviluppato nella figura centrale di Valjean.  Tutte le tragiche vicende del protagonista nascono da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla fame; a causa del furto di un pezzo di pane,che poi viene gettato via,Valjean è condannato a 5 anni di detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di breve durata, la sua detenzione dura ben 19 anni.  Vi è una enorme sproporzione  tra il danno causato dal reato e la pena che trasforma ed indurisce Valjean, la cui psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La pena continua a gravare su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo critica sia l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia la macchia di infamia stabilita dalla legge. C. rileva che è ammirabile la battaglia combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua  denuncia della sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie  sono importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della dignità umana.  In “Dostoevskij la coscienza e la pena,” C.  evidenzia la centralità del tema del delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato nel profondo scritto di Italo Mancini, che ha evidenziato sia la validità di una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia  che per lo scrittore russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il contenuto>. Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>>  Nel volume “I ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente l’incapacità  del carcere di procurare l’emenda del reo dato che Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo scrittore russo  indica anche nella solitudine e nella mancanza di privatezza un elemento di particolare tormento della prigione.  Il lavoro nella prigione, rileva lo scrittore russo,  non era faticoso ma era penoso perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento ottuso e crudele delle guardie carcerarie, severo è il giudizio sulla prassi della fustigazione definita una piaga della società> Nel <L’idiota>  lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo  sulla pena di morte in bocca al principe  Miskin nelle prime pagine del romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo”  Dostoevskij evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della colpa e come risultato del rimorso avvertito dal colpevole.  La trama del romanzo mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del rimorso e che  tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del Platone del Gorgia e di BOEZIO nel <Consolatio philosophiae>. La conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica moderna che pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e l’interesse di Dostoevskij, spirito umanitario e riformatore,  per la riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva il  desiderio di espiazione che conduce all’emenda.  Dostoevskij  manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” C. ribadisce che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e la auto-condanna da parte del delinquente. La pena giuridica non ha rilevanza, ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che avviene nella coscienza del colpevole. In “Tolstoj e la abolizione della pena,” C.  ribadisce che lo scrittore russo postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di amore cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”.  Il romanzo Resurrezione  è fondato su una vicenda processuale, la condanna ad alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina Maslova, diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il processo e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli istituti di pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni inutili, catene, teste rasate, divise infamanti per cui si inculcava l’idea che qualsiasi violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi si trovava in prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra la condanna e la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In Tolstoj il tema fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero sistema repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti come Victor Hugo.  Lo scrittore  suggerisce anche la necessità di abolire la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, C. si chiede se si tratta “del sogno di un visionario, una utopia generosa o di un ideale verso cui la società deve tendere.”  In “Pinocchio e il diritto”, C. rileva che l’opera di Collodi è stata oggetto di numerose indagini . Le ricerche sulla natura pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini, Il testo di Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due volumi scritti da Frosini e Biffi . Frosini evidenzia che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito  tipicamente risorgimentale,  al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su principi di umanitarismo positivistico. Biffi sottolinea che Pinocchio fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione consapevole di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto della sua militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo. . La lettura di Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più rilevanti dal punto di vista penalistico.  Cattaneo sottolinea che Lorenzini (ovvero Collodi) era un fine umorista  che sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme  doloroso della vita umana (opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su Goldoni filosofo), e cita  ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal giudice-scimmione. Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato da un carabiniere  per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il carabiniere, a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il burattino e conduce in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio mostra un membro dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base delle opinioni della <voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza motivazioni precise e mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a difendersi di fronte all’atto arbitrario del potere.  Un altro episodio interessante è narrato nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i libri di testo fra Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato verso Pinocchio colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i ragazzi fuggono e rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due carabinieri che,dopo un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue dichiarazioni di innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al quale salva la vita mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo che la vittima del potere è l’innocente, l’unico trovato vicino ad Eugenio, che viene arrestato perché le circostanze sono contro di lui La frase dei carabinieri “Basta così” è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a ragionare insospettisce spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto. In molte vicende giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi sfavorevoli dà l’avvio a processi indiziari seguiti da condanne di persone innocenti.  Un altro episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda che conclude il rapporto tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il Gatto.  Pinocchio incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a seminare i 4 zecchini d’oro nel Campo dei miracoli vicino alla città di Acchiappacitrulli. Tale città descritta minuziosamente  da Collodi  è,secondo C., e il simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo basato sul puro potere politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo del prevalere della politica sulla giustizia  nella amministrazione della giustizia, come dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio. Pinocchio accortosi di essere stato derubato delle monete d’oro torna in città e denunzia al giudice i due malandrini che lo avevano derubato, ma,invece di ottenere giustizia, è vittima di una tragica beffa.  Il giudice scimmione, al quale Pinocchio si era rivolto,  ordina che il burattino  venga messo in prigione. L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca al burattino, il quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di una vittoria dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli.  Per ottenere la libertà Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero dei malandrini e così viene salutato rispettosamente e può scappare. C. rileva che la figura dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia umana ed il carattere insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive Platone, si discute sulle “ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva dapprima l’aspetto positivo della figura del giudice che è descritto come un personaggio rispettabile, benevolo, attento al racconto del burattino, successivamente Biffi sottolinea che la figura dello scimmione della razza dei gorilla rappresenta la caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella vera, per cui  il giudice finisce con applicare la legge umana che con i suoi meccanismi colpisce il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la situazione proposta da Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I Promessi Sposi dove i violenti erano organizzati e protetti ed i deboli, non sorretti da consorterie, erano vittime dei soprusi del potere.   La lettura di Pinocchio di Collodi ed in particolare di alcuni brani può dar luogo a considerazioni di natura filosofico-giuridica e giuridico- penale, come suggerisce acutamente  C. nel suo volume. Merito indubbio di Collodi è descrivere alcune situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione dei deboli e sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti giuridici, come del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti. E’ opportuno sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere letterarie, affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata l’importante e costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo la volontà del gruppo sociale dominante, una forma di controllo sociale, e che inoltre l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini come attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Wilde e le sofferenze del prigione”  Wilde in alcune sue opere ha descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò interamente.  C. evidenzia che <Wilde fu il tipico capro espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso letterato nel <De Profundis>,  redatto in carcere, attesta di essere passato dalla gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre <De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas <Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie, fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland. All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas   e soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e rovinata <a disgraced and ruined man>   lo angoscia dopo la sentenza e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi vive in carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il fondamento del proprio continuare ad esistere  Wilde evidenzia che la terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la prigione li rende dei <paria>, per cui i condannati di ceto abbiente non hanno più diritto all’aria ed al sole,la loro presenza infetta i piaceri degli altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la reputazione della persona condannata è leso.   Wilde evidenzia anche che molte persone,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,, è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro l’idea della retribuzione morale  e cioè che subendo la pena il colpevole abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio, dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns, oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi anni dopo il carcere in Francia . Wilde scrisse anche <The Ballad of Reading Goal> , l’anno del suo rilascio. in questa lunga ballata il poeta inglese descrive le  sofferenze e le crudeltà cui aveva assistito durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte dei carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati a morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose ufficiali e dei cappellani delle carceri . Cattaneo rileva che la tragica esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul of man under socialism” . Dalle riflessioni dello scrittore inglese redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con critiche alla utilità sociale della stessa   In “Gide e il non giudicare,” il problema giuridico-penale è stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo Gide, che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi penali, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”  Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in veste letteraria. L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro è molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto  penale  e letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce l’attenzione, la precisione, la serietà e la preparazione dimostrate dallo scrittore francese nel trattare i temi giuridici, soprattutto per la precisione del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare problemi giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali lo induce all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”  L’atteggiamento dominante di Gide  è il “favor rei”  che si esprime in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni, specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva anche  nei suoi scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di chiarire il loro contenuto. Gide si mostra sempre umano e compassionevole verso i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che si tenga conto degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa causare mali peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa. C. evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità psicologica, che porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal monito evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo della raccolta: Ne jugez pas.”  In “Franz Kafka, la legge e il totalitarismo”   C. ha discusso in molte opere il problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume “Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”  Analizzando le opere di Kafka C. premette che è particolarmente rilevante il pericolo di un forte divario fra la letteratura critica ed interpretativa ed il testo originario dello scrittore per cui ritiene che siano legittime molte diverse interpretazioni dell’opera di Kafka, e molte <chiavi di lettura> ., certamente l’interpretazione più interessante dello scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod,  che evidenzia la religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa chiave interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e della colpa. Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata compiuta da Pernthaler.C. intende esaminare alcune opere di Kafka dalle quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista filosofico-giuridico  In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal punto di vista filosofico-giuridico. C. esamina alcuni temi che emergono da “Il Processo”  dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage der Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva di tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di errore e di ferocia tipiche del totalitarismo. Kafka collega la burocrazia e l’oppressione del potere sugli uomini caratteristica del nascente totalitarismo . PCitati rileva che <Nel Processo, l’immenso Dio sconosciuto, di cui non ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un potere così illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione di Citati è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da Sgorlon del <Processo> di Kafka  ma la prospettiva giuridico politica, trascurata da questi studiosi, è presente e C.  evidenzia che proprio nel primo capitolo, in cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di Joseph K esprime in modo preciso proprio la sensazione del passaggio graduale ed insensibile dallo Stato di diritto allo Stato totalitario .Di seguito le indicazioni che Joseph K riesce a ricevere da parte di vari personaggi connessi al Tribunale concernenti il meccanismo, il funzionamento, l’andamento del processo mettono in luce la totale assenza di garanzie giuridiche e processuali, di tutela dell’imputato, elementi che costituiscono l’esatta antitesi dello Stato di diritto Il tema della inconoscibilità e irragiugibilità delle leggi è ripreso da Kafka nello scritto <Zur Frage der Gesetze> In tale scritto Kafka delle <nostre leggi> che non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto del piccolo gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka dichiara di non avere in mente tanto gli svantaggi derivanti dalle diverse possibilità di interpretazione, quando questa è riservata ad alcuni e non all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi molto grandi. Le leggi sono antiche, secoli hanno lavorato alla loro interpretazione, l’interpretazione è diventata essa stessa legge, e sussistono sempre, benché limitate, alcune libertà di scelta dell’interpretazione  Il motivo dominane l’intero scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato che la legge è misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla per cui è comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza delle leggi e riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà  La fredda descrizione di uno strumento di supplizio, nell’ambito di un sistema processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del racconto <In der Strafkolonie> (Nella colonia penale) e la conclusione della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina del supplizio inizia a funzionare  e l’ufficiale muore senza aver capito il senso del supplizio   come ogni sistema totalitario si autodistrugge e divora i propri figli C. cita la fucilazione dei coniugi Ceausescu operata nell’ambito del totalitarismo comunista. L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come <<alibi>> nel sistema post-totalitario” Havel, noto scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della repubblica cecoslovacca, è autore di numerose opere letterarie e teatrali. C. ritiene che se Kafka rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel rappresenta il post-totalitarismo,al quale ha dedicato uno scritto bblicato che l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca.  Havel delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario, come tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e post-totalitario.  Tale sistema politico è caratterizzato, secondo lo scrittore ceco,  come una dittatura della burocrazia politica su una società livellata. Lo scrittore ceco  elenca le caratteristiche del sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura tradizionale ed evidenzia che  tale sistema non è delimitato territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una superpotenza  mentre le dittature classiche non hanno una solida radice storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti. Tale sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle certezze esistenziali. Alle dittature tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo di anni nell’Unione sovietica e di anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di un meccanismo perfetto, che permette la manipolazione diretta ed indiretta della società. La forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà statuale  e dalla amministrazione centralizzata dei <mezzi di produzione>  Nella dittatura classica vi è una atmosfera di entusiasmo rivoluzionario, di eroismo, di spirito di sacrificio che sono scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che è un elemento solido del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia di valori presenti nei paesi occidentali sviluppati e  sono una forma di società consumistica ed  industriale. Il sistema sopra descritto è designato da Havel come <post-totalitario> perché è un sistema totalitario con caratteristiche diverse dalle dittature classiche e, rispetto al totalitarismo classico, è caratterizzato da una misura più attenuata di terrore ed arbitrio  Havel considera il sistema post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è un effetto del dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle mistificazioni totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella menzogna  e  lo scrittore insiste sul valore e sul significato morale ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico nel sistema post-totalitario  lo scrittore rileva  che tale sistema sente la necessità di regolare tutto con una rete di prescrizioni, norme, istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle piccole viti di un meccanismo gigantesco.  Le professioni, le abitazioni ed i movimenti dei cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono controllate, ogni deviazione viene considerata un passo falso ed una manifestazione di egoismo ed anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere alla lettera l’ordinamento giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e se le leggi servono alla vita o la opprimono ¸la battaglia per la <legalità> deve vedere questa <legalità> sullo sfondo della vita come è realmente.  Analizzando il rapporto tra la società post-totalitaria e la moderna civiltà tecnologica, con riferimento anche agli scritti di Heidegger, Havel rileva che il sistema post-totalitario è solo un aspetto della generale incapacità dell’uomo contemporaneo di divenire <padrone della propria situazione> e la prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione esistenziale> generalmente comprensiva  L’aspetto più interessane di Havel è la delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come fenomeno sorto dall’incontro della dittatura con la società industriale e consumistica.  Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva che Havel sottolinea il significato autentico del diritto, che deve avere coscienza dei propri limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore, deve difendere alcune esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla violenza e dalle invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di adempiere a compiti per cui non è adatto  - In tal modo, sottolinea C., il letterato ceco riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il diritto non è al servizio del potere, ma può essere un valore solo in quanto esso sia un mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità dell’uomo   Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela del valore più calpestato dal totalitarismo, la dignità umana che è lo scopo fondamentale ed essenziale del diritto,  dato che diritto e libertà sono collegati ed il diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. DISSERTAZIONÉ • SULL ORIGINE DELL’ANTICA IDOLATRIA E SULLA FORMA DE' PRIMI   IDOLATRICI SIMULACRI   COMPOSTA DALL'ABATE;   Giuseppe luigi traversari   H   Patrizio Ravennate , Canonico Arciprete della Infigne Collegiata di Meldola, e tra gli Arcadi.LANIO' ATENIENSH.     PRESSO GIOSEFFANTONIO ARCHI.  DISSERTAZIONE   SULL' ORIGINE   DELL’ ANTICA IDOLATRIA  E SULLA FORMA DE' PRIMI   IDOLATRICI SIMULACRI. AL NOBILISSIMO CAVALIERE ,   E DOTTISSIMO LETTERATO IL SIGNOR CONTE AURELIO GUARNIERI   PATRIZIO OS1MANO  L’AUTORE. Veneratissimo Signor Conte  fi 'S T fi Aria, intralciata, difficile , e per nju-  /. X no, ch’io fappia, di proposto rifchia-   tt » rata fi è la Queftione , che mi vien pro-   OS A porta a trattare, veneratiffimo Sig. Con-  te ; cioè fe i Simulacri primieri delle pagane divinità fodero lemplici e rozze Pietre, o quadrate, o rotonde, lenza veruna umana, o animalel-  ca ferabianza . Io ricevo con Ibmmo giubbilo per  una parte l’onore de’ voftri cenni, e vi fi) al mag-  gior fegao buon grado per avermeli gentilmente  partecipati . E’ una degnazion Angolare la voftra il  credermi pur capace di l'oddisfarvi in materia di eru-  dizione . Ma per l’ altra ben coaofcendo la pochez-  A 3 za del v/ 6 ' Dksert. sull* Origine   za del mio talento, e la fcartezza di mie cognizioni , provo un eftremo roflòre di non potervi ubbi-  dire in quel modo, che ad un voftro pari, ed alla  qualità dell’ argomento fi converrebbe. Inclinato  per genio all’ amena Letteratura , ma Tempre da im-  pieghi fagri , e da gravi Itudj recinto , e fommer-  lo in occupazioni tutte diverte , lenza tempo , lèn-  za relpiro come potrò teftenere la qualità di Lette-  rato innanzi a Voi , che in ogni maniera di colte  Lettere liete Maeflro ? E ben fapete quanto male in-  contrante a colui , che fu ardito parlar di guerra in-  T 4 nanzi ad Annibaie. Ciò non pertanto , fcnibrando-  mi più teoncia la taccia di malcreato , e di (cono-  fcente , che non quella d’ignorante , e di mal efper-  to , a telo fine di tellimoniarvi per alcun modo la  mia oltervanza , mi farò lecito di comunicarvi i miei  penlamenti. Sarà quindi gentile impiego del voltro  bel cuore infieme, e della vofira dottrina il com-  patirli te rozzi , o il rigettarli fe erranti. Per-  mettetemi però , gentilifitmo Sig. Conte , che io nel  diitenderli mi allontani alquanto dal metodo fecco  e digiuno, che per alcuni fi tiene , e che foltanto  confine nel produrre Autori a rifate , e inzeppar fe-  lli , e affafteflar citazioni. Comecché molto io lodi  la fatica e l’ induftria di chi procede fifFattamente ,  la materia, che abbiamo tra mano, fe io non vò  lungi dal vero , brama di fpaziare in più aperto cammino , « di venir rintracciata da’ Tuoi vetulti principi.  In due parti perciò credo ben fatto il dividere la  prefente Dillèrtazione , che a Voi trafmetto, e cou-  facro . Ragionerò nella prima alcun poco della ori-  gine, delle maniere , e degli oggetti di quella fatale  Idolatria , che a poco a poco lopprimendo i lumi  della natura , della ragione , della Religione , della  lloria , coprì di tenebre , e manommite tutta la faccia  dell’ Univerfo . Difcenderò pofeia naturalmente nel-  la feconda a rendere , per quanto io polla , proba-  bile la opinione, che t primi Idolatrici Simulacri  tollero di quadrata, o rotonda forma, e non aven-  ti figura alcuna o di Animale , o di Uomo . In   questa    dell'antica Idolatria 7   quella guila crederò di potere all* autorità voìtra ,  ed alla mia ubbidienza per alcuna via foddisfare. Si laici a Maimonide ( i J , ed alla Scuola Ra-  binica il fidare lenza prove agli Antidiluviani tem-  pi l’epoca della nafcente fuperftizione. Entrando  nell’argomento, quel che puolli da noi con cer-  tezza affermare fi è, che poco tempo dopo il Di*  luvio s’ intrulè il Politeifmo a pervertir le menti de-  gli Uomini . Il libro di Giosuè f a ) ne avverte ,  che Tare Padre di Abramo , e di Nachor aveva fer-  vito a* Dei menzogneri . Óra la nalcita di Tare ?  fecondo i calcoli dell’ Uflerio, accadde non più di  22 1. anni dopo la generale inondazione del nofiro  Globo . Il libro poi di Giuditta ( 3 ) ci fa lapere ,  che non pur Tare , ma eli Antenati di Abramo fe-  guivano gli empj riti della Caldea adoratrice di più  falle Divinità. Labano chiama Tuoi Dei gl’ Idoli *  che Rachele tua Figliuola gli avea involati (”4), e  Giacobbe prima di offrire un facrificio all’ Altiifi-  mo fa recarli da tutti quelli di fua comitiva gl’ Ido-  li , che ferbavano , e li nafconde (otterrà .   Molto, dagli Eruditi fi difputa qual folle dell*  Idolatria nafcente il primiero oggetto. Pretende  il Clerico ( 5 J elfère fiati gli Angeli adorati lenza  limitazione , e lenza relazione all* Onnipotente.  Volilo d* altra parte lòltiene , che il Dogma  de’ due Principi buono , e cattivo folle dell’ Idola-  tria più antica generatore. Noi non fiamo per di-  partirci dalla fentenza più comune, e più compro-  vata, cioè che gli Altri, e quindi gli < Elementi  follerò i primi a rifcuoter l’ adorazione de’ tralignan-  ti mortali. Fra un nembo di monumenti, e di au-  torità , che in conferma di tale fentenza recar po-   . A 4 * ' trei *   \ r »   ( 1 ) De Idolat. curri Interpr. Dionyfi VoJJìi .   ( 2 ) Cape 24. v. 2. ( 3 ) Cap. p. v. 8.   C4) Genef.cap. 31. v. 19. £?. 30., Cap . 3$. v. 2.   4 * (5 J Index Philolog. ad HiJÌ. Thil. Orienta  in voce Angelus , V Ajlra . ( 6 ) De idolat . lib. 1.      8 Dissert. sull* Origine   trei 3 e che in Macrobio C i ) , in Gerardo VofTio  già citato C 2 )> ne l Le Plucne ( 3 ), nel Bergero ( 4 )  lt polfòno agevolmente vedere , io trafcelgo il folo  Eufebio Cefarienlè , tanto più che in Lui rinven-  go accennata non pur 1 ’ origine , ma V ingànnevol  motivo di quella umana depravazione.' Egli adun-  que colia (corta del gravilTìmo Diodoro Sici-  liano, parlando prima degli Egiziani, poi de’ Fe-  nici , popoli , fra’ quali ebbe forfè 1 ’ Idolatria la fua  culla , e finalmente de’ Greci , dice , che (6 ) ,, i  „ primi Abitatori di Egitto , avendo volti gli oc-  chi a contemplare il Mondo, e con alto ilupo-  „ re coixfiderando la natura di tutte le cole , ili-  3> marono, che il Sole, e la Luna follerò Dei lem-  3, piterni , e primarj , de’ quali per certo rapporto   „ chiamarono 1’ uno Ofiride , e 1’ altra Ilide   ,, infegnando eller quelli due Dei dell’ Univerfo  3, tutto moderatori. Rapporto poi ai Fenicj egli  afferma che • ,, i primi fra loro datifi ( 7 ) a filo-  ,, fofare , tennero unicamente in luogo di Dei il  ,, Sole , e la Luna , e gli altri Pianeti , e gli Ele-   ,, men-  33 . >   (1 ) Saturnale lib. 1. C 2 ) De Idololat. Orig. lib ».  3. per totum . (3 ) Storia del Cielo Tom. I.   C 4 ) Trattat . Storie, della Relig. Tom. 1 .   4 5 ) Yraparat. Evang. lib. I. c. 9.   ( 6 ) Tot* owj xotr A lyuirrov Avd’p'jìTHS ro  7 rcchctiQt ywofJLtviss ccvccfihr^ccvrcce tov xo$[jlov , xou  rlw rctfr oKw xa.rcLT'Kccyv/rcts re xoui  rocrras UTTohccfìett/ uvea Osar otihas re xou irpu-  ru$ vihiW) xou rlw <relwnv y w rov \xiv Osipiv ;  rlw ’Be Kit ovoyxKOA rara? Sé .Tttf Ozag   u<pirrocvr<u rov $i[/,tccvtcc xospLw ì>ioixe*v .   ( 7 ) HA/ok , xcu (reXlw/iv 5 xou r»? Tkoittxs  T rKetfY\rots ctrrepccs , xou rot sto%£cc } xta tvtoìs  nwoufiiy pLQvov lyivwsxov .    dell'antica Idolatria. 9   „ menti in oltre con quanto a !or fi congiunge ,,  Finalmente paHando a far parola dei Greci , reca  il bel palio di Platone nel Cratilo, che in queite  note fi elprime ( i ): ,, A me certamente ralfem-  ,,bra, che i primi ad abitare la Grecia quelli fol-  „ tanto per Dei riputalfero , che dalla maggior  , pane de’ Barbari prefentemente fi adorano , il  ’, Sole cioè , la Luna , la Terra , gli Altri , il Cie-  lo , quali vedendo e.fi con perpetuo corlb aggi-  ,, rarfi , dalla parola ra G«y correre , Aosi Dei li   ,, chiamarono. ,, t   Il lèntimento di Eulebio, o di Diodoro, che  dee chiamarli il lèntimento di tutti gli Storici  più fenfati , potrebbe!! agevolmente con facra au-  torità comprovare. Mosè ( *J, Giobbe (i ) , I*  .Autore del libro della Sapienza ( 4 ) col profcri-  vere il culto fuperltiziofo degli Altri, e degli Ele-  menti , il fuppongono tacitamente come il più an-  tico , perchè il dipingono come il più lulinghie-  j>o , e capace a pervertire l'umano cuore.   Così fu veramente. Il cuore umano aggirato  da un fafeino teuebrofo di licenziole palliont , am-  mollito dal lbverchio amor del piacere , fcollò dal  natio genio d' indipendenza , languido , e indiffe-  rente negli efercizj della Religione , la quale già  inftillata nel primo Padre erafi poi tutta pura da  INoè trafmellà ne' difeeudenti , cominciò palio pal-  io a   ( 1 ) tyojyovTout tj.ot 01 t porrà ruv P 1 tìpuiruv rwv   Trìpi TW EAÀa^a J T 8 TKf ^JjOVtSi Stai «y«>' 6 cU ,   • WiTTlp vuù T0XK01 TVV (locpQctpW , t{KlOV , XOU  xcu ylw, xou carpa , xou tspcaov . art   OVLU tWTOC OpWTK TTOO/TCO OMrl 10 VTCL , XOU   Piovra, j curo tojuths tìk <piKi'j>s rns tu Orir Qks  curasi (tovoijlkìou .   (2) Deuter. c. 4. v. ip. (3) Job. C. 31. V. 16.  1 ( 4 ) Sap. c. 1 3.    Digitized by Google    io Dissert. sull'Origine  fo a perdere la giufta idea del vero Nfume , elio  gli brillava all’ intorno con tanta luce* Un guitto*  e terribil giudizio di Dio medeilmo , il quale, come  avverte S. Agostino , fparge penali tenebre (opra .  le illecite cupidigie , permife nell’ Domo un sì fa-  tale dementamento. Chi fdegnava di rendere al  Facitore 1’ onor dovuto come a Sovrano , meritò  di perder colpevolmente lino le tracce per ravvi-  farlo . Abbandonato così alla stoltezza de' Tuoi pen-  fieri, fcambiò la gloria sfolgoreggiarne, ed  immenia dell' incorruttibile Iddio co'’ limitati river-  beri , che ne vedea nelle Creature. Gli Astri pri- .  ma di tutto a lui parvero contrallegnati co' mag-  giori caratteri della Divinità . Quel movimento •.  loro non interrotto , que’ periodi tempre uniformi ,  quello fplendore Tempre brillante, quegl' in Aulii :  sempre benefìci fermarono il corfo alla di lui am-  mirazione , e riconofcenza , quando pur dovevano  lervirgli di guida per falire ad amar la bontà, a riconofcere la potenza del Creatore . Egli lciocca-  mente impadulò ne’ rulcelli , e dimenticò la lòrgen-  te , e invece di riguardarli come Ministri delle  divine beneficenze, li adorò come Dei. L’ amor  proprio , la fuperbia , la mollezza , il libertinaggio  trovarono il loro conto in fimil delirio. Gli Astri  comparivano Dei benigni, comodi, utili, che nul*  la eligevano, nulla vietavano, per nulla al più cor*  rotto genio opponevanlì , nè mettean freno alle più  torte inclinazioni . Il culto degli Elementi , della  Terra, del Fuoco, dell’Aria, de’ Venti lì congiun-  te ben presto con quello degli Astri, perchè appog-  giato fopra gli stelli principj , e come un palio mal  mifurato lud’un pendio fdrucciolevole cagiona pre-  cipizi Tempre maggiori , fi venne ad attribuire la  divinità alle inlenfibili cole, ed infieme agli utili,  e dannofi animali, agli uni per riconolceili de’ be-  nefizi , che fanno agli Uomini \ agli altri per pla-  carli , e distornarli dall’ infierire . L’ antichiflima   opmio- Afojì. ad Rom, c. x. dell' antica Idolatria . n  opinione de’ due Principj buono , e cattivo ebbe for-  fè gran parte in questi folleggiamenti, eia vera-  ce , ma poi alterata dottrina degli Angeli , de’ De-  moni , delle Anime de’ trapalfati trovolfi molto op-  portuna per dilatarli. Si volle credere tutta la na-  tura animata . Animati lì tennero gli Astri dagl’  Indiani , dai Caldei, dagli Egizj , dai Maghi, da  Pitagora , da Platone , da Cicerone , da Varrone .  Il mare , i fiumi , le fontane , la pioggia , il tuo-  no , le rupi , le caverne , le pietre , i monti , gli  alberi , le piante , gli erbaggi , e tutti poi gli Ani-  mali li coniìderarono come alberghi d’ una infinità  di attive prelìdi Intelligenze producitrici di quelli  effetti or nocevoli , .or vantaggiolt , che feulco-  no il fenlo umano . Le Anime de’ Trapalfati o  dalla riconolcenza , o dall’ amor degli Uomini con-  fecrate ricevettero ben prello 1’ Apoteolì , ed ac-  crebbero il numero delle Intelligenze motrici del-  la natura . Come Macrobio C i ) , e 1’ Abate Le  Pluche ( 2 _),il primo in aria da Filofofo , il fecon-  do in aria da Storico, diffiifamente ci mollrano,  Oliride, Ifidè , Amone,Oro, Serapide degli Egizj ;  Zeus , o Dios Giove , Marte , Saturno , Venere ,  Mercurio , Giunone , Cibele de’ Greci , e de’ Roma-  ni ; Dionilìo, Urotalt ,e Alilat degli Arabi; Marnas  de’ Fililtei; Moloch degli Ammoniti; Adad de’ Sirj ;  Adonai , Achad , Architi , Baelet , Belfamin , Mel-  chet de’ Paleltini , non erano da principio che il  Sole, la Luna, o la Terra, e quindi in progredii  Anime di Principi o Principelle, d’ Eroi o Eroi-  ne ite a regnar nel Sole, nella Luna, negli Altri,  o a preledere alla Terra. Quindi la turba degl’ Id-  dj Confenti o maggiori , degl’ Iddj fecondar) o  minori ; e 1’ altra infinita plebaglia di unte varie  Divinità regolatrici di tutti gli effetti , e di tutti  gli elleri naturali , quale non meno accuratamen-  te, che leggiadramente ci viene dal grande Ago-  stino   ( t ) Saturnal. lib. I. f a J Star, del Ciel. lib. I*  i2 Dissert. sull* Origine   ftino C 1 J accennata . In Quella guifa le due opi-  nioni del Volito, e del Clerico amichevolmente  fi legano colla opinione comune, e tutte unite ci  additano la prima origine del più grande acceca-  mento degli Uomini. ,, Deplorabile acciecamen-  ,, to ! (" concluda quello paragrafo il facro Autore del  Libro della Sapienza ) vana illufione di quelli ,  „ che non conolcono Dio ! Attorniati da’ Tuoi be-  ,, nefizj non hanno veduta la mano, che li dif-  „ fonde ; dalla magnificenza delle opere della na-  ,, tura non ne hanuo faputo riconofcere 1’ Artefi-  ce . Si fono perfuafi , che il fuoco , 1’ aria , i  ,, venti , le llelle. Tacque, il Sole, la Luna fof-   fero i Dei , che reggono il' Mondo Più   „ miferabili ancora , perchè ripongono la lor fìdu-  ,, eia in fimulacri morti , ed inanimati ; elfi dan-  „ no il nome di Dei all’ opera della mano degli  „ Uomini , alT oro , all’ argento indullriofamente  ,, lavorati a figure d’ animali , a pietre modellate   ,, fecondo il gulto di un Artefice L’Uomo   ,, fi forma un Dio d’ un tronco inutile, a cui dà  •la propria forma dia', oppur quella d’ un Ani-  „ male. ,,   Qui però vuole avvertirli , che T ufo de’ Si-  mulacri in figura d’ Uomini , e d’ Animali appar-  tiene bensì a’ tempi della già groil'olana , ed  avanzata Idolatria , ma non a quelli della nalcen-  te . ,, Un Uom fa J , che dritto ragioni f pro-   fieeue    fi) De Civit. Dei lib. V. VI.   ( 2 ) AM' ort y.ev oi rpurrot } koa tMcuot«-   TOl TUV (XV&pWTUJV , «Té VOCUy O/XoBojWfOWf TpO-  tìx.o * , «Té hot# ccipttpufjLcuriv j «tu t ore ypot~  tylXJfc , «Sé xA.afT.XW J yi yAlTTtXW , » « vlpict -  rrOTQITLKH f rCKVYK tpiUpyifAWYIS , 8^£ fJ.IV QLKQÒOUt-  *W, B^é op^iTtKTOVtKVis o-vujKTurrg y ra.ru ry  o ifjca mfaoyityj.(vy ìiyiXov etra*dell'antica Idolatria;.   fiegue il noftro Eufebio, rapportandoli alle telli-  monianze di tutti gli Autori gentili ) può facil-  „ mente rimanere perfuafo , che i primi ed an-  „ tichiffimi Uomini niuna fatica , o Audio ripofe-  „ ro nel fabbricare Templi , ed innalzar Simula-  cri , non etlèndo Aate per anco inventate le  „ Arti della Pittura , della Statuaria , della Scol-  „ tura, anzi neppure 1’ Architettonica . „ Quindi  dopo avere ripetuto il già detto circa la primige-  nia adorazione degli Astri conclude , che „ da  „ principio niuna menzione vi fu di greca , o di  yy babilonica Teogonia , niun ufo di Simulacri y  „ niuna ridevole vanità nella denominazione de-  ,, gli Dei parte mafchj , e parte femmine • fi)  È veramente lembra cofa aliai naturale , che la  fòrgente Idolatria ne' vetustiffimi tempi , comecché  avelie cangiato 1* oggetto della Religion prima e  verace , non giungeiìè però sì tosto a cangiarne i  riti e le cerimonie . Porfirio fcortato da Teo-  frasto , e citato da Eufebio ( 2 J pretende delinear-  ci il religiofo culto innocente degli antichi Poli-  teisti . Ma in verità quell'impostore Filofofo ne-  mico giurato del Cristianefimo nell’ adombrarci ì*  estrinseca religione de’ primi adoratori de’ falfi Dei ,  non fa che prendere in prestito que’ colori , con  cui la Scrittura Santa ci adombra la Religione de’  Patriarchi adoratori del vero Dio. Nulla infatti di  più fèmplice e di più fchietto . Que' fanti IH mi v  Uomini negli efercizj di Religione poco curavanfi  dell’esteriore, e del fasto. Ellì la facev.an confi-  stere in picciol numero di estrinfeche azioni , per-  fuafi , che il vero culto è quello del cuore. L’ in-  nalzamento de’ Templi non oltrepalla per avventu-  ra l’età di Mosè. Un femplice Altare in un luo-  go   ( I ) Oux tstpct ng Iw Qtoyoviccs EXXfuwX'f? , #  fiapGctpiKK rote TaXouTaTOtf f «^6/x »; tcw 7\oy<K y  • bhe &X.0VW ìlpustS y ìtìt Ó c. «   (a} Prjepar. Evang. lib, J,Djssert. sull’Origine   go mondo , e fpartato , lènza statue e lènza figu*  re , lènza adornamenti e lènza ricchezze , in un  bofco , o fovra d’ una eminenza era il luogo dove  Abele , Noè , Abramo , Ifiacco , Giacobbe colle lo-  ro famiglie fi raunavano per tributare all* Altiflìmo  i loro voti ed omaggi . Ivi a Lui predavano le  primizie dell’ erbe e de’ frutti , ovvero il latte , i  «radumi , e le lane degli Animali , che dopo il Di-  luvio cominciarono ad immolarli . Ora fu quelle  medefime tracce di religiofa femplicità io tengo per  certo , che nella fua infanzia procedette la Idola-  tria . Intela a venerar come Dei il Sole, la Luna,  la milizia celefte, gli elementi , le prelidi Intelli-  genze non Teppe sì tofto ufare altra forma di culto ,  fe non fe quella , con cui aveva intefo , e veduto  adorarli da’ Patriarchi fedeli il fommo Conditore  dell’ Univerfo . Niun ulo adunque per anco de’ Si-  mulacri rapprelentanti fiotto animalefica , o umana  lembianza le pretelè Divinità . Niun ufo di quelle  datue , che rozzamente in feguito , e grottefcamen-  te modellate dagli Egizj , ottennero poi e castiga-  to difiegno , e fipiccata *. motta , ed energico atteg-  giamento lotto lo ficalpello indulìre di Dedalo. An-  zi qui dee acconciamente fioggiungerfi , che anche  dopo la coftruzione de’ Templi fi tardò molto prefi*  fo le antiche Nazioni ad ergere in elfi le llatue fi-  gurate ; come degli Egiziani parlando afièrma Lu-  ciano , il quale aggiunge ( i ) d’ aver nella Siria  veduti Templi dell’ antichità più remota lènza im-  magine , o rapprefientanza veruna . Che più? Ro-  ma detta , che in paragon degli Egizj , e de’ Greci  nacque sì tardi, per oltre anni 170. ( come ci atte-  da Varrone citato ( 2 ) da S. Agofiino ) Simulacri  non ebbe ( 3 ) ne’ proprj Templi,, finché Tarquinia   Fri fico   ( 1 } De Dea Syria . ( 2 ) De Civit. Dei lib . 4. c. 3 1.   ( 3_) Dicit eiiam Varrò , antiquos Rcmanos ylufi   quam annos 170. Deos fine Simulacro coluijje .   Qiiod fi adhuc , inquit , manfijjet y caflius Dii ob -  fervarcntur . S. Auguft. citat.    dell’antica Idolatria. t?   Prifco Uomo di Greco , e di Tofcano genio tutta  di Simulacri inondolla . Anzi più didimamente  aflerifce Zonara ellervi date leggi , forfè di Numa ,   £ roibitive a’ Romani di rapprelentare la immagine  livina fotto la forma di Uomo, ovvero di Anima-  le .( i ) Ma l’ Idolatria finalmente è l’opera del-  le tenebre, e per poco crefciuta, non potea a me-  no di non addenfarle nel cuor dell’Uomo. L’Uo-  mo divenuto più empio circa gli oggetti dell’inter-  no fuo culto , non tardò guari a fard ridicolo circa  le maniere di elercitarlo. Egli avea degradata ab-  ballala la fua ragione , adorando come Dei le fem-  plici Creature . Quello medelìmo fpirito di verti-  gine il tratte ben pretto ad avvilirli viemmaggior-  menfe coll’ adorare 1’ opera fletta delle fue mani .  Ei volle oggetti fenfibili e materiali anche all’  •efterno fuo culto. Ei pretefe di circolcrivere li  fuoi Dei per converfarvi più da vicino , ed innal-  zò , e venerò .Simulacri . Or di qual forma erede-  rem noi , che follerò in quello genere le prime in-  venzioni dell’ umana ttoltezza > Quali gli fcogli ,  in cui da quella banda urtarono primamente gli  Uomini deliranti ? Eccomi alla feconda parte della  Dittertazione pervenuto, ed eccomi al punto di nia-  nifeltare la mia opinione .   Io reputo adunque probabiliflìmo , che follerò  in primo luogo i Pilieri , o le grotte pietre qua-  drate , le quau chiamate furon Betilie , e che ori-   f linariamente non erano, che Are ferventi alle rc-  igiole adunanze. Sanconiatone , Scrittore antichit-  fimo delle tradizioni Fenicie , portato da Portino  fino alle ftelle , e da Lui creduto informatilfimo  della Storia Giudaica , come non molto dittante  dalla età di Mosè , nel celebre fuo frammento , là  dove narra le imprefe del Dio Urano , o Cielo ,   affer-   ( i ) At'typvrou$v , xan tyofiop$ov nxwa. tu Sa  eariSTca Pvy.yjois aTe-r/wcoo'. / uuar . Tom. a . y. io-   I  T 6 DlSSEftf. sull* Ortgtné    afferma, che ,, Egli trovò le Betilie ( i ) coftrtien-  „ do con inlolita mirabil arte Pietre animate. ,,  Io non ho letto di tale Frammento fé non la ver-  done greca fatta già da Filone Biblico , e riporta-  ta diftefamente da Eufebio . ( 2 J So, che il Si-  gnor di Gebelin colla fpiegazione di quello antico  irjonumento ha fatto vedere, che il Traduttor gre-  cò ne avea malamente recato il lenfo, e che ridu-  cendo i termini al vero loro fignificato , 1 ’ Autor  Fenicio trovali uniforme al Legislator degli Ebrei.  (3) Checché ne fia , dilHetto non vengami di le-  guir le tracce già legnate dal grande Uezio , e dall*  erudito Calmet , affermando , che Sanconiatone in  quell’ accennato ritrovamento delle Betilie , e co-  struzion di Pietre animate ci adombra , benché in  modo affai alterato , la vera Storia del celebre mo-  numento, o Altare di Giacobbe. Quest’ottimo Pa-  triarca (~ 4 J nel fuo viaggio da Berfabee in Melo-  potamia postoli in certo luogo a dormire fu di un  grande , e ruvido Saffo acconciatoli a forma di guan-  ciale , ebbe la sì nota vifion della Scala corfeggia-  ta dagli Angeli , fu la di cui lòmmità appoggiato  flava 1 ’ AltilTìmo , da cui lènti rinnovarli le grandi  promelfe fatte ad Abramo . Deftatofi egli , efcla-  mò Quanto è mai terribile quello luogo / Vera-  mente non è egli altro , che la Cafa di Dio , e la  porta del Cielo . Diede a quel luogo il nome di  Beth - el , che lignifica nell’ ebreo linguaggio Cafa.  di Dio Conlècrò il Saffo, che la notte lèrvUo  gli aveva di guanciale , verfandovi dell’ Olio , e in  monumento 1 * erefle. Quindi concependo un Vo-  to , il conclufe col dire cs II Signore farà il mi®  Dio se e quella Pietra chiameraffì Cafa di Dio c 5    ( I ) Et/ miwe 0»? Oupcao?    ( 2 ) Pr*p. Evang. lib . I. c. 9. C 3 ) AUeg. Orien-  tai. p. 22. e 9 5. Memor. de V Accad. des Infcrip*  T . 6 1. in 12. p, 24 3. (4) Cenef. 28. 18.    Dalla     V*    dell'antica Idolatria; 17   Dalla Mefopotamia tornando nella Terra di Ca*  naan , giunto allo Stello luogo , e Soddisfar volen-  do al già fatto voto d’ offerire a Dio la decima  de’ Tuoi beni , innalzò fimil mente un Altare di  pietra , e replicò il nome di Beth - el , Cafìz di  Dio. Finalmente di bel nuovo in que’ contorni  felicitato dall’ apparizien del Signore , nove! mo-  numento di pietra cortrulle , d’ olio , e di liba-  zioni Spalmandolo, ed a lui pure comunicando la  denominazione di Beth - el . Io ammetterò , che  quello termine Beth - el dato agli Altari , ed ai mo-  numenti facri , quanto all’ edema efprelfione , fofr  fe uri ritrovamento di Giacobbe; ma follerrò con  egual verità, che quanto all’ idea , ed all’interno  . concetto degli Uomini ei difcendelfè dalla tradi'  zion più rimota. Beth - el , Caja di Dio , potea fi-  milmente confiderai , e chiamarli 1’ Altare nell*  ulcir dall’ Arca edificato dal buon Noè , perchè  ivi 1’ AltiSTimo a lui diede fegni fenfibili di fua  prelenza , e mifericordia . Beth-el per Somiglian-  te ragione potea appellarli 1’ Altare edificato da  Abramo fui monte Moria per fagrificare il Figliuo-  lo; éd egli infatti chiamò quel monte Dominus vi -  debit. Beth-el giuftamente nomar fi poteano tutti  gli Altari innalzati da’ Patriarchi fedeli per ufo an-  tichilfimo, forle dagli antidiluviani fecoli proceden-  te , perchè tutti onorati da qualche' Speciale com-  mercio della Divinità , percnè diftinti da qualche  fuperna verfata beneficenza , perchè in certo modo  protetti , ed invertiti dal Nume , e destinati a tri-  butargli culto , Sacrifizio , e riconofcenza dalle cir-  costanti Generazioni .   Ora da quefti Altari , e monumenti di pietra ,  chiamati da Giacobbe per la prima volta Beth - el ,  cioè Caja di Dio , e già tenuti per tali fino da*  remotiSfimi tempi , chi non conofce ( entra qui  acconciamente il Le Pluche) (i J etìerne derivate  le sì note Betilie , quelle grolle pietre quadrate ,   B che   to Stor. del Cielo , 1 8 D r SSERT. SULL* ORIGINE  che con ol) preziofi , ed aromatiche eircnze irriga-  vano , e che poi furono in tanti luoghi oggetto di  veturtiffima adorazione, come da più Autori , e no-  minatamente da Fozio nella fua Biblioteca dinto-  ftrafi ? Chi non conofce dal Bethel di Giacobbe  C foggiunge opportunamente il Voflìo ) ( i ) deri-  vato il famofò Betilos , quel (allo prelentato a Sa-  turno invece di Giove, come per relazione favo-  lofa Efichio ( 2 ) ci narra , e che ottenne poi tan-  to culto dalla forfennata Gentilità ? Ed io al Vof-  iìo , ed al Le Pluche fottofcrivendomi , concludo :  Chi non conofce in quelti monumenti, ed Altari  il primo inciampo degl’ Idolatri , ed il primo og-  getto fènfìbile , e materiale delle adorazioni fuper-  ìtiziofe ? Mettiamci di grazia in varj punti di villa  naturalismi . Confideriamo il genere umano dopo  la confufion delle lingue , e la differitone delle  .Nazioni già prefo da uno fpirito di vertigine , e  già declinante al Politeifmo . Malgrado le volon-  tarie tenebre , che incominciano ad acciecarlo et  l'erba tuttora nel cuore il fème della religion pri-  migenia ; e nella memoria i fagri riti, e le reli-  giofe cerimonie dal Patriarca Noè tramandate .  Egli perciò innalza, e confagra in ogni luogo pie-  tre modellate a fòggia d’ Altare per onorarvi la  Divinità : ei vi ft proftra all’ intorno: ci vi ce-  lebra le religiofè adunanze : ei vi prefenta i Tuoi  Sagrifizj , comecché forfè non più al folo , e vero  Nume, nta agli altri ' ancora , agli elementi, agli  fpiriti . Ei fa però , ed una tradizione non rimo-  ta glielo rammenta , che il primo Riparatore de-  gli Uomini dopo il Diluvio ergendo un limile Al-  tare , il vide torto adombrato dalla fènfibil pre-  lenza , e maeftà dell’ Altiflìmo difeefo in atto di  ricevere , e di gradire placabilmente i fuoi Olo-   caufti .   CO De PhU. ChriJIUn. C? Theol. Gent. Vib. 6. t. :p.   ( 2 ) BatTuho? «toj fjtocXe-fTO o AtGo; to>   K poeti) cari &ios ,    Dell* antica Idolatria;   taufti . Comecché la Scrittura noi dica , io noa  credo temerità 1* aderire , che limili degnazioni  compartifle talvolta il Signore anche ai Figliuoli,  o ai Nipoti di Noè , che fi mantenner fedeli pri-  ma d' Aoramo. Ben il vecchio Sacerdote, e Re  di Salem Melchifedecco ne avea tutto il merito.  Checché ne fia , certamente il genere umano  non può non confiderar quelle pietre , od Altari ,  che qual cola rilpettabile , e (anta. Fi le vede  fèrbate ad un culto Speciale della Divinità , e ad  un peculiar commercio col Cielo : ei le vede in-   nalzate o per rinnovar la memoria d' alcun luper-  no ricevuto favore , o per invitar gli animi ad una  fedele riconofceitza : ei le vede anche ufate per   edere teftimonio , e monumento durevole delle al-  leanze , de' patti , delle folenni prometle , e de' giu-  ramenti , ne’ quali s’ interpone il tremendo nome »  e la Maeftà Divina. Gli efempli , che fu di ciò  abbiamo nella Scrittura , non fanno , che dinotarci  una vetuftidìma poftumanza. A tutto quello s' ag-  giunga 1' opinione già di fopra accennata , e che fi-  no dai primi tempi fi propagò fra i mortali , cioè  che tutto ripieno folle d’ Intelligenze regolatrici  degli elleri , e degli effetti della natura . Con-  nettali pure l’altra opinione d’ antichità non mi-  nore da S. Agoffino rammentataci ( i J colle pa-  role del celebre Mercurio Trifmegifto , cioè che  per certe conlecrazioni rimanellèro li Simulacri  non pure inveititi , ma realmente animati dalli  Dei venuti ad abitarvi , affin di nuocere, o d?  giovare più da vicino ai loro adoratori . Ciò , che  forfè adombrar volle Sanconiatone con quella ef-   preffione di 7 ^ 0 ^$ Pietre animate. Con-   siderando noi il genere umano in tali profpetti ,  qual cola più probabile, e naturale a concluderli,  eh' egli , parte abufando delle antiche tradizioni  veraci , parte ingannato dalle nuove folli perlua-   B 2 fioni,   C t J De Civit. Dei lib. 7. e. 23. e 24*    f    2 o Dissert. sull* Origine   fioni j e già rilbluto di voler oggetti fenfibili al  proprio culto , cominciale ben pretto a venerare  quegli Altari , que’ monumenti di pietra , quelle  Eetilie , .riguardandole o come Alberghi della Di-  vinità , o come fimboli della prefenza divina , e  finalmente , tempre più creteendo 1* accecamen-  to , come tanti veraci Iddii ? Se il genere umano  è pure intefiato di adorare l’opera delle tee ma-  ni , qual cofa più reverenda , e più degna di culto  ai di lui occhi pretentali , che i mentovati Altari ,  o monumenti , o Betilie ?   Qui vorrà alcuno per avventura obbjettarmi ,  che quando trattali d’antichità olcurilfima , più che^  col raziocinio , voglionfi colla fioria , e co’ fatti  fiabilir le opinioni j ed io non fono per conten-  derlo. Forte però, che l’opinione da me propo-  sta non li deduce naturalmente in gran parte dai  Libri Storici di Mosè , i quali ( lanciando anche  ftare quella ifpirazione divina , che li confacra, e  mirandoli tei con occhio di Filotefo non tumido  per alterezza , nè da paliioni alterato ) ben va-  gliono aliai più, che tutti li Vedam de’Bramini,  gli Zend di Zoroaftro , i Kinghi di Confucio , e  di Se-ma-fiien, ed i racconti favololi di Erodo-  lo ? Pur i*on fi creda , che io voglia in quella ma-  teria lafciare affatto il mio Leggitore digiuno di  monumenti , e di autorità .   Il Volilo C i ) rapportaci , che il Beth - el , o  Pietra di Giacobbe , di cui tanto abbiamo parlato ,  fu a fomiglianza del Serpente di bronzo , per lun-  ga età foggetto di fuperfiiziofa adorazione a molti  Giudei , finché da’ veri Ifraeliti prete giuftameu-  te in abbominio , gli fu cambiato il nome di JBef/i-  el % Cafa di Dio, in quel di Beth - ave , cioè Cafa  della Menzogna .   Quali poi furono i primi Simulacri degli Ara-  bi , tra i quali i Moabiti , e gli Ammoniti fi com-  prendevano? Gli Autori antichi, a’ quali rappor-  tali    i ) lai’, d. r. 2p.   dell’ antica Idolatria. 21'   tali il Calmet , e che ci parlano delle prime  Divinità di que’ Popoli , le defcrivono come fem-  pjici Pietre informi, o fcalpellate, ma non con  umana forma. ,, Voi ridete, dice Arnobio, (2)  „ che ne’ vetufti tempi gli Arabi adoraflero una  ,, Pietra informe . „ Malììmo Tirio ( 3 ) o di que*  ito , o d’ altro Arabico Simulacro parlando il chia-  nia Tfrrpxyjìm Pietra, quadrangolare. Ed Eu-   timio Zigabeno nella fua Panoplia ragionando  co’ Saraceni : ,, Ed in tjual modo , efclama , voi ab-  ,, bracciate la Pietra di Brachthan , e la baciate ?  ,, Alcuni rilpondono : Perchè Abramo fopra di efc   „ fa eboe il fuo primo commercio con Agar. Al-  ,, tri poi : Perchè ad ella legò il fuo CameTo quan-  ,, do fu per lagrifìcare Ilàcco . f 4 ) „ Non pen-  io di meritar la taccia di capricciofo , fe giudico  quelle Pietre adorate in feguito nell’ Arabia nuli*  altro elfere fiate da principio, che vetulte Beti-  lie , o rozzi Altari fors’ anche al vero Dio confe-  crati . Certamente Mosè , ("5 J in ciò ieguendo   S er avventura la tradizione , e il più vetullo co-  ume , prefcrive , che di rozze Pietre dal ferro  non tocche , e informi fallì , ed impoliti follerò  gli Altari , che dopo il patlàggio del Giordano fi  volelfero al Dio d’ Ifraello innalzare; e nuli’ al-  tro , che grandi Pietre fpalmate alquanto di calce  folfero i monumenti defiinati. a fcrivervi lòpra le  parole della legge. Temette forfè il grande Le-  B 3 gisla-   ( 1 ) 7 efor. cP Antich. tratto dai Coment, del Cal-  met T. 2. ( 2 J Lib. 6 . C 3 J Sermon. 3 8.   ( 4 ) Ili* VfJUHi TposrpiQtsrt toj ?u 9 u» t ts  Bpxyficxv j xou tpiKsirt raro» ; kou tiiik j aa>  ewrw tpctti y %tQTi tir coki) aura s trasloca rn Ay cefi  0 Afipaont. AÀA01 ?>£ ori rpotilìiKur carro» thv  xxiju iXov , fJ.iKho»r (jusai rov I sotux. .   C s ) Deuter. 27. 5.22 Dissert. sull’Origine   gislatore , che fé tali monumenti , ed Altari fi f 0 f.  fero con più eleganza collutti , divenilfero più fa-  cilmente al rozzo fuo Popolo, e vacillante pietra  d’inciampo, e fomento d’idolatrica fuperllizione .   E qui , giacché dell’ Arabica fuperllizione ho fatto  parola , voglio avvertire, che della per lungo tem-  po mantenne!! nella lua primigenia feniplicità.   Giobbe Arabo, o Idumeo , forfè contemporaneo , le-  non anteriore a Mosè, accenna lenza meno l’ Ido-  latria del fuo Pael'e. Or ei non parla nè di lla-  tue , nè di figure . Indica fidamente 1’adorazione , ed il faluto del Sole , e della Luna, che poi Uroralt, ed Alilat furono nominati . Se-  gno manifelto, che fra que’ popoli non fi era introdotto per anco quel lopraccarico di moftruole  follie, con cui dalle Scolture Egiziane rimale ag-  gravata l’ Idolatria. Che fe non pertanto gli Ara-  bi ab antico proltravanfi a Pietre informi , o qua-  drate , quali io reputo Betilie , ed Altari , ben con-  cluder potrai!! , che quelli follerò il primo. fco-  glio, e il primo fcandalo al/ materialifmo de’ più  antichi Politeilli . Teltiinonio ne facciano i primi Abitatori del-  la Germania . Colloro finché rimaforo nella vern-  ila loro rozzezza, finché la fuperllizione fra eli!  col commercio delle arti Greche , e Romane non  giunfe a farli più vaga infieme , e più llolta , al-  tri Simulacri non ebbero, come Tacito ( a J av-  verte , che folli informi di legno , e di rozze pie-  tre . Erano quelle le forme degl’ Iddii , che por-  tavanocon elfo loro alla guerra , penlando , che  folle un offendere la Divinità il rapprelèntarla  fotto umana fembianza . Ciò , che pure da molti   altri  C. 31. v. 16. ( 2 J De Morìb. Germart. Sta-   tua ex stipitibus rudibus , i? impolito lapide effi-  gi e s , CP Jìgna quxdam detracia luci s in prxlium  ferunt . Nec cohibere parietibus Deos , ncque in  ullam humani oris Jpeciem affimilare ex magni-  tudine cotlejìium arbitrantur. altri Popoli di non peranche ingentilito collume ,  per quanto narrano gravi Autori , collantemente  penfolfi . Ma e dove lalcio la celebre Madre degl*  Iddìi , o fia Cibele di Frigia portata in Roma da  Pelìinunte col miniftero di Scipione Nafica , e da*  Romani ottenuta per mediazione del Re di Perga-  mo al tempo della feconda guerra Cartagine!? ? Livio le dà il nome di fagra Pietra„  Pietra informe la chiama Minuzio Felice . Arno-  bio la defcrive come una Selce non grande  di forco, ed atro colore , e per angoli prominenti  ineguale . Eravi fra quei Popoli tradizione , che  quella Pietra caduta folle dal Cielo, e che ap-  punto da jrK&y cadere la Città Pelfinunte folle Hata  chiamata .   La Grecia ftefTa non fu priva di quelle fog-  gie di Simulacri. Paufania ci attefta, che in una  loia parte d’ Acaja furono da trenta Pietre taglia-  te in quadro , aventi ciafcuna il nome di una qual-  che Divinità , e con fomma venerazione riguarda-  te , fendo llato collume antico de* Greci il prellar  culto a limili Pietre , non meno di quello , che  pofcia faceflèro alle figure, e alle llatue. Mi farà egli difdetto il probabilmente congetturare per  le ragioni di fopra addotte , che quelle , ed altre*  limili Pietre di Grecia nuli’ altro da principio fof-  fero , che Betilie ? Servirono un tempo a niun altro ufo, che agli efercizj delle facre adunanze. L*  Idolatria col farli più tenebrola giunte a diviniz-  zarle . Betilie ùmilmente , o imitazione fenza me-  no delle Betilie pollòno crederli gli Ermi , di cui  la Grecia , e Roma furono ripiene , e che pofcia  ad abellire fervirono fpecialmente le Biblioteche.  Bili non erano da principio , che tronchi informi di  legno , o di marmo , o di pietre tagliate in quadro  fenza mani , e fenza piedi : T runcoque fiinillimus Her-  inu?, dille Giovenale. ("3) Ne* quattro di loro lati  pretendeva!! dinotare o le quattro ltagioni, o le quat-   B 4 tro   ( 1 J Lib. 2$4 ( 2 J Lib . 6 • ("3 ) SiiU 8. 1  '24 Dissert. sull* Origine .   tro parti del Mondo. Si confiderarono poi come  ilatue degli Dei , e di Mercurio principalmente „  Il di lui capo , che vi fi aggiunfe , fu fenza meno  un poderiore ornamento. Anche il Dio Termine  non fu nell* età più vetude rapprefentato , che fot-  to la figura di grolfi Saffi quadrati , cubici , privi   di mano, e di piede : Ttrpctywoi , xuQoziìitls y   K'Xttp&y xou airone? ; quantunque al Dio Termine   pur s* aggiungere la teda umana ne’ fecoli confeguen-  ti . E che non può in quella parte una matta per-  fuafione a poco a poco crelciuta fra i barlumi di  tradizioni parte vere* e parte mendaci? A tutti è  noto , che da molti Popoli fi giunte per fino a ve-  nerare le Montagne , quali grandilfimi Simulacri  della Divinità. Il monte Atlante era il Dio de-  gli AfFricani. Occidentali : un monte il Dio de*  Oappadoci per allerzione di Malfimo Tirio : Moni  a pud Cappadoces prò Deo ejl , prò jur amento , atquc   Simulacrum . Un monte , o fia rupe SxotéA© r y   xoputplw il chiama Stefano , ( i ) rifcoire pure  adorazione dagli Arabi. Giove fi venerava nella  cima de’ più alti monti , come dell’ Olimpo , del  Callo , dell’ Ida ; e il nome quindi ne rifcuotea di  Giove Oljmpico , di Giove Cafio , di Giove Ideo .  Gl’ Italiani ilelfi predarono al monte Appennino  venerazione , come apparifce da una Ifcrizione ri-  ferita dal Matfèi nel tuo Mufeo Veronefe, la qua-  le comincia IOVI APENINO. Ora e per qual ra-  gione crederemo noi , che adorati veniflero tal»  monti , te non per la della , che confecrate avea  le Betilie ? Ce la prelenta naturalmente il Berge-  ro . ( 2 ) Fu fcelta la cima de’ monti per offrirvi   de’ facrihzj , perchè credevano gli Uomini d’ e fie-  re più vicini al Cielo, e conseguentemente agli  Dei, qualora fi adoravano gli Altri. Per tal mo-  tivo   (" i ) In Avsccpq . ( 2 ) Trattai, della vera Relig. ìf  tfvo <i feielfero le pili alte. Tali cime per eli  .«lercizj della Religione confècrare ben predo dir  vennero rilpettabili Immaginoifi , che gli Dei vi  fodero difcefi^ p®* ricevervi T’ incenfo , e gli omag-  gi degli Uomini. Pài non vi volle. Riguardata  prima come abitazione de* Numi , fi confidcrarono  ben predo quai Simulacri immenfi animati dalla  Divinità, ed ottennero una fpecie d’Apoteofi.   . Gon quanto fi è da me finora ragionato, e che,  le il tempo lo permettelle , con altre notizie, e  cagioni facilmente potrebbe!* dilatare, io giudico  refa ormai probabile la opinione di chi accinger  vogliali a fo denere , che. i primi Simulacri delìq  Gentilefche Divinità fodero femplicl Pietre riqua-  drate , od informi, fenza alcuna umana, q anima-  • Jefca fembianza .  Reda ora , che alcuna cola ragionili de* Simu»  * a , cr * ° rot °ndi , o tendenti a rotondità, a cui pre-  ito fuo culto primiero la cieca' fuperdizione , pfi*  ma che folle ai figuri te Statue provveduta.   Io non fono per ripetere quanto di fapra ba*  ftevolmente ti £ detto intorno a| culto degli Adri*  e degli Elementi , degli Spiriti, e degli Eroi. Ag-  giungerò (blamente , che non sdendo per anche  giunto lo fcalpello Adirio , o. Egiziano a rapprefentar le figure degli Uomini, e degli Animali, e  per elprelfioni di Arnobio , ( i J avanti 1’ ufo ,   e U difciplina della fcoltura , già penfato avea 1*  Idolatria a procacciarli , oltre le Betilie , oggetti  temibili alle lue adorazioni. Gonfiitevano quelli  iti certi fimboli q dinotanti, la potenza, e dabi-  hta de’ Numi , o adombranti in qualche modo alcuna or qualità, J Battoni , le Verghe, le Afte,  che al dir di Trago Pompeo (a) furono la prima  “^gna .dei Re, lignificavano il fommo imperio  . de Numi, Le colonne, i cilindri , le pur non erano una imitazione più ‘ ingrandita dei Badoni da  comando, ne accennavano l’ eternità. Gli Obe-   B 5 Ufchi, '   fi) Lib, & (Lib % ultima   t6 Dissert. sull* Origine   lifchi , le Piramidi , i Coni efprimevano i »gg*  «}el • Sole , e delle Stelle , o la natura del fuoco ,  che -in alto vibrava!! acuminato. Menianrto pur  buone a Porfirio ( i ) le interpretazioni sì fatte .  Concediamogli ancora, fe piace , che tali monu-  menti alzati dalla pili vetulla gentilità non fi ri-  guarda fiero da principio , che come fimboli , o  meri Pegni d’ onore . Il Volfio , e forfè con trop-  po impegno, è dello fleflo parere ; ma poi di Por-  firio più ragionevole , perchè non tanto foffifta ,  nè così empio , s’ arrende a concludere , che ben  pretto divennero occafione di lcandalo alla materiale Idolatria , e oggetto furono di profane ado-  razioni . Elfi in una parola ne’ primi tempi flet-  terò in luogo di quelle ftatue figurate, che poi ot-  tenner l’ incenfo dalle corrotte umane generazio-  ni . E qui bramo s’ avverta ? che dove di fopra io  dilli , aver preffo molte nazioni tardato non poco  le ftatue ad innalzarfi ne’ Templi anche dopo la  erezione de’medefimi, io intefi favellar foltanto  delle Statue rapprefentanti le Teodie fotto la forma di Uomo , oppur d’ Animale ; ma non volli  giammai includere i Simulacri , per così dire , fim-  Eolici , e non aventi figura . Quelli fono anteriori , non pure alla ftabil mole de’ grandi Templi ,  ma eziandio a quei Padiglioni, o Tabernacoli, o  Tempietti portatili , con cui gli antichi Idola-  tri ebbero in ul'o di condurre a patteggio i loro  Numi .   Ora di quelli non figurati Simulacri parlando ,  m’aprirò il varco con l'autorità di Filone Bibli-  co ( aj , il quale nel fuo proemio alla interpreta-  zione di Sanconiatone, diftinguendo gli Dei immor-  tali , come il Sole , e la Luna , dagli Dei mortali ,  cioè da que’ Principi , ed Eroi , che per le loro  getta avevano confeguita l’ Apoteofi , ci avverte  «fiere flato vetullo immcmorabil collume , fpecialmente   (ij Apud Eufeb. Trap. Evang. lib, 3. c. 7.   (a) JW. lib. 1. e. 9.   mente degli Egiziani , e Fenici , da’ quali preferì  norma le altre fazioni, d’ innalzare a quelle Chili  d’Iddii Colonnette, o Baftoni , o fia Scettri di le-   • J_ - -t fn..: ninmimpntl il nome di    (cerando. (i),„   Sanconiatone poi nel fuo frammento racconta-  ci fa J, che molti fecoli prima della coftruzione  de’ Templi, e formazione delle Statue Ufoo primo  navigatore avea dedicate due Colonne %uo sTtfKxS   al fuoco , e al vento, e prellato ad entrambe cul-  to , e facrificio col fangue degli Animali. Proiie :   f He indi a narrare , che dopo la morte de primi  roi già divinizzati la grata pofterita onorata avea  la lor memoria , lotto i loro nomi confecrando ver-  ghe , e colonne, e con feftivi giorni , e fagre ce-  rimonie adorandole . Finalmente ci addita , che  dopo lunghiffima età fu innalzata al Dio Agro vera  effigiata Statua nella Fenicia . ..   Giu Teppe Ebreo f 3 ) non diubmigliantl noti-  zie prefentaci , aderendo , che i Tir) da principio  a’ loro Dii fornirono Afte , e Baftoni , poi Colon*  ne , e finalmente le Statue . .Certo nella primitiva Egiziana Scrittura fimbo-  lica ( 4 ) non in altra foggia, che d’ un Bafton da  comando con un occhio efiprimevafi Ofmde , il   S uale originariamente fu il Sole , fignificar volen-  o la fua regale potenza, ed il mirar ch’egli fa  dall’alto tutte le cole. Ed io ben credo efftre  agli Eruditi notiffime le Piramidi , gli Obelifchi ,  ed i Coni dall’ Egitto al Sole innalzati , come per   imitar-   * i   'Tru'Xas rt , xcu pa&lti; aipitpoiw coope-  ro? ccuTiM , xoa rocurot ju.yaAw? , kou   ioprrccs m/J.or carrots Taf pryisrccs.   fi) Apud Eufeb. ibi c. io. ( 3 ) Cont. Apìon.  lib. I. (4J Macrok. SatumaL lib. I.c. ai.    Digitized by Google  aS DisserY. ' suit* Ormine  imitarne I fuqi raggi . Da ciò forfè provennero  quelle corna , d* cui in fedito 1 Egizia bizzaria  li compiacque ornar gentilmente il capo del tuo  Giove Amone, del fpo Apollo d*Eliopoli,e della  fua Ifide. Ove à no\ piaccia di ftare * certe le-  zioni per altro antiche del tetto di Quinto Cur-  zio, CO ammetter dovremo, che 1' Amone ado-  rato da’ Trogloditi , e proceifionalmente a fpalle di  Uomini condotto in una dorata barchetta per aver-  ne eli Oracoli , altra forma non avea , che d un  Goiìò, ó d’ un Ombelico tutto di fmeratdi , e P rc ~  ziofe gemme fmaltato . Almeno rigettar non po-  tralTi 1* autorità di Brodiano,f 2 J il quale ci delcrive il Simulacro del Sole (otto nome di   Elegalu , venerato iq Edeilfo della Siria Apamena •  Di tale Simulacro (e ne può vedere adombrata «.  forma in una medaglia pretto il Vaillant battuta  ali* ùltimo e più pazzo degl’ Imperadori Antonini .  Or ecco la defcrizione di Erodiano, giufta la ver-  fione latina fatta dal ^oliziarfo . „ In Edefla non   v’ ha Simulacro atta Greca , o alla Romana em-  ” «iato fecondo P immagine di quel Dio -, ma un  latto grande rotondo da imo > e , a P oco a P oco  crefcente in punta quali a figura di Cono . Nero  V, è il color della pietra , cui facciano eflere ca-   V, data dal Cielo. ed affermano quella 1   ” fer 1* immagine del Sole no n da umano artificio  3y lavnrata Su tali parole fa una riflettìone op-   /.ante voi* citato G^>     del soie : uiciiuc , 7 - , -, *•   Tentare gl* Iddìi fotto umana fembianza fu de po-  fteriorf Greci, e Romani. Ma gli Afiatici più ve.,  tutti, ecl anche gli Egizj moltq divamente fi *i-   P ° rt Chi °fà pertanto, che, fe ci rimane^ro le me-  rie delle più antiche orientali Divinità , ^noi^noi*    mone Lib. s. (2) Lih 5- CO Uh. 9. c. io >    dell'antica IdoiatrYa. 19   le trovaffimo quali tutte in figura di Colonne , d?  Obelifchi , di Piramidi , o di Coni rappreleutate ?  Certo non fenza ragione i Settanta hanno in co(ìu«  me di traslatar per Colonne la voce ebrea Matgaba ,  che ordinariamente traduce!! per ljìatue ; e come il  Calmet ( t J ci avverte , il nome di Colonne lem-  bra meglio corrifpondere al lignificato del termine  originale. Forfè que’ dottilììmi Interpreti vollero  dinotare la forma antica , con cui 1 ’ Oriente , e la  Terra di Canaan rapprefentar foleva i fuoi Numi ;  E forfè Mosè coll’ imporre , che fi demolillèr tutte  le ftatue delle profane incontrate Divinità , nuli’  altro impofe nella maggior parte , che la demolizio-  ne di Piramidi , e di Colonne . Dilli nella maggior  parte, e non in univerfale, poiché quel Sacrifica-  verunt fiulptilibus Canaan , che abbiamo nel Salmo  105. , mi lece ellèr più continente nelle parole . E  de’ famofi Serafini di Rachele , primo monumento  d’ Idolatria materiale , che s’ incontri nella Scrittura, e degli altri Idoletti elìdenti prellb la làmiglia  di Giacobbe dalla Melopotamia recati, che diremo  noi ? S’ io pretendelfi figurarmeli come piccioli Coni ,  o colonnette , con quai monumenti , ed autorità po-  trei ellère contradetto? Per verità io miro Giacob-  be , che intefo a ripurgare la fua Famiglia , pren-  de , e (otterrà , non folo gl’ Idoli chiamati Dei ftra-  nieri : Deos alienos , ma angora i pendenti , che fi  trovavano all’ orecchie de’ fuoi feguaci Io   non crederò già, che le Pedone della comitiva di  Giacobbe , e malTìme le piilfime Donne Lia , e  Rachele ardlllèro di portare sfacciatamente agli orec-  chi appefe le (lamette, od immagini d’ alcuna pro-  fana Divinità . Primieramente potrebbe!! con tut-  ta ragione foftenere , che di que’ tempi non eranò   peranco T. 2. DiJJìrt. de' Templi degli Antichi .  Genef C. 25. Dederunt ergo ei omnes Dcos  alienos , quos habebant , IP inaures , qua : erant in  auribus eorum. At ille infodit eas subter Terebin -thum .30 Dissert. sull* Origine  perineo in ufo le dame figurate. Le Rabbiniche  tradizioni dell’ arte datuaria efercitata fuperdiziofa-  mente da Tare Padre di Àbramo fono già (eredi-  tate prellò degli Eruditi. La pretefa antichità della Statua di Nino alzata a Belo fuo Padre rella dai  calceli dell’UHèrio fmentita. Nino regnò in Affi-  na parecchj fecoli dopo Giacobbe . All’etàdique^  fio Patriarca il Sole , gli Aflri , e malfime il fuoco  adorati nella Caldea , Affiria , e Mofopotamia probabiliffimamente non aveano che Simulacri fimbolici. Quando pure fenza fondamento ammetter fi  voleflèro le Statue figurate ai giorni dello ftefiò  Giacobbe, io non potrò perfuadermi giammai, che  1’Uom fanto permeili avelie in alcun tempo ne’  fuoi l’ irreligiol'a ollentazione di tenerle appele agli  orecchi, comecché per folo ornamento . Il motivo ideilo, oltre a varj altri, che addurre potrei,  mi trattiene dal fottolcrivermi all’ opinione del  Grazio, e del Wandale , i quali pretendono , che  tali orecchini follerò fuperdiziofi Amuleti . Quale  relazione adunque degli orecchini cogl’ Idoli per  dovere anch’ «Ili meritare il fotterramento ? Se avefi  fi luogo ad edernare un mio non inverifimil pen-  dere, direi , che la relazione confidelle in una cer-  ta edrinfeca fomiglianza colla fimbolica figura degl’  Idoli . Forle l’ ornato di quegli orecchini potea  edere qualche gemma , o preziofo metallo cadente ,  e travagliato a maniera di goccia , di cono, o vergherà, che molto raflòmiglialTe la forma appunto  degl’ Idolatrici Simulacri . Quindi Giacobbe volen-  do abolita per fempre di quedi ultimi la memoria  predo de’luoi, nalcolè unitamente fotterra tutti  quegli ornamenti, che per la loro forma, e lavoro  potuto avrebbero in alcun tempo rifvegliarne la rimembranza. Ma fi torni in carriera , e col Voffio ( i ) ornai  fi rammenti , che non in figura umana , ma bensì  in figura di colonne o piramidi acuminate furono   i Si-   Lib. g. c. 5.  i Simulacri , a cui nei primi , e più rimoti fuoi tem-  pi l’ idolatrante Grecia prodrofli ; che le per con-  ientimentò di tutti gli Autori ebbe la Grecia dagli  Orientali , e dall' Egitto principalmente i fuoi Nu-  mi , e le cerimonie di Religione , farà quella una  riprova novella, che di cilindrica, piramidale, o  conica forma federo i Simulacri almen più vetulli  dall’Oriente, e dall' Egitto inventati.   Ora nuli’ altro appunto , che una Colonna fu  la Giunone Argiva. Ce lo atteda Clemente Alef-  fandrino ( i ) recando alcuni verlì di un vecchio  Poeta Greco in lode di Callitoe prima Sacerdo-  tellà di quella Diva predò gli Argivi . Io mi farò  lecito di darne una mia Traduzione;  Della Donna del Ciel preliede al Tempio  Clavigera Callitoe , che intorno  Di ferti , e bende un dì già ornò primiera  Dell’ Argiva Giunon 1 ’ alta Colonna .   Non altro , che femplici acuminate Colonne , o  Piramidi furono i Simulacri podi ad Apollo , e a  Diana, come lo Scaligero (3 ) dalle antiche me-  morie deduce. Non altro, erte una rozza Colon-  na di legno la Statua di Pallade Attica. ,, Quan-  „ to ( dicea perciò Tertulliano) ( aJ diltinguelt  ,, dallo dipite d' una croce la Pallade Attica , o  „ la Cerere Farrea , che lènza effigie coda d’ un  „ rozzo palo , e d’ un legno informe . Un legno  „ non dolato ( proliegue Arnobio ) ( $ ) adorodì  ,, da que’ di Caria in luogo di Diana : in luogo  „ di Giunone un Pluteo da que’ di Samo ; un’ Atta  „ dai Romani in luogo di Marte , come le Mule   » ài   'Zrpuu.eerwv I  K «XfaQoti cXifjLTtcìbos BajiAtw   H/W fi pryutK W> {Tìia/axsi , XM buiOCVOKl  ripa irti tx.orjj.tKur rtpt tttwx jJMxpw curctsitK .   Ad an. Eufib. 377, f 4 ) AJverf. Cent.   C 5 J Lib. 6. 3 2 Dissert. suix’ Origine   „ di Vairone ci additano. ,, E giacché Arnobio  un Romano Autore ha citato , qui giovi connet-  terne un altro , cioè Trogo Pompeo , o fia il Tuo  Compilatore Giurino ( i ) , il quale d’ Amulio ,~e  di Numitore parlando ultimi fra i Re d’ Alba , in  quella foggia h efprime. ,, In que’ tempi tuttora  ,, dai Re invece di Diadema portavanfi 1 ’ alle »  ,, che lcettri dai Greci furon chiamate. Conciof-  ,, liachè dalla prima origine delle cofe furono ado-  ,, rate 1 ’ Alle in luogo de’ Simulacri degl' Iddii im-  ,, mortali . Ed in memoria di tal religione ai Si-  „ mulacri degl’ Iddii tuttora 1' Alte s’ aggiungono. „  Finalmente non altro , che un rozzo malconcio  legno , e deforme» liccome Ateneo ( 2 ) ne fa fede era il Simulacro di Latoua prello a quelli di Deio y  c per fitìfatta guilà ridevole, che al ibi vederlo  n’ ebbe a icoppiar dalle rifa quel Parmenilco di  Metaponto , che dopo 1 * ufeita dall’ antro di Tri-  ionio non avea rifo giammai. Quindi non ci ltu-  piremo altrimenti al fapere» che un breve defeo  attaccato ad una lunghi ifima pertica folle il Simu*  lacro del Sole venerato da que’ di Peonia ; e che  informi tronchi , maltagliati , e fenz' arte fodero  1 Numi degli antichi Germani » e de’ prilchi Galli , come ne allicura Lucano . ( 3 ) Molto mena  furem meraviglia in vedere queiti primi idolatrici  monumenti di legno più tolto , che d’ altra mate-  ria lavorati . Per poco che fiali nell’ erudizione  verfato » non può ignorarli » che i Simulacri pri-  mieri dell’ ancor giovane Idolatria materiale , giu-  lta il collume degli Orientali pattato nella Grecia »  e nel Lazio, furono quali comunemente d’ argil-  la, o di legno , a cui fuccedè ben prello il mar-  mo » quindi i metalli v e finalmente 1’ avorio .  Non lafcianci dubitarne i be' palli, che abbiamo   in   C O Lib. 43. (z) Mb. 5.   ( 3 ) Simulacraque moejla Deorum   Arte careni , caefisque extant informia truficis .  in Ifiaia ( i ) , in Geremia ( 2 ) in Ofiea (3), e  nel Libro della Sapienza ( 4 ) . Gli eleganti verfi  poi di Tibullo CìJ 1 non Ibi rapporto a quello  capo, ma tutta in generale confermano la mia pre-  fente opinione .   Non di legno però - ma di pietra in figura di  gran piramide , al dir di Pautania , fi* il Simula-  cro fiotto il nome di Apollo da’ Megarefi guarda-  to , e Umilmente una pietra fu la sì celebre Ve-  nere Pafia , il di cui Santuario tanta venerazione  rifico Uè non pur dall’ Ifiola di Cipro , ma dalla  Grecia tutta, e dall’ Alia minore. Venere Pafia,  che ha data occafione , e primo impullò al mio  fieri vere , quella fi a appunto , che ornai gli dia  compimento.   Il di lei Simulacro viene da Maflimo Tirio  ( 6 ) ad una piramide bianca paragonato . Noi  però più efatta ne prenderemo la detenzione da  Tacito ( 7 ) , le di cui parole nel fiuo nativo linguaggio mi fo lecito di produrre : Haud crtt lon-  gum initi a religionis , temyli fitum , formanti Dea 9  ncque alibi fic habetur , vaucis dijjerere. Simulacrum Dea non effigie fiumana continuus orbis , la -  tiore initio tenuem m ambitum , met a modo exurgens , C? ratio in obfcuro - Or di quefia Venere  Pafia noi coi noftri proprj occhi ne potremo facilmente rilevar Ja figura tutta appunto conforme   * alla   C o f. 29. ( 2) I. f 3 ) 4. 12, co «$•   Eleg. 1. lib. I.   O) Nam veneror, jèu Jìiyes habet defertus in agris ,  $eu vetits in trivio florida Certa lapis f  Eleg. io. lib. I..   Sed yatrii fervute lares , coluiflis CP idem  Curfarem veflros cum tener ante lares ;   Kec yudeat yrifios vos ejfe e fliyite faclos ,   Sic veteris JeJes incoluiflis evi .   T unc melius tenuere fidem , cum ytniyere teSÌ 9  l Stabat in exigua ligneus ade Q$us •   (d) Orat. 38. (7) Lib , 2. 54 Dissert. sull'Origine   alla defcrizione di Tacito. Balla oflervar tre Me**  daglie riportateci dal Patino ( i). La prima bat-  tuta dalla Città di Paflo a Drulo Celare ( 2 ) . La  feconda coniata da’ Cipriotti a Vefpalìano  La terza da’ Cipriotti Umilmente dedicata a Tra-  mano C4J • Anzi non l’ Itola lòia di Cipro, co-  me di lòpra toccai , e come attella , e compro-  va P eruditiffimo incomparabile Spanemio (5),  adorò la Venere Pafia . Il di lei culto propagolfi  ancora in altre Nazioni , e Città , le «juali perciò  lì fecero vanto di ornare col di lei Simulacro , e  Tempio i rovefci di lor medaglie . Fede ne fac-  cia la Medaglia di Adriano battuta da que’di Sardi  nell’ Afia minore, e riferita dal Sirmondo (< 5 ) , e  Umilmente un’ altra coniata da Pergameni fpet-  tante ad Euripilo prellò il citato Spanemio ( 7 ) ;  ed anche un’ antica Corniola prodotta dall’ Ago-  ltini , fenza accennare però, le Greca, o Roma-  na ( 8 _) . Ed io lòn di parere , che dal tempo , e  dagli Eruditi altri limili monumenti o fcoperti lì  fieno , o (coprire lì pollano dinotanti la venera-  zione dilatata, in che lì ebbe quella folle Palla  divinità, e infieme comprovanti la veridica deferii  zione , che del di Lei Simulacro Tacito ci rap-  prefenta . Debbo però confettare , che quanto ne*  monumenti addotti io riconol'co per vera ed el'at-  ta la delcrizione mentovata , mi lòrprende altret-  tanto il modo , con cui Tacito la conclude : Me-  t.r modo exurgens , ei dice , i? ratio in olj'curo . Pof-  fibile , che ad un Uom si erudito , quale fu Taci-  to, sì gran meraviglia facelle il mirar Venere Pafia  in figura di un cono , o di una piramide ? Non  dovea egli piuttollo da una tale figura defumere 1*  antichità di tal Simulacro , o almeno la derivazio-  ne di   C 1 J Imy. Roin. Numis . (*2 ) Ibi pag. 80.   C 3 )  (4) Ibi pag. J 3 o. ( $ ) De   Praeft. , t? Ufìi Numism. Dijf. 5. ) Colleg. del-  le Med. del Col. Chiaram. di Parigi . ( 7 ) Ibi .   C»J DiaL 5. pag. 176.    ne di una veturtilfima coltomanza ? Non dovea Ta-  pe re , che ne’ più rimoti tempi, e come Trogo di-  cea , ab origine rerum , altri Simulacri non ebbero  i Numi , che o pietre quadrate , o piramidi , od obe-  lifchi , o coni , o colonne di legno , e di fallo ?  Come ignorar potea il conico Simulacro d’ Apollo  in Megara , e del Sole in Ed e Ila , e gli obelifchi,  è le piramidi al Sole ideilo alzate in Egitto ? Come  gli ufeiron di mente i furti, o colonnette rozze di  legno , e le impolite pietre , che per di lui alfer-  zione rifeuoteano le adorazioni della Germania ?  Come sfuggirono alla di lui maflima erudizione le  due colonne porte a Giove nel Tempio d’ Ercole  in Tiro ; come le altre molte collocate nel Tempio  di Gadi ; come le due confecrate al Sole dal Re  Ferone nel di lui Tempio in Egitto? Tante co-  lonne infine fi J , con cui adombrar (i folevano  e Giove , e Giunone , e Bacco chiamato perciò   TUputiovios Colutnnarius , e Apollo detto Ayiftfs   Compitali , ed Ercole , e Marte , e Bellona , non do-  vevano farlo falire all’ origine delle cole , ai colto-  mi dell’antica, e primiera rozzezza, e deporre la  meraviglia circa la forma del Simulacro di Venere  Pafia ? Ma qual cofa Tacito fi penfaflè in quella Tua  fofpenfione, egli fel vegga, e noi non ce ne brighe-  remo altrimenti.   Raccoglieremo bensì le vele ad una Dillerta-  zione , che in vallo pelago trafeorfe ornai troppo  lungi. Voi, o dottiamo Sig. Conte, farete telfi-  monio o del Tuo felice tragitto, o del Ilio infaufto  naufragio ; e onorar dovrete o di compatimento i  fuoi rilicofi viaggi , o i luoi errori di correzione .  Se 1 amor proprio non mi fa velo al giudizio , ere.   c " e ^ della tratto avelie a qualche porto di  1 ufficiente probabilità 1 opinione da Voi propolla-  ™ l . \ c }°£ che i Simulacri più vernili delle pagane  Divinità follerò di quadrata, o di rotonda figura ,   o al- C O Ue^io Aìnetan. Qjiejì . lib.    3<5 Dissert. SuliTdolatria; (  o almeno tendente a rotonditi . Un più ralente  Piloto e di forze , e di tempo , e di finimenti più  agiato faprà condurla felicemente ad un porto di  fìcurezza . Quanto a me , fe altro non averti po-  tato ottenere , Tarò almeno contentiamo d avervi   f er alcun modo tellimoniata la mia. ubbidienza , alto pregio , in che tengo 1’ autorità voftra , e ij  voltro merito Angolare .   l'idi t prò lUtàe , ac Revino D. V. Domini co  Al archi one Mancinforte Epifcopo F aventino  Albertus Raccagni Farocbus Sanfli Antonini.  Fr. Angelus Maria Merenda Ordinis Predicato-  rum Sacra Scripturx LeElor , ac f^icartus Gg~  neralis SaaEli Offici* F aventi a .  In tale direzione, si riscontra la necessità di condurre la ricerca a un livello sem iotico-sem iosico, ricorrendo alla sem iotica di Peirce, e in particolare alla sua definizione di “interpretante iconico”, segno creativo capace di comprendere meglio ciò che è altro dall’identico, ciò che differisce dal segno “idolo”. Attraverso una semiotica dell’interpretazione, si cercherà quindi di spiegare teoricamente il funzionamento degli elementi che compongono un testo, per una comprensione del concetto di scrittura e le prospettive che questa propone per la costruzione di un approccio critico alla problematica della lettura del testo BACON, LE QUATTRO SPECIE DI IDOLI Bacon espone in queste pagine la sua teoria sugli idola (i pregiudizi) che occupano la mente umana e le rendono difficile “l’accesso alla verità”. Bacon, Novum Organon, Gli idoli e le false nozioni che penetrarono nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le menti umane in modo da rendere difficile l’accesso alla verità, ma addirittura (una volta che quest’accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia nella stessa instaurazione delle scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano, per quanto è possibile contro di essi. Quattro sono le specie degli idoli che assediano le menti umane. Per farci intendere abbiamo imposto loro dei nomi: chiameremo la prima specie idoli della tribú; la seconda idoli della spelonca; la terza idoli del mercato; la quarta idoli del teatro. Gli idoli della tribú sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribú o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso umano è la misura delle cose ché al contrario tutte le percezioni, sia del senso sia della mente, derivano dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. Rispetto ai raggi delle cose l’intelletto umano è simile a uno specchio disuguale che mescola la sua propria natura a quella delle cose e la deforma e la travisa.  XLII Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura in generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e della conservazione con gli altri, o della lettura di libri e dell’autorità di coloro che si onorano e si ammirano, o a causa della diversità delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo preoccupato e prevenuto o calmo ed equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta nei singoli individui) è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al caso. Perciò giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei loro mondi particolari e non nel piú grande mondo a tutti comune. Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del mercato a causa del commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi, ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione ingombra in molti modi l’intelletto. D’altra parte le definizioni o le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si provvidero e con le quali si protessero in certi casi, non sono in alcun modo servite di rimedio. Anzi le parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a controversie e a finzioni innumerevoli e vane.  XLIV Vi sono infine gli idoli che penetrano negli animi degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state ricevute o create come tante favole presentate sulla scena e recitate che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo solo dei sistemi filosofici che già abbiamo o delle antiche filosofie e delle antiche sètte perché è sempre possibile comporre e combinare moltissime altre favole dello stesso tipo: le cause di errori diversissimi possono essere infatti quasi comuni. Né abbiamo queste opinioni solo intorno alle filosofie universali, ma anche intorno a molti princípi e assiomi delle scienze che sono invalsi per tradizione, credulità e trascuratezza.     (Il pensiero di F. Bacon, a cura di P. Rossi, Loescher, Torino. The idol fixes one's gaze on itself ; the icon , for its part , demands that one go throughGrice: “Cattaneo’s philosophical background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his philosophical abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was at St. Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a ‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good in the study of Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni, onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo. Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, idolo, idol of the market place – bentham -- autorita, autoritarismo, positivismo di H. L. A. Hart, il concetto della legge, filosofia del linguaggio ordinario, scuola oxoniense di filosofia del linguaggio ordinario, il gruppo di giocco di Austin, il primo o vecchio gruppo di giocco di Austin al All Souls, giovedi notte; il nuovo gruppo di giocco di Austin sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco, giustizia, fairness, valore legale, valore morale, le legge e la morale, priorita della moralita sulla legalita, concetti di priorita, priorita evaluativa, neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico, positivismo pre-Kelsen: hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia della giurisprudenza italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini, Pinocchio, Foscolo, Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana, fizione italiana, prosa italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library. Cattaneo.

 

Grice e Catucci: l’implicatura conversazionale d’ego et alter, E ed A – i giocchi cooperativi – Meinong et al. teoria del valore -- l’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Grice. Filosofo italiano. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read profusely, expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian phenomenology of intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher, viz. eclectic, he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” --  Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via ‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri); Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed. Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri). Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed. Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival Wired di Milano,  e al Congresso Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di Estetica. Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora regolarmente con l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino, Festival Mi-To Settembre Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo filosofico-musicale per la Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it di Firenze, L'arte è un progetto? C. Estetica Elementare - L'esperienza del coro fra etica e tecnica C.-Prefazione/Postfazione book: Insieme. Canto, relazione e musica in gruppo - La storia dell'estetica come critica e come filosofia C. -AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) - Di cosa parliamo quando parliamo di teoria C. Cinque temi del moderno contemporaneo. Memoria, natura, energia, comunicazione, catastrofe - Bellezza C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Parole.  Il Kitsch: ieri, oggi, domani C. Riga - Aesthetics and Architecture Facing a Changing Society C. International Yearbook of Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) Introduzione a Foucault. Saggio, Trattato Scientifico  Imparare dalla Luna. Nuova edizione riveduta e ampliata C.  Il corpo e le forme. Note sul discorso spirituale nella filosofia e nell'arte C. Della materia spirituale dell'arte - On the spiritual matter of art - - Perché gli artisti nei luoghi del disastro C. -Terre in movimento - The Prison Beyond its Theory. Between Foucault's Militancy and Thought C.- Prison Architecture and Humans - Postfazione C. - Prefazione/Postfazione book: Qualcosa sull'architettura. Figure e pensieri nella composizione - Prefazione. Vite di architetture infami C. - Incompiute, o dei ruderi della contemporaneità - Potere e visibilità. Studi su Foucault C. Prefazione a L. Romagni, Strutture della composizione C. -  Strutture della composizione. Architettura e musica - - Presentazione. Leo Popper: l'etica e le forme C. Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di estetica) L'angelo della matematica C.  La vetrata artistica della Scuola di Matematica. Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - A roadmap toward the development of Sapienza Smart Campus Pagliaro; Mattoni; Gugliermetti; Bisegna, Fabio; Azzaro, Bartolomeo; Tomei, Francesco; Ca. Atto di convegno in volume conference: 16th International Conference on Environment and Electrical Engineering, EEEIC  (Florence Italy) book: EEEIC 2016 - International Conference on Environment and Electrical Engineering - Luce, Illuminazione, Illuminismo C. - I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani - L'opera d'arte e la sua ombra C.  L'estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo - (La linea del crimine. Foucault e la vita degli uomini infami C. AGALMA (-Roma: Meltemi -Roma: Castelvecchi, = Materia primordiale e Growing Design C.; Lucibello, ANANKE (Firenze: Alinea, Preliminari a un'estetica della plastica C.Plastic Days. Materiali e Design / Materials & Design - Antropomorfismo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Arte C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Einfühlung Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - (Sovrastruttura C. - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica Il nome del presente. The name of the present C. DOMUS (Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) Imparare dalla Luna C.- 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Imparare dalla Luna - Filosofia dell'eccedenza sensibile C. - 02a Capitolo o Articolo book: Vice Versa - La Gaia estetica C. - 02a Capitolo o Articolo book: Costellazioni estetiche: dalla storia alla neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - - Conversazione con S. Gregory, Paola; C. - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and Waste. No-Waste - La contingenza impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. C. - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie, esperienze, competenze - Metamorfosi: un'architettura dopo il postmoderno C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Autocostruzioni. O degli ultimi spazi del progetto - - Mission to Mars- C.- HORTUS (Roma: Facoltà di Architettura "Valle Giulia", universita' la "Sapienza" Direttore -Necessity and Beauty C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks and territory: new perspective in planning and organization -  Eyes Wide Shut. Architecture without Philosophy C. - 04b Atto di convegno in volume conference: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education (Patrasso - Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The Signifiance of Philosophy in Archtectural Education - Estetica della speranza C. - 02c Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio - "Reimparare a sognare". Note su sogno, immaginazione e politica in Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A partire da Valéry -Visione e dispersione. La regia architettonica Moretti Catucci, Stefano -  Atto di convegno in volume conference: Moretti architetto del Novecento (Facoltà di Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Moretti architetto del Novecento - Critica del contesto C. - 01a Articolo in rivista paper: PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ): LISt- Laboratorio Internazionale di Strategie editoriali,  -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura -Pescara: Sala Editore Pescara Pescara: Clua) Essere giusti con Marx C. - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx: paralleli e paradossi - La terza dimensione C. Articolo in rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata: Quodlibet, «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri di Karlheinz Stockhausen C. - 01a Articolo in rivista paper: ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin Venice Italy: "Des moustiques domestiques”: Notes on the Tautology of Visual Writing C. Atto di convegno in volume book: Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione dell’International Festival for Architecture and Media - Prolegomeni a un'architettura della relazione C. Capitolo o Articolo book: L'esplosione urbana - I generi musicali: una problematizzazione C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II, Comunicare e rappresentare - Senso e progetto. Il contributo dell’estetica C. - Capitolo o Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline - Il progetto di architettura come sintesi di discipline C.; Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato Scientifico  Il lavoro della dispersione C.- Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. - Introduzione a Foucault C. Tutto quello che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati, Giovanni; C.; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone -  Capitolo o Articolo book: Parlare di musica  Costruire, abitare, patire C. - Capitolo o Articolo book: Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - Elogio del parlare obliquo: la musica classica alla radio C. Parlare di musica - La proprietà intellettuale come problema estetico C. FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi) L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov C. GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, - Per una critica delle narrazioni urbane Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy: Gruppo Editoriale Faenza Editrice) Foucault filosofo dell’urbanismo C. Lo sguardo di Foucault - La cura di scrivere C. Atto di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno -La via dialogica dell’arte: i nuovi linguaggi urbani C. Atto di comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana) book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - Spartacus: i dilemmi della libertà Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista: «Gomorra» Dizionario di Estetica C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Il colosso senza immaginazione C. Osservatorio Nomade: immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea Il visibile e l’invisibile. Riflessioni sul potere in Foucault C.- 02a Capitolo o Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza - Un passato che non passa. Bachelard e la fine dell’abitare C. Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Trevi - Corridoi Transeuropei C. - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi- Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, La “natura” della natura umana Catucci, Stefano - Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e potere politico. - Estetica e Architettura C. Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali. Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero Insediativo - (Criticare l’estetica per criticare il presente C.Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Le Corbusier a Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Foucault: dalla novità storica all’estetica dell’esistenza C. Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma: DeriveApprodi La pensée picturale C.  Atto di convegno in volume conference: Colloque de Cerisy - Foucault: La littérature et les arts (Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts - Attraverso Velázquez: Foucault, Las Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il classico violato. Per un museo letterario- Tre versioni del misurare C. SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI CAMERINO) Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács C. - 03a Saggio, Trattato Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il senso; a partire da Lukács - L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan, Estetica dell'abitare C. Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica italiana - Spazi e maschere Catucci, Stefano - 06a Curatela  Ambiguità C. - 02d Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Poetica Catucci, Stefano - Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Architettura, teorie della C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Censura Ca. -Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Distruzione delle opere d'arte C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fenomenologica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fisiognomica C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Fotografia, teorie della C.  Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica Kitsch C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Marxista, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Musica, teorie della C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Opera d'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario Dizionario di Estetica - Originalità C/ Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Particolarità Catucci, Stefano Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Realismo C.-Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Retorica C. Voce di Enciclopedia  Dizionario book: Dizionario di Estetica - Rispecchiamento C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Ritmo C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Scientifica, estetica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Sociologia dell'arte C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Storicità C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Struttura C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - Strutturalista, estetica C. Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Terapie artistiche C. - Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Tipico C.Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Autenticità C.Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - Oggetto estetico C. -Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - - Estetica e politica C. Voce di Enciclopedia Dizionario book: Dizionario di Estetica -  Fra tempo e spazio: rassegna sul vuoto in musica C. GOMORRA (Roma: Meltemi-Roma: Castelvecchi Milano: Costa & Nolan) - Estetica della censura C. Capitolo o Articolo book: La cortina invisibile - Figures de l’art, figures de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács C. - 02a Capitolo o Articolo book: Life - L'etica e le forme C. Capitolo o Articolo book: Scritti di estetica - - Saggi di Estetica Catucci, Stefano - 06a Curatela  - Gli animali di Céline Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg & Sellier:via Andrea Doria 1Turin Italy:: tina.cesaro rosenbergesellier.it, Dall’estetica all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio» C.  Senso e storia dell'estetica - La filosofia critica di Husserl C. Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl - La fenomenologia negli Stati Uniti: metodo e fondazione C. Capitolo o Articolo book: Specchi americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F. Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis,  Bologna: CLUEB)  LA TEORIA COOPERATIVA Come accennato in precedenza, l’idea di gioco cooperativo `e stata introdotta da von Neumann e Morgenstern. Il contributo del loro libro `e fonda- mentale per aver reso lo studio dei giochi una disciplina sistematica, e per aver proposto un cambiamento radicale nel modo di studiare i problemi dell’economia, delle scienze politiche e di quelle sociali. Il metodo proposto consiste nel tradurre i problemi in giochi opportuni, nel trovare le soluzioni di questi con le tecniche sviluppate dalla teoria, e nel ritradurre le soluzioni trovate in termini di comportamenti economici ottimali. L’idea di GIOCO COOPERATIVO dall’esigenza di analizzare il comportamento razionale di agenti che interagiscono in situazioni non strettamente competitive. In tal 15Strategia dominata invece `e quella tale che, ne esiste un’altra che procura al giocatore maggiore utilit`a, qualunque cosa faccia l’altro. Una strategia dominata non pu`o far parte di un equilibrio di Nash. caso `e ragionevole pensare che i giocatori possano fare alleanze, formare coalizioni ecc. Ogni coalizione sar`a in grado poi di garantire una certa distribuzione di utilit`a all’interno dei suoi membri. Che cosa distingue IL GIOCO COOPERATIVO da quello non cooperativo? Il fatto che si ipotizzi la nascita delle coalizioni non significa che si suppone che i giocatori siano diversi, meno egoisti; le coalizioni sono uno strumento possibile per ottenere migliori risultati individuali, come nel caso non cooperativo. La differenza nei due approcci sta in un’altra cosa: secondo Harsanyi, con Nash, per l’Economia, un gioco `e definito cooperativo se GL’ACCORDI TRA I DUE GIOCATORI SONO VINCOLANTI. In caso contrario, il gioco `e non cooperativo. All’interno dei giochi cooperativi, la teoria distingue fra quelli d’utilit`a trasferibile e quelli d’utilit`a non trasferibile. Qui ci limitiamo a qualche esempio di gioco d’utlita trasferibile gi`a sufficiente comunque a introdurre le idee principali di questo approccio. Per definire un gioco cooperativo abbiamo bisogno dell’insieme N = {1, . . . , n} dei giocatori, e dal dato, per ogni A N, di un numero reale, denotato con v(A). “A N” rappresenta una possibile coalizione; “v(A)” rappresenta l’utilit`a, o in altri casi un costo, che la stessa `e in grado di garantirsi se i giocatori di A si alleano. V `e detta la funzione caratteristica del gioco. Il modo migliore di capire l’idea sottostante questa definizione `e di illustrarla con qualche esempio. Due persone sono interessate ad un bene che `e in possesso di una terza persona. Il giocatore 1, che possiede il bene, lo valuta meno di chi lo vuole comprare (altrimenti non c’`e situazione di interazione tra i tre). Fissiamo per esempio a 100 il valore che il possessore assegna al bene. Gli altri due, che chiamiamo rispettivamente 2 e 3, valutano il bene 200 e 300. Possiamo allora definire il gioco come N = {1,2,3}, e le coalizioni sono otto: {φ, {1}, {2}, {3}, {1, 2}, {1, 3}, {2, 3}, {1, 2, 3} = N}16. Possiamo inoltre porre v({1}) = 100, v({2}) = v({3}) = v({2, 3}) = 0, v({1, 2}) = 200, v({1,3} = v(N) = 30017. Consideriamo invece il caso di un compratore (giocatore 1) e due venditori dello stesso bene; la situazione pu`o essere descritta efficacemente ponendo v(A) = 1 se A = {1, 2}, {1, 3}, {1, 2, 3}, zero altrimenti. In questo caso, quando la funzione caratteristica v assume solo valori zero e uno, il gioco si chiama semplice, e v assume piu` il significato di indice di forza della coalizione (A `e coalizione vincente se e solo se v(A) = 1). Il gioco non cambia se al posto di 1 mettiamo un altro numero positivo. 16φ rappresenta l’insieme vuoto, cio`e la coalizione che non contiene giocatori. Anche se pu`o sembrare inutile, `e invece opportuno tenerla in considerazione; qualunque sia v, si assume che v(φ) = 0. 17 Perch ́e abbiamo definito in questo modo il gioco? Vediamo un paio di casi. Ad esempio, v({2,3}) = 0 perch ́e la coalizione {2,3} non possiede il bene, v({1,3}) = 300 perch ́e la coalizione {1, 3} possiede il bene, che valuta 300 (infatti non se ne priva per meno).  Esempio: La pista dell’aeroporto, la bancarotta, la societ`a per azioni). Gli Esempi 4, 5 e 6 sono anch’essi descrivibili come giochi cooperativi. Nel caso della pista dell’aeroporto, v rappresenta un costo e non un’utilit`a. E` naturale pensare che a una coalizione venga assegnato il costo della pista piu` lunga necessaria per le compagnie che formano la coalizione. Dunque si ha v({1}) = c1, v({2}) = c2, v({3}) = c3, v({1,2}) = c2, v({1,3}) = v({2,3}) = v(N) = c3. Il caso della bancarotta, anche se si intuisce facilmente che `e un problema analogo a quello dell’areoporto, `e un pochino piu` complicato, perch ́e non `e chiaro a priori che cosa una coalizione possa garantire per s ́e. Una stima molto prudente potrebbe essere quello che rimane dopo che tutti gli altri creditori sono stati pagati. Nel caso della societ`a per azioni, siamo in presenza di un gioco semplice, e daremo valore 1 a quelle coalizioni in grado da avere la maggioranza dei voti necessaria nei vari tipi di votazioni (semplice, qualificata ecc). Una generica soluzione di un gioco cooperativo con N = {1, 2, . . . , n} come insieme di giocatori `e un vettore ad n componenti, ciascuna delle quali `e un numero reale. Il significato dovrebbe essere chiaro: se (x1, x2, . . . , xn) `e tale vettore, allora xi `e l’utilit`a assegnata (o il costo, se v rappresenta dei costi) al giocatore i. Tanto per fare un esempio, nel caso dei due compratori e un ven- ditore, se proponessimo come soluzione (100,100,100) ci`o significherebbe che l’esito del gioco prevede un’utilit`a di 100 a testa per i tre18. Un concetto di soluzione invece rappresenta un modo per trovare vettori che soddisfino particolari propriet`a. Ad un gioco una soluzione pu`o associare un insieme grande di vettori, ad un altro nessun vettore, ad altri ancora un solo vettore. E` bene osservare che la soluzione in genere non `e interessata a quanto viene assegnato alle coalizioni, ma solo a quel che viene dato ai giocatori. Ancora una volta va ricordato che le coalizioni sono solo un mezzo che gli individui utilizzano per ottenere il meglio per se. L’idea di gioco cooperativo `e cos`ı generale da rendere necessaria l’introduzione di molti concetti di soluzione: qui accenniamo rapidamente ad alcuni fra i piu` importanti. Una soluzione deve per prima cosa essere un’imputazione, cio`e un vettore (x1, . . . , xn) tale che: 1. xi ≥ v({i}) per ogni i; 2. x1 +x2 +···+xn =v(N)19. SI RICHIEDE CIOE AD OGNI SOLUZIONE DI GODERE DELLE PROPRIETA DI *RAZIONALITA* INDIVIDUALE E DI EFFICIENZA COLLECTIVE. Ogni giocatore deve ricavare almeno quel che `e in grado di garantirsi da solo (altrimenti esce dal gioco), e tutto l’utile disponibile. Per il momento, non ci poniamo il problema se la suddivisione di utili proposta sia ragionevole. Vogliamo semplicemente capire che cosa significa in questo modello soluzione. Ad esempio sono imputazioni i vettori (100,100,100) nel gioco dei due compratori e un venditore  ( 13 , 13 , 31 ) nel gioco dei due venditori e un compratore, mentre in quest’ultimo non lo sono (0, 0, 0) e (1, −1, 1). va distribuito (e ovviamente non di piu`). Questa richiesta `e quindi da ritenere minimale. In realt`a, visto che le coalizioni sono possibili, sembra naturale richiedere che esse stesse gradiscano una distribuzione di utilit`a, altrimenti una parte dei giocatori potrebbe ritirarsi. Si arriva cos`ı ad uno dei concetti fondamentali di soluzione: il nucleo del gioco v `e l’insieme di quelle distribuzioni di utilit`a che nessuna coalizione ha interesse a rifiutare. D’altra parte, la coalizione A rifiuta quel che le viene proposto se la somma delle utilit`a proposte ai suoi giocatori `e inferiore al valore v(A) che, come detto, rappresenta quel che lei `e complessivamente in grado di procurarsi. Per capire meglio l’idea vediamo di caratterizzare il nucleo in un esempio. Quello dei due venditori e un compratore. Un elemento del nucleo `e un vettore x fatto da tre elementi, scriviamo x = (x1, x2, x3). Ora scriviamo i vincoli che questo vettore deve soddisfare:  x1 ≥0,x2 ≥0,x3 ≥0   x 1 + x 2 ≥ 1 x1 + x3 ≥ 1 .     x 2 + x 3 ≥ 0 x1 + x2 + x3 = 1. La prima riga impone le disequazioni relative alle coalizioni fatte dai singoli individui. Essi non accettano meno di zero, evidentemente. La seconda riga riguarda il vincolo imposto dalla coalizione {1, 2}; essa `e in gradi di garantirsi 1, quindi la somma di quel che viene proposto ai giocatori 1 e 2, cio`e x1 +x2, deve essere maggiore o uguale a 1. E cos`ı via, fino all’ultima coalizione N = {1, 2, 3}. Ora, confrontando l’ultima equazione con la seconda si vede che deve essere x3 ≤ 0, ma la prima dice x3 ≥ 0, quindi x3 = 0. Analogamente x2 = 0. Poich ́e la somma delle utilit`a deve essere uno, allora x1 = 1. Quindi, il nucleo consiste del solo vettore (1, 0, 0). Vediamo ora che cosa ci propone il nucleo in alcuni dei giochi. Nel gioco dei due compratori e un venditore, la soluzione proposta dal nucleo `e che il primo vende l’oggetto al terzo (che lo valuta di piu` rispetto al secondo), ad un prezzo che pu`o variare fra 200 e i 300 Euro (quindi il nucleo propone in questo caso piu` spartizioni possibili). Nel gioco invece in cui ci sono un compratore e due venditori dello stesso bene, come abbiamo visto il nucleo consiste nell’unico vettore (1,0,0), il che significa che il compratore ottiene il bene per nulla. E` interessante notare che, nel primo esempio, il ruolo del secondo giocatore, che pure alla fine non fa nulla, `e messo in evidenza dal fatto che il prezzo di vendita `e influenzato dalla sua presenza. D’altra parte questo `e logico. Se il terzo facesse un’offerta minore di 200 Euro, allora il secondo potrebbe a sua volta fare un’offerta superiore, fino a un massimo di 200 Euro. 20Anche se non si assume esplicitamente, l’ipotesi che v(N) ≥ v(A) per ogni A N `e verificata in quasi tutti i giochi interessanti. Anzi, spesso i giochi verificano l’ipotesi detta di superadditivit`a, che cio`e v(A B) ≥ v(A) + v(B) se A ∩ B = , che stabilisce che l’unione fa la forza. Questo fa s`ı che sia ragionevole assumere che i giocatori si metteranno d’accordo per spartirsi tutta la quantit`a v(N).   In questo caso, il nucleo propone tante soluzioni possibili. Nel secondo caso ci`o che indica il nucleo `e un fatto ben noto in economia, anche se qui espresso in maniera brutale: l’eccesso di offerta mette i venditori in balia del compratore. Infatti nel nucleo sta solo il vettore che assegna tutto al compratore, nulla ai venditori. Altre soluzioni propongono una soluzione diversa, che tiene conto del fatto che in qualche modo i due venditori non sono del tutto inutili. Un esempio ancora piu` interessante di come il nucleo possa proporre soluzioni bizzarre `e il famoso gioco dei guanti, di cui esistono infinite varianti. Una versione che ne mette bene in luce la stranezza `e quando si hanno 4 giocatori; il primo ed il secondo possiedono uno e due guanti sinistri, rispettivamente, mentre il terzo e quarto un destro ciascuno. Naturalmente lo scopo del gioco consiste nel formare paia di guanti. In questo caso il nucleo `e costituito dal solo vettore (0, 0, 1, 1), il che significa che i possessori di un guanto sinistro (guanti che sono in eccedenza) devono cedere il loro per nulla. Risultato che appare ancora piu` bizzarro se si pensa che il giocatore due potrebbe cambiare la situazione semplicemente eliminando un guanto in suo possesso. A dispetto del fatto che a volte le soluzioni proposte dal nucleo sembrino controintuitive, esso rappresenta un concetto di soluzione molto importante, soprattutto in applicazioni economiche. Per`o il nucleo presenta ancora un altro problema: `e facile verificare che in molti casi pu`o essere vuoto! L’esempio piu` semplice `e quando siamo in presenza di tre giocatori che si devono spartire a maggioranza una somma fissata (possiamo porre l’utilit`a della stessa uguale a 1). In tal caso, le coalizioni di due giocatori risultano vincenti (v(A) = 1) se il numero dei componenti la coalizione A `e almeno due, 0 altrimenti-ancora un gioco semplice- ed un calcolo immediato mostra che il nucleo `e vuoto21. Il che rende indispensabile la definizione di altre soluzioni, che possano suggerire possibili spartizioni anche nel caso in cui almeno una coalizione non sia soddisfatta della spartizione proposta. Una soluzione, che qui illustro solo a parole, considera, per ogni possibile imputazione, il grado di insoddisfazione e(A, x) della xi. L’imputazione x sta nel nucleo, ad esempio, se e solo se e(A, x) ≤ 0 per ogni A, cio`e se nessuna coalizione si lamenta. Se per`o il nucleo `e vuoto, allora qualunque sia la distribuzione proposta c’`e almeno una coalizione che si lamenta. Che fare in questo caso? Un’idea intelligente `e di considerare, per ogni imputazione x, il lamento della coalizione piu` sfavorita (cio`e di quella che si lamenta maggiormen- te), e poi scegliere quella distribuzione di utilit`a efficiente che minimizza questo lamento massimo. Se poi sono molte le distribuzioni che hanno questa propriet`a, fra queste si pu`o scegliere quelle che minimizzano il secondo massimo lamento, e cos`ı via. Si dimostra che in questo modo si arriva ad un’unica distribuzione di utilit`a, che viene chiamata il nucleolo del gioco. Nel gioco precedente dei compratori, il prezzo di vendita `e 250, e cio`e il prezzo 21Supponiamo (x1, x2, x3) sia un vettore del nucleo. Le condizioni x1 + x2 ≥ 1, x1 + x3 ≥ 1, x2 + x3 ≥ 1, imposte dalle coalizioni formate da due giocatori implicano, prendendo la loro somma, 2(x1 + x2 + x3) ≥ 3, che `e in contraddizione con la condizione di efficienza x1 + x2 + x3 = 1. Quindi il nucleo `e vuoto. coalizione A per la distribuzione dell’imputazione x: e(A, x) = v(A) − 􏰙 iA   intermedio fra quello minimo e quello massimo proposti dal nucleo; nel gioco di maggioranza a tre giocatori, propone l’imputazione ( 13 , 13 , 31 ): in questo caso ogni coalizione di due giocatori si lamenta 13 , e non `e difficile verificare che ogni distribuzione di utilit`a diversa farebbe lamentare di piu` una coalizione. I risul- tati precedenti non sono sorprendenti, dal momento che il nucleolo `e soluzione che gode di forti propriet`a di simmetria; purtroppo per`o anche il nucleolo pu`o dare risultati bizzarri: ad esempio, siccome appartiene al nucleo, purch ́e natu- ralmente questo non sia vuoto, nel gioco dei due venditori ed un compratore il nucleolo assegna tutto al compratore. Passiamo al terzo concetto di soluzione che qui consideriamo: si chiama indice di Shapley. La sua formula `e un po’ complicata, ad una prima lettura, ma non bisogna spaventarsi. Se poi non si capiscono i dettagli, come ha scritto Nash nella sua celebre tesi, questo non impedisce a chi vuole di capire lo stesso le idee. Dunque, intanto va osservato che questa soluzione, come il nucleolo, ha l’interessante propriet`a di assegnare un’unica distribuzione di utilit`a ad ogni giocatore. La indichiamo con S, in onore di Shapley. Risulta cos`ı definita, per un qualunque gioco v22: Si(v) = 􏰚 (a − 1)!(n − a)![v(A) − v(A \ {i})]. iAN n! L’indice di Shapley associa al giocatore i i contributi marginali23 che esso porta ad ogni coalizione, pesati secondo un certo coefficiente (per la coalizione A \ {i} esso `e (a−1)!(n−a)! ). Tale coefficiente ha un’interpretazione probabilistica inte- n!   ressante: supponendo che i giocatori decidano di trovarsi per giocare, in un certo luogo e ad una data ora, il coefficiente (a−1)!(n−a)! rappresenta la probabilit`a  n! 24 che i al suo arrivo trovi gli altri giocatori della coalizione A, e solo loro . Nel gioco di maggioranza semplice fra tre giocatori, l’indice di Shapley pro- pone ( 31 , 13 , 13 ), come il nucleolo. Nel gioco dei guanti, invece la soluzione `e ( 1 , 7 , 7 , 7 ). Vettore che presenta caratteristiche interessanti: tiene conto del 4 12 12 12 fatto che c’`e un eccesso di offerta di guanti sinistri, il che rende un po’ piu` debole degli altri il giocatore uno; il secondo ne risente relativamente, perch ́e sfrutta il fatto di poter soddisfare da solo la domanda dei giocatori col guanto destro. Questo mostra che il valore tiene conto di altri aspetti, ignorati dal nucleo. L’indice di Shapley ha applicazioni importanti anche nei giochi semplici. Come esempio, si pu`o pensare all’analisi della composizione di un Parlamento, potrebbe essere il Parlamento Europeo, o il Congresso negli Stati Uniti. Il problema fondamentale in questi casi `e come ripartire i seggi fra i vari stati. Tutti i metodi di ripartizione dei seggi hanno dei difetti: esiste persino un celebre risultato che lo afferma: si tratta del teorema di Arrow. Data una coalizione A, indicheremo con a la sua cardinalit`a, cio`e il numero dei giocatori che formano la coalizione A. 23Il contributo marginale che il giocatore i porta alla coalizione C `e la quantit`a v(C {i}) − v(C). Chiaramente pu`o essere interpretato come l’apporto che il giocatore porta alla coalizione. 24Assumendo equiprobabile l’ordine d’arrivo dei giocatori. per l’Economia), forse il piu` celebre di tutte le Scienze Sociali. Il valore Shapley `e quindi uno dei modi possibili per valutare il potere dei giocatori in un gioco. Per concludere, ecco la risposta che d`a l’indice di Shapley al problema di come suddividere le spese per la costruzione della pista dell’aeroporto (Esempi 4 e 12): il primo paga 13c1, il secondo 12c2 − 16c1, il terzo c3 − 16c1 − 12c2. Detto cos`ı non sembra molto significativo ma, per prima cosa `e utile osservare che la somma dei tre pagamenti fa proprio c3, il che mostra su un esempio quel che `e vero sempre, e cio`e che l’indice `e efficiente; poi, e questo `e molto interessante, il risultato, ha la seguente interpretazione molto naturale: il primo, che da solo spenderebbe c1, divide questa spesa equamente con gli altri due, che usufrui- scono dello stesso servizio. Il secondo chilometro porta un costo aggiuntivo di c2 − c1: questa spesa viene equamente divisa tra gli altri due che utilizzano la pista. Il resto che manca (c3 − c2) infine `e pagato dall’unico utente che ha bisogno del terzo chilometro. Concludo questo paragrafo riprendendo un concetto gi`a espresso: il fatto che esistano tante soluzioni per i giochi cooperativi non deve essere considerato sintomo di confusione. La variet`a di situazioni che vengono descritti come gioco cooperativo impone, in un certo senso, che si considerino diverse soluzioni possibili. Sta a chi utilizza questi modelli scegliere la soluzione piu` adatta. E nessuna soluzione `e adatta ad ogni gioco: per esempio l’indice di Shapley per il gioco del venditore e dei due compratori `e ( 650 , 50 , 200 ), cui sembra difficile dare un 333 significato sensato. Per questo le varie soluzioni vengono caratterizzate da pro- priet`a che servono a descriverle: abbiamo ad esempio ricordato che l’indice di Shapley ed il nucleolo godono di propriet`a di simmetria, il che significa che non privilegiano alcuni giocatori rispetto ad altri.Stefano Catucci. Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della conversazione; estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie, rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca, Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica, estetica dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library. Catucci.

 

Grice e Catulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Ccombatte a Numanzia sotto Scipione Emiliano l'Affricano minore e così fu accolto nel suo circolo. C. e console con Mario e partecipa con lui alla vittoria di Vercelli sui cimbri. Sorse allora fra loro una mutua gelosia che provoca l’implacabile inimicizia di Mario la quale costrinse C., che era stato dalla parte del Senato, a darsi la morte col veleno per sottrarsi alla condanna capitale che lo attende.  Compose epigrammi latini, un liber de consulatu et de rebus gestis suis, che CICERONE loda al pari dei suoi discorsi. Gaio Lutazio Catulo.Catulo.

 

Grice e Catulo: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A member of the Porch and a tutor of Antonino. Cinna Catulo. Catulo.

 

Grice e Cavalcanti: l’implicatura conversazionale del sìnolo degl’amanti -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an Aristotelian, but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or ‘amore,’ as the Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’ is confused, but interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce stile, come di preziosa veste, sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere). Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno. Ritratto di C., in Rime. Figlio di Cavalcante dei C., nacque in una nobile famiglia guelfa di parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente posizione sociale a Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel Consiglio generale al Comune di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e miscredente! Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un sonetto.  Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l'amico, nonché maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a nuovi scontri. Si reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai” e composto durante l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue condizioni di salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio forzato d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso e difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”. Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.  La sua personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti. Il gentile figlio di Cavalcante C., nobile cavaliere e cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è paragonabile a quella di Alighieri, con la importante differenza del carattere laico.  Noto per il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf. X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua speculazione filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio non e. Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me prega” -- certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico -- di tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di correnti radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui compiuto, diventa un emblema della leggerezza.  L'episodio figura anche nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi mistica.  La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di C. è, nei sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi  Quadro di Johann Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo antenato C.. I temi della sua opera sono quelli cari al stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto “Me prega” è incentrata sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La concezione filosofica su cui si basa è l'aristotelismo radicale che sostene l’eternità e l'incorruttibilità dell'anima separata dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti, solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta – anima/corpo entelechia. Si deduce che, quando l'amore colpisce l’anima, la squarcia a e la devasta, compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima inferiore vegetativa – L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza dell'animo che, destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente spettatore della devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato, avvolto come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si consuma nell'animo dell'amante.  Questa complessissima concezione filosofica permea la poesia ma senza comprometterne la raffinatezza o superfizialita letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro dell’amante e l’amato che conduce sempre, ed al contrario che in Guinizzelli, al dolore, all'angoscia kierkegaardiana, e al desiderio di morire. La opera dell’amore di Cavalcanti possiede un accento di vivo dolore riferio spesso al corpo dell’amante.  C. e un fine filosofo –  scrive Boccaccio: lo miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci resta nulla di sue saggistica filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente scritte.  Il poetare di C., dal ritmo soave e leggero è di una grande sapienza retorica.  I versi di C. possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di spezzettature, pause, inversioni sintattiche.  Cavalcanti: la poetica e lo Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza).  “Species intelligibilis”, C.laico e le origini della poesia italiana, Alessandria: Edizioni dell'Orso); C. auctoritas”; C. laico; La felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); C. (Torino, Einaudi); C.: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso); C.: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma, L'Asino d'Oro,. Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli). Dizionario biografico degli italiani; Il controverso pellegrinaggio Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano); La società letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama o, meglio, l’habitus di filosofo C. lo deve essenzialmente ad una sua poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per i contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore C. ce l’ha già fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione, tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza, mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido, paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a C., egli afferma che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, C. ci dice che l’amore si insedia nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali, ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per C., appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto, appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo. Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine. Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. C. ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta, infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che C. mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata, ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che C. intende, dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, C. ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è felice quando realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita secondo ragione. C., dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità.  sìnolo s. m. [dal gr. σύνολον, comp. di σύν«con» e ὅλος «tutto»]. – Nel linguaggio filos., termine aristotelico che designa la concreta sostanza (v. sostanza, n. 1 a), concepita come sintesi di materia (ciò che è mera potenza) e forma (ciò che porta all’atto la potenzialità della materia). Alighieri sends out among the best known Italian  poets a sonnet asking interpretation of a dream. The god of love,  so it seemed, had come carrying Beatrice asleep, and had fed her  with Dante's own heart, and had then departed weeping.   Several poets answered. One, Dante of Maiano, suggested as a  probable solution of this, and other such distressing visions, a dose  of salts ; the others fell in with Dante's mood and answered seri-  ously. Of their various interpretations that which best pleased  Dante, though not quite satisfied him, was C.’s  " And this," wrote Dante later in the New Life, " was, as it were,  the beginning of the friendship between him and me, when he knew  that I was he who had sent it (the sonnet) to him."   C.s interpretation was in an important particular ambiguous.  Love, he wrote, fed your heart to your lady, seeing that "vostra donna  la morte chedea" To understand this clause as meaning " Death  claimed your lady" is natural, and would make the interpretation  interestingly prophetic; but, whether or not this reading might be  justified symbolically, Dante himself forbids it. For, in spite of his  pleasure in his " first friend's " explanation of the dream, he added :  " The true meaning of this dream was not then seen by any one, but  now it is plain to the simplest." It was easy for him after the event  to read prophecy of Beatrice's death into the dream ; but he expressly  denies to Guido among the rest the prescience. We are bound,  therefore, to take as the interpreter's meaning that there was malice  prepense in the cannibal appetite of the sleeping lady, that she  claimed the death of her servant's heart. No wonder the love god  wept as he carried her off sated !   Irreverent though it be, one thinks of The Vampire of Kipling.  For Guido the gentle Beatrice was as "the woman who couldn't  understand," sucking, asleep, in a sort of diabolical innocence, the  life blood, literally eating the heart, out of her helpless victim. And  Dante, the lover, the victim, approves the picture !   Of course the gruesomeness of this symbolism may be explained  away as merely a conceitfully emphatic reassertion of the ancient  fancy that a lover's heart is no longer his own, but has passed into  the custody of his mistress. Only, the dream then and its interpre-  tation would indeed be a much ado about nothing. And why, at so  customary a happening, should love weep? In fact, Guido's thought  cuts deeper, and is, I venture to urge, not so remote, in a sense,  from the thought underlying The Vampire. It is The Vampire uplifted  into the more tenuous, yet.no less intense, atmosphere of mysticism.   Before attempting to let in light directly upon this dim utterance  it is expedient to recall certain facts in Guido's life and personality.   " Cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento alio studio " —  so Guido is introduced into the Florentine Chronicle of Dino Compagni,  who knew him personally. Guido could not have been much over  twenty-five when, at the death of his father, his elder brother being  in orders, he became head and champion of one of the two or three  most powerful and aristocratic families in the republic. For gen-  erations the Cavalcanti had been leaders in the state, haughtily  contemptuous of the mere people, yet fierce partisans of civic inde-  pendence against those who were willing to sacrifice this for the  dream of a " Greater Italy " united under a revivified Emperor of the  West. To this great feud and to the lesser local feuds which grew  out of it Guido may be said to have been a predestined, yet mostly  a willing, sacrifice. He was born into the feud ; he lived his life  long in the heat of it ; it married him ; it perhaps lost him his best  friend ; it certainly killed him before his time.   It married him. In 1267, a vear a *ter the decisive battle of Bene-  vento, when the last hope of the Imperialists, the Ghibellines, fell  with Manfred, in Florence an attempt was made towards permanent  peace by marrying together certain sons and daughters of victors  and vanquished. Among the rest C. was wedded, or  then more likely betrothed, — for he could not have been more than  fifteen, — to Bice, daughter of the Ghibelline leader, the Florentine  " Coriolanus," Farinata degli Uberti. Seven years before Farinata  had "painted the Arbia red" with the blood of Florentine Guelphs  at Monteaperti; and it had been a kinsman of Guido who com-  manded the Guelphs on that disastrous day. We do not know how  this real " Capulet-Montague " match turned out, — only that Monna  Bice bore children to her husband and outlived him many years,  and that the peace which their union, among others, was intended to  effect did not come to pass.   On the contrary the great Guelph families, in secure  possession of the city, soon quarreled, even connived against each  other with the ever-ready Ghibelline exiles, or with popular dema-  gogues, so great was their common jealousy. Meanwhile, during  the distraction of the nobles, the middle classes had been prosper-  ing ; and coming at last to feel their strength and the weakness of  those above them, they rebelled and crushed the aristocrats.  In the first insolence of triumph they excluded the nobles abso-  lutely from public office, but two years later conceded eligibility to  such nobles as would join one of the Arti, or trades unions. This  virtual abdication of caste C. refused to make. In  vain good easy Dino pleaded with him. I am ever singing your  praises," he wrote in a kindly sonnet, " telling folks how wise you are,  and brave and strong, skilled to wield and ward the sword, and how  compact with sifted learning your mind is, and how you can run and  leap and outlast the best. Nor is there lacking you high birth  nor wealth ... in fine, the one thing wanting to give scope to all  these gifts and powers is a mere name.   " Ahi! com saresti stato om mercadiere! "   Now almost certainly some generations back the C. had  been in trade, and had made their fortune in trade, but latterly it had  pleased them to entertain a genealogy reaching royally back into  Germany and descending into Italy with Charlemagne's baronage.  To traverse this pleasing legend with the gross title "om merca-  diere," tradesman, was out of the question : Guido declared himself  irreconcilable.   Meanwhile Dante, unfettered by a legend or a temperament,  had accepted the situation even cordially, and was taking active  part in the councils of the new bourgeois regime. That Guido must  have regarded his friend's secession with disgust seems natural. It  was worse than an offense against party; it was an offense against  caste. " Uomo vertudioso in molte cose, se non ch'egli era troppo  tenero e stizzozo," writes Giovanni Villani of Guido. Fastidious,  exclusive, thin-skinned, choleric, Guido was just the man to feel this  consorting of his friend with vulgar political upstarts incompatible  with their own intimacy. And the matter was made worse by its  open denial of their poetic profession of faith in the " cor gentile."  This vulgar folk was that " fango," that human " mud " of which  Guinizelli had written :   Fere lo sole il fango tutto'l giorno,  Vile riman . . .   how might the " gentle heart " mix itself with this irredeemable  "mud" and be not defiled? So Guido addressed to his friend a  sonnet at once haughty and tender — like Guido himself: 1   lo vengo il giorno a te infinite volte  e trovoti pensar troppo vilmente :  allor mi dol de la gentil tua mente  e d'assai tue virtu che ti son tolte.   Solevanti spiacer persone molte,  tuttor fuggivi la noiosa gente,  di me parlavi si coralemente  che tutte le tue rime avei ricolte.   Or non ardisco per la vil tua vita,   far mostramento che tu' dir mi piaccia,  ne vengo 'n guisa a te che tu mi veggi.   Se '1 presente sonetto spesso leggi  lo spirito noioso che ti caccia  si partira da Panima invilita. 2   1 1 believe that Lamma, in his Questioni Dante sche, Bologna, is the  first to propose this construction of the famous " reproach." It seems to me the  best of all.   2 1 come to thee infinite times a day  And find thee thinking too unworthily :  Then for thy gentle mind it grieveth me,  And for thy talents all thus thrown away.  Whether the two friends again came together in life is not known.  The next situation in which we hear of them is tragic. Dante is sit-  ting among his " first friend's " judges ; Guido is condemned to exile,  and goes — in effect — to his death.   Under the new bourgeois rule civic disorders rather increased than  otherwise. Prime mover of discord was the Florentine " Catiline," as  Dino calls him, Corso Donati. Somewhat ineffectually opposing his  self-seeking machinations were the parvenu Cerchi, powerful only  through wealth and the popularity of their cause. With these also  stood Guido. Hatred, no less than misfortune, makes strange bed-  fellows ; and the hatred between Guido and Corso was intense. Each  had sought the other's life : Corso meanly, by hired assassins ; Guido  openly, in the public street, by his own hand. Violence followed  violence ; the number of factionaries increased, until at last the city Priors determined to expel the leaders of both parties. Guido  was conspicuous among these leaders ; Dante, as has been said, among  these Priors. The place of exile, Sarzana, proved to be pestilent with  fever ; and although Guido and the Cerchi, less culpable than Corso,  were recalled within the year, it was too late. A few months afterward, Guido died. " E fu gran  dommaggio" wrote Dino.  It was a strange preparation for "gentle and gracious rhymes  of love," — this short, tumultuous, hate-driven career. Yet there is  but one direct echo of the feudist in all Guido's verse, — a sonnet  to a kinsman, Nerone C.i. Nerone had made Florence too     To flee the vulgar herd was once thy way,  To bar the many from thine amity ;  Of me thou spakest then so cordially  When thou hadst set thy verse in full array.   But now I dare not, so thy life is base,   Make manifest that I approve thine art,  Nor come to thee so thou mayst see my face.   Yet if this sonnet thou wilt take to heart,   The perverse spirit leading thee this chase  Out of thy soul polluted shall depart. hot for the rival Buondelmonti, and Guido hails him with ironical  deprecation.   Novelle ti so dire, odi, Nerone,   che' Bondelmonti treman di paura,   e tutt* i fiorentin' no li assicura,   udendo dir che tu a* cor di leone.   E piu treman di te che d' un dragone  veggendo la tua faccia, ch* e si dura  che no la riterria ponte ne mura  se non la tomba del re faraone.   De ! com' tu fai grandissimo peccato  si alto sangue voler discacciare,  che tutti vanno via sanza ritegno.   Ma ben e ver che ti largar lo pegno,  di che potrai V anima salvare  se fossi paziente del mercato. Guido's disdainful temper both piqued and puzzled his townsfolk.  Sacchetti's anecdote of the Florentine small boy who, having slyly  nailed Guido's gown to his bench, then teased him until the irate  gentleman tried — naturally to his discomfiture — to chase him, has   1 News have I for thee, Nero, in thine ear.   They of the Buondelmonte quake with dread,  Nor by all Florence may be comforted,  For that thou hast a lion's heart they hear.   And more than any dragon thee they fear,   For looking on thy face they are as dead :  Bastion nor bridge against it stands in stead,  Nor less than Pharaoh's grave were barrier.   Marry ! but thou hast done a wicked thing,   Having the heart to scatter such high blood,  For without let now one and all they flee.   And 'sooth, a truce-bait too they proffered thee,  So that thy soul might still be with the Good,  Hadst but had stomach for the bargaining.   For the first quatrain of this sonnet I have slightly altered Rossetti's translation.  In the rest a mistaken understanding of the sonnet as if addressed to the pope  has misled him. 2 // aVm 53^     its point in a very human satisfaction at the scorner scorned. Boc-  caccio's novella 1 is more significant, illustrating vividly, if perhaps  by a fictitious occurrence only, the subtle mingling of awe and defi-  ance which Guido inspired. Boccaccio's " character " of Guido is a  eulogy. " He was one of the best thinkers (Joici) in the world and  an accomplished lay philosopher (filosofo naturale), . . . and withal a  most engaging, elegant, and affable gentleman, easily first in what-  ever he undertook, and in all that befitted his rank." This character,  together with the mood of tragic doubt upon which the point of Boccaccio's narrative turns, inevitably, if tritely, brings to mind Ophelia's  character of Hamlet :   The courtier's, soldier's, scholar's eye, tongue, sword ;  The expectancy and rose of the fair state,  The glass of fashion and the mould of form,  The observed of all observers. . . .   But, if we may still trust Boccaccio, " that noble and most sovereign  reason " of Guido was also " out of tune and harsh " with scrupulous  doubt ; " so that lost in speculation, he became abstracted from men.  And since he held somewhat to the opinion of the Epicureans, gossip  among the vulgar had it that these speculations of his only went to  establish, if established it might be, that there was no God."   BOCCACCIO (si veda) does not call Guido an atheist ; that was mere vulgar  gossip. He does not even declare him a convinced Epicurean, one  of those who with his own father   . . . P anima col corpo morta fanno.   Boccaccio's charge is qualified : " he held somewhat to the opinion  of the Epicureans " {egli alquanto tmea della opinione degli Epicurj).  Dante's commentator, indeed, Benvenuto da Imola, is more cate-  gorical and extreme : " Errorem, quern pater habebat ex ignorantia,  ipse (Guido) conabatur defendere per scientiam." Benvenuto is even  remoter in time, however, than Boccaccio ; and his phrasing suggests  at least a mere perpetuation of that vulgar gossip which Boccaccio con-  temptuously records. But can we trust Boccaccio's own testimony?  At least there is no antecedent improbability. Skepticism was  common, especially in the highly educated class to which Guido (Decam.) belonged ; and it was not unnatural at any rate for him to weigh  carefully an opinion held by his own father. Again, there is noth-  ing in either his life or writings to indicate an active faith. Much  indeed has been made of his " pilgrimage " to the shrine of St. James  at Compostella; but the mood of this was so little serious that a  pretty face at Toulouse was enough to change his intention. The  ironical sonnet of Muscia of Siena is a hint that his contemporaries  could not take him very seriously as a pious pilgrim; and Muscia  stresses Guido's excuse for breaking his supposed vow that there was  no vow in the case — " non v' era botio" Guido may have started in  a moment of reaction from his doubt — does not doubt itself imply  a wavering will ? He may have left Florence as a matter of prudence  — Corso tried to have him assassinated on the way as it was. As  for his writings, these, considering the intimate theological associa-  tions of the school of Guinizelli, are noticeably barren of religious  feeling or phrase ; and he certainly scandalized the worthy, if narrow,  Orlandi by his jesting sonnet about the thaumaturgic shrine of "my  Lady." The hypothetical confirmation of Guido's skepticism, on the  other hand, in his "disdain for Virgil, ,, mentioned by Dante in his  answer to the elder Cavalcanti's question 1 why Dante's "first friend "  had not accompanied him, has beendiscredited after twenty years of  support by its own proposer, D'Ovidio. The passage is, to be sure,  still a moot question ; and D'Ovidio, even in the zeal of his recanta-  tion, still admits the allegorical taking of it to be plausible as a sec-  ondary intention on Dante's part. In any case, even waiving the  confirmation, the tradition of Guido's skepticism is not impugned ; and  in view of the persistent tradition, and of the antecedent probability  in its favor, the burden of disproof would seem to rest on those who  reject the tradition. Meanwhile, I propose to test the credibility of  the tradition by assuming it. If the assumption proves to be a factor  in a coherent and credible interpretation of Guido's poetry, the credi-  bility of the assumption proportionately increases. The argument  is of course a circle, but I think not a vicious circle.   There is also another tradition, which happens likewise to be sub-  sidiary to the same end. As the one tradition charges Guido with  unfaith in religion, so the other charges him with faithlessness in love.   i Inf., X, 60.   Hewlett, in his Masque of Dead Florentines,  has seized upon this supposed fickleness of Guido as Guido's char-  acteristic trait. Guido is made to say :   My way was best.  From lip to lip I past, from grove to grove :  I am like Florence ; they call me Light o' Love.   I am dubious indeed about that literal criticism which surmises a  " family skeleton " in every locked sonnet. Heine assuredly reckoned  without his Scholar when he complained :   Diese Welt glaubt nicht an Flammen,  Und sie nimmt's fur Poesie.   When Guido writes a sonnet describing how Love had wounded him  with three arrows, — Beauty, Desire, Hope of Grace, — it is hardly fair  for Rossetti to entitle his own translation He speaks of a third love  of his. Rossetti the scholar should have known better. Of course  Guido is simply copying a conceit from the Romance of the Rose : the  three arrows are three arrows from the eyes of one lady, not of three  ladies. Again, it is almost worse when poor Guido essays a pretty  pastourelle, which is by definition a gallant adventure between a pass-  ing knight and a shepherdess, to discuss the " peccadillo " in a solemn  footnote ! Yet Rossetti, himself a poet, does so. Nay, Guido's latest  learned editor, Signor Rivalta, speaks 1 of his singing "anche i suoi  desideri meno puri e piu umani come nella ballata :   In un boschetto trovai pasturella . . ."   This ballata is the pastourelle in question. Stifl, waiving such pseudo-  revelations of a stethoscopic criticism, there are, considering the  meagerness of Guido\s poetical remains, hints enough besides the  mention of several ladies — Mandetta, Pinella, and by, inference her  whom Dante calls Giovanna — to accept with discretion sober Guido  Orlandi's perhaps malicious insinuation, when he inquires of C. concerning the nature, the effects, the virtues of Love :   Io ne domando voi, Guido, di lui :  odo che molto usate in la sua corte ;  Le Rime di C. Bologna. and even the cruder implication in Orlandi's boast of his chaster mind :   Io per lung' uso disusai lo primo  amor carnale : non tangio nel limo.   Reckless feudist, unbeliever, " light o' love," squire of dames, pro-  found thinker, gracious gentleman — a perplexing motley of a man;  it is no wonder that his poetry, reflecting himself, more easily with  its many-faceted light dazzles rather than illumines the understand-  ing. In addition, one has to contend in his more doctrinal pieces,  especially in the famous canzone of love, with a rigorous scholastic  terminology dovetailed into a most intricate metrical schema, and with  a text at the best corrupt. In spots Guido — as we have him — is  as hopeless as Persius; yet we may waive these and still venture  upon a general interpretation.   In general, Guido's love poems hinge upon two parallel but opposite  moods, — a radiant mood of worshipful admiration of his lady, a tragic  mood of despair wrought in him by his love of her. His sight of  her is a rapture, as in the most magnificent of his sonnets, beginning  " Chi e questa che ven ":   Chi e questa che ven ch' ogn' om la mira  e fa tremar di chiaritate V a're,  e mena seco amor si che parlare  null' omo pote, ma ciascun sospira?   O Deo, che sembra quando li occhi gira   dica '1 Amor, ch' i' no '1 savria contare :   cotanto d' umilta donna mi pare,   ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.   Non si poria contar la sua piagenza,   ch' a lei s' inchina ogni gentil virtute,  e la beltate per sua dea la mostra.   * Non f u si alta gia la mente nostra   e non si pose in noi tanta salute,   che propriamente n' aviam canoscenza. 1   1 Lo! who is this which cometh in men's eyes  And maketh tremulously bright the air,  And with her bringeth love so that none there  Might speak aloud, albeit each one sighs ? The sonnet is a superb tribute ; but it is also more. It contains,  as I conceive, the pivotal idea in Guido's philosophy of love, —  namely, in the lines describing his mistress as   Lady of Meekness such, that by compare  All others as of Wrath I recognize,  (cotanto d* umilta donna mi pare,  ch' ogn' altra ver di lei i' la chiam' ira.)   Ira . . . umilta : wrath . . . meekness — the antithesis dominates  Guido's thought. Wrath is in his vocabulary the concomitant of  imperfection, of desire ; meekness the concomitant of perfection, of  peace. He, the lover, is therefore in a state of wrath ; she, the  lovable, in a state of meekness, —   Quiet she, he passion-rent.   The identification of passionate love with a state of wrath is fun-  damental in Guido's philosophy. It is the germinal idea of the  doctrinal canzone beginning " Donna mi prega." In answer to the  query as to the where and whence of the passion —   La ove si posa e chi lo fa creare —  he declares that   In quella parte dove sta memora   prende suo stato, si formato come  diaffan da lume, — d'una scuritate  la qual da Marte vene e fa dimora. 1   " In that part where memory is love has its being ; and, even as light  enters into an object to make it diaphanous, so there enters into the   Dear God, what seemeth if she turn her eyes  Let Love's self say, for I in no wise dare :  Lady of Meekness such, that by compare  All others as of Wrath I recognize.   Words might not body forth her excellence,  For unto her inclineth all sweet merit,  Beauty in her hath its divinity.   Nor was our understanding of degree,  Nor had abode in us so blest a spirit,  As might thereof have meet intelligence.  1 vv. 15-18. I use here as elsewhere the edition of Ercole Rival ta, Bologna, 1902.  constitution of love a dark ray from Mars, which abides." Now Dante  conceives love as an emanation from the star of the third heaven, Venus,  along a bright ray : " I say then that this spirit (i.e. of love) comes  upon the * rays of the star ' (i.e. of the third heaven, Venus), because  you are to know that the rays of each heaven are the path whereby  their virtue descends upon things that are here below. And inas-  much as rays are no other than the shining which cometh from the  source of the light through the air even to the thing enlightened, and  the light is only in that part where the star is, because the rest of the  heaven is diaphanous (that is transparent), I say not that this ' spirit/  to wit this thought, cometh from their heaven in its totality but from  their star. Which star, by reason of nobility in them who move it, is  of so great virtue that it has extreme power upon our souls and upon  other affairs of ours," etc. 1 So Dante. Guido, on the other hand,  while accepting the notion of love as an emanation, holds the emanation to be rather from the star of the fifth heaven, Mars, along a dark  ray. The power over the soul of this star is no less extreme than  that of Venus; only it is, in a sense, a power of darkness rather than  of light. It may strike at life itself —   Di sua potenza segue spesso morte. The passion which its influence excites passes all normal bounds in  any case, destroying all healthful equilibrium :   L'esser e quando lo voler e tan to  ch' oltra misura di natura torna:  poi non s' adorna di riposo mai.  Move cangiando color riso e pianto  e la figura con paura stoma. . . . Finally, — and here we reach the gist of the matter, — the influ-  ence of the choleric planet engenders sighs and fiery wrath in the  Conv.. (Wicksteed's translation.)   2 It has its being when the passionate will   Beyond all measure of natural pleasure goes :  Then with repose unblest forever, starts  Laughter and tears, aye changing color still,  And on the face leaves pallid trace of woes.  lover, impotent to reach the ever-receding goal of his desire (non   fermato loco):   La nova qualita move sospiri   e vol ch' om miri in non fermato loco   destandos' ira, la qual manda foco.This strangely pessimistic reading of love seems to have struck at  least one of Guido's contemporaries with indignant surprise, not only  at the apparent slight upon love, but also at the silence seeming to  give assent of other poets, especially of Dante. Cecco d'Ascoli, in his  Acerba, iii, 1, denies that so sweet a thing as love could emanate  from the planet Mars, seeing that from that planet rather " proceeds  violence with wrath " (procede Vimpeto con Fire) ; wherefore :   Errando scrisse C. . . .  qui ben mi sdegna lo tacer di Danti.   In fact, Dante, in the sonnet in the sixteenth chapter of the New Life,  apparently alludes sympathetically to Guido's dark rays of love —   Spesse fiate vegnommi a la mente   l'oscure qualita ch' Amor mi dona —   and proceeds to describe, though not by this name, just such a  " state of wrath " in himself as Guido believes inseparable from love.  With Dante, of course, the mood is but passing. For him love is  in its essence a beneficent power.   For Guido also it might seem that this tragic wrath of desire is  not incurable. There is a power in meekness to overcome wrath  and to subdue wrath also to meekness. And the meek one is  impelled to exercise this power, to confer this boon, by pity for the  one suffering in wrath. It is the failure to follow this blessed  impulse for which Guido reproaches his lady in the octave of the  sonnet beginning " Un amoroso sguardo," when he says that she is one   . . . for whom availeth not  Nor grace nor pity nor the suffering state. . . .   (. . . verso cui non vale  Merzede ne pieta ne star soffrente. . . .)   1 The novel state incites to sighs, and makes  Man to pursue an ever-shifting aim,  Till in him wrath is kindled, spitting flame.  Meekness, grace, pity, the suffering state of wrath — the terms have  a scriptural sound, and of right ; for they are actually scriptural anal-  ogies applied to love. Precisely this poetical analogy was the innova-  tion of Guinizelli, whom Dante called " father of me and of my  betters," — of which last C. was in Dante's mind first,  if not alone. Before Guinizelli Italian poets had accepted the other  analogy of the troubadours of Provence, which applied to love the canon  of feudal homage. For these the lady of desire was as the haughty  baron to whom they owed servile fealty, and whose inaccessible mood  was not of gentle meekness but of cruel pride, claiming willfully of  her vassal perhaps life itself. But feudalism and its harsh canon  of service were alien to the Italian communes ; Italian poetry built  upon an analogy with it must needs be an affectation. These burgher  poets were only play knights; these frank Tuscan and Lombard girls  were only play barons. Affectation, the pen following not the dicta-  tion of the feelings but of hearsay feelings, — this is the precise charge  which Dante, from the standpoint of the " sweet new style," brings  against the older style. 1 But if as free burghers Italians could not  really feel the alien mood of feudal homage, yet as Christian gentle-  men they could, and should, sanctify their love of women with the  mood of religious awe. There need be no affectation in that. Free  burghers, they recognized no temporal overlord, no absolute baron ;  Catholics, they did believe in, and might with sincerity worship, min-  istering angels — "donne angelicate," the meek ones whom, as the  Psalmist had declared, the Lord has beautified with salvation.   Guido therefore can no more worthily praise his mistress than by  calling her his " Lady of Meekness." Indeed, by further analogy he  sets her above the angels themselves; for the Christ himself had said :  "Mitis sum et humilis corde — I am meek and lowly in heart." For him-  self, " passion-rent " in his love, the poet speaks as St. Paul, — " we . . .  had our conversation ... in the lusts of our flesh, fulfilling the desires  of the flesh and of the mind ; and were by nature the children of wrath  (filii irae)" And the merzede, the "grace," for which he sues — solu-  tion of wrath by the spirit of meekness — is again in accord with  Paul's promise to these very "children of wrath," — "By grace are ye  saved through faith" — faith, that is, in loving and serving the one  divinity as the other.   i Purg. This is pious doctrine indeed for the righting cavalier, skeptic, Love-  lace I have in a measure assumed Guido to be. Is then his love creed  also a pose, worse than the apes of Provence whom Dante exposed,  because he thus adds hypocrisy to affectation ? Well, if so, the same  Dante would hardly have hailed him as "first friend" in life and  master after Guinizelli in poetry, nor have outraged the memory of  Beatrice by associating her in the New Life with Guido's lady Joan.   The solution of the apparent antinomy lies in the meaning for  Guido of that rnerzede, that " grace," the granting of which by ; the  lady, the meek one, might appease the lover, the one in "wrath."  The term itself — Italian merzede or English " grace " — has a fourfold  significance according as it is a function of the lady, of the lover, or  of the reciprocal relationship between them. "Grace" in her signifies  her beatitude, her "meekness"; in him, his "merit" which through  faith and loving service deserves the boon, or "grace," of her con-  descension to redeem him from his "state of wrath," for which  condescension it would be befitting him to render thanks, "yield  graces, — a phrase now obsolete in English but used by Dante, —  render mercede. Of this fourfold intention of the term the one funda-  mentally doubtful is ,the " grace " which is constituted by the act of  condescension of the lady : what then is the grace or boon that the  lover asks and hopes ? In other words, what is the end of desire ?   The answer is no mystery. The end of desire is always possession,  in one sense or another, of the thing desired. In the practical sense  possession of the loved one means union, physical or social, or both,  sacramentally recognized, in marriage ; but the sacrament of marriage  allows a more mystical sense, presenting the ideal, hardly realizable  on earth, of a spiritual union which is also a unity of two in one :   The single pure and perfect animal,   The two-cell'd heart beating with one full stroke,   Life.   So Tennyson modernly ; but more in accord with the metaphysical  mood of Guido is the old Elizabethan phrasing :   So they loved, as love in twain  Had the essence but in one ;  Two distincts, division one:  Number there in love was slain.   To the " gentle heart " there is no love but highest love ; there is  no union but perfect union, wherein two shall   Be one, and one another's all.   Until the "gentle heart " may attain to that perfect union its desire  is unappeased, its " wrath " unsubdued. Tennyson premises it for  the right marriage; but there is ever the doubter ready to remark  that if such marriages are really made in heaven, they certainly  are kept there. Human sympathy cannot quite bridge the span  between two souls: self remains self; and though hands meet and  lips touch and wills accord, there is always something deeper still,  inexpressible, unreachable.   Yes ! in the sea of life enisled,  With echoing straits between us thrown,  Dotting the shoreless watery wild,  We mortal millions live alone.   In vain, says Aristophanes in Plato's Banquet, in vain, "after the  division (of the primeval man-woman in one), the two parts of man,  each desiring his other half, came together, and threw their arms  about one another eager to grow into one. . . ." True, Aristophanes  in effect goes on, Zeus in pity consoled the loneliness of dissevered  " man-woman " by physical union ; but that consolation the " gentle  heart " must forever regard as of itself inadequate and unworthy.   There is indeed a solution. Guinizelli and Dante read further into  the Banquet of Plato — or into the Christian doctrine built upon that  — to where the wise woman of Mantineia reveals the mysteries of a  love extending into a mystic otherworld — at least so Christians read  her teaching — where in the bosom of God all become as one. There  "wrath" is resolved into "meekness" perfectly.   The love of Guinizelli, and of Dante, was the love of happier men  of which Arnold speaks :   Of happier men — for they, at least,   Have dream '</ two human hearts might blend   In one, and were through faith released   From isolation without end   Prolong'd. But if Guido, even as Arnold, lacked this faith, doubted this mystic  otherworld whither therefore he might not accompany his first friend  to find his Giovanna, as Dante his Beatrice, perfect in meekness,  purged of all wrath, and to learn from her release hereafter from the  dividing flesh, union at last with her spirit at peace ? — if he was of  those, even uncertainly wavered with those, who   . . . F anima col corpo morta f anno ? —   then indeed for him, in degree as his desire was ideally exalted,  so its grace, its merzede, became an irony, a tragic paradox. His  must be a passionate loneliness forever teased by an illusion, a  phantom mate of its own conjuring. And I at least so understand  the concluding words of the canzone :   For di colore d'esser e diviso,   assiso mezzo scuro luce rade :   for d'onne fraude dice, degno in fede,   che solo di costui nasce mercede. That is, the only love of which grace is born, entire possession  granted, is love of the dim immaterial idea, — " la figlia della sua  tnente, Vamorosa idea" as Leopardi calls it. Ixion embraces his  Cloud. Guido's lady's desirable perfection, her " meekness," exists not  in her, but in his glorified ideal of her, " bereft " as that is " of color   1 Bereft is (love) of color of existence,   Seated half dark, it bars the light (i.e. which might make it visible).  Without deceit one saith, worthy of faith,  That born of such a love alone is grace.   Rivalta's reading without in would apparently make mezzo adverbial. The commoner reading, " assiso in mezzo oscuro luce rade' 1 more naturally gives mezzo as  a noun: " seated in a dark medium," etc. The meaning is not substantially  different. The reading in mezzo, however, is more suggestive, as implying not  only the immateriality of the mental fact but also the darkening of the " medium,"  i.e. the imagination, by the " Martian " ray of passion. The assertion of the  invisibility of love is in answer to Orlandi's question restated by C. — " s* omo per veder lo po y mostrare." Question and answer are alike  absurd, however, unless we understand "love" to mean the object loved, which it  may naturally do ; one's §l love " means both one's passion and one's lady.  of existence." Therefore Guido's mood is essentially one with Leo-  pardi's when the latter exclaims :   Solo il mio cor piaceami, e col mio core  In un perenne ragionar sepolto,  Alia guardia seder del mio dolore. 1   Guido has himself described with quaint " preraphaelite " symbol-  ism the process of progressive detachment of the ideal from the  real in the ballata beginning " Veggio ne gli occhi."   Cosa m* avien quand* i' le son presente  ch' i' no la posso a lo 'ntelletto dire :  veder mi par de la sua labbia uscire  una si belladonna, che la mente  comprender no la pu6 ; che 'nmantenente  ne nasce un* altra di bellezza nova,  da la qual par ch' una Stella si mova  e dica: la salute tua e apparita. 2   The imagery here is manifestly in accord with contemporary pictorial  symbolism, in which souls as living manikins issue forth from the  lips of the dead; but the significance of the passage is, I take it, at  one with that of the so-called Platonic " ladder of love " by which  through successive abstractions the pure idea, the intelligible virtue,  is reached. The following stanza in the same ballata again defines  this "virtue" as "meekness," and again declares it to be merely  " intelligible,"   for di colore d' esser . . . diviso,  assiso mezzo scuro luce rade ;   1 Only my heart pleased me, and with my heart  In a communing without cease absorbed,   Still to keep watch and ward o'er my own smart.   2 Something befalleth me when she is by   Which unto reason can I not make clear:   Meseems I see forth through her lips appear   Lady of fairness such that faculty   Man hath not to conceive ; and presently   Of this one springs another of new grace,   Who to a star then seemeth to give place,   Which saith: Thy blessedness hath been with thee. only instead of the metaphysical directness of the canzone, the poet  employs the theological tropes of the dolce stil.   La dove questa bella donna appare  s'ode una voce che le ven davanti,  e par che d' umilta '1 su' nome canti  si dolcemente, che s' P '1 vo' contare  sento che '1 su* valor mi fa tremare.  E movonsi ne 1' anima sospiri  che dicon : guarda, se tu costei miri  vedrai la sua vertu nel ciel salita. 1   And now the tragic note in Guido's is explained. It is neither  the polite fiction, the " pathetic fallacy " of the Sicilian school, nor  yet the quickly passing shadow of this life set between Dante and the  sun of his desire.   La tua magnificenza in me custodi,   SI che P anima mia che fatta hai sana,  Piacente a te dal corpo si disnodi.   Cosi orai "So I prayed," writes Dante, triumphant in expectation ; but for those  Che 1 'anima col corpo morta fanno,   there could be health of soul neither now nor hereafter. Wherefore  Guido's text in the analysis of his own passion is in all literalness  the words of the Preacher, — " All his days ... he eateth in dark-  ness, and he hath much sorrow and wrath in his sickness." Until   1 There where this gentle lady comes in sight   Is heard a voice which moveth her before  And, singing, seemeth that Meekness to adore  Which is her name, so sweetly, that aright  I may not tell for trembling at its might.  And then within my soul there gather sighs  Which say: Lo ! unto this one turn thine eyes:  Her virtue to heaven wingeth visibly.   2 Farad., XXXI, 88-91.Guido prays indeed for release in death, not triumphantly as Dante,  but piteously, in the spirit of Leopardi's words in Amore e Morte:   Nova, sola, infinita  Felicita il suo (the lover's) pensier figura :  Ma per cagion di lei grave procella  Presentendo in suo cor, brama quiete,  Brama raccorsi in porto  Dinanzi al fier disio,  Che gia, rugghiando, intorno intorno oscura. 1   Poi, quando tutto avvolge  La formidabil possa,  E fulmina nel cor Tinvitta cura,  Quante volte implorata  Con desiderio intenso,  Morte, sei tu dair affanoso amante ! 2   Precisely in this mood Guido invokes death :   Morte gientil, rimedio de' cattivi,   merze merze a man giunte ti cheggio :  vienmi a vedere e prendimi, che peggio  mi face amor : che mie' spiriti vivi   1 Not only are Guido and Leopardi saying the same thing in effect, but even  their figures of speech are in accord. There is evident similarity of symbolism  between the soul-darkening storm blast of the one and the soul-darkening Martian  ray of the other ; although doubtless the mediaeval poet may have conceived his  " dark ray " as a real phenomenon.   2 New, infinite, unique  Felicity ... he pictures to his mind :  And yet because of it the wrath of storm  Foreboding in his heart, he longs for calm,  Longs for the quiet haven  Far from that fierce desire,  Which even now, rumbling, darkens all around.   Then, when o'erwhelmeth him  The fury of its might,   And in his heart thunders unconquerable care,  How many times he calls  In agony of need,  Death, upon thee in his extremity ! son consumati e spenti si, che quivi,  dov* i' stava gioioso, ora mi veggio  in parte, lasso, la dov' io posseggio  pena e dolor con pianto : e vuol ch' arrivi   ancora in piu di mal s' esser piu puote ;  perche tu, morte, ora valer mi puoi  di trarmi de le man di tal nemico.   Aime ! lasso quante volte dico :   amor, perche fai mal pur sol a' tuoi  come quel de lo 'nferno che i percuote ? 1   At other times Guido describes the combat to the death between  his " spirits " of life and love. He enlarges his canvas and, calling  to aid a whole dramatis personae of the various " souls " and "animal  spirits" of scholastic psychology, objectifies his mood into miniature  epic and drama. This mythology of the inner world arose naturally  enough to mind from the ambiguity of the term " spirits," meaning  at once bodily humors and bodiless but personal creatures ; and  in Guido's delicate handling the symbolism is singularly effective.  Only by exaggeration of imitation did it grow stale and ludicrous,  meriting the jibes of Onesto da Bologna at such " sporte piene di   1 Gentle death, refuge of th' unfortunate,   Mercy, mercy with clasp'd hands I implore :  Loo^ down upon me, take me, since more sore  Hath been love's dealing : in so evil state   Are brought the spirits of my life, that late   Where I stood joyous, now I stand no more,  But find me where, alas ! I have much store  Of pain and grief with weeping : and my fate   Yet wills more woe if more of woe might be;   Wherefore canst thou, death, now avail alone  To loose the clutch of such an enemy.   How many times I say, Ah woe is me 1   Love, wherefore only wrongest thou thine own,  As he of hell from his wrings misery ?     3spiriti." The following curiously rhymed sonnet may illustrate his  manner in this kind.   L' anima mia vilment' e sbigotita   de la battaglia ch* ell' ave dal core,  che, s T ella sente pur un poco amore  piu presso a lui che non sole, la more. Sta come quella che non a valore,   ch' e per temenza da lo cor partita :  e chi vedesse com' ell* e fuggita  diria per certo : questi non a vita.   Per gli occhi venne la battaglia in pria,  che ruppe ogni valore immantenente  si, che del colpo fu strutta la mente.   Qualunqu* e quei che piu allegrezza sente,  se vedesse li spirti fuggir via,  di grande sua pietate piangeria. 1   It transpires then for Guido as for Leopardi that the only grace,  the only boon of peace, to which love leads is death ; and so is verified   1 The spirit of my life is sore bested   By battle whereof at heart she heareth cry,   So, that if but a little closer by   Love than his wont she feeleth, she must die.   She is as one dejected utterly ;   The heart she hath deserted in her dread :  And who perceiveth how that she is fled,  Saith of a certainty : This man is dead.   First through the eyes swept down the battle-tide,  Which broke incontinently all defense,  And by its wrath wrecked the intelligence.   Whoever he that most of joy hath sense,  Yet if he saw the spirits scattered wide,  In his excess of pity must have sighed.  %\   the warning of those who came to meet him when he first entered the  court of love :   Quando mi vider, tutti con pietanza  dissermi : fatto se' di tal servente  che mai non dei sperare altro che morte. 1   In reality, he knows the futility of any appeal to his lady for aid.  She is indeed the innocent occasion of his suffering, but of it she is  a mere passive spectator, hardly understanding it, and certainly help-  less to relieve it ; and so Guido himself describes her in the sonnet  beginning " S' io prego questa donna." In the midst of his agony,   Allora par che ne la mente piova  una figura di donna pensosa,  che vegna per veder morir lo core. 2   Here then at last we find the explanation of his interpretation of  Dante's sonnet, when he said that love fed Dante's heart to his lady,   vegendo  che vostra donna la morte chedea.   She claimed its death not willfully indeed, as the capricious mistress  of Ulrich von Lichtenstein " claimed " his mutilation, but innocently,  unwittingly, in that her beauty was as a firebrand, her perfection, her  " meekness," a goal of unavailing consuming desire. She is helpless  to relieve him, because — and here is the core of the matter — it is  not she, not the real woman, that he loves, but that idealization of  her which exists only in his own mind —   for di colore d' esser e diviso,   assiso mezzo scuro luce rade.   Compared with this glorified phantom "nel ciel (that is, into the  intelligible world) salita," the real woman also is but "ira," wrath  and imperfection. So he pines for his lady of dreams, who thus a   1 When they beheld me, unto me all cried   Pitiful : bondman art thou made of one   Such that for nought else mayst thou look but death.   2 " Into my mind then seems it that there rays a figure of a pensive lady, com-  ing to behold my heart die." ghostly " vampire " feeds upon his human heart ; but the real woman,  " the woman who does not understand," is no longer of moment to  him. She is, as it were, but the nameless model to his artist mind.  When that has drawn from her all that is of fitness for its master-  piece, it straightway leaves her for another otherwise completing the  ideal type. Giovanna passes ; Mandetta arrives.   Una giovane donna di Tolosa   bell' e gentil, d' onesta leggiadria,   tant' e diritta e simigliante cosa,   ne' suoi dolci occhi, de la donna mia,   ch' e fatta dentro al cor desiderosa   P anima in guisa, che da lui si svia  e vanne a lei ; ma tant* e paurosa,  che no le dice di qual donna sia.   Quella la mira nel su* dolce sguardo,  ne lo qual face rallegrare amore,  perche v' e dentro la sua donna dritta.   Po' torna, piena di sospir, nel core,   ferita a morte d* un tagliente dardo,  che questa donna nel partir li gitta. 1   Plainly it is not of Giovanna, nor of any actual woman, but of his  ideal woman, of whom Giovanna herself was but a reminiscence, that   1 A lady of Toulouse, young and most fair,  Gentle, and of unwanton joyousness,  So is the very image and impress,  In her sweet eyes, of one I name in prayer,   That my soul's wish is more than it can bear :   Wherefore it 'scapeth from the heart's duress  And cometh unto her ; yet for distress  What lady it obeys may not declare.   She looketh on it with her gentle mien,   Whereunto by the will of love it yearns,  Because that lady there it may perceive.   Then to the heart it, full of sighs, returns,  Unto death wounded by an arrow keen,  The which this lady loosed when taking leave. Mandetta reminds him. In her turn Mandetta will pass also. Then  will come Pinella, or another — what does it matter? What cared  Zeuxis for any one of his five Crotonian maidens, once each in her  turn had supplied that particular trait of loveliness which only she,  perhaps, had to offer, but had to offer only ?   Mentre ch* alia belta, ch* i* viddi in prima  Apresso V alma, che per gli ochi vede,  L' inmagin dentro crescie, e quella cede  Quasi vilmente e senza alcuna stima. 1   The words are Michelangelo's, but the idea is in effect Guido's. And  it is an idea which, I think, renders perfectly compatible in him con-  stancy in ideal love with inconstancy in real loves. To keep faith  with perfection is to break faith with imperfection. The love of  Guido brooked no compromise. The perfect one might be unattain-  able in this life; perfect union with her, even if found, might be  impossible in this life; there might be no other life than this so  marred by the perpetual " state of wrath " to which his impossible  desire in its impotence doomed him ; yet nevertheless Guido was  willing to be damned for the greater glory of Love.   In conclusion, I would quote a passage from the elegy to Aspasia  of Leopardi, which puts into modern phrasing exactly what I con-  ceive to be Guido's intention, obscured as that is for us by its  scholastic terminology and its mixture of chivalric and obsolete  psychological imagery. Especially I would call attention to the  precisely similar way in which Leopardi, like Guido, combines in his  mood the loftiest idealization of Woman with the most contemptuous  conception of women. So Hamlet insults, even while he adores.  Dante too had his cynical time, to judge from Beatrice's immortal  rebuke, — when he   . . . volse i passi suoi per via non vera,  Imagini di ben seguendo false.   1 While to the beauty, which first drew my gaze,   My soul I open, which looketh through the eyes,  The inward image grows, the outward dies  In scorn away, unworthy all of praise. But Dante was saved from ultimate cynicism, ultimate unfaith, by the  promise of perfect union with his ideal in paradise. That promise  Guido, like Leopardi, rejected.  Here is Leopardi's confession :   Raggio divino al mio pensiero apparve,  Donna, la tua belta. Simile effetto  Fan la bellezza e i musicali accordi,  Ch' alto mistero d* ignorati Elisi  Paion sovente rivelar. Vagheggia  II piagato mortal quindi la figlia  Delia sua mente, l'amorosa idea,  Che gran parte d* Olimpo in se racchiude,  Tutta al volto, ai costumi, alia favella  Pari alia donna che il rapito amante  Vagheggiare ed amar confuso estima.  Or questa egli non gia, ma quella, ancora  Nei corporali amplessi, inchina ed ama.  Alfin Perrore e gli scambiati oggetti  Conoscendo, s' adira .  (" Sadira /" — " is wrathful " — Leopardi's very words form a gloss  to Guido's. But as little as Guido's is Leopardi's wrath directed  against the real woman, innocent occasion of his illusion and disillu-  sion. Leopardi continues :)  e spesso incolpa  La donna a torto. A quella eccelsa imago  Sorge di rado il femminile ingegno;  E ci6 che inspira ai generosi amanti  La sua stessa belta, donna non pensa,  Ne comprender potria.  (" The woman who does not understand " !)  Non cape in quelle  Anguste fronti ugual concetto. E male  Al vivo sfolgorar di quegli sguardi  Spera V uomo ingannato, e mal richiede  Sensi profondi, sconosciuti, e molto  Piu che virili, in chi dell' uomo al tutto Da nature e minor. Che se piu molli  E piu tenui le membra, essa la mente  Men capace e men forte anco riceve. 1   So the idealist skeptic of the nineteenth century aligns himself  with the idealist skeptic of the thirteenth, even to that last truly  mediaeval touch — confusio hominis est femina. And, if I have not  somewhere gone off on a tangent, I have described my circle. Guido's  philosophy of love at least fits with the hypothesis of his skepticism,  and a practical consequence of both would be that actual fickleness  of heart to which tradition again bears witness.   1 A ray celestial to my thought appeared,  Lady, thy loveliness. Similar effects  Have beauty and those harmonies of music  Which the high mystery of unfathomed heavens  Seem ofttimes to illumine. Even so  Enamoured man upon the daughter broods  Of his own fancy, the amorous idea,  Which great part of Olympus comprehends,  In feature all, in manner, and in speech  Unto the woman like, whom, rapturous man,  In his false lights he seems to see and love.  Yet her he doth not, but that other, even  In corporal embracings, crave and love.  Until, his error and the intent transferred  Perceiving, he grows wrathful ; and oft blames  With wrong the woman. To that ideal height  Rarely indeed the wit of woman rises ;  And that which is in gentle hearts inspired  By her own beauty, woman dreams not of,  Nor yet might understand. No room have those  Too straitened foreheads for such thoughts. And fondly  Upon the spirited flashing of that glance  Builds the infatuate man, and fondly seeks  Meanings profound, undreamt-of, and much more  Than masculine, in one than man in all  By kind inferior. For if more tender,  More delicate of limb, so with a mind  Less broad, less vigorous is she endowed.Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele – amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto, I due sinola, sinolo, Greco sinolon, da sin, co- e holos, tutto.  – l’amore come incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library. Cavalcanti.

 

Grice e Cavallo: l’implicatura conversazionale di Frankenstein, homo electricus – la morte di Fedro – fulminated by one of Giove’s lightnings -- elettrico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice: “Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell – due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that still sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!” -- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe anche studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla biologia. Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca. Intue la possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti, inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali, anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per chiarezza, sistematicità e completezza.  Si lo ricorda in particolare per i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta riempito di gas. Fisico; recatosi per commercio in Inghilterra, ivi si dedicò a ricerche di fisica e di chimica. Ha intuito la possibilità del volo per via aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio.  Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi interessi includeno l’elettricità, lo sviluppo di strumenti scientifici, la natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico. Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso). Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto” (citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard. Storia e pratica dell'aerostazione, C. La piastra I, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di idrogeno C. pubblicò anche sul temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc. Il memoriale di Coutts, Old St. Pancras. Il nome di C. è verso il basso, ma mancano le lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic, tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze: Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici di C. comunicato da Henley, FRS, Transazioni filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI.  FIRENZE, CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON LICENZA DE SUPÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec. A voi solo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio. Ella è d'uno della vostra nazione, è ſtata intrapreſa per Voſtro comando, fatta ſotto i Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali. Proſeguite come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa; mentre ſotto i Vo ftri fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa Umiliſſimo Servo. Mi ſarei facilmente diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima, della ſtampa che meditavo fare della preſente verſione, anco per ſentire da ello ſe avea niente da aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig. Ma gellan alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte, e traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come èſtato eſeguito, accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente. Signore. Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella traduzione del mio Trattato ſull'E. lettricità. La prego fare intendere al Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi dato parte di queſta intrapreſa, e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che poſſo. Suo C., Sig. Magellan Nevils Court Ferter Lane. 1 NEL TRATTATO DI C. SULL' ELETTRICITA'. In vece di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre prezioſe. Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere. Pag. DEL TRADUTTORE } . Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione fi dee omettere affatto. . Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi poſſono aggiungere i fe guenti verſi: Higgins ha ultima mente inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno, perchè una piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente, ma dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt' amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer. curio meſcolati inſieme. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi, cioè dee dir così, non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag. 335.v.8. Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di circoſtanze. Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig. PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità promoſſo queſto lavoro. In tanto vivi felice, e godi di queſta fatica. 1. HL diſegno di queſto Trattato è di pre ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può tollerare. Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto, che poteſſe eſſere un mezzo da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi erano prima refa molto familiare queſta materia. La prima parte tratta ſolamente delle leggi dell'elettricità; cioè di quelle leggi naturali relative all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono trovate coſtantemente vere, e che non dipendono da veruna ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità, la quale non foſſe chiaramente ſicura, o la quale foſſe di poca conſeguen za; ma nel tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante, o che ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote tica, non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore a renderla più breve che foſſe poſſibile. La parte terza contiene la pratica dell' elettricità. Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato, i quali nel tempo medeſimo ſervono a minorare la fpefa, e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In riguardo agli eſperimenti medeſimi, egli ha principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi dell'elettricità, omettendo un gran numero d'altri che ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa va rjati. Egli niente di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero però meritare che ſene defle notizia. La quarta ed ultima parte contiene un breve ragguaglio dei principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte di fi loſofia. Quì egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi che non hanno prodotto verun conſiderabile effet to, maancora d'innumerabili congetture che ha formato intorno a' medeſimi, e intorno ad altri non ancora ridotti alla ſicurezza dell'attuale oſſervazione. L'autore prende queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi amici per diverſe eſperienze comunicategli, e particolarmente al Sig. Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera. Non è ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo; per lo che l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze erano nuo ve, o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia. Per rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione. Neroduzione pag. Leggi fondamentali dell'elettricità. Contenente la spiegazione d ' alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità. Degli elettrici, e dei conduttori. Delle due elettricità. Dei differenti metodi di eccitare gli elet trici. Dell elettricità comunicata Dell' elettricità comunicata agli elettri ci. Degli elettrici caricati, ovvero della Boccia di Leida '. Dell elettricità atmosferica go. Vantaggi derivati dall elettricità.. Che contiene un proſpetto compendioſo del le proprietà principali dell elettrici tà. Teoria dell'elettricità, Ipoteſi dell' elettricità poſitiva, e negati Va 126. Della natura del fluido elettrico Della natura degli elettrici, e dei con duttori... Del luogo occupato dal fluido elettrico. Elettricità pratica. Dell'apparato elettrico in generale. Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche ze... Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato elettrico. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato elettrico, ed il fare l'eſperien Sperimenti relativi all'attrazione, e re pulſione elettrica Sperimenti ſulla luce elettrica... Sperimenti colla bottiglia di Leida. Sperimenti con altri elettrici caricati. Sperimenti ſull' influenza delle punte, e ſull' utilità dei conduttori metallici ap puntati per difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine Elettricità medica..Sperimenti fatti con la batteria elettri Sperimenti promiſcui Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero degli elettrici caricati.  Nuovi ſperimenti dell' elettricità.. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico, e di altri ſtrumenti uſati con ello Sperimenti fatti con l' aquilone elettri . co Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico, e coll' elettrometro per la prog gia. Sperimenti fatti coll' elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua · Sperimenti ſu i colori. Sperimenti promiſcui L E arti e le ſcienze a guiſa dei re gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione, e fpandendo una luce più viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e la moda del ſecolo; ma queſti periodi terminan preſto, e pochi anni di luſtro e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione. Da queſto faro infelice per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti, le quali in grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole produzioni che da loro ſi ricavano, ſono ſempre flo ride; e ſebbene una volta ſiano ſtate incognite, pure quando la fama ne ha fatto riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli, giammai dopo declina no, e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono. Di queſto ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le parti della Filoſofia naturale, che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo. Queſta ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura, è ſtata ſempre in voga, è ſtata col maſſimo profitto coltivata, e ſenza interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi, che ora è ridotta a uno ſtato in cui in vece di divenire ſterile, ſembra ulteriormente impegnare la generale at tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe. Gli Ottici è vero, moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà, ma ſempre relative alla ſola viſione: il Magnetiſmo rappreſenta la forza d'attrazione, re pultione, e direzione verſo le parti po lari di quella ſoſtanza che ſi chiama ca lamita; la Chimica tratta delle varie compoſizioni e riſoluzionidei corpi: ma l ' Elettricità contenendo per così dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola eſibiſce gli effetti di molte ſcienze, combina in ſieme le diverſe energie e ferendo i ſenſi in una particolare e forprendente manie ra, dà piacere ed è di grand'uſo all'igno rante ugualmente che al FILOSOFO, all' opulento ugualmente che al povero. Nell' Elettricità ci divertiamo contem plando la ſua penetrante luce rappreſen tata in innumerabili diverſe forme, am. miriamo la ſua attrazione e repulſione che agiſce ſopra ciaſcun genere di corpi, reſtiamo ſorpreſi dall'urto, atterriti dall' eſploſione e forza della ſua batteria; ma quando la conſideriamo ed eſaminiamo A 2, Come cauſa del tuono, del fulmine, dell' aurora boreale, e di altri fenomeni na turali, i cui terribili effetti poliamo in parte imitare, ſpiegare, ed anche allon tanare, allora sì che reſtiamo attoniti per la maraviglia, la quale non ci per mette di contemplare altro che l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della ſorpreſa. Il più remoto rag guaglio a noi cognito, che abbiamo di qualche effetto elettrico eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori circa trecento anni avanti Cri ſto. Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è nextpor, e da cui il nome d'E lettricità è derivato, come pure il Lincurio poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri. Queſto ſolamente era tutto cio [E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto trattato. ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto, nel qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona che abbia fatto veruna ſcoperta, e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte di Filoſofia, eſſendo rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe, che viveva ful principio del decimo fertimo ſecolo; ed il quale a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre della preſente Elettricità. Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi leg gieri dopo la confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o del Lincurio, ma che molti altri corpi la poſſeggono egualmente. Rammenta un gran numero di queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità, che conſide rando lo ſtato della ſcienza in quel ſe colo poſſono ſembrare veramente grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli progrefli, paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità, a vendo intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte ope razioni. Tale fu  Bacone, Boyle, Guericke, Newton, e più di tutti Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità. Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro, ſoſtanza che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti in preferenza di qualunque altro elettrico. Egli fu il primo che notaſie le varie apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa, inſieme con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione elettrica. Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell' elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata, rimaſe quaſi per venti anni in uno ſtato di quiete, eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo occupata in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione. Il Sig. Grey fu il primo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza di nuovo alla luce del mondo. Egli mediante le gran ſcoperte che fece la inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità. Il numero degli elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig. Grey, le ſcoperte fatte, e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente, fono materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere. Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza, legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D: Priestley, opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in rapporto a queſto ſoggetto fino alla ſua pubblicazione. Io per me mi diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio iſtorico; queſto trattato eſſendo diretto a dare un ragguaglio dello ſtato preſente dell'Elettricità, e non a for marne un'iſtoria. Soltanto oſſerverò in generale, che quantunque la ſcienza ab bia, mediante l'indefella attenzione di molti ingegnoſi foggetti, e mediante le ſcoperte che furono giornalmente pro dotte, eccitata la curioſità dei Filoſofi e impegnata la loro attenzione; con tut to queſto ſiccome le cauſe di ciaſcuna cola piccola o grande, cognita o incognita, di rado ſono oſſervate con at tenzione, ſe i loro effetti non ſono sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino all'anno 1746. ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi. La ſua attra zione può eſſere rappreſentata in parte dalla calamita, la ſua luce dal fosforo, e in una parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto della pubblica attenzione, e ad eccitare una generale curioſità, fin che non fu. accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza, in ciò che ſi chiama boccia di Leida in ventata da Muſchenbroeck. Allora lo ſtudio dell' Elettricità divenne generale, ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore, e invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico ſpe rimento. Dal perta del Dal tempo di queſta ſcoperta il pro digioſo numero d'elettriciſti, di ſperi menti, e di fatti nuovi che ſono ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del mondo, è quafi incredibile. Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte, i megliora menti ſopra altri meglioramenti, e la ſcienza da quel tempo fece un così ra pido corſo, ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità, che ſembra che il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito, e gli elettriciſti pervenuti al fine delle loro ricerche: per altro non è così. Il non plus ultra è con tutta probabilità ancora molto lontano, e il giovane elettriciſta ha avanti a ſe un vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che ſono ſtate già fatte.Of Natural Philosophy;—~its Name;•—its Objeft —its Axioms; —and the Rules of Philofophizing. The word FILOSOFIA, though used by ancient authors in senses somewhat different, does, however, in its most usual acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and natural. Moral philosophy treats of the manners, the duties, and the condud of man, considered as a rational and social beings but the business of natural philosophy, is to colled the history of the phenomena which take place amongst natural things, viz. among the bodies of the universes to investigate their causes and effects; and thence to deduce such natural laws, as may afterwards be applied to a variety of useful purposes. The word philosophy is of Greek origin. PITAGORA, a learned Greek, seems to have been the firfl who called himfelf philosopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom. 2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies; and the assemblage or fyftem of them all is called the universe. The word “phenomenon” signifies an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is perceived by our senses. Thus the fall of a stone, the evaporation of water, the folution of salt in water, a tlafh of lightning, and fo on; are all phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to different bodies; for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that the bufinefs of natural philofophy is to examine the properties of the various bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend, and croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos, or its plural mores, fignifying manners or behiyiour. It has been likewife called ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy has alfj been called p hylics, phyfology, and experimental phi Ifophy: The ftrft of thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural; the fecond is derived from pvair, nature, and >. a dijeourfe; the laft deno nination, which was introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft method of experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. “Phenomenon,” whose plural is “phenomena”, owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged under diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes on which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts; and, laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments, and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us. The properties of the air we breathe; the action and power of our limbs; the light, the found, and other perceptions of our fenfes; the adcions of the engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c.; the viciffitudes of the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth; do all fall under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general; the philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew, that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their. difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry, magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical; their exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number, the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines, &c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence, JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily admit, the propriety of this axiom; feeing that a great many things appear to be utterly deftroyed by the action of fire; alfo that water may be caufed to difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that in thofe cafes the lubftances are not annihilated; but they are only difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain, the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into b 3 its 6 O/Philosophy in general; its component fubdances, which the atdion of the fire drives different ways: the fluid part, for inftance, becomes fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their weights would equal the weight of the original piece of wood. Every effect has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings. Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible, and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined, till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected, or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as to convey perfect convi&ion to the mind; nor can any of them be denied without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain circumftances; therefore they will moft likely continue to bV produced as long E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl; and likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies, and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned, the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable, according as the principles upon which they depend are true, or faife, or probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty, does always direct itfelf to certain parrs of the world; upon which property the mariner’s compafs has been conftructed; and it has been likewife obferved, that this directive property of a natural or artificial magnet, is not obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or, in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain as a geometrical one; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly probable; for though all the bodies that have been tried with this view, iron excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet or magnetic needle, yet we are not certain that a body, or fome combination of bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property. Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm; my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which ought to be annexed tophyfical knowledge; fo that the ftudent of this fcience may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various branches of mathematics, at leaft with the elements of geometry, arithmetic, trigonometry, and the principal properties of the conic * Scepticifm or fkepticifm is the do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers, whofe peculiar tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible; and that the mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute date of hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the Greek anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. A General Idea of Matter, conic fedions; for fincc almoft every phyfical effed depends upon motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities, powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical knowledge; which fcience may in truth be called the language of nature.  Mary Shelley Who put the spark in Frankenstein’s monster? On the 200th anniversary of Mary Shelley’s gothic horror, a new edition discusses its roots in experiments with electricity on the dead  Jamie Doward  It is one of the most famous novels of all time, often cited as the first work of science fiction, with a genesis almost as well known as its terrifying central character.  Mary Shelley’s Frankenstein: or the Modern Prometheus was published.  It was the result of a challenge laid down by Lord Byron, when Shelley and her lover – later her husband – Byron’s fellow poet Shelley were holidaying at Lake Geneva in Switzerland.  The party had hoped for good weather, but the eruption of a volcano in the East Indies, the greatest event of its kind in recorded history, had ushered in three years of bone-chilling cold that killed crops and cast a shadow across Europe. As they huddled for warmth around a fire one night, Byron suggested each of them should write a horror story.  For days Shelley suffered writer’s block until she came up with the idea of a scientist who reanimated a creature stitched together from body parts, only to be horrified by his success. Some believe Shelley was inspired by a trip to Germany, where she is thought to have learned the legend of Frankenstein Castle and one of its 17th-century inhabitants, an alchemist called Dippel, who was rumoured to have exhumed bodies for experimentation.  But it now appears Shelley’s true source of inspiration for Victor Frankenstein’s monster was considerably closer to home. In a foreword to a new edition of the classic, to be published by Oxford University Press next month, Nick Groom, of Exeter, sometimes referred to as the “Prof of Goth”, suggests it was her husband’s fascination with galvanism – chemically generated electricity – that sparked her imagination.  Shelley. Shelley. Photograph: Getty Images Percy Shelley, one of Britain’s most cherished Romantic poets and author of the celebrated sonnet Ozymandias, was fascinated by science, in particular the creation of electricity. “He was very excited by galvanic apparatus,” Groom explained. “His sister, Helen, would recall that he would, as she put it, ‘practise electricity upon us’. He used to make all the family sit around the dining room table holding hands, and he’d turn up with some brown paper, a bottle and a wire and they’d all get electrocuted.”  On one occasion Percy even threatened to electrocute the son of his scout at Oxford.  Mary and Percy enjoyed a symbiotic working relationship. She corrected his proofs and he helped edit Frankenstein. But Groom is clear that the book was, contrary to what some have argued, Mary’s creation. “The work is by her and should be attributed to her.”  Sent down from Oxford for co-authoring a pamphlet on atheism, Percy attended anatomy classes for a term at St Bartholomew’s hospital in London.. “One of the things she would have got from talking to her husband about laboratories was that they were really filthy places,” Groom said. “The cadavers would be in a state of advanced putrefaction when they arrived. These were not antiseptic places full of chaps in white coats. They were unpleasant. The word filthy turns up a lot in Frankenstein. There was something really disreputable about medical science, which Mary Shelley is fascinated in.”  She would have been aware of notorious public experiments involving galvanism. “There was a particularly chilling one in London when galvanism was used on the body of an executed criminal,” Groom said. “The very first thing that happened was that the corpse opened its eyes. A very Frankenstein moment.”  At the time Mary was writing, the rights of animals had become a concern for many of the intelligentsia. “The being that Victor creates knows he’s not human but still believes that he should have rights,” Groom said. “Part of the conundrum of the novel is, do you afford comparable rights to non-human sentient creatures?”  Two centuries on, the novel continues to shape contemporary thinking, Groom suggested, posing questions about matters such as artificial intelligence and genetic modification.  But Mary’s astonishing foresight has yet to be fully recognised.  “Her reputation has been overtaken by the films, which have oversimplified these questions in ways that don’t really reflect the sophistication of her novel,” Groom said. “Boris Karloff’s monster has none of the subtlety that the being has in the novel. He’s not a zombie, he’s intelligent and sentient.  “People need to see this as a novel for today. It’s very much entangled with the pressing questions of humanity, which still concern us.”Cavallo. Tiberius Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: elettrico, filosofia naturale, filosofia trans-naturale, la rana ambigua. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool Library. Cavallo.

 

Grice e Cazio – Roma – filosofia ialiana – Luigi Speranza (Roma). He is presented by Orazio as something of a philosophica dilettante obsessed with food.

 

Grice e Cazio: l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Catius insuber. Member of the Garden. He wrote four books in which he set out the school’s teachings on the nature of the universe and the most important hings in life. The books were aimed at making the teachings available and accessible to a wide audience.

 

Grice e Cazzaniga: l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – You only get first penetrated once – BACCHANALIUM -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies; only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!” -- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli, Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità: fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico "Belfagor”; Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali: La Massoneria, Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). C., “Massoneria e letteratura: Dalla 'République des lettres' alla lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. C. et al. (Milan: Unicopli),  C., “Origine ed evoluzione dei rituali carbonari italiani,” in C., La Massoneria,  Chi anche in questa fine di millennio continua a nutrire interesse per la storia delle vicende umane, per la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per concretarle - soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà, fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario scavare molta terra, C. ha dissodato a fondo un terreno a prima vista assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa tornare con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra stessa auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane isole e penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti, U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si sono ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau, Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana, comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio come C., il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto C. a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica" quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i "critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione Francese. C. stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione del commento su Bonneville le parole che hanno costituito l'input decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e le due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi moderni di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale dalle guerre di religione. Per molti cittadini della République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la ricerca di C. trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica, identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio" di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al tempismo di C. è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto "lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità, è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica, ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione  riveli la sua personale cifra ideologica e la passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria, cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa, inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a cimentarsi. THE MASCULINE   CROSS   t PHALLIC WORSHIP     PHALLIC WORSHIP    A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES   OF THE   SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS   WITH THE HISTORY OF   THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF   PRIMITIVE SYMBOLISM, PHALLICISM,  BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND  THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS LONDON. The present somewhat slight sketch of a most interesting  subject, whilst not claiming entire originality, yet embraces  the cream, so to speak, of various learned works of great cost,  some of which being issuedfor private circulation only, are almost  unobtainable.   During the past few years several books have been written  upon Phallicism in conjunction with other kindred matters,  but not devoting themselves entirely to one ancient mystery,  the writers have only partially ventilated the subject. The  present work seeks to obviate this failing by confining its  attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the  ancient world.   Many of the topics have received only slight treatment,  being little more than indicated ; but the work will enable the  reader to understand and possess the truth concerning the  Phallic Worship of the Ancients.   Those who desire to know more, or to authenticate the  statements and facts given in this book, should consult the large  and important works of Payne Knight, Higgins, Dulaure,  Kolle, Inman, and other writers.   It was intended to give with this volume a list of works  and miscellaneous pieces written on the subject, but the length  of the list prevented its being added. PHALLIC WORSHIP NATURE AND SEX WORSHIP   Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient  times, sometimes contemporaneous and often mixed with  Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature  were sexualised and endowed with the same feelings,  passions, and performing the same functions as human  beings.   Among the ancients, whether the Sun, the Serpent,  or the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the  same—the veneration of the generative principle. Thus  we find a close relationship between the various  mythologies of the ancient nations, and by a comparison  of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring  from the same source, namely, the worship of the forces  and operations of nature, the original of which was doubt¬  less Sun worship. It is not necessary to prove that in  primitive times the Sun must have been worshipped  under various names, and venerated as the Creator,  Light, Source of Life, and the Giver of Food.   In the earliest times the worship of the generative  power was of the most simple and pure character, rude  in manner, primitive in form, pure in idea, the homage  of man to the supreme power, the Author of life.   Afterwards the worship became more depraved, a  religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were not slow to take advantage of this state  of affairs, and inculcated with it profligate and mysterious  ceremonies, union of gods with women, religious prostitution and other degrading rites. Thus it was not long  before the emblems lost their pure and simple meaning  and became licentious statues and debased objects.   Hence we have the depraved ceremonies at the worship  of Bacchus, who became, not only the representative  of the creative power, but the God of pleasure and  licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries,  willing to be captives to a pleasant bondage by the  impulse of physical bliss, as was the case in India and  Egypt, and among the Phoenicians, Babylonians, Jews  and other nations.   Sex worship once personified became the supreme and  governing deity, enthroned as the ruling God over all;  dissent therefrom was impious and punished. The priests  of the worship compelled obedience; monarchs complied  to the prevailing faith and became willing devotees to the  shrines of Isis and Venus on the one hand, and of Bacchus  and Priapus on the other, by appealing to the most  animating passion of nature. This is the worship of the reproductive powers, the  sexual appointments revered as the emblems of the  Creator. The one male, the active creative power;  the other the female or passive power ; ideas which were  represented by various emblems in different countries.  These emblems -were of a pure and sacred character,  and used at a time when the prophets and priests spoke  plain speech, understood by a rude and primitive people ;  although doubtless by the common people the emblems  were worshipped themselves, even as at the.present day  in Roman Catholic countries the more ignorant, in many  cases, actually worship the images and pictures themselves,  while to the higher and more intelligent minds they are  only symbols of a hidden object of worship. In the  same manner, the concealed meaning or hidden truth  was to the ignorant and rude people of early times entirely  unknown, while the priests and the more learned kept  studiously concealed the meaning of the ceremonies and  symbols. Thus, the primitive idea became mixed with  profligate, debased ceremonies, and lascivious rites,  which in time caused the more pure part of the worship  to be forgotten. But Phallicism is not to be judged  from these sacred orgies, any more than Christianity  from the religious excitement and wild excesses of a few  Christian sects during the Middle Ages.   In a work on the “ Worship of the Generative Powers  during the Middle Ages,” the writer traces the superstition  westward, and gives an account of its prevalence through¬  out Southern and Western Europe during that period.   The worship was very prevalent in Italy, and was  invariably carried by the Romans into the countries they  conquered, where they introduced their own institutions  and forms of worship. Accordingly, in Britain have  been found numerous relics and remains; and many  of our ancient customs are traced to a Phallic origin.  “ When we cross over to Britain,” says the writer, “ we  find this worship established no less firmly and extensively  in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes. pottery covered with obscene pictures, are found wherever  there are any extensive remains of Roman occupation,  as our antiquaries know well. The numerous Phallic  figures in bronze found in England are perfectly identical  in character with those that occur in France and Italy.”   All antiquaries of any experience know the great number  of obscene subjects which are met with among the fine  red pottery which is termed Samian ware, found so  abundantly in all Roman sites in our island. “ They  represent erotic scenes, in every sense of the word, with  figures of Priapus and Phallic emblems.”  The Phallus, or Lingam, which stood for the image  of the male organ, or emblem of creation, has been  worshipped from time immemorial. Payne Knight  describes it as of the greatest antiquity, and as having  prevailed in Egypt and all over Asia.   The women of the former country carried in their re¬  ligious processions, a movable Phallus of disproportionate  magnitude, which Deodorus Siculus informs us signified  the generative attribute. It has also been observed  among the idols of the native Americans and ancient  Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus  alone, and changed the personified attribute into a distinct  deity, called Priapus.   Phallus, or privy member (membrum virile), signifies,  “ he breaks through, or passes into.” This word survives  in German pfahl, and pole in English. Phallus is supposed Phallic Worship ii  to be of Phoenician origin, the Greek word pallo, or  phallo , “ to brandish preparatory to throwing a missile,”  is so near in assonance and meaning to Phallus, that one  is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit  it can be traced to phal, “ to burst,” “ to produce,” “ to  be fruitful ” ; then, again, phal is “ a ploughshare,” and  is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu  deities. Phallus, then, was the ancient emblem of  creation: a divinity who was companion to Bacchus.   The Indian designation of this idol was Lingam, and  those who dedicated themselves to its service were to  observe inviolable chastity. “ If it were discovered,”  says Crawford, “ that they had in any way departed from  them, the punishment is death. They go naked, and  being considered as sanctified persons, the women  approach without scruple, nor is it thought that their  modesty should be offended by it.”   The Phallus and its emblems were representative of the  gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and  Asher, who were all Phallic deities. The symbols were  used as signs of the great creative energy or operating  power of God from no sense of mere animal appetite,  but in the highest reverence. Payne Knight, describing  the emblems, says : Forms and ceremonials of a religion are not always  to be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered as symbolical representations of some  hidden meaning extremely wise and just, though the  symbols themselves, to those who know not their true  signification, may appear in the highest degree absurd  and extravagant. It has often happened that avarice  and superstition have continued these symbolical representations for ages after their original meaning has  been lost and forgotten; they must, of course, appear  nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.  Such is the case with the rite now under consideration,  than which nothing can be more monstrous and indecent,  if considered in its plain and obvious meaning, or as part  of the Christian worship ; but which will be found to be  a very natural symbol of a very natural and philosophical  system of religion, if considered according to its original  use and intention.”   The natural emblems were those which from their  character were most suitable representatives; such as  poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu,  Egyptian, and Jewish divinities.   Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to  be found at Narmada and other places, which is sacred  to the Hindu deity Siva; these emblem stones were  anointed, like the stone consecrated by the Patriarch  Jacob.   Blavalsky further says that these stones are “ identical  in shape, meaning, and purpose with the * pillars ” set up  by the several patriarchs to mark their adoration of the  Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might  even now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta  without its Hebrew derivation being suspected.”The Pole was an emblem of the Phallus, and with the  serpent upon it, was a representative of its divine wisdom  and symbol of life. The serpent upon the tree is the same  in character, both are representative of the tree of life.  The story of Moses will well illustrate this, when he  erected in the wilderness this effigy, which stood as a  sign of hope and life, as the cross is used by the Catholics  of the present day ; the cross then, as now, being simply  an emblem of the Creator, used as a token of resurrection  or regeneration. iEsculapius, as the restorer of health,  has a rod or Phallus with a serpent entwined.   The Rev. M. Morris has shown that the raising of the  May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom of  India or Egypt, and is typical of the fructifying powers  of spring.   The May festival was carried on with great licentious¬  ness by the Romans, and was celebrated by nearly all  peoples as the month consecrated to Love. The May-day  in England was the scene of riotous enjoyment, very  nearly approaching to the Roman Floralia. No wonder  the Puritans looked upon the May-pole as a relic of  Paganism, and in their writings may be gleaned much  of the licentious character of the festival.   Philip Stubbes, a Puritan writer in the reign of Elizabeth,  thus describes a May-day in England: “ Every parishe,  towne, and village assemble themselves together, bothe  men, women, and children, olde and younge even indiffer¬  ently ; and either goyng all together, or devidyng  themselves into companies, they go some to the woods  and groves, some to one place, some to another, where  thei spend all the night in pleasant pastymes; and in the  mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes  and branches of trees, to deck their assemblies withall. But their cheerest jewell thei bryng from thence  is their Maie pole, whiche thei bryng home with great  veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke  of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers  placed on the tippe of his homes, and these oxen drawe  home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which  is covered all over with flowers and hearbes, bound  rounde aboute with strynges from the top to the bottome,  and sometyme painted with variable colours, with two  or three hundred men, women, and children, foliowyng  it with great devotion. And thus beyng reared up, with  handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei  strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute  it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by  it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and  daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication  of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather  the thyng itself.” The ceremony was almost identical with the Roman  festival, where the Phallus was introduced with garlands.  Both were attended with the same licentiousness, for  Stubbes gives a further account of the depravity attending  the festivities. PILLARS Another type of emblem was the stone pillar, remains of  which still exist in the British Isles. These pillars or so  called crosses generally consist of a shaft of granite with a carved head. In the West of England crosses are very  common, standing in the market and receiving the name  of “ The Cross.”   These stone pillars were first erected in honour of the  Phallic deity, and on the introduction of Christianity  were not destroyed, but consecrated to the new faith,  doubtless to honour the prejudices of the people. These  monolisks abound in the Highlands, they are stones set  up on end, some twenty-four or thirty feet high, others  higher or lower and this sometimes where no such stones  are to be quarried.   We learn that the Bacchus of the Thebans was a pillar.  The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,  consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an  account of this practice, as also does Theophrastus, who  speaks of it as a custom for a superstitious man, when  he passed by these anointed stones in the streets to take  out a phial of oil and pour it upon them and having  fallen on his knees to make his adorations, and so depart.   In various parts of the Bible the Pillar is referred to as  of a sacred character, as in Isaiah xix. 19, 20, “In that  day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the  land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah,  and it should be for a sign and a witness to the Lord.”   The Orphic Temples were doubtless emblems of the  same principle of the mystic faiths of the ancients, the  same as the Round Towers of Ireland, a history of which  was collected by O’Brien, who describes the Towers as  “ Temples constructed by the early Indian colonists  of the country in honour of the 'Fructifying principle of  nature, emanating as was supposed from the Sun, or the  deity of desire instrumental in that principle of universal  generativeness diffused throughout all nature.”According to the same author these towers were very  ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have  been found in Phoenicia. “ The Irish themselves,” says  O’Brien, “ designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower  of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the  priest who attended them * Aoi Bail-toir ’ or superinendent of Baal tower.” This Baal was worshipped  wherever the Phoenicians went, and was represented by  a pillar or stone or similar objects. The stone that  Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,  became afterwards an object of worship to the Phoenicians.   The earliest navigators of the world were the Phoenicians,  they founded colonies and extended their commerce  first to the isles of the Mediterranean, from thence to  Spain, and then to the British Isles. Historians have  accorded to them the settlements of the most remote  localities. They formed settlements in Cyprus, and  Atticum, according to Josephus, was the principal settle¬  ment of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony  is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed  themselves of the best part of Spain.   Where the Phoenicians settled, there they introduced  their religion, and it is in these countries we find the  remains of ancient stone and pillar worship. Loggin stones are by Payne Knight considered as  Phallic emblems. “ Their remains,” he says, “ are still  extant, and appear to have been composed of a crone set  into the ground, and another placed upon the point of  it and so nicely balanced that the wind could move it,  though so ponderous that no human force, unaided by  machinery, can displace it; whence they are called  * logging rocks * and * pendre stones,’ as they were  anciently * living stones ’ and * stones of God,’ titles  which differ very little in meaning from that on the  Tyrian coins. Damascius saw several of them in the  neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,  particularly one which was then moved by the wind;  and they are equally found in the Western extremities  of Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain,  and in China.”   Bryant mentions it as very usual among the Egyptians  to place with much labour one vast stone upon another  for a religious memorial.   Such immense masses, being moved by causes seeming  so inadequate, must naturally have conveyed the idea of  spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded  them that they were animated by an emanation of the  vital spirit, whence they were consulted as oracles, the  responses of which could always be easily obtained by  interpreting the different oscillatory movements into  nods of approbation or dissent.   Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and  many other places, even in modern times. A physician,  writing to Dr. Inman, says : “ I was in Egypt last winter  (1865-66), and there certainly are numerous figures of  gods and kings, on the walls of the temple at Thebes,  depicted with the male genital erect. The great temple  at Karnak is, in particular, full of such figures, and the  temple of Danclesa likewise, though that is of much later  date, and built merely in imitation of old Egyptian art.  The same inspiring bas-reliefs are pointed out by Ezek.   B 14. I remember one scene of a king (Rameses II)  returning in triumph with captives, many of whom were  undergoing the process of castration.”   Obelisks were also representative of the same emblem.  Payne Knight mentions several terminating in a cross,  which had exactly the appearance of one of those crosses  erected in churchyards and at cross roads for the adoration  of devout persons, when devotions were more prevalent  than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of  trees, upright stones have all the same signification, and  are means by which the male element was symbolised. The Triune idea is to be found in the system of almost  every nation. All have their Trinity in Unity, three in  one, which can be distinctly recognised in the cross.  The Triad is the male or triple, the constitution of the  three persons of most sacred Trinity forming the Triune  system. In the analysis of the subject by Rawlinson,  we find the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated  with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of  the Assyrians, represents the Phallus or central organ  or the Linga, the membrum virile. The cognomen Anu  was given to the right testis, while that of Hea designated  the left.   It was only natural that Asshur being deified, his  appendages should be deified also. “ Beltus,” says  Inman, “ was the goddess associated with them, the four  together made up Arba or Arba-il, the four great gods,”  the Trinity in Unity. The idea thus broached receives great confirmation when we examine the particular stress  laid in ancient times respecting the right and left side of  the body in connection with the Triad names given to  offspring mentioned in the scriptures with the titles given  to Anu and Hea. The male or active principle was typified  by the idea of “solidity ” and “ firmness,” and the  females or passive by the principles of “ water,” “ soft¬  ness,” and other feminine principles. Thus the goddess  Hea was associated with water, and according to Forlong,  the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes repre¬  sented to be the great Hea, without whom there was no  creation or life, and whose godhead embraced also the  female element water.   Rawlinson also gives a similar conclusion, and states  as far as he could determine the third divinity or left side  was named Hea, and he considered this deity to correspond  to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep,  ruler of the abyss, and king of the rivers. As Darwin  and his coadjutors teach, mankind, in common with all  animal life, originally sprung from the sea ; so physiology  teaches that each individual had origin in a pond of water.  The fruit of man is both solid and fluid. It was natural  to imagine that the two male appendages had a distinct  duty, that one formed the infant, the other water in which  it lived, that one generated the male, the other the female  offspring; and the inference was then drawn that water  must be feminine, the emblem of all possible powers of  creation.   It will be seen that the names and signification of the  gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in  Genesis xxx. 13, we find Asher given as a personality,  which signifies “ to be straight,” “ upright,” “ fortunate,”  “ happy.” Asher was the supreme god of the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male  structure and creative energy. The same idea of the  creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the  Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone  relics.   To a rude and ignorant people, enslaved with such a  religion, it was an easy step from the crude to the more  refined sign, from the offensive to a more pictured and  less obnoxious symbol, from the plain and self-evident  to the mixed, disguised, and mystified, from the unclothed  privy member to the cross.    THE CROSS   The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,  Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur, Anu,  and Hea forming the “ tau.” This mark of the Christians,  Greeks, and Hebrews became the sign or type of the  deities representing the Phallic trinity, and in time became  the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight  that “ The male organs of generation are sometimes found  represented by signs of the same sort, which properly  should be called the symbol of symbols. One of the most  remarkable of these is a cross, in the form of the letter  (T), which thus served as the emblem of creation and  generation before the Church adopted it as a sign of  salvation.” Another writer says, “ Reverse the position of the  triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure  of the ancient c tau ’ of the Christians, Greeks, and ancient  Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of   the cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian,  Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and  Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the  exact prototype and image of the cross, or rather, to state  the fact in order of merit and time, the cross is made in  the exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf,  having three lobes to it, became a symbol of the triad.  As the male genital organs were held in early times  to exemplify the actual male creative power, various  natural objects were seized upon to express the theistic  idea, and at the same time point to those parts of the human  form. Hence, a similitude was recognised in a pillar,  a heap of stones, a tree between two rocks, a club between  two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two  ribbons with the two ends pendant, a thumb and two  fingers, the caduceus. Again, the conspicuous part of  the sacred triad Asshur is symbolised by a single stone  placed upright—the stump of a tree, a block, a tower,  spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while  eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like  represented the remaining two portions, altogether called  Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which seems  designed to perpetuate the triad, since it signifies * my  Lord the Trinity,’ or * my God is three.’ ”   We must not omit to mention other Phallic emblems,  such as the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch,  fire, a knobbed stick, the crozier; and still further per¬  sonified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,  Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,  Asher, and others.   If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur,  Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in  his day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says “ whoredom was committed with the  images of men,” or, as the marginal note has it, images  of “ a male ” (Ezek. xvi. 17). It was with this god-mark  —a cross in the form of the letter T—that Ezekiel was  directed to stamp the foreheads of the men of Judata  who feared the Lord (Ezek. ix. 4).   That the cross, or crucifix, has a sexual origin we  determine by a similar rule of research to that by which  comparative anatomists determine the place and habits of  an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric  tooth which belongs to an antique religious body physical, and that essentially human. A study of some of the  earliest forms of faith will lift the veil and explain the  mystery.   India, China, and Egypt have furnished the world with  a genus of religion. Time and culture have divided and  modified it into many species and countless varieties.  However much the imagination was allowed to play upon  it, the animus of that religion was sexuality—worship  of the generative principle of man and nature, male and  female. The cross became the emblem of the male  feature, under the term of the triad —three in one. The  female was the unit ; and, joined to the male triad, con¬  stituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes  paid to the male, sometimes to the female, or to the two  in one.   So great was the veneration of the cross among the  ancients that it was carried as a Phallic symbol in the  religious processions of the Egyptians and Persians.  Higgins also describes the cross as used from the earliest  times of Paganism by the Egyptians as a banner, above  which was carried the device of the Egyptian cities.   The cross was also used by the ancient Druids, who held it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the significa¬  tion of eternal life. Schedeus describes it as customary  for the Druids “ to seek studiously for an oak tree, large  and handsome, growing up with two principal arms in  the form of a cross , besides the main stem upright. If  the two horizontal arms are not sufficiently adapted to  the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they  consecrate in this manner: Upon the right branch they  cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’;  upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius ’;  upon the left branch ‘ Belenus ’; over this, above the  going off of the arms, they cut the name of the god Thau ;  under all, the same repeated, Thau.”    YONI   There is in Hindostan an emblem of great sanctity,  which is known as the “ Linga-Yoni.” It consists of  a simple pillar in the centre of a figure resembling the  outline of a conical ear-ring. It is expressive of the female  genital organ both in shape and idea. The Greek letter  “ Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a  house.   Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means  (1) the vulva, (2) the womb, (3) the place of birth, (4)  origin, (5) water, (6) a mine, a hole, or pit. As Asshur  and Jupiter were the representatives of the male potency,  so Juno and Venus were representatives of the female  attribute. Moore, in his “ Oriental Fragments,” says :  “ Oriental writers have generally spelled the word,  * Yoni,’ which I prefer to write ‘ IOni.’ As Lingam was the vocalised cognomen of the male organ, or deity,  so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight: “ The  female organs of generation were revered as symbols  of the generative powers of nature or of matter, as those  of the male were of the generative powers of God. They  are usually represented emblematically by the shell  Concoa Veneris , which was therefore worn by devout  persons of antiquity, as it still continues to be by the  pilgrims of many of the common people of Italy ” (“ On  the worship of Priapus,” p. 28).   If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,  is supplied with types and representative figures of himself,  so the female feature is furnished with substitutes and  typical imagery of herself.   One of these is technically known as the sistrum of  Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the  fenestrum, or opening, are bent so that they cannot be  taken out, and indicate that the door is closed. It signifies  that the mother is still virgo intacta —a truly immaculate  female—if the truth can be strained to so denominate  a mother. The pure virginity of the Celestial Mother  was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted  Virgin Mary now adored was born. We might infer  that Solomon was acquainted with the figure of the  sistrum , when he said, “ A garden enclosed is my spouse,  a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12).  The sistrum, we are told, was only used in the worship  of Isis, to drive away Typhon (evil).   The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or  plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte,  Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.  The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian  monuments, and yet more frequently on bas-reliefs. Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the  Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam,  Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius,  Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter,  Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the cross,  tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others ;  while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,  Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele,  Ceres, Eve, Frea, Frigga ; the queen of Heaven, the oval,  the trough, the delta, the door, the ark, the ship, the  chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,  and a number of other names. Lucian, who was an  Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the  Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch  with this inscription on them, “ These Phalli I, Bacchus,  dedicate to my step-mother Juno.”   The Papal religion is essentially the feminine, and built  on the ancient Chaldean basis. It clings to the female  element in the person of the Virgin Mary. Naphtali  (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers,  if there be any meaning in a concrete name. Bear in mind,  names and pictures perpetuate the faith of many peoples.  Neptoah is Hebrew for “ the vulva,” and, A 1 or El being  God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is  “ the Yoni is my God,” or “ I worship the Celestial  Virgin.” The Philistine towns generally had names  strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or  esb, means “ fire, heat,” and dod means “ love, to love,”  “ boiled up,” “ be agitated,” the whole signifying “ the  heat of love,” or “ the fire which impels to union.”  Could not those people exclaim . Our “ God is love ” ?  (i John iv. 8).   The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.    26    Phallic Worship    though the language is dressed in the habiliments of seem¬  ing decency. The burden of thought of most of it bears  direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman  say, “ He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S.  i. 13). Again, of the Phallus, or Linga, she says, “I  will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs  thereof” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms  of the male genitals.  The nations surrounding the Jews practising the  Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not  to be supposed that the Jews escaped their influence.  It is indeed certain that the worship of the Phallics was a  great and important part of the Hebrew worship.   This will be the more plainly seen when we bear in  mind the importance given to circumcision as a covenant  between God and man. Another equally suggestive  custom among the Patriarchs was the act of taking the  oath, or making a sacred promise, which is commented  upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopedia. He says :  “ Another primitive custom which obtained in the  patriarchal age was, that the one who took the oath put  his hand under the thigh of the adjurer (Gen. xxiv. 2,  and xlvii. 29). This practice evidently arose from the  fact that the genital member, which is meant by the euphe¬  mistic expression thigh, was regarded as the most sacred  part of the body, being the symbol of union in the tenderest  relation of matrimonial life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the  ancients. Compare Gen. xlvi. 26; Exod. i. 5 ; Judges  vii. 30. Hence the creative organ became the symbol  of the Creator, and the object of worship among all  nations of antiquity. It is for this reason that God  claimed it as a sign of the covenant between himself  and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing  therefore could render the oath more solemn in those days  than touching the symbol of creation, the sign of the  covenant, and the source of that issue who may at any  future period avenge the breaking a compact made with  their progenitor.” From this we learn that Abraham,  himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as an  emblem of the Creator. We also learn that the rite of  circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From  Herodotus we are informed that the Syrians learned  circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews.  Says Dr. Inman: “I do not know anything which  illustrates the difference between ancient and modern  times more than the frequency with which circumcision is  spoken of in the sacred books, and the carefulness with  which the subject is avoided now.”   The mutilation of male captives, as practised by Saul  and David, was another custom among the worshippers  of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The practice  was to debase the victims and render them unfit to take  part in the worship and mysteries. Some idea can be  formed of the esteem in which people in former times  cherished the male or Phallic emblems of creative power  when we note the sway that power exercised over them.  If these organs were lost or disabled, the unfortunate one  was unfitted to meet in the congregation of the Lord,  and disqualified to minister in the holy temples. Excessive    28    Phallic Worship    punishment was inflicted upon the person who had the  temerity to injure the sacred structure. If a woman were  guilty of inflicting injury, her hand was cut off without  pity (Deut. xxv. 12). The great object of veneration  in the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic  emblem, a symbol of the preservation of the germ of  life.   In the historical and prophetic books of the Old  Testament we have repeated evidence that the Hebrew  worship was a mixture of Paganism and Judaism, and  that Jehovah was worshipped in connection with other  deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to  have “ removed the high places, and broken the images,  and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces  the brazen serpent that Moses had made, for unto those  days the children of Israel did burn incense to it.” The  Ashera, or sacred groves here alluded to are named  from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes  as the proper name of the goddess ; while Ashera is the  name of the image of the goddess. Rawlinson, in his  Five Great Monarchies of the Ancient World , describes  Ashera to imply something that stood straight up, and  probably its essential element was the stem of a tree,  an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the  Tree of Life of the Scriptures. This stem, which stood  for the emblem of life, was probably a pillar, or Phallus,  like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove  or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We  read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh “ set up a graven  image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older  reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image  or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the  worship of Baal, the Priapus of the Greeks and Romans,    Phallic Worship    2 9   was extensively practised by the Jews. Pillars and  groves were reared in his name.   In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected  an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which even survived  the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple  of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x.  18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on  the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,  undoubtedly proves that during the monarchial period  of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between  the two kingdoms of Judah and Israel were between  the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the  priesthood at the chief places of worship, concerning the  true patriarch, and each party manufacturing and inserting  legends to give a more ancient and important part to its  own faith.   It is not at all improbable that the conflict was between  the two portions of the Phallic faith, the Lingam and  Yoni parties. The cause of this conflict was the erection  of the consecrated stones or pillars which were put up  by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar  erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according  to Bernstein the word altar can only be used for the erection  of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar  of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the  tomb of Rachel.   A great portion of the facts have been suppressed by  the translators, who have given to the world histories  which have glossed over the ancient rites and practices  of the Jews.   An instance is given by Forlong on the important  word “ Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the  Jews addressed their devotions. He says, “ It should not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English  readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur  was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,  that this would be clear to Christians were the Jewish  writings translated according to the first ideas of the  people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God,’  * Theos,’ £ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .  Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship  of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations  are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18.  Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial  of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar  as a witness, that he would not pass over it. Connected  with this pillar worship is the ceremony of anointing  by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob  at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental  Memoirs, the “pouring of oil upon a stone is practised  at this day upon many a shapeless stone throughout  Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids as practising  the same rite, and describes many of the stones found in  England as having a cavity at the top made to receive the  offering. The worship of Baal like the worship of  Priapus was attended with prostitution, and we find the  Jews having a similar custom to the Babylonians.   Payne Knight gives the following account of it in his  work: “ The women of every rank and condition held  it to be an indispensable duty of religion to prostitute  themselves once in their lives in her temple to any stranger  who came and offered money, which, whether little or  much, was accepted, and applied to a sacred purpose.  Women sat in the temple of Venus awaiting the selection  of the stranger, who had the liberty of choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she  has been selected by a piece of silver being cast into her  lap, and the rite performed outside the temple.”   Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even  in Palestine, and were a feature of the worship of Baal  Peor. The Hebrew prophets described and denounced  these excesses which had the same characteristics as the  rites of the Babylonian priesthood. The identical  custom is referred to in i Sam. ii. 22, where “ the sons of  Eli lay with the women that assembled at the door of the  tabernacle of the congregation.”   Words and history corroborate each other, or are apt  to do so if contemporaneous. Thus kadesh , or kaesh,  designate in Hebrew “ a consecrated one,” and history  tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will  be shown in the sequel.   That the religion was dominating and imperative is  determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous  refusal to listen to the priest was death to the offender.  To us it is inconceivable that the indulgence of passion  could be associated with religion, but so it was. Much  as it is covered over by altered words and substituted  expressions in the Bible—an example of which see men  for male organ, Ezek. xvi. 17—it yet stands out offensively  bold. The words expressive of “ sanctuary,” “ conse¬  crated,” and “ Sodomite,” are in the Hebrew essentially  the same. They indicate the passion of amatory devotion.  It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and  Italy of classic times ; and we find that “ holy women ”  is a title given to those who devote their bodies to be used  for hire, the price of which hire goes to the service of the  temple.   As a general rule, we may assume that priests who make or expound the laws, which they declare to be from God,  are men, and, consequently, through all time, have  thought, and do think, of the gratification of the masculine  half of humanity. The ancient and modern Orientals  are not exceptions. They lay it down as a momentous  fact that virginity is the most precious of all the possessions  of a woman, and, being so, it ought, in some way or  other, to be devoted to God.   Throughout India, and also through the densely  inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a  class of females who dedicate themselves to the service  of the deity whom they adore; and the rewards accruing  from their prostitution are devoted to the service of the  temple and the priests officiating therein.   The temples of the Hindus in the Dekkan possessed  their establishments. They had bands of consecrated  dancing-girls called the Women of the Idol , selected in their  infancy by the priests for the beauty of their persons, and  trained up with every elegant accomplishment that could  render them attractive.   We also find David and the daughters of Shiloh per¬  forming a wild and enticing dance ; likewise we have the  leaping of the prophets of Baal.   It is again significant that a great proportion of Bible  names relate to " divine,” sexual, generative, or creative  power; such as Alah, “ the strong one ” ; Ariel, “ the  strong Jas is El ” ; Amasai, “ Jah is firm ” ; Asher,  “ the male ” or “ the upright organ ” ; Elijah, “ El is  Jah ” ; Eliab, “ the strong father ” ; Elisha, “ El is  upright ” ; Ara, “ the strong one,” “ the hero ” ; Aram,  “ high,” or, “ to be uncovered ” ; Baal Shalisha, “ my  Lord the trinity,” or “ my God is three ” ; Ben-zohett,  “ son of firmness ” ; Camon, “ the erect One ” ; Cainan,    “ he stands upright ” ; these are only a few of the many  names of a similar signification.   It will be seen, from what has been given, that the Jews,  like the Phoenicians (if they were not the same), had the  same ceremonies, rites, and gods as the surrounding  nations, but enough has been said to show that Phallic  worship was much practised by the Jews. It was very  doubtful whether the Jehovah-worship was not of a  monotheistic character, but those who desire to have a  further insight into the mysteries of the wars between the  tribes should consult Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following interesting chapter is taken from a  valuable book issued a few years ago anonymously :   “ Mother Earth ” is a legitimate expression, only of  the most general type. Religious genius gave the female  quality to the earth with a special meaning. When once  the idea obtained that our world was feminine, it was  easy to induce the faithful to believe that natural chasms  were typical of that part which characterises woman.  As at birth the new being emerges from the mother,  so it was supposed that emergence from a terrestrial  cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion  to the resemblance between the sign and the thing signified  was the sacredness of the chink, and the amount of virtue  which was imparted by passing through it. From natural  caverns being considered holy, the veneration for apertures  in stones, as being equally symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen  in those structures which are called Druidical, both in  the British Isles and in India. It is impossible to say  when these first arose; it is certain that they survive in  India to this day. We recognise the existence of the  emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to  look “ to the hole of the pit whence ye are digged.” We  have also an indication that chasms were symbolical  among the same people in Isaiah lvii. 5, where the wicked  among the Jews were described as “ inflaming themselves  with idols under every green tree, and slaying the children  in the valleys under the clefts of the rocks.” It is possible  that the “ hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar  signification. In modern Rome, in the vestibule of the  church close to the Temple of Vesta, I have seen a large  perforated stone, in the hole of which the ancient Romans  are said to have placed their hands when they swore a  solemn oath, in imitation, or, rather, a counterpart, of  Abraham swearing his servant upon his thigh—that is  the male organ. Higgins dwells upon these holes, and  says: “ These stones are so placed as to have a hole under  them, through which devotees passed for religious  purposes. There is one of the same kind in Ireland,  called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham  Crags there is a place made for the devotees to pass  through. We read in the accounts of Hindostan that  there is a very celebrated place in Upper India, to which  immense numbers of pilgrims go, to pass through a place  in the mountains called “ The Cow’s Belly.” In the  Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon  the surface of which there is a natural crevice, which  communicates with a cavity opening below. This place  is used by the Gentoos as a purification of their sins, which they say is effected by their going in at the opening  below, and emerging at the cavity above—“ born again.”  The ceremony is in such high repute in the neighbouring  countries that the famous Conajee Angria ventured by  stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform  the ceremony, and got off undiscovered. The early  Christians gave them a bad name, as if from envy; they  called these holes “ Cunni Diaboli ” ( Anacalypsis , p. 346). The Romans call the feasts of Bacchus, Bacchanalia  and Liberalia, because Bacchus and Liber, while two names  for the same god, the festivals were celebrated  at different times and in a somewhat different manner. The Liberalia is celebrated  on the 17th of March, with the most licentious gaiety,  when an image of a Phallus is carried openly in  triumph. These festivities are more particularly celebrated among the rural or agricultural population, who, when the preparatory labour of the agriculturist is over,  celebrate with joyful activity Nature’s reproductive  powers, which in due time is to bring forth the fruits.  During the festival, a car containing a huge phallus is  drawn along accompanied by its worshippers, who indulge in rather obscene songs and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest matron suddenly lays aside her decency and runs screaming  among the woods and hills half-naked, with dishevelled  hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine.  The Bacchanalian feasts are celebrated in the latter part  of October when the harvest is completed. Wine and  figs are carried in the procession of the Bacchants, and  lastly come the Phalli, followed by honourable virgins,  called canephora , who carry baskets of fruit. These were  followed by a company of men who carry poles, at the end of which are figures representing the organ of  generation. The men sing the Phallica and are crowned  with violets and ivy, and have their faces covered with  other kinds of herbs. These are followed by some  dressed in women’s apparel, striped with white, reaching  to their ancles, with garlands on their heads, and wreaths  of flowers in their hands, imitating by their gestures the  state of inebriety. The priestesses run in every direction  shouting and screaming, each with a thyrsus in their  hands. Men and women all intermingle, dancing and  frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus says  the festivals are carried into the night, and it is then  frenzy reaches its height. Deodorus says, “ In performing  the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about  frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then  the women in a body offer the sacrifices, and roar out the  praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation  of the ancient Mamades, who accompanied him.” These  festivities are carried into the night, and as the celebrators  become heated with wine, they degenerate into extreme  licentiousness.   Similar enthusiastic frenzy is exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in  his Worship of Serpents , on the morning of the Feast run naked through the streets, striking the women  they met on the hands and belly, which is held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing  the same ostentatious display as the Bacchants at the  festival of Bacchanalia.   The festival of Venus is celebrated towards the beginning of April, and the Phallus is again drawn in a car,  followed by a procession of Roman women to the temple  of Venus. Says a writer, “ The loose women of the town  and its neighbourhood, called together by the sounding  of horns, mix with the multitude in perfect nakedness,  and excite their passions with obscene motions and  language until the festival ends in a scene of mad revelry,  in which all restraint is laid aside.”   It is said that these festivals take their rise from Egypt,  from whence they were brought into Greece by Metampus,  where the triumph of Osiris was celebrated with secret  rites, and from thence the Bacchanals drew their original;  and from the feasts instituted by Isis came the orgies of  Bacchus.  It seems not at all improbable that the deities wor¬  shipped by the ancient Britons and the Irish, were no  other then the Phallic deities of the ancient Syrians and  Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius  Periegites, who lived in the time of Augustus Caesar,  states that the rites of Bacchus were celebrated in the  British Isles ; while Strabo, who lived in the time of  Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier writer  described the worship of the Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,  says, the supreme god above the rest was called Seodhoc  and Baal. The name of Baal is found both in Wales,  Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.   The same god, according to O’Brien, was the chief deity  of the Irish, in whose honour the round towers were  erected, which structures the ancient Irish themselves  designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers,  xxii, will be found a mention of a similar pillar consecrated  to Baa]. Many of the same customs and superstitions  that existed among the Druids and ancient Irish, will  likewise be found among the Israelites. On the first  day of May, the Irish made great fires in honour of Baal,  likewise offering him sacrifices. A similar account is  given of a custom of the Druids by Toland, in an account  of the festival of the fires ; he says :—“ on May-day eve  the Druids made prodigious fires on these earns, which  being everyone in sight of some other, could not but  afford a glorious show over a whole nation.” These  fires are said to be lit even to the present day by the  Aboriginal Irish, on the first of May, called by them  Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as  given them in the Highlands of Scotland.   A similar practice to this will be noticed as mentioned in  the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship  of Baal, are said to have passed their children through the  fire of Baal, which seems to have been a common practice,  as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the  same thing. Higgins in his Anacalypsis, says this super¬  stitious custom still continues, and that on “ particular  days great fires are lighted, and the fathers taking the  children in their arms, jump or run through them, and  thus pass their children through them; they also light two fires at a little distance from each other, and drive  their cattle between them.” It will be found on reference  to Deuteronomy, that this very practice is specially for¬  bidden. In the rites of Numa, we have also the sacred  fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra,  and of India, accompanied with an establishment of  nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have been  kept burning by the nuns of Kildare, which was established  by St. Bridget. This fire was never blown with the  mouth, that it might not be polluted, but only with  bellows; this fire was similar to that of the Jews, kept  burning only with peeled wood, and never blown with  the mouth. Hyde describes a similar fire which was kept  burning in the same way by the ancient Persians, who  kept their sacred fire fed with a certain tree called Hawm  Mogorum; and Colonel Vallancey says the sacred fire  of the Irish was fed with the wood of the tree called  Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at Kildare,  the glorious Bridget was rendered illustrious by many  miracles, amongst which was the sacred fire, which had  been kept burning by nuns ever since the time of the  Virgin.   The earliest sacred places of the Jews were evidently  sacred stones, or stone circles, succeeded in time by  temples. These early rude stones, emblems of the  Creator, were erected by the Israelites, which in no way  differed from the erections of the Gentiles. It will be  found that the Jews to commemorate a great victory,  or to bear witness of the Lord, were all signfied by stones :  thus, Joshua erected a stone to bear witness ; Jacob  put up a stone to make a place sacred ; Abel set up the  same for a place of worship; Samuel erected a stone as  a boundary, which was to be the token of an agreement made in the name of God. Even Maundrel in his travels  names several that he saw in Palestine. It is curious that  where a pillar was erected there, sometime after, a temple  was put up in the same manner that the Round Towers  of Ireland were,—always near a church, but never formed  part of it. We find many instances in the Scriptures of the  erection of a number of stones among the early Israelites,  which would lead us to conclude that it was not at all  unlikely that the early places of worship among them, were  similar to the temples found in various parts of Great  Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4,  that Moses rose up early in the morning, and builded  an altar under the hill, and twelve pillars, according to  the twelve tribes of Israel, were erected. It is also  given out that when the children of Israel should pass  over the Jordan, unto the land which the Lord giveth  them, they should set up great stones, and plaster them  with plaster, and also the words of the law were to be  written thereon. In many other places stones were  ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated  instances are given that the stones should be twelve  in number and unhewn.   Stone temples seem to have been erected in all countries  of the world, and even in America, where, among the  early American races are to be found customs, superstitions,  and religious objects of veneration, similar to the  Phoenicians. An American writer says:—“ There is  sufficient evidence that the religious customs of the  Mexicans, Peruvians and other American races, are  nearly identical with those of the ancient Phoenicians. . . .  We moreover discover that many of their religious terms  have, etymologically, the same origin.” Payne Knight,  in his Worship of Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at Stonehenge and other  places, were of a Phoenician origin, which was simply  a temple of the god Bacchus.  Of all the nations of antiquity the Persians were the  most simple and direct in the worship of the Creator.  They were the puritans of the heathen world, and not  only rejected all images of God and his agents, but also  temples and altars, according to Herodotus, whose  authority we prefer to any other, because he had an  opportunity of conversing with them before they had  adopted any foreign superstitions. As they worshipped  the ethereal fire without any medium of personification  or allegory, they thought it unworthy of the dignity of  the god to be represented by any definite form, or circumscribed to any particular place. The universe was  his temple, and the all-pervading element of fire his only  symbol. The Greeks appear originally to have held  similar opinions, for they were long without statues  and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by  Adrastus—who lived in an age before the Trojan war—  which consisted of columns only, without wall or roof,  like the Celtic temples of our northern ancestors, or the  Phyroetheia of the Persians, which were circles of stones  in the centre of which was kindled the sacred fire, the  symbol of the god. Homer frequently speaks of places  of worship consisting of an area and altar only, which were  probably enclosures like those of the Persians, with an     42    Phallic Worship    altar in the centre. The temples dedicated to the creator  Bacchus, which the Greek architects called kypcethral,  seem to have been anciently of this kind, whence probably  came the title (“ surround with columns ”) attributed  to that god in the Orphic litanies. The remains of one of  these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the  inhabitants call the temple of Serapis ; but the ornaments  of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it  to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same  deity worshipped under another form, being usually a  personification of the sun. The architecture is of the  Roman times ; but the ground plan is probably that of a  very ancient one, which this was made to replace—for  it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,  published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square  buildings which enclose it are not properly parts of the  temple, but apartments of the priests, places for victims  and sacred utensils, and chapels dedicated to the sub¬  ordinate deities, introduced by a more complicated and  corrupt worship and probably unknown to the founder  of the original edifice. The portico, which runs parallel  with these buildings, encloses the temenss , or area of  sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was  circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple  in Zeeland, and the Indian pagoda before described.  In the centre was the holy of holies, the seat of the god,  consisting of a circle of columns raised upon a basement,  without roof or walls, in the middle of which was probably  the sacred fire or some other symbol of the deity. The  square area in which it stood was sunk below the natural  level of the ground, and, like that of the Indian pagoda,  appears to have been occasionally floated with water;  the drains and conduits being still to be seen, as also several  fragments of sculpture representing waves, serpents, and  various aquatic animals, which once adorned the basement.  The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the  Orphic hymn above cited, the sun in his character of  extinguisher of the fires which once pervaded the earth.  He is supposed to have done this by exhaling the waters  of the ocean and scattering them over the land, which was  thus supposed to have acquired its proper temperature  and fertility. For this reason the sacred fire, the essential  image of the god, was surrounded by the element which  was principally employed in giving effect to the beneficial  exertions of the great attribute.   From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus  Siculus, it seems evident that Stonehenge and all the monu¬  ments of the same kind found in the north, belong to the  same religion which appears at some remote period to  have prevailed over the whole northern hemisphere.  According to that ancient historian, the Hyperboreans  inhabited an island beyond Gaul , as large as Sicily , in which  Apollo was worshipped in a circular temple considerable for  its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of  the Greeks of that age, can mean no other than the sun,  which according to Caesar was worshipped by the Germans,  when they knew of no other deities except fire and the  moon. The island can evidently be no other than Britain,  which at that time was only known to the Greeks by the  vague reports of the Phoenician mariners ; and so uncertain  and obscure that Herodotus, the most inquisitive and  credulous of historians, doubts of its existence. The  circular temple of the sun being noticed in such slight and  imperfect accounts, proves that it must have been some¬  thing singular and important; for if it had been an  inconsiderable structure, it would not have been mentioned at all; and if there had been many such in the country,  the historian would not have employed the singular  number.   Stonehenge has certainly been a circular temple, nearly  the same as that already described of the Bacchus at.  Puzznoli, except that in the latter the nice execution and  beautiful symmetry of the parts are in every respect the  reverse of the rude but majestic simplicity of the former.  In the original design they differ but in the form of the  area. It may therefore be reasonably supposed that we  have still the ruins of the identical temple described by  Hecatasus, who, being an Asiatic Greek, might have  received his information from Phoenician merchants, who  had visited the interior parts of Britain when trading there  for tin. Anacrobius mentions a temple of the same kind  and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated  to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The  large obelisks of stone found in many parts of the north,  such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in  Yorkshire, belong to the same religion; obelisks being,  as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they  represented both by their form and name .—Pajne Knight’s  Worship of Priapus.    Says Hyslop :—“ The hot cross-buns of Good Friday,  and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in  the Chaldean rites just as they do now. The buns known,  too, by that identical name, were used in the worship of the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte),  as early as the days of Cecrops, the founder of Athens,  1,500 years before the Christian era.” “ One species of  bread,” says Bryant, “ ‘ which used to be offered to the  gods, was of great antiquity, and called Boun’ Diogenes  mentioned * they were made of flour and honey.’ ” It  appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this  lecherous worship. He says :—“ The children gather  wood, the fathers kindle the fire, and the women knead  the dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer.  vii., 18). Hyslop does not add that the “ buns ” offered  to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities,  were framed in the shape of the sexual organs, but that  they were so in ancient limes we have abundance of  evidence.   Martial distinctly speaks of such things in two epigrams,  first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein  the female part is commemorated ; the cakes being made  of the finest flour, and kept especially for the palate of the  fair one.   Captain Wilford (“ Asiatic Researches,” viii., p. 365)  says :—“ When the people of Syracuse were sacrificing to  goddesses, they offered cakes called mulloi, shaped like the  female organ, and in some temples where the priestesses  were probably ventriloquists, they so far imposed on the  credulous multitude who came to adore the Vulva as to  make them believe that it spoke and gave oracles.”   We can understand how such things were allowed in  licentious Rome, but we can scarcely comprehend how  they were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent  surprise we find they were, from the second part of the  “ Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge,  in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in the form of the Phallus are made as offerings at Easter,  carried and presented from house to house. Dulare  states that in his time the festival of Palm Sunday, in the  town of Saintes, was called le fete des pinnes —feast of the  privy members—and that during its continuance the  women and children carried in the procession a Phallus  made of bread, which they called a pinne , at the end of their  palm branches ; these pinnes were subsequently blessed  by priests, and carefully preserved by the women during  the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered,  is a euphemism of the male organ, and it is curious to see  it united with the Phallus in Christendom. Dulare also  says that, in some of the earlier inedited French books on  cookery, receipts are given for making cakes of the  salacious form in question, which are broadly named. He  further tells us those cakes symbolized the male, in Lower  Limousin, and especially at Brives ; while the female  emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and other  places.    THE ARK AND GOOD FRIDAY   The ark of the covenant was a most sacred symbol in  the worship of the Jews, and like the sacred boat, or  ark of Osiris, contained the symbol of the principle of  life, or creative power. The symbol was preserved with  great veneration in a miniature tabernacle, which was  considered the special and sanctified abode of the god.  In size and manner of construction the ark of the Jews  and the sacred chest of Osiris of the Egyptians were exactly alike, and were carried in processions in a similar  manner   The ark or chest of Osiris was attended by the priests,  and was borne on the shoulders of men by means of  staves. The ark when taken from the temple was placed  upon a table, or stand, made expressly for the purpose,  and was attended by a procession similar to that which  followed the Jewish ark. According to Faber, the ark  was a symbol of the earth or female principle, containing  the germ of all animated nature, and regarded as the  great mother whence all tilings sprung. Thus the ark,  earth, and goddess, were represented by common symbols,  and spoken of in the old Testament as the “ ashera.”   The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians  were the Phallus, the Egg, and the Serpent; the first  representing the sun, fire, and male or generative principle  —the Creator; the second, the passive or female, the  germ of all animated things—the Preserver; and the  last the Destroyer: the Three of the sacred Trinity.  The Hindu women, according to Payne Knight, still  carry the lingam, or consecrated symbol of the generative  attribute of the deity, in solemn procession between two  serpents; and in a sacred casket, which held the Egg  and the Phallus in the mystic processions of the Greeks,  was also a Serpent.   “ The ark,” says Faber, “ was reverenced in all the  ancient religions.” It was often represented in the form of  a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of  the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show  that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important  place in their mysteries. In the story of Osiris, like that  of the Siva, will be found the reason for the emblem being  carried in the sacred chest, and the explanation of one of    48    Phallic Worship    the mysteries of the Egyptian priests. It is said that  Osiris was torn to pieces by the wicked Typhon, who  after cutting up the body, distributed the parts over the  earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought  them back to Egypt; but, being unable to find the part  which distinguished his sex, she had an image made of  wood, which was enshrined in an ark, and ordered to  be solemnly carried about in the festivals she had instituted  in his honour, and celebrated with certain secret rites.   The Egg, which accompanied the Phallus in the ark was  a very common symbol of the ancient faiths, which was  considered as containing the generation of life. The  image of that which generated all things in itself. Jacob  Bryant says :—“ The Egg, as it contained the principles  of life was thought no improper emblem of the ark,  in which were preserved the future world. Hence in the  Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal  ceremony consisted in the consecration of an egg.”  This egg was called the Mundane Egg.   The ark was likewise the symbol of salvation, the place  of safety, the secret receptacle of the divine wisdom.  Hence we find the ark of the Jews containing the tables  of the law; we find too that the Jews were ordered to  place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying  the idea of symbolised fertility : showing that the ark  was considered as the receptacle of the life principle—as  an emblem of the Creator.   With the Egyptians Osiris was supposed to be buried in  the ark, which represented the disappearance of the deity.  His loss, or death, constituted the first part of the mysteries,  which consisted of lamentations for his decease. After the  third day from his death, a procession went down to the  seaside in the night, carrying the ark with them. During  the passage they poured drink offerings from the river, and  when the ceremony had been duly performed, they raised a  shout that Osiris had again risen—that the dead had been  restored to life. After this followed the second or joyful  part of the mysteries. The s imila rity of this custom with  the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the  rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,  will be at once observed. It is further said that the missing  part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a  sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good  Friday brought together, also the Egg, for the origin of  the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as  breaking an egg with his horn, which signified the  liberating of imprisoned life at the opening or spring of  the year, which had been destroyed by Typhon. The  opening of the year at that time commenced in the spring,  not according to our present reckoning; thus, the Egg  was a symbol of the resurrection of life at the spring, or  our Easter time. The author of the “ Worship of the  Generative Powers,” describes the origin of the hot cross¬  bun at Easter, which is a further parallelism of the Christian  and Pagan festivals. The author also draws a further  conclusion—that the cakes or buns have in reality a  Phallic origin, for in France and other parts, the Easter  cakes were called after the membrun virile. The writer  says :—“ In the primitive Teutonic mythology, there  was a female deity named in old German, Ostara, and in  Anglo-Saxon, Eastre or Eostre ; but all we know of her  is the simple statement of our father of history, Bede,  that her festival was celebrated by the ancient Saxons in  the month of April, from which circumstance that month  was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or Eoster-  mona, and that the name of the goddess had been frequently given to the Paschal time, with which it was identical. The  name of this goddess was given to the same month by  the old Germans and by the Franks, so that she must have  been one of the most highly honoured of the Teutonic  deities, and her festival must have been a very important  one and deeply implanted in the popular feelings, or the  Church would not have sought to identify it with one of  the greatest Christian festivals of the year. It is understood that the Romans considered this month as dedicated  to Venus, no doubt because it was that in which the  productive powers of nature began to be visibly developed.  When the Pagan festival was adopted by the Church, it  became a moveable feast, instead of being fixed to the  month of April. Among other objects offered to the  goddess at this time were cakes, made no doubt of fine  flour, but of their form we are ignorant. The Christians  when they seized upon the Easter festival, gave them the  form of a bun, which indeed was at that time the ordinary  form of bread ; and to protect themselves and those who  ate them from any enchantment—or other evil influences  which might arise from their former heathen character—  they marked them with the Christian symbol—the cross.  Hence we derived the cakes we still eat at Easter under  the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings  attached to them; for multitudes of people still believe  that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,  they would be unlucky all the rest of the year.”  The earliest capital seems to have been the bell or  seed vessel, simply copied without alteration, except a  little expansion at the bottom to give it stability. The  leaves of some other plant were then added to it, and  varied in different capitals according to the different  meanings intended to be signified by the accessory symbols.  The Greeks decorated it in the same manner, with the  foliage of various plants, sometimes of the acanthus and  sometimes of the aquatic kind, which are, however,  generally so transformed by excessive attention to elegance,  that it is difficult to distinguish them. The most usual  seems to be the Egyptian acacia, which was probably  adopted as a mystic symbol for the same reasons as the  olive, it being equally remarkable for its powers of  reproduction. Theophrastus mentions a large wood of  it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so  that we reasonably suppose it to have been employed by  the Egyptians in the same symbolical sense. From  them the Greeks seem to have borrowed it about the  time of the Macedonian conquest, it not occurring in any  of their buildings of a much earlier date ; and as for the  story of the Corinthian architect, who is said to have  invented this kind of capital from observing a thorn  growing round a basket, it deserved no credit, being fully  contradicted by the buildings still remaining in Upper  Egypt.   The Doric column, which appears to have been the  only one known to the very ancient Greeks, was equally  derived from the Nelumbo; its capital being the same  seed-vessel pressed flat, as it appears when withered and  dry—the only state probably in which it had been seen in  Europe. The flutes in the shaft were made to hold  spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in  the “ Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and  blocks of the cornice were also derived from utility,  they having been intended to represent the projecting  ends of the beams and rafters which formed the roof.   The Ionic capital has no bell, but volutes formed in  imitation of sea-shells, which have the same symbolical  meaning. To them is frequently added the ornament which  architects call a honeysuckle, but which seems to be  meant for the young petals of the same flower viewed  horixontally, before they are opened or expanded. Another  ornament is also introduced in this capital, which they  call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of  eggs and spear-heads, the symbols of female generation  and male destructive power, or in the language of  mythology, of Venus and Mars .—Payne Knight.  Stripped, however, of all this splendour and magnificence it was probably nothing more than a symbolical  instrument, signifying originally the motion of the  elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele,  the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have  overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away  Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells  and clatter of metals were almost universally employed  as a means of consecration, and a charm against the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed  the new moon with such noises, which the simplicity of  the early ages employed almost everywhere to relieve  her during eclipses, supposed then to be morbid affections  brought on by the influence of an adverse power. The  title Priapus , by which the generative attribute is distinguished, seems to be merely a corruption of Brt'apuos  (clamorous); the beta and pi being commutable letters,  and epithets of similar meaning, being continually applied  both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many  Priapic figures, too, still extant, have bells attached to  them, as the symbolical statues and temples of the Hindus  are; and to wear them was a part of the worship of  Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find  them of extremely small size, evidently meant to be worn  as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests  of the Egyptians and also the high priests of the Jews,  hung them as sacred emblems to their sacerdotal garments ;  and the Brahmins still continue to ring a small bell at the  interval of their prayers, ablutions, and other acts of  devotion; which custom is still preserved in the Roman  Catholic Church at the elevation of the host. The  Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the  death of their kings, and we still retain the custom of  tolling a bell on such occasions, though the reason of it  is not generally known, any more than that of other  remnants of ancient ceremonies still existing. 1 It will  be observed that the bells used by the Christians very  probably came direct from the Buddhists. And from the  same source are derived the beads and rosaries of the  Roman Catholics, which have been used by the Buddhist   1 The above description is from Payne Knight’s “ Symbolical  Language of ancient Art and Mythology.” monks for over 2,000 years. Tinkling bells were  suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and  during the service the gods were invited to descend upon  the altars by the ringing of bells ; they were likewise  sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,  and were worn on the garments of the Bacchantes, much  in the same manner as they are used at our carnivals and  masquerades.The following curious fable is given by Sir William  Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin of  Phallic devotion:—“ Certain devotees in a remote time had  acquired great renown and respect, but the purity of the  art was wanting, nor did their motives and secret thoughts  correspond with their professions and exterior conduct.  They affected poverty, but were attached to the things of  this world, and the princes and nobles were constantly  sending their offerings. They seemed to sequester them¬  selves from this world ; they lived retired from the towns ;  but their dwellings were commodious, and their women  numerous and handsome. But nothing can be hid from  their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.  He desired Prakeety (nature) to accompany him; and  assumed the appearance of a Pandaram of a graceful  form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.  She went before the devotees who were assembled with  their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform  their ablutions and religious ceremonies. As she advanced  the refreshing breeze moved her flowing robe, showed  the exquisite shape which it seemed intended to conceal.  With eyes cast down, though sometimes opening with a  timid but tender look, she approached them, and with a  low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.  The devotees gazed on her with astonishment. The  sun appeared, but the purifications were forgotten;  the things of the Poojah (worship) lay neglected; nor  was any worship thought of but that of her. Quitting the  gravity of their manners, they gathered round her as  flies round the lamp at night—attracted by its splendour,  but consumed by its flame. They asked from whence  she came; whither she was going. ‘ Be not offended  with us for approaching thee, forgive us our importunities.  But thou art incapable of anger, thou who art made to  convey bliss ; to thee, who mayest kill by indifference,  indignation and resentment are unknown. But whoever  thou mayest be, whatever motive or accident might have  brought thee amongst us, admit us into the number of  thy slaves; let us at least have the comfort to behold  thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul  seemed ready to take its flight; the vow was forgotten,  and the policy of years destroyed. Whilst the devotees were lost in their passions, and  absent from their homes, Sheevah entered their village  with a musical instrument in his hand, playing and singing  like some of those who solicit charity. At the sound of his  voice, the women immediately quitted their occupation;  they ran to see from whom it came. He was as beautiful  as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their  jewels without turning to look for them ; others let  fall their garments without perceiving that they discovered  those abodes of pleasure which jealousy as well as decency had ordered to be concealed. All pressed forward with  their offerings, all wished to speak, all wished to be taken  notice of, and bringing flowers and scattering them before  him, said—‘ Askest thou alms ! thou who are made to  govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as  the morning, whose voice is the voice of pleasure, and  they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of  the rose! Stay with us and we will serve thee; not  will we trouble thy repose, but only be zealous how to  please thee.’ The Pandaram continued to play, and sung  the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the  Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. But the desire of repose succeeds the waste of pleasure.  Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the  morning the Pandaram was gone. When they awoke  they looked round with astonishment, and again cast  their eyes on the ground. Some directed to those who  had formerly been remarked for their scrupulous manners,  but their faces were covered with their veils. After  sitting awhile in silence they arose and went back to their  houses, with slow and troubled steps. The devotees  returned about the same time from their wanderings after  Prakeety. The days that followed were days of embarrass¬  ment and shame. If the women had failed in their  modesty, the devotees had broken their vows. They  were vexed at their weakness, they were sorry for what  they had done; yet the tender sigh sometimes broke  forth, and the eyes often turned to where the men first  saw the maid—the women, the Pandaram.   “ But the women began to perceive that what the  devotees foretold came not to pass. Their disciples,  in consequence, neglected to attend them, and the offerings  from the princes and nobles became less frequent than before. They then performed various penances; they  sought for secret places among the woods unfrequented  by man; and having at last shut their eyes from the  things of this world, retired within themselves in deep  meditation, that Sheevah was the author of their  misfortunes. Their understanding being imperfect,  instead of bowing the head with humility, they were  inflamed with anger; instead of contrition for their  hypocrisy, they sought for vengeance. They performed  new sacrifices and incantations, which were only allowed  to have effect in the end, to show the extreme folly of  man in not submitting to the will of heaven.   “ Their incantations produced a tiger, whose mouth  was like a cavern and his voice like thunder among the  mountains. They sent him against Sheevah, who with  Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled  at their weakness, and killing the tiger at one blow with  his club, he covered himself with his skin. Seeing them¬  selves frustrated in this attempt, the devotees had recourse  to another, and sent serpents against him of the most  deadly kind; but on approaching him they became  harmless, and he twisted them round his neck. They  then sent their curses and imprecations against him, but  they all recoiled upon themselves. Not yet disheartened  by all these disappointments, they collected all their  prayers, their penances, their charities, and other good  works, the most acceptable sacrifices ; and demanding  in return only vengeance against Sheevah, they sent a  fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at  this attempt, turned the fire witti indignation against the  human race; and mankind would soon have been  destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger,  implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah relented ; but it was ordained that in his temples  those parts should be worshipped, which the false doctrines  had impiously attempted to destroy.”    THE CROSS AND ROSARY   The key which is still worn with the Priapic hand, as an  amulet, by the women of Italy appears to have been an  emblem of the equivocal use of the name, as the language  of that country implies. Of the same kind, too, appears to  have been the cross in the form of the letter tau, attached  to a circle, which many of the figures of Egyptian deities,  both male and female, carry in their left hand ; and by the  Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,  representing the planet Venus, worshipped by them as the  emblem or image of that goddess. The cross in this  form is sometimes observable on coins, and several of  them were found in a temple of Serapis, demolished at the  general destruction of those edifices by the Emperor  Theodosius, and were said by the Christian antiquaries  of that time to signify the future life. In solemn sacrifices,  all the Lapland idols were marked with it from the blood  of the victims ; and it occurs on many Runic ornaments  found in Sweden and Denmark, which are of an age  long anterior to the approach of Christianity to those  countries, and probably to its appearance in the world.  On some of the early coins of the Phoenicians, we find it  attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to  form a complete rosary, such as the Lamas of Thibet  and China, the Hindus, and the Roman Catholics now  tell over while they pray. BEADS   Beads were anciently used to reckon time, and a circle,  being a line without termination, was the natural emblem  of its perpetual continuity ; whence we often find circles  of beads upon the heads of deities, and enclosing the  sacred symbols upon coins and other monuments.  Perforated beads are also frequently found in tombs, both  in the northern and southern parts of Europe and Asia,  whence are fragments of the chaplets of consecration  buried with the deceased. The simple diadem, or fillet,  worn round the head as a mark of sovereignty, had a  similar meaning, and was originally confined to the statues  of deities and deified personages, as we find it upon the  most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in  the “ Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the  god upon his sceptre, as the most imposing and invocable  emblem of sanctity ; but no mention is made of its being  worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any  other ensign of temporal power and command, except the  royal staff or sceptre.    THE LOTUS   The double sex typified by the Argha and its contents is  by the Hindus represented by the “ Mymphoea ” or  Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where  the whole plant signifies both the earth and the two  principles of its fecundation. The germ is both Meru and  the Linga; the petals and filaments are the mountains  which encircle Meru, and are also a type of the Yoni;  the leaves of the calyx are the four vast regions to the  cardinal points of Meru ; and the leaves of the plant are  the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this  plant or lily was probably the most celebrated of all the  vegetable creation among the mystics of the ancient world,  and is to be found in thousands of the most beautiful and  sacred paintings of the Christians of this day—I detain  my reader with a few observations respecting it. This is  the more necessary as it appears that the priests have now  lost the meaning of it; at least this is the case with everyone  of whom I have made enquiry ; but it is like many other  very odd things, probably understood in the Vatican,  or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the  different plants which ornament our globe, there is not  one which has received so much honour from man as  the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma  was born, and Osiris delighted to float. This is the  sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in  oriental mythology, and in truth not without reason, for it  is itself a lovely prodigy. Throughout all the northern  hemispheres it was everywhere held in profound  veneration, and from Savary we learn that the veneration  is yet continued among the modern Egyptians. And  we find that it still continues to receive the respect if  not the adoration of a great part of the Christian world,  unconscious, perhaps, of the original reason of this  conduct. Higgins's Anacalypsis.   The following is an account given of it by Payne  Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant  grows in the water, among its broad leaves puts forth  a flower, in the centre of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the  top with little cavities or cells, in which the seeds grow.  The orifices of these cells being too small to let the seeds  drop out when ripe, they shoot forth into new plants in  the places where tney are formed : the bulb of the vessel  serving as a matrix to nourish them, until they acquire  such a degree of magnitude as to burst it open and release  themselves, after which, likfe other aquatic weeds, they  take root wherever the current deposits them. This  plant, therefore, being thus productive of itself, and  vegetating from its own matrix, without being fostered  in the earth, was naturally adopted as the symbol of the  productive power of the waters, upon which the active  spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,  to matter. We accordingly find it employed in every  part of the northern hemisphere, where the symbolical  religion, improperly called idolatry , does or ever did prevail.  The sacred images of rhe Tartars, Japanese, and Indians  are almost placed upon it, of which numerous instances  occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc.  The Brahma of India is represented as sitting upon his  Lotus throne, and the figure upon the Isaaic table holds the  stem of this plant surmounted by the seed vessel in one  hand, and the Cross representing the male organs of  generation in the other; thus signifying the universal  power, both active and passive, attributed to that goddess.”   Nimrod says :—“ The Lotus is a well-known allegory,  of which the expansive calyx represents the ship of the  gods floating on the surface of the water ; and the erect  flower arising out of it, the mast thereof. The one was  the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;  but as the ship was Isis or Magna Mater, the female  principle, and the mast in it the male deity, these parts of  the flower came to have certain other significations, which  seem to have been as well known at Samosata as at Benares.  This plant was also used in the sacred offices of the Jewish  religion. In the ornaments of the temple of Solomon,  the Lotus or lily is often seen.”   The figure of Isis is frequently represented holding the  stem of the plant in one hand, and the cross and circle  in the other. Columns and capitals resembling the  plant are still existing among the ruins of Thebes, in  Egypt, and the island of Pbilce. The Chinese goddess,  Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in  that country Lin, with many arms, having symbols  signifying the various operations of nature, while similar  attributes are expressed in the Scandinavian goddess  Isa or Disa.   The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and  Egyptian cosmogony. This plant appears to have the  same tendency with the Sphinx, of marking the connection  between that which produces and that which is produced.  The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue  Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of  celestial love so frequently seen mounted on the back of  Leo in the ancient remains. The following is a translation  of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,  and will be found interesting as showing the importance  attached to the Lotus in the worship of the ancients: We find Brahma emerging from the Lotus. The whole  universe was dark and covered with water. On this  primeval water did Bhagavat (God), in a masculine  form, repose for the space of one Calpho (a thousand  years); after which period the intention of creating  other beings for his own wise purposes became pre¬  dominant in the mind of the Great Creator . In the first    Phallic Worship    63    place, by his sovereign will was produced the flower  of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought  to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,  emerging from the cup of the Lotus, looked round on all  the four sides, and beheld from the eyes of his four heads  an immeasurable expanse of water. Observing the whole  world thus involved in darkness and submerged in water,  he was stricken with prodigious amazement, and began  to consider with himself, £ Who is it that produced me ? ’  * whence came I ? ’ ‘ and where am I ? *   “ Brahma, thus kept two hundred years in contem¬  plation, prayers, and devotions, and having pondered in  his mind that without connection of male and female an  abundant generation could not be effected—again entered  into profound meditation on the power of the Supreme,  when, on a sudden by the omnipotence of God, was  produced from his right side Swayambhuvah Menu , a man  of perfect beauty; and from the Brahma’s left side a  woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs  thus :—‘ O Bhagavat! since thou broughtest me from  nonentity into existence for a particular purpose,  accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a  short time a small white boar appeared, which soon  grew to the size of an elephant. He now felt God in all,  and that all is from Him, and all in Him. At length the  power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.  He began to use the instinct of that animal. Having  divided the water, he saw the earth a mighty barren  stratum. He then took up the mighty ponderous globe  (freed from the water) and spread the earth like a carpet  on the face of the water; Brahma, contemplating the  whole earth, performed due reverence, and rejoicing  exceedingly, began to consider the means of peopling the renovated world.” Pjag, now Allahabad, was the  first land said to have appeared, but with the Brahmins  it is a disputed point, for many affirm that Cast or Benares  was the sacred ground.    MERU   The learned Higgins, an English judge, who for some  years spent ten hours a day in antiquarian studies, says  that Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the  Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon  built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which  because mounts of Venus, mans veneris —Meru and Mount  Calvary—each a slightly skull-shaped mount, that might  be represented by a bare head. The Bible translators  perpetuate the same idea in the word “ calvaria.” Prof.  Stanley denies that “ Mount Calvary ” took its name  from its being the place of the crucifixion of Jesus.  Looking elsewhere and in earlier times for the bare calvaria,  we find among Oriental women, the Mount of Venus,  mons veneris , through motives of neatness or religious  sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see  Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of  a priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles,  continue to shave the head. To make a place holy,  among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it  was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,  or Arba. This marvellous work of excavation by the slow process  of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards  published a volume describing the temple and its vast  statues. The beauty of its architectural ornaments, the  innumerable statues or emblems, all hewn out of solid  rock, dispute with the Pyramids for the first place among  the works undertaken to display power and embody  feeling. The stupendous temple is detached from the  neighbouring mountain by a spacious area all round, and  is nearly 2 5 o feet deep and 15 o feet broad, reaching to the  height of 100 feet and in length about 145 feet. It has  well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,  containing fine large rooms of a smooth and polished  surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole  bulk of this immense block of isolated excavation being  upwards of 500 feet in circumference, and having beyond  its areas three handsome figure galleries or verandas  supported by regular pillars. Outside the temple are  two large obelisks or phalli standing, “ of quadrangular  form, eleven feet square, prettily and variously carved, and  are estimated at forty-one feet high; the shaft above the  pedestal is seven feet two inches, being larger at the base  than Cleopatra’s Needle.”   In one oi the smaller temples was an image of Lingam,  “ covered with oil and red ochre, and flowers were daily  strewed on its circular top. This Lingam is larger than  usual, occupying with the altar, a great part of the room.  In most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries  to walk round whilst making the usual invocations to the  deity (Maha Deo). This deity is much frequented by  female votaries, who take especial care to keep it clean washed, and often perfume it with oderiferous oils and  flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment  and attend the five oil lights and bell ringing.” This oil  vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the  light itself was placed. No symbol was more venerated  or more frequently met with than the altar and Ling, Siva,  or Maha Deo. “ Barren women constantly resort to it to  supplicate for children,” says Seeley. The mysteries  attended upon them is not described, but doubtless they  were of a very similar character to those described by the  author of the “ Worship of the Generative Powers of  the Western Nations,” showing again the similarity of  the custom with those practised by the Catholics in France.  The writer says :—“ Women sought a remedy for barren¬  ness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they  appear to have placed a part of their body, naked, against  the image of the saint, or to have sat upon it. This latter  trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies  of Pagan worship to last long, or to be practised openly ;  but it appears to have been innocently represented by  lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,  understood to represent him without the presence of the  energetic member. In a corner in the church of the  village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a  stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity  upon women who sit upon it; but it is necessary nothing  should intervene between their bare skin and the stone.  In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar  which barren women kissed for the same purpose and  which had perhaps replaced some less equivocal object.”   The principal object of worship at Elora is the stone, so  frequently spoken of ; “ the Lingam,” says Seeley, and he  apologises for using the word so often, but asks to be excused, “ is an emblem not generally known, but as  frequently met with as the Cross in Catholic worship.”  It is the god Siva, a symbol of his generative character,  the base of which is usually inserted in the Yoni. The  stone is of a conical shape, often black stone, covered  with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers  hang pendant from the crown of the Ling stone to the  spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same  as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly  used in the worship at the symbol, or one lamp with five  wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling. The characteristic attribute of the passive generative  power was expressed in symbolical writing, by different  enigmatical representations of the most distinguished  characteristic of the female sex: such as the shell or  Concha Veneris , the fig-leaf, barley corn, and the letter  Delta, all of which occur very frequently upon coins and  other ancient monuments in this sense. The same  attribute personified as the goddess of Love, or desire,  is usually represented under the voluptuous form of a  beautiful woman, frequently distinguished by one of these  symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names  of rather uncertain mythology. She is said to be the  daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and  female personifications of the all-pervading Spirit of the  Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and there¬  fore associated with him in the most ancient oraculai   temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears  to have been known in the Homeric times ; though a  different one is employed to account for the name of  Aphrodite in the “ Theogony ” attributed to Hesiod.   The Genelullides or Genoidai were the original and  appropriate ministers or companions of Venus, who was  however, afterwards attended by the Graces, the proper  and original attendants of Juno; but as both these  goddesses were occasionally united and represented in  one image, the personifications of their respective sub¬  ordinate attributes were on other occasions added:  whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a  beard, and other appearances of virility, which seems to  have been the most ancient mode of representing the  celestial as distinguished from the popular goddess of that  name—the one being a personification of a general  procreative power, and the other only of animal desire or  concupiscence. The refinement of Grecian art, however,  when advanced to maturity, contrived more elegant  modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work  of Phidias, we find the former represented with her foot  upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,  the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an  androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of  the double power ; and the goat was equally appropriate  to what was meant to be expressed in the other.   The same attribute was on other occasions signified by a  dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the  polypus, which often appears upon coins with the head  of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac,  though it is likewise of the androgynous class. The fig  was a still more common symbol, the statue of Priapus  being made of the tree, and the fruit being carried with the    Phallic Worship    69    Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus,  and still continuing among the common people of Italy  to be an emblem of what it anciently meant: whence  we often see portraits of persons of that country painted  with it in one hand, to signify their orthodox elevation to  the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la  fica , which was done by putting the thumb between the  middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic orna¬  ments extant; or by putting the finger or thumb into the  corner of the mouth and drawing it down, of which there  is a representation in a small Priapic figure of exquisite  sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum. The same liberal and humane spirit still prevails among  those nations whose religion is founded on the same  principles. “ The Siamese,” says a traveller of the  seventeenth century, “ shun disputes and believe that  almost all religions are good ” (“ Journal du Voyage de  Siam ”). When the ambassador of Louis XIV asked their  king, in his master’s name, to embrace Christianity, he  replied, “ that it was strange that the king of France  should interest himself so much in an affair which concerns  only God, whilst He, whom it did concern, seemed to  leave it wholly to our discretion. Had it been agreeable  to the Creator that all nations should have had the same  form of worship, would it not have been as easy to His  omnipotence to have created all men with the same sentiments and dispositions, and to have inspired them with the  same notions of the True Religion, as to endow them with  such different tempers and inclinations ? Ought they  not rather to believe that the true God has as much pleasure  in being honoured by a variety of forms and ceremonies,  as in being praised and glorified by a number of different  creatures ? Or why should that beauty and variety,  so admirable in the natural order of things, be less  admirable or less worthy of the wisdom of God in the  supernatural ? ”   The Hindus profess exactly the same opinion. “ They  would readily admit the truth of the Gospel,” says a very  learned writer long resident among them, “ but they  contend that it is perfectly consistent with their Shastras.  The Deity, they say, has appeared innumerable times in  many parts of this world and in all worlds, for the salvation  of his creatures ; and we adore, they say, the same God, to  whom our several worships, though different in form, are  equally acceptable if they be sincere in substance.”   The Chinese sacrifice to the spirits of the air the  mountains and the rivers ; while the Emperor himself  sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all  these spirits are subordinate, and from whom they are  derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged  this primitive elementary worship with some of the  allegorical fables of their neighbours ; but still as their  creed—like that of the Greeks and Romans—remains  undefined, it admits of no dogmatical theology, and of  course no persecution for opinion. Obscure and  sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on  many occasions ; but still as actions and not as opinions.  Atheism is said to have been punished with death at  Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted  whether the atheism, against which the citizens of that  republic expressed such fury, consisted in a denial of the  existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged  to fly for this crime, was accused of revealing and calum¬  niating the doctrines taught in the Mysteries ; and from  the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe  that his offence was of the same kind, though he had not  been initiated.   These were the only two martyrs to religion among the  ancient Greeks, such as were punished for actively violating  or insulting the Mysteries, the only part of their worship  which seems to have possessed any vitality; for as to  the popular deities, they were publicly ridiculed and  censured with impunity by those who dared not utter a  word against the populace that worshipped them; and  as to the forms and ceremonies of devotion, they were  held to be no otherwise important, then as they were  constituted a part of civil government of the state; the  Phythian priestess having pronounced from the tripod,  that whoever performed the rites of his religion according to the  laws of his country, performed them in a manner pleasing to the  Deity. Hence the Romans made no alterations in the  religious institutions of any of the conquered countries ;  but allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant  as they pleased, and to enforce their absurdities and  extravagances wherever they had any pre-existing laws  in their favour. An Egyptian magistrate would put  one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora  monkey; and though the religious fanaticism of the  Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely  free from restraint, a chief of the synagogue could order  anyone of his congregation to be whipped for neglecting  or violating any part of the Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations  was, that all things were of one substance, from which they  were fashioned and into which they were again dissolved,  by the operation of one plastic spirit universally diffused  and expanded. The polytheist of ancient Greece and  Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all  rites of worship and forms of devotion were directed  to the same end, though in different modes and through  different channels. “ Even they who worship other gods, says  Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem  ( Bhagavat-Gita ), “worship me although they know it not ''—  Payne Knight.  Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: rito di passage, solo una volta, l’iniziazione, massoneria, esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale, conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library. Cazzaniga.

 

Grice e Ceccato: l’implicatura conversazionale del plusquamperfectum --  implicatura imperfetta --  il perfetto filosofo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montecchio Maggiore). Filosofo italiano. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers, he has an obsession with geometrical conjunctions  and my favoruite of his tracts is “La linea e la strischia’ – but he has also philosophised on other issues – notably on ‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical explanation’ of language – he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian philosophers hardly use as they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ – “He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then the Italians use ‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic? Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in collaborazione con il Gruppo V di Rimini.  Studioso della psicologia filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale. Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo incontro ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32 dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier Sanfilippo che si crede Socrate.  Un tecnico tra i filosofi, così intitolò il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli: "Come filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi, Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed.  Priuli&Verlucca, Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia” (Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e attualità della logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum. PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE, di C.. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione delle Attivita...  L ' Anatomica methodus, di  Laguna, Pisa, Giardini, C., comp: Corso di linguistica operativa. A cura di Silvio Ceccato. Centoventotto illustrazioni nel testo. Milano, Longanesi,  lllus. Language and Behavior was published in Italian translation, thanks to C. (cf. Petrilli). C., padre della cibernetica italiana, che in quegli anni stava mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo di calcolatore “ intelligente ”, di cui si può leggere in una nota su “ La grammatica insegnata alle macchine. Studi in memoria di C. - Page 5books.google.com › books· Translate this page · ‎Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato Felice Accame Nei giorni immediatamente successivi alla sua morte, i giornali hanno dedicato pochi, imbarazzati e, a volte, imbarazzanti articoli alla figura di C.. Se qualcuno, tramite questi articoli... Silvio Ceccato's little volume Corso di linguistica operativa (Ceccato 1969 ) sits on a quiet shelf in Lauinger library, the work of a semantic pioneer. C.. C. (Civilta delle Macchine) This monograph presents a discussion of the problems encountered by members of the Italian Operational School in their attempts to develop techniques to be used in...  Foundations of Language, Page 171books.google.com › books 1965 · ‎Snippet view FOUND INSIDE .. with his hand, when he moves the pieces, he performs a manual, a physical activity. Foundations of Language. The two types of activity can be distinguished in a 171 C.. I use an operational approach to mental activity based on C.. TECNICA OPERATIVA " (Ceccato), one of the earliest approaches implemented on a computer (University of Milan). 2 - I look at the. Debbo la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di C., di cui un primo abbozzo in Language with the Table of Ceccatieff. Paris: Herman & Cie. 1951. Die C. si verdano anche articoli in Methodos... C., the Italian pioneer in the analysis of mental operations and construction, told me that once, after a public discussion of his theory, he overheard a philosopher say: " If Ceccato were right, the rest of us would be fools ! C.'s group exploited semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames, and C.s approach also involved the use of world knowled.  It is the purpose of this paper to define and differentiate the  various uses of the imperfect indicative, to discover if possible  their origin and trace their interrelations, to outline in fact the  history of the tense in early Latin. The term ' early Latin is  used somewhat elastically as including not only all the remains of  the language down to about the time of Sulla, but also the first  volume of inscriptions and the works of VARRONE, for  Varrone belongs distinctly to the older school of writers in spite  of the fact that the Rerum rusticarum libri were written as late  as 37 B. c. But exact chronological periods are of little meaning  in matters of this sort, and the present outline, being but a fragment of a more complete history of the tense, may stop at this  point as well as another.   Before proceeding to the investigation of the cases of the  imperfect occurring in early Latin it is necessary to describe  briefly the system by which these cases have been classified. In  the first place all cases of the same verb have been placed together  so that the individual verb forms the basis of classification. Then  verbs of similar meanings have been combined to form larger  groups. There result three main groups, and some subdivisions, which for the better understanding of this  may be tabulated  thus: Verbs of physical action or state. Motion of the whole of a body, e. g. eo, curro. Action of a part of a body, e. g. do, iacio.Verbal communication, e. g. dico, promilto.   4. Rest or state, e. g. sum, sto, sedeo. Verbs of psychic action or state.  Thought, e. g. puto, scio, spcro.  Feeling, e. g. metuo, atno.  Will, e. g. volo, nolo.  Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. Auxiliary verbs, i. e. verbs which represent such English  words as could, should, might, &c, &c, e. g. possum, oportet, decet. Such a system has, of course, many inconsistencies. The verb  ago, for instance, may be a verb of action or of verbal com-  munication, but since instances of this sort are comparatively rare and affected no important groups of verbs it has seemed  best not to separate cases of the same verb. Again I. 3 is logically a part of I. 2, or the verbs grouped under  III might perhaps have been distributed among the different  subdivisions of I and II. But the object of the classification, to  discover the function of each case, has seemed best attained by  grouping the verbs as described. By this system, verbs of similar  meaning, whose tenses are therefore similarly affected, are  brought together and this is the essential point. In a very large  collection of cases a stricter subdivision would doubtless prove of  advantage.  There are about 1400 cases of the imperfect indicative in the  period covered by this investigation. Of these, however, it has  been necessary to exclude 2 from 175 to 180 leaving 1226 from a  consideration of which the results have been obtained. The  TENSE appears, therefore, NOT TO HAVE BEEN  A FAVOURITE, and its  comparative infrequency which I have noted already for Plauto and Terenzio 3 may here be asserted for the whole period of early  Latin. About three-quarters of the total number of cases are  supplied by Plauto, Terenzio, and Varrone. A study of these 1226 cases reveals three general uses of the  imperfect indicative: the progressive or true imperfect; the aoristic imperfect, and the shifted' mperfect.  Let us consider these in order.  In the following pages I have made an effort to state and illustrate the facts,  reserving theory and discussion for the third section of this paper. These are cases doubtful for one reason or another, chiefly because of  textual corruption or insufficient context. For the latter reason perhaps too  many cases have been excluded, but I have chosen to err in this direction since  so much of the material consists of fragments where one cannot feel absolutely  certain of the force of the tense. The true imperfect shows several subdivisions: the simple progressive imperfect, the imperfect of customary past action, and the frequentative imperfect.   Of these I A and I B include several more or less distinct  variations, but all three uses together with their subdivisions  betray their relationship by the fact that all possess or are  immediately derived from the progressive function. This progressive idea, the indication of an act as progressing, going on,  taking place, in past time or the indication of a state as vivid, is  the true ear-mark of the tense. The time may be in the distant  past or at any point between that and the immediate past or it  may even in many contexts extend into the present. In duration  the time may be so short as to be inappreciable or it may extend  over years. The time is, however, not a distinguishing mark of  the imperfect. The perfect may be described in the same terms.   The kind of action * remains, therefore, the real criterion in the  distinction * of the imperfect from other past tenses. I A. The Simple Progressive Imperfect.   Under this heading are included all cases in which the tense  indicates simple progressive action, i. e. something in the 'doing',  ' being ', 4 &c. The idea of progression is present in all the cases,  but there are in other respects considerable differences according  to which some distinct varieties may be noted. All told there are  680 cases of this usage constituting more than half the total.   I I have chosen progressive as more expressive than durative which seems to  emphasize too much the time.   2 'Kind of action' will translate the convenient German Aktionsart while  ' time ' or ' period of time ' may stand for Zeitstufe.   % Herbig in his very interesting discussion, Aktionsart und Zeitstufe (I. F.  '896), comes to the conclusion that 'Aktionsart ' is older than ' Zeitstufe '  and that though many tenses are used timelessly none are used in living speech  without 'Aktionsart.' The progressive effect is also found in the present participle (and in parti-  cipial adjectives), and indeed the imperfect, especially in subordinate clauses,  is often interchangeable with a participial expression, falling naturally into  participial form in English also. How close the effect of the imperfect was  to that of the present participle is well illustrated by Terence, Heaut. 293-4  nebat . . . texebat and 285 texentem . . . offendimus. Cf. Varro R. R. Ill, 2. 2   Of these 449 are syntactically independent, 231 dependent. 1 In  its ordinary form this usage is so well understood that we may  content ourselves with a few illustrations extending over the  different groups of verbs.  I.i. Verbs of motion.  Plautus, 2 Aul. 178, Praesagibat mi animus frustra me ire,  quom exibam domo.   1 With the principles of formal description as last and best expressed by  Morris (On Principles and Methods of Syntax) all syntacticians  will, I believe, agree. Nearly all of them will be found well illustrated in the  present paper. For purposes of tense study, however, I have been unable to  see any essential modification in function resulting from variation of person  and number, although some uses have become almost idiomatic in certain  persons, e. g. the immediate past usage with first person sing, of verbs of  motion (p. 15). Just how far tense function is affected by the kind of sentence  in which the tense stands I am not prepared to say. In cases accompanied by  a negative or standing in an interrogative sentence the tense function is more  difficult to define than in simple affirmative sentences. It is easier also to  define the tense function in some forms of dependent clauses, e. g. temporal,  causal, than in others. This is an interesting phenomenon, needing for its  solution a larger and more varied collection of cases than mine. At present  I do not feel that the influence upon the tense of any of these elements is  definite enough to call for greater complexity in the system of classification.  While, therefore, I have borne these points constantly in mind, the tables  show the results rather than the complete method of my work in this respect.In the citation of cases the following editions are used:   Fragments of the dramatists, O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis  fragmenta (I & II), Lipsiae -8 (third edition).   Plautus, Goetz and Schoell, T. Macci Plauti comoediae (editio minor), Lipsiae, Terence, Dziatzko, P. Terenti Afri comoediae, Lipsiae Orators, H. Meyer, Oratorum romanorum fragmenta, Turici.   Historians, C. Peter, Historicorum Romanorum fragmenta, Lipsiae.   Cato, H. Keil, M. Porci Catonis de agricultura liber, Lipsiae, and H.  Jordan, M. Catonis praeter lib. de re rustica quae extant, Lipsiae i860.   Lucilius, L. Mueller, Leipsic, Auctor ad Herennium, C. L. Kayser, Cornifici rhetoricorum ad C. Herenium libri tres, Lipsiae.   Inscriptions, Th. Mommsen, C. I. L. I.   Ennius (the Annals), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.   Naevius (Bell, poen.), L. Mueller, Q. Enni carminum reliquiae, Petropoli.   Varro, H. Keil, M. Terenti Varronis rerum rusticarum libri tres, Lipsiae Varro, A. Spengel, M. Terenti Varronis de lingua latina, Berolini Varro, BUcheler, M. Terenti Varronis saturarum Menippearum reliquiae,  Lipsiae. Id. Amph. 199, Nam quom pugnabant maxume, ego turn   fugiebam maxume.  Lucilius, Sat.,l ibat forte aries' inquit;  I. 2. Verbs of action.  Ex incertis incertorum fabulis (comoed. pall.) XXIV.  R., sed sibi cum tetulit coronam ob coligandas nuptias,  T\b\ ferebat; cum simulabat se sibi alacriter dare,  Turn ad te ludibunda docte et delicate detulit.  Plautus, True. 198 atque opperimino : iam exibit, nam   lavabat.  Cf. id. Men. 564 (ferebam), Mil. 1336 (temptabam), Epid.  138 (mittebam); Terence, Andr. (dabam); Auctor ad  Herenn. 4, 20, 27 (oppetebat).  Verbal communication.   Plautus, Men, Quin modo   Erupui, homines qui ferebant te. Apud hasce aedis. tu clamabas deum fidem,  Ex incert. incert. &c. 282. XXXII. R., Vidi te, Ulixes saxo  sternentem Hectora,  Vidi tegentem clipeo classem Doricam :  Ego tunc pudendam trepidus hortabar fugam. State.   Plautus, Aul. 376, Atque eo fuerunt cariora, aes non erat.  Id. Mil. 181, Sed Philocomasium hicine etiam nunc est? Pe.   Quom exibam, hie erat.  Varro, R. R. III. 2. 2., ibi Appium Claudium augurem   sedentem invenimus . . . sedebat ad sinistram ei Cornelius   Merula . . .  Cf. also Plautus, Rud. 846, (sedebanf), Amph. 603 (stabam)   &c. &c.   Verbs of thought.   Hist. frag. p. 70, 1. 7, Et turn quo irent nesciebani, ilico   manserunt.  Plautus, Pseud. 500-1, Non a me scibas pistrinum in mundo   tibi,  Quom ea muss[c]itabas ? Ps. Scibam.  Cf. also Plautus, Rud. 1 186 ,(credebam); Varro R. R. I. 2. 25.  (ignorabat), &c.  II. 2. Feeling.  Plautus, Epid. 138, Desipiebam mentis, quom ilia scripta   mittebam tibi.  Id. Bacch. 683, Bacchidem atque hunc suspicabar propter  crimen, Chrysale,   II. 3. Will.   Lucilius, Sat. incert. 48, fingere praeterea adferri quod quis-  que volebat:   In these cases the act or state indicated by the tense is always  viewed as at some considerable distance in the past even though  in reality it may be distant by only a few seconds. The speaker  or writer stands aloof, so to speak, and views the event as at some  distance and as confined within certain fairly definite limits in the  past. If, now, the action be conceived as extending to the im-  mediate past or the present of the speaker, a different effect is  produced, although merely the limits within which the action  progresses have been extended. This phase of the progressive  imperfect we might term the imperfect of the immediate past 1 or  the interrupted 2 imperfect, since the action of the verb is often  interrupted either by accomplishment or by some other event.  A few citations will make these points clearer:   Plautus, Stich. 328, ego quid me velles visebam.   Nam mequidem harum miserebat. — '\ was coming to see  what you wanted of me (when I met you) ; for I've been pitying  (and still pity) these women.' In the first verb the action is  interrupted by the meeting ; in the second it continues into the  present, the closest translation being our English compound pro-  gressive perfect, a tense which Latin lacked. The imperfect ibam  is very common in this usage, cf. Plautus, True. 921, At ego ad  te ibam = l was on my way to see you (when you called me),  cf. Varro, R. R. II. 11. 12; Terence, Phorm. 900, Andr.  But the usage is by no means confined to verbs of motion  (I. 1) alone. It extends over all the categories:   I. 2. Motion.  Plautus, Aulul. 827 (apparabas), cf. Andr. 656.   1 In Greek the aorist is used of events just past, but of course with no pro-  gressive coloring, cf. Brugmann in I. Miiller's Handbuch, &c. E. Rodenbusch, De temporum usu Plautino quaest. selectae, Argentorati  1888, pp. n-12, recognizes and correctly explains this usage, adding some  examples of similar thoughts expressed by the present, e. g. Plautus, Men. 280  (quaeris), ibid. 675 (quaerit), Amph. 542 (numquid vis, a common leave-taking  formula). In such cases the speaker uses imperfect or present according as  past or present predominates in his mind, the balance between the two being  pretty even. Verbal communication.  Terence, Eun. 378 (iocabar), Heaut. 781 (dicebam) ; Plautus,  Trin. 212 (aibanf).   I. 4. Rest.   Plautus, Cas. 532 (eratn), cf. Men. n 35. Terence, Eun. 87  (stabam), Phorm. 573 {cotnmorabar).   II. 1. Thought.   Terence, Phorm. 582 (scibam), cf. Heaut. 309. Plautus,  Men. 1072 (censebam), cf. Bacch. 342, As. 385 &c.  II. 2. Feeling.   Plautus, Stich. 329 (miserebaf) ; Turpilius, 107 V R.  (sperabam).   II. 3. Will.   Plautus, As. 392 and 395 (volebatn), Most. 9, Poen.Auxiliary verbs.   Plautus, Epid. 98 (so/ebam), cf. Amph. 711. Terence, Phor-  mio 52 (conabar).  In this usage the present or immediate past is in the speaker's  mind only less strongly than the point in the past at which the  verb's action begins. The pervading influence of the present  is evident not only because present events are usually at hand in  the context, but also from the occasional use with the imperfect  of a temporal particle or expression of the present, cf. Plaut.  Merc. 884, Quo nunc ibas = ' whither were you (are you) going ? '  Terence, Andr. 657, immo etiam, quom tu minus scis aerumnas   meas,  Haec nuptiae non adparabanfur mihi, Rodenbusch labours hard to show that this case is like the preceding  and not parallel with the cases of volui which he cites on p. 24 with all  of which an infinitive of the verb in the main clause is either expressed or to  be supplied. Following Bothe, he alters deicere to dice (which he assigns to  Adelphasium) and refers quod to the amabo and amflexabor of I230 = 'meine  Absicht'. But there is no need of this. Infinitives occur with some of the  cases cited by Rodenbusch himself on p. II, e. g. Bacch. 188 (189) Istuc volebatn  . . . fercontarier, Trin. 195 Istuc voUbam scire, to which may be added Cas. 674  Dicere vilicum volebatn and ibid. 702 illud . . . dicere volebatn. It is true that the  perfect is more common in such passages, but the imperfect is by no means  excluded. The difference is simply one of the speaker's point of view: quod  volui = ' what I wished * (complete) ; quod valebant = ' what I was and am  wishing ' (incomplete). As. 212, which also troubles Rodenbusch, is customary  past.   Nee postulabat nunc quisquam uxorem dare.   Merc. 197, Equidem me tarn censebam esse in terra atque in   tuto loco :  Verum video. In the last two cases note the accompanying presents, set's and  video.   The immediate past also is indicated by a particle, e. g. Plautus,  Cas. 594 ad te hercle ibam commodum.   There are in all 207 l cases of this imperfect of the immediate  past. They are distributed pretty evenly over the various groups  of verbs as will be seen from the following table: No. of Cases. I. I    Verbs of motion,    26  I. 2  it  " action,  17  I.  3 (i   "verbal communication, 31 I. 4   state, 35 II.  1 it " thought,    36 II. 2 " " feeling,  35  II. 3 " " will, 13  Auxiliary verbs, The verbs proportionately most common in this use are ibam  and volebam which have become idiomatic. The usage is  especially common in colloquial Latin, but 16 cases 5 occurring  outside the dramatic literature represented chiefly, of course, by  Plautus and Terence.   By virtue of its progressive force the imperfect is a vivid tense  and as is well known, became a favorite means in the Ciceronian  period of enlivening descriptive passages. It was especially used  to fill in the details and particulars of a picture (imperfect of situa-  tion). 8 This use of the tense appears in early Latin also, but with  much less frequency. The choice of the tense for this purpose  is a matter of art, whether conscious or unconscious. At times,  indeed, there is no apparent reason for the selection of an imper-  fect rather than a perfect except that the former is more graphic, 1 Somewhat less than one-third of the total (680) progressive cases.   5 These cases are Ennius, Ann. 204, C. I. L. I. 201. 1 1 (3 cases), Varro, L.  L. 5. 9 (1 case), and Auctor ad Herenn. 1. 1. 1 (2 cases), 1. 10. 16, 2. 1. 2, 2. 2.  2 (2 cases), 3. 1. 1 (2 cases), 4. 34. 46, 4. 36. 48, 4. 37. 49. All of these are in  passages of colloquial coloring, either in speeches or, especially those in auctor  ad Herenn., in epistolary passages.   3 I use this term for all phases of the tense used for graphic purposes.  and if it were possible to separate in every instance these cases  from those in which the imperfect may be said to have been  required, we should have a criterion by which we might dis-  tinguish this use of the imperfect from others. But since the  progressive function of the tense is not altered, such a distinction  is not necessary.   Statistics as to the frequency of the imperfect of situation in  early Latin are worth little because the chief remains of the  language of that period are the dramatists in whom naturally the  present is more important than the past. The historians, to whom  we should look for the best illustrations of this usage, are for the  most part preserved to us in brief fragments. Nevertheless an  examination of the comparatively few descriptive passages in  early Latin reveals several points of interest.   In Plautus and Terence the imperfect was not a favorite tense  in descriptions. Bacch. 258-307, a long descriptive passage of  nearly 50 lines, interrupted by unimportant questions, shows only  4 imperfects (1 aoristic) amid over 40 perfects, historical presents,  &c. Capt. 497-5151 Amph. 203-261, Bacch. 947-970, show but  one case each. Stich. 539-554 shows 5 cases of erat. In Epid.  207-253 there are 10 cases.   In the descriptive passages of Terence the imperfect is still far  from being a favorite tense, though relatively more common than  in Plautus, cf. Andr. 48 ff., 74-102, Phorm. 65-135 (containing 11  imperfects). But Eunuch. 564-608 has only 4 and Heaut. 96-150  only 3.   Another very instructive passage is the well-known description  by Q. Claudius Quadrigarius of the combat between Manlius and  a Gaul (Peter, Hist. rom. fragg., p. 137, 10b). In this passage  of 28 lines there are but 2 imperfects. The very similar passage  describing the combat between Valerius and a Gaul and cited by  Gellius (IX, n) probably from the same Quadrigarius contains  8 imperfects in 24 lines. Since Gellius is obviously retelling the  second story, the presumption is that the passage in its original  form was similar in the matter of tenses to the passage about  Manlius. In other words Gellius has 'edited' the story of  Valerius, and one of his improvements consists in enlivening the  tenses a bit. He describes the Manlius passage thus : Q. Claudius  primo annalium purissime atque illustrissime simplicique et  incompta orationis antiquae suavitate descripsit. This simplex  et incompta suavitas is due in large measure to the fact that   Quadrigarius has used the simple perfect (19 times), varying it  with but few (4) presents and imperfects (2). A closer com-  parison of the passage with the story of Valerius reveals the  difference still more clearly. Quadrigarius uses (not counting  subordinate clauses) 19 perfects, 4 presents, 2 imperfects ; Gellius,  4 perfects, 9 presents, 8 imperfects. In several instances the  same act is expressed by each with a different tense :   Quadrigarius. Gellius.   processit (bis), f procedebat,   \ progrediiur,  constitit, c congrediuntur,  consistent,  constituerunt, conserebantur manus,   8 perfects of acts in 5 imperfects of acts   combat. of the corvus. Gellius has secured greater vividness at the expense of simplicity  and directness.   This choice of tenses was, as has been said, a matter of art,  whether conscious or unconscious. The earlier writers seem to  have preferred on the whole the barer, simpler perfect even in  passages which might seem to be especially adapted to the  imperfect, historical present, &c. The perfect, of course, always  remained far the commoner tense in narrative, and instances are  not lacking in later times of passages 1 in which there is a striking  preponderance of perfects. Nevertheless the imperfect, as the  language developed, with the growth of the rhetorical tendency  and a consequent desire for variety in artistic prose and poetry,  seems to have come more and more into vogue. 2   The fact that the function of a tense is often revealed, denned,  and strengthened by the presence in the context of particles of  various kinds, subordinate clauses, ablative absolutes, &c, &c,   1 E. g. Caesar, B. G. I. 55 and 124-5.   s The relative infrequency of the tense in early Latin was pointed out on  p. 164. Its growth as a help in artistic prose is further proved by the fact that  the fragments of the later and more rhetorical annalists, e. g. Quadrigarius,  Sisenna, Tubero, show relatively many more cases than the earliest annalists.  This is probably not accident. When compared with the history of the same  phenomenon in Greek, where the imperfect, so common in Homer, gave way  to the aorist, this increase in use in Latin may be viewed as a revival of a  usage popular in Indo-European times. Cf. p. 185, n. 2. was pointed out in Trans. Am. Philol. Ass. What was there 1 said of Plautus and Terence may here be  extended to the whole period of early Latin. The words and  phrases used in this way are chiefly temporal. Some of those  occurring most frequemly are: modo, commodum ; turn, tunc;  simul; dudum, iam dudum; iam, primo, primulum ; nunc; ilico;  olim, quondam; semper, saepe; fere, plerumque ; Ha, 2 &c, &c.  A rough count shows in this class about 120 cases,' accompanied  by one or more particles or expressions of this sort. Some  merely date the tense, e. g., turn, modo, dudum, &c. Others, as  saepe, fere, primulum, have a more intimate connection with the  function. Naturally the effect of the latter group is clearest in  the imperfects of customary past action, the frequentative, &c,  and will be illustrated under those headings. Here I will notice  only a few cases with iam, primulum, &c, which illustrate very  well how close the relation between particle and tense may be.  The most striking cases are :   Plautus, Merc. 43, amare valide coepi[t] hie meretricem. ilico  Res exulatum ad illam <c>lam abibat patris. Cf. Men.  1 1 16, nam tunc dentes mihi cadebant primulum.   id. Merc. 197, Equidem me iam censebam esse in terra atque   in tuto loco : Verum video . . .  id. Cist. 566, Iam perducebam illam ad me suadela mea,   Anus ei <quom> amplexast genua . . .  id. Merc. 212, credet hercle: nam credebat iam mihi.   The unquestionably inceptive force of these cases arises from  the combination of tense and particle. No inceptive* function can  be proved for the tense alone, for I find no cases with inceptive  force unaccompanied by such a particle.   Cf. also Morris, Syntax, p. 83.   5 How far the nature of the clause in which it stands may influence the  choice of a tense is a question needing investigation. That causal, explanatory,  characterizing, and other similar clauses very often seem to require an im-  perfect is beyond question, but the proportion of imperfects to other tenses in  such clauses is unknown. Cf. p. 166, n. 1.   s No introductory conjunctions are included in this total, nor are other  particles included, unless they are in immediate connection with the tense.   4 In Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 21, I was inclined to take at least  Merc. 43 as inceptive. This I now believe to have been an error. The  inceptive idea was most commonly expressed by coepi -\- m&n. which is very  common in Plautus and Varro. We have here the opposite of the phenomenon  discussed on p. 177. There are a few cases in which the imperfect produces the same  effect as the imperfect of the so-called first periphrastic conjuga-  tion : Terence, Hec. 172, Interea in Imbro moritur cognatus   senex.  Horunc: ea ad hos redibal lege hereditas.=reditura erat,  English ' was coming ', ' was about to revert ', cf. Greek pi\\a> with  infinitive.   Cf. Phorm. 929, Nam non est aequum me propter vos decipi,  Quom ego vostri honoris causa repudium alterae  Remiserim, quae dotis tantundem <fti£«/.=datura erat &c.  In these cases the really future event is conceived very vividly  as already being realized.   Plautus, Amph. 597 seems to have the effect of the English  'could':   Neque . . . mihi credebam primo mihimet Sosiae  Donee Sosia . . . ille . . .  But the * could ' is probably inference from what is a very vivid  statement. A Roman would probably not have felt such a  shading. 1   I B. The Imperfect of Customary Past Action.   The imperfect may indicate some act or state at some appreci-  able distance in the past as customary, usual, habitual &c. The  act or state must be at some appreciable distance in the past (and  is usually at a great distance) because this function of the tense  depends upon the contrast between past and present, a contrast  so important that in a large proportion of the cases it is enforced  by the use of particles. 2 The act (or state) is conceived as  repeated at longer or shorter intervals, for an act does not become  customary until it has been repeated. This customary act usually  takes place also as a result or necessary concomitant of certain  conditions expressed or implied in the context, e. g. maiores nosiri  olim &c, prepares us for a statement of what they used to do.  The act may indeed be conceived as occurring only as a result of  a certain expressed condition, e. g. Plautus, Men. 484 mulier  quidquid dixerat,   1 Some of the grammars recognize ' could' as a translation, e. g., A. & G.   § 277 g-   8 E. g. turn, tunc, olim &c. with the imperfect, and nunc &c. with the con-  trasted present.    Idem ego dicebam = my words would be uttered only as a  result of hers. 1   There are 462 cases of the customary past usage of which 218  occur in independent sentences, 244 in dependent. This large  total, more than one-third of all the cases, is due to the character  of Varro's De lingua latina from which 289 cases come. This is  veritably a ' customary past ' treatise, for it is for the most part a  discussion of the customs of the old Romans in matters pertaining  to speech. Accordingly nearly all the imperfects fall under this  head. Plautus and Terence furnish 112. The remaining 61 are  pretty well scattered.   As illustrations of this usage I will cite (arranging the cases  according to the classes of verbs) :   I. 1. Plautus, Pseud. 1180, Noctu in vigiliam quando ibat  miles, quom tu Has simul,  Conveniebatne in vaginam tuam machaera militis ?  Terence, Hec. 157, Ph. Quid ? interea ibatne ad Bacchidem ?   Pa. Cottidie.  Varro, L. L. 5. 180, qui iudicio vicerat, suum sacramentum e   sacro auferebat, victi ad aerarium redibat.  I. 2. Plautus, Bacch. 429, Saliendo sese exercebant magis   quam scorto aut saviis. (cf. the whole passage).  Hist, fragg., p. 83. 27, Cn., inquit, Flavius, patre libertino natus,  scriptum faciebat (occupation) isque in eo tempore aedili  curuli apparebat, . . .  I. 3. Terence, Eun. 398, Vel rex semper maxumas   Mihi agebal quidquid feceram :  Varro, L. L., 5. 121, Mensa vinaria rotunda nominabalur Cili-  bantum ut etiam nunc in castris. Cf. L. L. 7. 36, appellabant,  5. 118, 5. 167 &c.   1 This usage seemed to me formerly sufficiently distinct to deserve a special  class and the name 'occasional', since it is occasioned by another act. It is  at best, however, only a sub-class of the customary past usage and in the  present paper I have not distinguished it in the tables. It is noteworthy that  the act is here at its minimum as regards repetition and that it may occur in  the immediate past, cf. Rud. 1226, whereas the customary past usage in its  pure form is never used of the immediate past. The usages may be approxi-  mately distinguished in English by 'used to', 'were in the habit of &c. (pure  customary past), and 'would' (occasional), although 'would' is often a good  rendering of the pure customary past. Good cases of the occasional usage  are : Plautus, Merc. 216, 217 ; Poen. 478 S ; Terence, Hec. 804 ; Hist, fragg.  p. 202. 9 (5 cases), ibid. p. 66. 128 (4 cases). Plautus, Bacch. 421, Eadem ne erat haec disciplina tibi,   quom tu adulescens eras ?  C. I. L. I. 1011.17 Ille meo officio adsiduo florebat ad omnis.   II. 1. Auctor ad Herenn. 4. 16. 23, Maiores nostri si quam  unius peccati mulierem damnabant, simplici iudicio multorum  rnaleficiorum convictam putabant. quo pacto ? quam inpudicam  iudicarant, ea venefici quoque damnata existutnabatur.   Cato, De ag., 1, amplissime laudari existimabatur qui ita lau-  dabatur.   II. 2. Plautus, Epid. 135, Illam amabam olim: nunc tarn alia  cura impendet pectori.   Varro, R. R. III. 17.8, etenim hac incuria laborare aiebat M.  Lucullum ac piscinas eius despiciebat quod aestivaria idonea  non haberent.   III. 3. Plautus, As. 212, quod nolebant ac votueram, de   industria  Fugiebatis neque conari id facere audebatis prius. Cf. the  whole passage.  Varro, L. L. 5. 162, ubi quid conditum esse volebant, a celando   Cellam appellarunt.  III. Terence, Phorm. 1 90, Tonstrina erat quaedam : hie sole-   bamusfere  Plerumque earn opperiri, . . .  Varro, L. L. 6. 8, Solstitium quod sol eo die sistere videbatur . . .  The influence of particles 2 and phrases in these cases is very  marked. I count about 1 10 cases, more than I of the total, with  which one or more particles appear. Those expressions which  emphasize the contrast are most common, e. g. turn, olim, me  puero with the imperfect, and nunc, iam &c. with the contrasted  present.   This class also affords excellent illustrations of the reciprocal  influence of verb-meaning' and tense-function. In Varro there  are 50 cases, out of 289, of verbs of naming, calling, &c, which  are by nature evidently adapted to the expression of the customary  past. Such are appellabam, nominabam, vocabam, vocitabam,  &c. But the most striking illustration is found in verbs of  customary action, e. g. soleo, adsuesco, consuesco, which by their   1 Cf. Trans. Am. Philolog. Ass. XXX, p. 19.   s Note as illustrations the italicized particles in the citations, pp. 175-6.   3 Cf. Morris, Syntax, p. 47, and p., with note.  meaning possess already the function supplied to other verbs by  the tense and context. When a verb of this class occurs in the  imperfect of customary past the function is enhanced. Naturally,  however, these verbs occur but rarely in the imperfect, for in any  tense they express the customary past function.   It is interesting to note the struggle for existence between  various expressions of the same thought. A Roman could  express the customary past idea in several ways, of which the  most noticeable are the imperfect tense, soleo or the like with an  infinitive, or various periphrases such as mos erat. Of these  possibilities all are rare save the first, the imperfect tense. There  are but 12 cases of soleo, consuesco, &c, occurring in the imperfect  indicative in early Latin. These are all cases of solebam, and 9  of them are imperfects of customary past action. 1 One would  expect to find in common use the perfect of these verbs with an  infinitive, but, although I have no exact statistics on this point,  a pretty careful lookout has convinced me that such expressions  are by no means common. 2 Periphrases with mos, consuetudo,  &c, are also rare. Comparing these facts with the large number  of cases in which the customary past function is expressed by the  imperfect, we must conclude that this was the favorite mode of  expression already firmly established in the earliest literature. 8   I C. The Frequentative Imperfect.   In the proper context 4 the imperfect may denote repeated or  insistent action in the past. Although resembling the imperfect  of customary past action, in which the act is also conceived as   1 Terence, Phorm. go; Varro, R.R. 1.2. 1, and II. 7. I, L. L. 5. 126; Auctor  ad Herenn. 4. 54. 67 ; Lucilius, IV. 2, &c.   s A collection of perfects covering 18 plays of Plautus shows but 15 cases of  solitus est, consuevit, &c. My suspicion, based on Plautus and Terence, that  these periphrases would prove common has thus been proven groundless.   8 The variation between imperfect and perfect is well illustrated by Varro,  L. L. 5. 162, ubi cenabant, cenaculum vocitabant, and id. R. R. I. 17. 2, iique  quos obaeratos nostri vocitarunt, where the frequentative verb expresses even  in the perfect the customary past function.   For the variation between the customary past imperfect and the perfect of  statement cf. Varro's L. L. almost anywhere, e. g. 5. 121, mensa . . . rotunda  nominabatur Clibantum. 5. 36, ab usu salvo saltus nominarunt. So compare  5. 124 (appellarunt) with R. R. I. 2. 9 (appellabant). Cf. also L. L. 5. 35 qua  ibant . . . iter appellarunt ; qua id auguste, semita.ut semiter dictum.   4 Cf. Herbig, Aktionsart und Zeitstufe (I. F. 1896, § 59). repeated, the frequentative usage differs in that there is no idea  of habit or custom, and the act is depicted as repeated at intervals  close together and without any conditioning circumstances or  contrast with the present. I find only 13 cases of this usage,  7 of which are syntactically independent, 6 dependent. All occur  in the first three classes of verbs. The cases are :   Plautus, Pers. 20, miquidem tu iam eras mortuos, quia non   visitabam.  Ibid. 432, id tibi suscensui,  Quia te negabas credere argentum mihi.  Rud. 540, Tibi auscultavi : tu promittebas mihi   Mi esse quaestum maxumum meretricibus :  Capt. 917, Aulas . . . omnis confregit nisi quae modiales   erant :  Cocum percontabatur, possentne seriae fervescere :  As. 938, Dicebam, pater, tibi ne matri consuleres male. Cf.   Mil. Gl. 1410 (dicebaf).  True. 506, Quin ubi natust machaeram et clupeum   poscebat sibi ?  Epid. 59, Quia cottidie ipse ad me ab legione epistulas   Mittebat: cf. ibid. 132 (missiculabas).  Merc. 631, Promittebas te os sublinere meo patri : ego me[t]   credidi  Homini docto rem mandar<e>, . . .  Ennius, Ann. 43, haec ecfatu' pater, germana, repente recessit.  Nee sese dedit in conspectum corde cupitus,  quamquam multa manus ad caeli caerula templa  iendebam lacrumans et blanda voce vocabam.  Hist, fragg., p. 138. 11 (Q. Claudius Quadrigarius), Ita per  sexennium vagati Apuliam atque agrum quod his per militem  licebat expoliabaniur.  This class is so small and many of the cases are so close to  the simple progressive and the imperfect of situation that it is  tempting to force the cases into those classes. 1 A careful con-   1 How close the frequentative notion may be to the imperfect of the  immediate past is well illustrated by As. 938 (cited above). In this case we  have virtually an imperfect of the immediate past in which, however, the  frequentative coloring predominates : dicebam means not ' I've been telling ',  but 'I've kept telling', &c. Cf. also Pseud. 422 (dissimulabam) for another  case of the imperfect of the immediate past which is close to the frequentative.  In its pure form, however, the frequentative imperfect does not hold in view  the present. sideration of each case has, however, convinced me that the  frequentative function is here clearly predominant. In Plautus,  Pers. 20, E pid. 131, Capt. 917, it is impossible to say how much  of the frequentative force is due to the tense and how much to  the form of the verbs themselves ; both are factors in the effect.  Verbs like mitto,promitio, voco, and even dico, are also obviously  adapted to the expression of the frequentative function.   It is noteworthy that in this usage a certain emphasis is laid on  the tense. In eight of the cases the verb occupies a very em-  phatic position, in verse often the first position in the line, cf. the  definition on p. 177.   I D. The Conative Imperfect.   The imperfect may indicate action as attempted in the past.  There must be something in the context, usually the immediate  context, to show that the action of the verb is fruitless. There  are no certain cases of this usage in early Latin. I cite the only  instances, four in number, which may be interpreted as possibly  conative :   Plautus, As. 931, Arg. Ego dissuadebam, mater. Art. Bellum   filium.   Id. Epid. 215, Turn meretricum numerus tantus quantum in   urbe omni fuit   Obviam ornatae occurrebant suis quaeque | amatoribus :  Eos captabant.   Auctor ad Herenn., 4. 55. 68, . . . cum pluribus aliis ire celerius   coepit. illi praeco faciebat audientiam; hie subsellium, quod   erat in foro, cake premens dextera pedem defringit et . . .   Hist, fragg., p. 143. 46, Fabius de nocte coepit hostibus castra   simulare oppugnare, eum hostem delectare, dum collega id   caperet quod capiabat.   But in the second and fourth cases the verb capto itself means  to 'strive to take', 'to catch at' &c, and none of the conative  force can with certainty be ascribed to the tense. In the first  case, again, the verb dissuadebam means 'to advise against', not  'to succeed in advising against' (dissuade). Argyrippus says :  ' I've been advising against his course, mother', not ' I've been  trying, or I tried, to dissuade him'. The imperfect is, therefore,  of the common immediate past variety. 1   1 Cf. a few lines below (938) dicebam.     In Auct. ad Herenn., 4. 55. 68, the imperfect is part of the very  vivid description of the scene attending the death of Tiberius  Gracchus. Indeed the whole passage is an illustration of demon-  stratio or vivid description which the author has just defined.  The acts of Gracchus and his followers are balanced against  those of the fanatical optimates under Scipio Nasica: 'While  the herald was silencing 1 the murmurs in the contio, Scipio was  arming himself &c. Though it may be true that the act indi-  cated by faciebat audientiam was not accomplished, this seems  a remote inference and one that cannot be proved from the  context.   If my interpretation of these cases is correct, there are no  certain 1 instances of the conative imperfect in early Latin.   There is but one case of conabar (Terence, Phorm. 52) and  one of temptabam (Plautus, Mil. gl. 1336). Both of these belong  to the immediate past class, the conative idea being wholly in the  verb.   II. The Aoristic Imperfect.   The imperfect of certain verbs may indicate an act or state  as merely past without any idea of progression. In this usage  the kind of action reaches a vanishing point and only the temporal  element of the tense remains. The imperfect becomes a mere  preterite, cf. the Greek aorist and the Latin aoristic perfect. The  verbs to which this use of the imperfect is restricted are, in early  Latin, two verbs of saying, aio and dico, and the verb sum with  its compounds.   There are 56 cases of the aoristic imperfect in early Latin (see  Table II), 48 of which occur in syntactically independent sen-  tences. Some citations follow:   Plautus, Bacch. 268, Quotque innocenti ei dixit contumelias.   Adulterare eum aibat rebus ceteris.  Id. Most. 1027, Te velle uxorem aiebat tuo gnato dare :  Ideo aedificare hoc velle aiebat in tuis.  Th. Hie aedificare volui? Si. Sic dixit mihi.  Id. Poen. 900, Et ille qui eas vendebat dixit se furtivas vendere:  Ingenuas Carthagine aibat esse.   1 Faciebat audientiam seems a technical expression, cf. lexicon.   2 The case cited by Gildersleeve- Lodge, § 233, from Auct. ad Herenn., 2. I.  2, ostendebatur seems to me a simple imperfect and there is nothing in the  context to prove a conative force, cf. 3. 15. 26 demonstrabatur. In these cases note the parallel cases of dixit, cf. id. Trin. 1140,  Men. 1 141 &c, &c.   I note but three cases of dicebam:  Terence, Eun. 701, Ph. Unde [igitur] fratrem meum esse  scibas ? Do. Parmeno  Dicebat eum esse. Cf. Plautus, Epid. 598 for a perfect used  like this.  Varro, R. R. II. 4. 11, In Hispania ulteriore in Lusitania  [ulteriore] sus cum esset occisus, Atilius Hispaniensis minime  mendax et multarum rerum peritus in doctrina, dicebat  L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duabus  costis . . .  Ibid. III. 17. 4, pisces . . . quos sacrificanti tibi, Varro, ad  tibicinem [graecum] gregatim venisse dicebas ad extremum  litus atque aram, quod eos capere auderet nemo, . . .  In these cases the verb dico becomes as vague as is aio in the  preceding citations.  Plautus, Poen. 1069, Nam mihi sobrina Ampsigura tua mater   fuit,  Pater tuos is erat frater patruelis meus,  Et is me heredem fecit, Id. Mil. gl. 1430, Nam illic qui | ob oculum habebat lanam   nauta non erat.  Py. Quis erat igitur? Sc. Philocomasio amator.  Id. Amph. 1009, Naucratem quem convenire volui in navi   non erat,  Neque domi neque in urbe invenio quemquam qui ilium   viderit. 1  Id. Merc. 45, Leno inportunus, dominus eius mulieris,   Vi sum<m>a[t] quicque utpoterat rapiebat domum.  In such cases as the last the imperfect has become formulaic,  cf. quam maxime poter at, &c.   1 Rodenbusch, pp. 8-10, after asserting that the imperfect of verbs of saying  and the like is used in narratio like the perfect (aorist), cites a number of  illustrations in which (he adds) the imperfect force may still be felt ! But a  case in which the imperfect force may still be felt does not illustrate the  imperfect in simple past statements, if that is what is meant by narratio.  Only four of R.'s citations are preterital (aoristic), and these are all cases of  aibam (Plautus, Amph. 807, As. 208, 442, Most. 1002). The same may be said  of the citations on p. g, of which only Eun. 701 is aoristic. J. Schneider  (De temporum apud priscos latinos usu quaestiones selectae, program, Glatr,  1888) recognizes the aoristic use of aibat, but his statement that the comic  poets used perfect and imperfect indiscriminately as aorists cannot be accepted. The Shifted Imperfect.   In a few cases the imperfect appears shifted from its function  as a tense of the past, and is equivalent to (i) a mere present; or  (2) an imperfect or pluperfect subjunctive.   The cases equivalent to a present 1 are all in Varro, L. L., and  are restricted to verbs of obligation {oportebat, debebaf) : L. L.  8. 74, neque oportebat consuetudinem notare alios dicere Bourn  greges, alios Boverum, et signa alios Iovum, alios Ioverum.  Ibid. 8. 47, Nempe esse oportebat vocis formas ternas ut in hoc  Humanus, Humana, Humanum, sed habent quaedam binas . . .  ibid. 9. 85, si esset denarii in recto casu atque infinitam multi-  tudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici oportebat.  Ibid. 8. 65, Sic Graeci nostra senis casibus [quinis non] dicere  debebant, quod cum non faciunt, non est analogia.*   The cases equivalent to the subjunctive are confined to  sat &c. + erat (6 cases), poteram (3 cases), decebat (1 case), and  sequebatur (1 case). As illustrations may be cited :   Plautus, Mil. gl. 755, Insanivisti hercle : nam idem hoc homini-   bus sat [a] era\ti\t decern.  Auct. ad Herenn. 2. 22. 34, nam hie satis erat dicere, si id modo  quod esset satis, curarent poetae. = ' would have been,'  cf. ibid. 4. 16. 23 (iniquom erat),  Plautus, Mil. gl. 911, Bonus vates poieras esse : = ' might be '   or ' might have been '.  Id. Merc. 983 b, Vacuum esse istac ted aetate his decebat noxiis.  Eu. Itidem ut tempus anni, aetate<m> aliam aliud factum  condecet.  Varro, L. L. 9. 23, si enim usquequaque non esset analogia,  turn sequebatur ut in verbis quoque non esset, non, cum  esset usquequaque, ut est, non esse in verbis . . . This is a  very odd case and I can find no parallel for it.*   1 Varro uses the perfect also of these verbs as equivalent to the present of  general statements. Cf. L. L. 8, §§ 72-74, where debuit occurs 4 times as  equivalent to debet, § 48 (debuerunt twice), § 50 (pportuit = oportet). The perfect  infinitive is equivalent to the present, e. g. in 8, §61 and §66 (debuisse . . .  dici). The tenses are of very little importance in such verbs.   8 Note the presents expressed in the second and fourth citations.   3 The remaining cases are: Plautus, True. 511 (poterai), id. Rud. 269  (aequittserat), Lucilius, Sat. 5. 47 M. (sat erat), Auctor ad Herenn. 4. 16. 23  (iniquom erat), ibid. 4. 41. 53 (quae separatim dictae infimae erant).  Total. Imperfect. Aoristic. Shifted. Progressive. Cust.Past. Frequent. Terence Dramatists Historians Auctor ad Her. Inscriptions The fragments of Cato's historical work are included in the historians.  'Including the epic fragments of Ennius and Naevius.  Verbs and Functions. Cases. Imperfect. Classes of Verbs. Progressive. Cust. Past. Frequent. Aoristic. Shifted. Ind.Dep. Ind. Dep. Ind.  Dep.  Ind. Dep.  Ind.  Dep .I. Physical. Verbal commun. Rest, state, &c.   (tram 220)   Psychical.  Will  Auxiliaries.   american journal of philology.  Historical and Theoretical.   The original function of the imperfect seems to have been to  indicate action as progressing in the past, the simple progressive  imperfect. This is made probable, in the first place, by the fact  that this usage is more common than all others combined,  including, as it does, 680 out of a total of 1226 cases. This  proportion is reduced, as we should remember, by the peculiar  character of the literature under examination, which contains  relatively so little narrative, and especially by the nature of  Varro's De lingua latina in which the cases are chiefly of the  customary past variety. 1 Moreover, the customary past usage  itself, and also the frequentative and the conative, are to be  regarded as offshoots of the progressive usage of which they  still retain abundant traces, so that if we include in our figures  all the classes in which a trace of the progressive function  remains we shall find that 11 55 of 1226 cases are true imperfects  (see table II).   Another support for the view that the progressive function is  original may be drawn from the probable derivation of the tense.  Stolz 2 (after Thurneysen) derives the imperfect from the infinitive  in -e and an old aoristof the root *bhu. The idea of progression  was thus originally inherent in the ending -bam.   Let us now establish as far as possible the relations subsisting  between the various uses of the true imperfect (IA, B, C, D),  turning our attention first to the simple progressive (IA) and its  variations.   The relation between the progressive imperfect in its pure  form and the usage which has been named the imperfect of the  immediate past is not far to seek. The progressive function  remains essentially unchanged. The only difference lies in the  extension of the time up to the immediate past (or present) in  the case of the immediate past usage. The transition between:   ibat exulatutn'' = ' he was going into exile ' (when   l See p. 175.   2 In I. Muller's Handb. d. kl. Alt. II., 2 § 113, p. 376. Lindsay, Latin Lang.,  pp. 489-490, emphasizes the nominal character of the first element in the  compound, and suggests a possible I. E. *-bhwam, -as, &c, as antecedent of  Latin -bam, -ids, -bat. He also compares very interestingly the formation of  the imperfect in Slavonic, which is exactly analogous to this inferred Latin  formation, except that the ending comes from a different root.   3 Cf. Plautus, Merc.  I saw him at a more or less definite   point in the past)  and ibat exulatum = ' he was going (has been going)   into exile' (but we have just met him)  is plain enough. The difference is one of context. In this  imperfect of the immediate past the Romans possessed a sub-  stitute for our English compound perfect tense, 'have been  doing ', &C 1   In the imperfect of situation also the function of the tense  is not altered. The tense is merely applied in a different way, its  progressive function adapted to vivid description, and we have  found it already in the earliest 2 literature put to this use. In its  extreme form it occurs in passages which would seem to require  nothing more graphic than a perfect. Indeed, we must guard  against the view that the imperfect is a stronger tense than the  perfect; it is as strong, but in a different way, and while the  earlier writers preferred in general the perfect, 8 the imperfect  grew gradually in favor until in the period marked by the  highest development of style the highest art consisted in a  happy combination * of the two.   The imperfect of customary past action is, as we have seen,  already well established in the earliest literature. A glance at  Table I would seem to show that it grew to sudden prominence  in Varro, but the peculiar nature of Varro's work has already  been pointed out, so that the apparent discrepancy between the  proportion of cases in Varro and in Plautus and Terence, for  instance, means little. It should be remembered also that this  discrepancy is still further increased by the nature of the drama,  whose action lies chiefly in the present. While, therefore, in  Plautus and Terence the proportion of customary pasts is i,   1 Latin also exhibits some similar compounds, cf. Plautus, Capt. 925, te  carens dum hie fui, Poen., ut tu sis sciens, and Terence, Andr., ut sis  sciens. Cf. Schmalz in I. Mttller's Handb.    s In the Greek literature, which begins not only absolutely but relatively  much earlier than the Latin, the imperfect was used to narrate and describe,  and Brugmann, indeed, considers this a use which goes back to Indo-  European times. Later the imperfect was crowded out to a great extent by  the aorist, as in Latin by the (aoristic) perfect. Cf. Brugmann in I. Mailer's  Handb.   i The power of the perfect lies in its simplicity, but when too much used  this degenerates into monotony and baldness. and in Varro f , the historians with J probably present a juster  average.   The relation of this usage to the simple progressive imperfect  has already been pointed out, 1 but must be repeated here for the  sake of completeness. If we inject into a sentence containing a  simple progressive imperfect a strong temporal contrast, e. g.,  if facit, sed non faciebat becomes nunc facit, olim autem non  faciebat, it is at once evident how the customary past usage has  developed. It has been grafted on the tense by the use of such  particles and phrases, expressions which were in early Latin still  so necessary that they were expressed in more than one-quarter  of the cases ; or, in other words, it is the outgrowth of certain  oft-recurring contexts, and is still largely dependent on the  context for its full effect. Transitional cases in which the  temporal contrast is to be found, but no customary past coloring,  may be cited from Plautus, Rud., Dudum dimidiam  petebas partum. Tr. Immo etiam nunc peto. Here the action  expressed by petebas is too recent to acquire the customary past  notion. 2 The progressive function caused the imperfect to lend  itself more naturally than other tenses 3 to the expression of  this idea. 4   Although the customary past usage was well established in  the language at the period of the earliest literature, and we  cannot actually trace its inception and development, I am con-  vinced that it was a relatively late use of the tense by the mere  fact that the language possesses such verbs as soleo, consuesco,  &c, and that even as late as the period of early Latin the function  seemed to need definition, cf. the frequent use of particles, &c.   The small number of cases (13) which may be termed frequenta-  tive indicates that this function is at once rare and in its infancy  in the period of early Latin. The frequentative function is so  closely related 5 to the progressive that it is but a slight step from   1 Trans. Am. Philolog. Ass., Cf. Men. 729.   s How strong the effect of particles on other tenses may be is to be seen in  such cases as Turpilius, p. 113. I (Ribbeck), Quem olim oderat, sectabat ultro  ac detinet.   4 The process was therefore analogous to that which can be actually traced  in cases of the frequentative and conative uses.   5 Terence, Adel. 332-3, affords a good transitional case : iurabat . . . dicebat  — (almost) ' kept swearing ' ... 'kept saying' &c, cf. p. 47 n. 1. It should  the latter to the former. Latin 1 seems, however, to have been  unwilling to take that step. The vast number of frequentative, 2  desiderative and other secondary endings also prove that the  tense was not the favorite means for the expression of the  frequentative idea. Nevertheless since the progressive and fre-  quentative notions are so closely related and since frequentative  verbs must again and again have been used in the imperfect  subject to the influence of the progressive function of particles  such as saepe, etiam atgue etiam, and since finally a simple verb  must often have appeared in similar situations, e. g. poscebat for  poscitabat, the tense inevitably acquired at times the frequentative  function. We have here, therefore, an excellent illustration of the  process by which a secondary function may be grafted on a tense  and the frequentative function is dependent to a greater degree  than the customary past upon the influence and aid of the context.  That it is of later origin is proved by its far greater rarity (see  Table II).   If the frequentative imperfect in early Latin is still in its infancy,  the conative usage is merely foreshadowed. The fact that there  are no certain instances proves that relatively too much im-  portance, at least for early Latin, has been assigned to the conative  imperfect by the grammars. Statistics would probably prove it  rare at all periods, periphrases with conor &c, having sufficed for  the expression of the conative function.   The most powerful influence in moulding tense functions is  context. 3 In the case of the conative function this becomes all  powerful for we must be able to infer from the context that the  act indicated by the tense has not been accomplished. The   also be pointed out that the frequentative imperfect is very closely related to  the imperfect of situation. To conceive an act as frequentative necessarily  implies a vivid picture of it. (Cf. next note). It is possible, therefore, to  interpret as vivid imperfects of situation such cases as Ennius, Ann. 43-4;  Plautus, True. 506, Capt. 917, but a careful study of these has convinced me  that the frequentative idea predominates.   1 In Greek, however, the imperfect was commonly used with an idea of  repetition in the proper context. This use is correctly attributed by Brugmann  (I. Milller's Handb. &c.) to the similarity between the progressive  and frequentative ideas as well as to the fondness for description of a re-  peated act.   5 Ace. to Herbig, § 62 (after Garland?) there were probably no iterative  formations in Indo-European.   8 Cf. Morris, Syntax, pp. 46, 82, &c. 1function thus rests upon inference from the context- The presence  in the language of the verbs conor, tempto, &c, proves that the  conative function, like the frequentative, was a secondary growth  grafted on the tense in similar fashion, but at a later period, for  we have no certain instances in early Latin. This function of  the imperfect certainly originates within the period of the written  language.   The fact that the preponderance of the aoristic cases occurs  in Plautus and Terence (see Table I) indicates that this usage  was rather colloquial. This is further supported by the fact that  the majority of the cases are instances of aibam, a colloquial verb,  and of eram which in popular language would naturally be con-  fused with/i«. In this usage, therefore, we have an instance  of the colloquial weakening of a function through excessive  use in certain situations, a phenomenon which is common in  secondary formations, e. g. diminutives. The aoristic function  is not original, but originated in the progressive usage and in that  application of the progressive usage which is called the imperfect  of situation. Chosen originally for graphic effect the tense was  used in similar contexts so often that it lost all of this force. All  the cases of aibam, for instance, are accompanied by an indirect  discourse either expressed (38 cases) or understood (2 cases).  The statement contained in the indirect discourse is the important  thing and aibam became a colorless introductory (or inserted)  formula losing all tense force. 1 If this was the case with the verb  which, in colloquial Latin at least, was preeminently the mark  of the indirect discourse it is natural that by analogy dicebam,  when similarly employed, should have followed suit. 2   With eram the development was similar. The loss of true  imperfect force, always weak in such a verb, was undoubtedly due   1 Cf. Greek iXeys, tjv <5' iyi> &c. and English (vulgar) ' sez I ' &c„ (graphic  present). Brugmann (I. Muller's Handb. &c. II, 2 p. 183) denies that the Greek  imperfect ever in itself denotes completion, but he cites no cases of verbs  of saying. Although one might say that the tense does not denote completion,  yet if there was so little difference between imperfect and aorist that in  Homer metrical considerations (always a doubtful explanation) decided  between them (cf. Brugmann, ibid.), Brugmann seems to go too far in dis-  covering any imperfect force in his examples. The two tenses were, in such  cases, practical equivalents and both were colorless pasts.   8 Rodenbusch, p. 8, assigns as a cause for the frequency of aibat in this use  the impossibility of telling whether ait was present or perfect. This seems  improbable.   to the vague meaning of the verb itself. Indeed it seems probable  that eram is thus but repeating a process through which the lost  imperfect of the root *fu} must have passed. This lost imperfect  was doubtless crowded out " by the (originally) more vivid eram  which in turn has in some instances lost its force.   If the aoristic usage is not original, but the product of a collo-  quial weakening, we should be able to point out some transitional  cases and I believe that I can cite several of this character:   Plautus, Merc. 190, Eho . . . quin cavisti ne earn videret . . .?  Quin,sceleste,<eam>afo/7'«dfe&w,ne earn conspiceret pater?   Id. Epid. 597, Quid, ob earn rem | hanc emisti, quia tuam  gnatam es ratus ?   Quibus de signis agnoscebas? Pe. Nullis. Phi. Quarefiliam   Credidisti nostram ?*   In these cases the tense is apparently used for vivid effect (im-  perfect of situation), but it is evident that the progressive function  is strained and that if these same verbs were used constantly in  such connections, all real imperfect force would in time be lost.  This is exactly what has occurred with aibam, dicebam, and eram.  The progressive function if employed in this violent fashion  simply to give color to a statement, when the verbs themselves  {aibam, dicebam) do not contain the statement or are vague  (eram), must eventually become worn out just as the diminutive  meaning has been worn out of many diminutive endings.   In the shifted cases also the tense is wrenched from its proper  sphere. But whereas the aoristic usage displays the tense  stripped of its main characteristic, the progressive function,  though still in possession of its temporal element as a tense of  the past, in the shifted cases both progressive function and past  time (in some instances) are taken from the tense. In those  cases where the temporal element is not absolutely taken away  it becomes very unimportant. This phenomenon is apparently  due in the first place to the contrary-to-fact idea which is present  in the context of each case, and secondly to the meaning of some  of the verbs involved. In many of the cases these two reasons   1 There was no present of this root ace. to Morris, Syntax, p. 56, but cf.  Lindsay, Lat. Lang., p. 490.   'Also if *bhwam <.-bam was derived from *bhu </«- in fui &c., then the  fact that it was assuming a new function in composition would help to drive  it out of use as an independent form, eram (originally *isom) taking its place.   3 Cf. Terence, Phorm.; Adel. 809, Eun. 700. Ennius, Fab. 339.    are merged into one, for the verbs themselves imply a contrary-  to-fact notion, e. g. debebat, oportebat, poterat (the last when  representing the English might, could, &c). In Varro, L. L. the phrase sic Graeci . . . dicere debebant implies that the  Greeks do not really so speak; so Plautus, Mil. gl., 911 Bonus  vaies poteras esse implies that the person addressed is not a  bonus vales. In these peculiar verbs, which in recognition of  their chief function I have classified as auxiliary verbs, 1 verb-  meaning coincides very closely with mode, just as in soleo, conor,  &c, verb-meaning coincides closely with tense. The modal idea  is all important, all other elements sink into insignificance, and  the force of the tense naturally becomes elusive. 2   Let us summarize the probable history of the imperfect in  early Latin. The simple, progressive imperfect represents the  earliest, probably the original, usage. Of the variations of this  simple usage the imperfect of the immediate past and the im-  perfect of situation are most closely related to the parent use.  Both of these are early variants, the latter probably Indo-  European, 3 and both may be termed rather applications of the  progressive function than distinct uses, since the essence of the  tense remains unchanged, the immediate past usage arising from  a widening of the temporal element, the imperfect of situation  from a wider application of the progressive quality. Later than  these two variants, but perhaps still pre-literary, arose the custom-  ary past usage, the first of the wider variations from the simple  progressive. This was due to the application of the tense to  customary past actions, aided by the contrast between past and  present. Later still and practically within the period of the  earliest literature was developed the frequentative usage, due  chiefly to the close resemblance between the progressive and  frequentative ideas and the consequent transfer of the frequentative  function to the tense. Finally appears the conative use, only  foreshadowed in early Latin, its real growth falling, so far as  the remains of the language permit us to infer, well within the   1 Cf. Whitney, German Grammar, § 342. 1.   8 The same power of verb-meaning has shifted, e. g., the English ought from  a past to a present. Cf. idei, &c. If I understand Tobler, Uebergang  zwischen Tempus und Modus (Z. f. V51kerpsych., &c.), he also con-  siders the imperfect in such verbs as due to the peculiar meaning of the verbs  themselves. Cf. Blase, Gesch. des Plusquamperfekts, § 3.   »Cf. note.   Ciceronian period. In all these uses the progressive function is  more or less clearly felt, and all alike require the influence of  context to bring out clearly the additional notion connected with  the tense.   The first real alteration in the essence of the tense appears in  the aoristic usage in which the tense lost its progressive function  and became a simple preterite. This usage, due to colloquial  weakening, is confined in early Latin to three verbs, aidant,  dicebam, and eram (with compounds). It is very early, pre-  literary in fact, but later than the imperfect of situation, from  which it seems to have arisen. A still greater loss of the  essential features of the tense is to be seen in the shifted cases  in which the temporal element, as well as the progressive, has  become insignificant. This complete wrenching of the tense  from its proper sphere is confined to a limited number of verbs  and some phrases with eram, and is due to the influence of the  pervading contrary-to-fact coloring often in combination with the  meaning of the verb involved. In his Studien und Kritiken zur lateinischen Syntax, I. Teil,  Mainz, 1904, Dr. Heinrich Blase has devoted considerable space to  my article, "The Imperfect Indicative in Early Latin" (American  Journal of Philology). Since Blase  professes to present the substance of my article, except to the  'relatively few' German scholars who have access to the American  periodical, and since he makes a number of errors in mere citation  and statement, it becomes necessary for me in self-defense to make  some corrections. 1 But apart from these errors of detail, which  will be pointed out at the proper places, Blase disagrees with some  of the more important conclusions of my paper and it is with the  purpose of elucidating these views in the light of his criticism and  contributing something more, if possible, to a better understanding  of the problem that I offer the present discussion.   The functions of the imperfect indicative in early Latin may  be summarized as follows:   I. The Progressive 2 or True Imperfect, comprising several  types or varieties:   A. Simple Progressive.   1. dicebat = il he was saying."   1 That such corrections are justifiable is proved by the fact that K. Wimmerer, who  knows my article only through Blase's presentation, reproduces several of Blase's in-  correct statements. I regret the unavoidable delay in the publication of this paper  the less because it has enabled me to use Wimmerer's article, "Zum Indikativ im  Hauptsatze irrealenBedingungsperioden," Wiener Studien. The first four pages of his article are devoted to a general discussion  of Blase's critique of my views.   2 In this paper technical terms will be used as follows : progressive = German vor  sich gehendes (less exactly fortechreitendes) ; continuative or durative = wiaftrendes;  nature or kind of action=^Lfc<ionsarf; shifted = verschobenes ; descA\)tive= schilderndes;  reminiscent = erz&hlendes (see p. 365) ; relation (relative, etc.)= Beziehung, etc. Other  terms are, it is hoped, intelligible or will be defined as they occur. Classical Philology. The nature of the action may be either progressive 1 or con-  tinuative (durative). The time is past, but the period covered by  the action of the tense may vary with the circumstances described  from an instantaneous point to any required length. The time  is contemporaneous with, usually more extensive than, the time  of some other act or state expressed or implied. When the tense-  action is continuative and extends into the immediate past or,  by inference, the present of the speaker, I would distinguish a  sub-class :   a) The Imperfect of the Immediate Past:  dicebat—"he was saying" or "he's been saying."  The action may or may not be interrupted by something in the  context. If interrupted, it ends sharply and we may term the  tense the "interrupted" type of this immediate past.   2. The Descriptive Imperfect (better, the imperfect used in  description) .   dicebat="he was saying" (in English often rendered by  "said").   This is in its purest form a simple progressive imperfect  employed in the vivid presentation of past actions or states.   3. The Reminiscent Imperfect (better, the imperfect used in  reminiscence).   dicebat=^ u he was saying" (as I remember, or as you will  remember).   In this usage the imperfect is a simple progressive implying  an appeal to the recollection of the speaker or hearer.   B. Customary Past Type.   dicebat="he used to say, would say, was in the habit of  saying, etc."   The nature of the action is the same as in A except that with  the aid of the context there is an implication that the act or state  recurred on more than one (usually many) occasions. These  recurrences are usually at some considerable distance in the past  and contrasted with the present, but cases of the immediate past  usage (Ala)) with customary coloring occur.   i Hoffmann Zeitpartikeln 2 , p. 185, characterizes excellently this feature of the im-  perfect : " die actio infecta, pendens, die Handlung in der Phase ihres Vollzuges, ein  Geschehenes im Verlaufe seines Geschehens, ein Vergangenes Sein noch wahrend  seines Bestehens." Impebfect Indicative in Eably Latin 359   C. The Frequentative or Iterative Type.   dicebat = "he kept saying" (at intervals very close together).  This type is like B, except that it has no customary element and  the repetitions refer to one situation within comparatively narrow  limits of time.   The link connecting all these varieties with one another is the  progressive function. 1   II. The Aoristic Imperfect.   aibat = "he said" (equivalent to dixit, aoristic perfect).  The time is still past, but the progressive force is lost.   III. The Shifted Imperfect.  debebat = "he ought" (now).   The time is shifted to the present and the progressive force is  very much weakened, in some cases wholly lost, because of the  auxiliary character of the verbs involved.   For a more detailed treatment of the foregoing classes (except  the imperfect in reminiscence) I must refer to Am. Jour. Phil. In what follows I shall select certain points  for discussion by way of elucidation and supplement to what was  said there.   the impebfect of the immediate past   The simplest progressive usage is well enough understood,  but the usage termed by me the imperfect of the immediate past  or interrupted imperfect 2 calls for some remarks. As a type of  this imperfect in its interrupted form cf. Plautus Cas. 178: nam  ego ibam ad te. — et hercle ego istuc ad te. Here the action is con-  ceived as continuing until interrupted by the meeting of the speak-  ers. The fact of the interruption does not, of course, inhere in the  tense but is inferred from the context. Indeed, the interruption  may not occur at all, as will be seen by comparing the second type,  e. g., Stick. 328 f. : ego quid me velles visebam. nam mequidem  harum miserebat. Here visebam is interrupted like ibam above,   1 The nature of the action seems to me the most distinctive feature of the tenses.  In this I differ radically from Cauer, who considers contemporaneousness the essential  feature of the imperfect, cf. Grammatical militans, against Methner,  whose Untersuchungen zur lat. Tempus- und Moduslehre, Berlin, 1901, 1 have not seen.   2 B. Wimmerer Wien. Stud., Anm. 2, calls attention to the fact that  this imperfect of the immediate past in its interrupted form is still common in Italian.     360 Arthur Leslie Wheeler   but the action of miserebat is conceived as continuing not only up  to the immediate past, but into and in the present of the speaker.  But again this continuance in the present is not inherent in the  tense; it is inferred from the context. The nature of the action  is in both these types still progressive, or more exactly, continua-  tive, but temporally stress is laid on that period of time immediately  preceding or even extending into the present. 1   In this usage the Romans possessed a somewhat inexact sub-  stitute for the English progressive perfect definite, e. g., mequidem  . . . . harumnusere6a/ = (practically) "I've been pitying,"a form  which, like the Latin, may be used in the proper context to indi-  cate that the pity still continues in the present. 2 On the other  hand, the English "I was pitying," superficially a more exact  rendering, does not so clearly indicate this continuance in the  present, though "I was going to your house, etc." is an exact  rendering of Cas. 178.   Blase himself has collected some exactly similar cases, 3 of which  he says:   Das Imperf. wird gelegentlich auch von Zustanden gebraucht die  zwar in der Gegenwart des Redenden noch fortdauern aber nur mit Bezie-  hung auf die Vergangenheit genannt worden: Plaut. As. 392 quid quae-  ritas? Demaenetum volebam. Das Wollen dauert fort, aber hier ist  es nur in Beziehung auf die in Gedanken vorschwebende vorausgehende  Zeit bis zur Ankunft vor dem Hause gebraucht.   'Blase {Kritik, p. 6) misrepresents my statement concerning this usage. He cites  from my paper Stich. 328, apparently as given by me in illustration of both the pro-  gressive use in its simplest form and of this immediate past usage, although it was used  as an illustration of the immediate past usage only. Again he quotes me as believing  that in the immediate past usage the action takes place within exactly defined limits  ("genau bestimmten Granzen"). Here is atwofold error. My statement (Am. Jour.  Phil.) is "fairly definite limits" and refers to the simple progressive  usage, not to the immediate past usage. Blase's critique confuses the two usages.   2 There are traces of a tendency on the part of the Romans to express these shades  of thought with greater exactness, e. g., by the combination of a present participle  with the copula, Plautus Capt. 925 : quae adhuc te carens dum hie fui sustentabam.  Here carens .... fui is exactly equivalent to the English "I've been lacking,"  whereas sustentabam is inexactly equivalent to "I've been supporting." But Latin  did not develop such expressions as carens .... fui into real tenses, and remained  content with the less exact imperfect, cf . also iam diu, etc., with the present. See Am.  Jour. Phil. XXIV, p. 185, and Blase Hist. Syntax, p. 256. A complete collection of  such cases would be interesting. I would add here Amph. 132 : cupiens est, Rud. 943 :  sum indigens, and cf. the verse-close ut tu sis sciens (Poen. 1038), etc.   "Hist. Syntax III, 1903, Tempora und Modi, p. 148, Aran. This book had not  reached me when my article in Am. Jour. Phil. XXIV was written. Imperfect Indicative in Eably Latin 361   With the first part of this statement I fully agree, but is it true  that in As. 395 the imperfect is used "nur mit Beziehung auf die  Vergangenheit, etc." ? If, as Blase says, "das Wollen dauert fort,"  then we are forced to say that the imperfect is used not merely  with reference to the past, but with reference to the present. The  speaker really has in mind both past and present, and uses the  imperfect to express this double temporal sense, the action continuing from the past into the present, because at the moment of  speaking the past is somewhat more prominent. The tense is,  therefore, as explained above, only an approximate expression of  the thought. Had the present been more prominent, other elements being equal, some expression like iam diu volo would have  been employed. Blase asserts (Kritik, p. 6) that my statement that the speaker  has in mind both beginning and end of the action is not capable  of proof. It is true, I think, that the speaker has usually no  definite point in mind at which the action began. He simply  indicates the action as beginning somewhere in the past and con-  tinuing in the present. But in the very numerous "interrupted"  cases he has in mind a sharply defined end of the action. Blase's  criticism seems justified, then, only with reference to those cases  of which Stich. 328, .... harum miserebat is a type. But Blase classifies cases of this usage under no less than three  different heads in his Tempora und Modi. In addition to the  case cited above, As. 392 volebam, which he interprets, as I have  tried to show, almost correctly, he cites Trim. 400: sed   'Of. also the use of nunc, etc., with some of the cases: Plautus Merc. 884; quo  nunc ibas? , Ter. Andr. 657 f. : iam censebam.   2 B. Wimmerer Wien. Stud., says: "Sohalteich .... die Konsta-  tierung eines," imperfect of the immediate past or the interrupted imperfect, "fiir  einen glucklichen Gedanken," though he would not make a special type of this use. It  seems to me so common (about 200 cases) as to deserve the degree of special notice  which I have given it (Am. Jour. Phil He adds in a note: "Hier  tut Blase m. E. Wheeler einigermassen unrecht, wenn er dessen Behauptung, dass der  Sprecher in diesen Fallen Anfang und Ende der Handlung tiberschaue, unerweislich  nennt. Wheeler kann dies mit Becht behaupten, wenn es sich um einen Gedanken  handelt, der einen beherrschte bis zu dem Augenblick, wo man ihn konstatiert,"  pointing out also that Blase would be justified only in criticizing the form of my ex-  pression so far as I wished to apply it to the cursive " Aktionsart" (i. e., those cases  where there is no interruption?).     362 Arthur Leslie Wheeler   aperiuntur aedes, quo ibam 1 as "erzahlendes" (p. 148), Merc. 885:  quo nunc ibas as "sogenannt. Oonatus." The function of the  tense is essentially the same in all these cases, the only variant  being the presence or absence of interruption which is inferred in  all cases from the context.   Since Blase classifies so many of these cases under the head of  the conative imperfect, a consideration of that usage seems here  in place.   A "conative" imperfect ought to mean an imperfect which  expresses attempted action, but since there is no trace, at least in  early Latin (cf. Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 179, 180), of such  a function, the term is a bad one. 2 Why then retain it, as Blase  does, for those imperfects which express "den wahrenden, aber  nicht zu Ende, geftihrten Handlung?" These imperfects are  chiefly of the type which I have termed "interrupted," where the  context implies it, or imperfects of the "immediate past," where  there is no interruption. 3 In neither case is there anything more  than a simple variation of the progressive (here more exactly  continuative) imperfect.   But most of Blase's cases are not even of this idiomatic inter-  rupted or immediate past variety. They are simple progressives  in contexts which imply that the action was interrupted 4 or not   liftam occurs often in this use : True. 921, Cas. 178, 594, Merc. 885, Tri. 400, etc. ;  cf . Am. Jour. Phil. XXIV, pp. 168-70.   2 Blase Syntax, p. 148, recognizes the inexactness of the term by his expression,  "sogenannten Oonatus." In Greek its unfitness is well expressed by Mutzbauer  (cited by Blase Kritik, p. 10, and Delbriick, Vergl. Syntax II, p. 306): "Ungenau  werden solche Imperf ekta conatus bezeichnet, von einem Versuch liegt in der Form  nichts" (Grundlagender griech. Tempuslehre, p. 45) ; cf. now Wimmerer Wien. Stud.,  1905, p. 264 : " In der Form liegt allerdings von einem Versuche nichts."   ^Wimmerer Wien. Stud., 1905, pp. 263, 264, remarks that he does not see why Blase  appears to think that there is a difference between his conception of the imperfect  de conatu and mine. Blase says (Kritik, p. 11), after defining these imperfects as  above : " Die hier vertretene Anschauung scheint mehr auf die Imperf ekta zu passen,  die Wheeler," the interrupted imperfect " nennt." This is the case, so far as Blase  confines his citations to instances of the interrupted type. There is, then, no essential  difference in our interpretation of the function of the tense in these cases. Blase  clings, apparently against his will, to the old terminology to which everybody seems  to object, whereas I would group these cases under a new term which seems to me  more exact. But Blase does not, as it seems to me, group together all the cases that  belong together.   4 1 use interrupted here not of what has been termed the "interrupted" usage,  whose distinctive feature lies in the fact that the time is in the immediate past, but as     Impeepect Indicative in Early Latin 363   completed: Men. 564 pallam ad phrygionem deferebat (Peniculus  simply depicts Menaechmus as he had last seen him; cf. 469:  pallam ad phrygionem fert) ; Cic. Sulla 49 consulatus vobis  pariebatur (just like all the other imperfects in the passage —  progressive of the descriptive variety); id.Milo 9: interfectus  ab eo est, cui vim afferebat (simple progressive, the interruption  being expressed by interfectus est) ; id. Ligar. 24: veniebatis in  Africam (progressive, the interruption being implied in prohibiti 1  five lines below) ; Caesar B. G. v. 9. 6 : ipsi ex silvis rari propug-  nabant nostrosque intra munitiones ingredi prohibebant (but  prohibebant is exactly like propugnabant — both were interrupted  by the act expressed by ceperunt in the next sentence, and note  the verb-meaning); Sallust Jug. 27. 1: atrocitatem facti lenie-  bant. at ni, etc. ( progressive = they were in the act of mitigating,  but, etc.); ibid. 29. 3 redimebat (progressive); Livy:  mittebatur (progressive); Florus 1. 10. 1: nam Porsenna ....  aderat et Tarquinios manu reducebat. hunc reppulit (progressive  in description — that the act did not succeed is shown by reppulit) ;  Curtius vi. 7. 11: alias .... effeminatum et muliebrieter timi-  dum appellans, nunc ingentia promittens .... versabat animo  tanto facinore procul abhorrentem (again graphic description:  there is here nothing in the immediate context to show that an  effect was or was not produced. In fact versare animum does  not mean necessarily to succeed in turning one's mind, but merely  to work on one's mind; cf. Livy i. 58. 3 : Tarquinius .... ver-  sare muliebrem animum in omnes partes, where versare sums up  the preceding infinitives, but no effect is produced. So in Cur-  tius, loc. cit. , versabat has the same kind of action as is indicated  by the participles appellans .... promittens, which are summed  up in versabat); Ammianus xvi. 12. 29: his et similibus notos  pariter et ignotos ad faciendum f ortiter accendebat ( again graphic  description, cf. ibid. xvi. 32: his exhortationibus adiuvabat).   referring to interruptions in the more distant past. Where the interruption belongs  to the immediate past I have so indicated in the following criticism.   1 Surely the hearer in such a case as this would not have connected even the idea  of " nicht zu Ende gefiihrten Handlung " with veniebatis until he heard prohibiti, i. e.,  the interruption belongs purely to the context and not the immediate context at that.  This is true of many other so-called conative imperfects.     364 Arthur Leslie Wheeler   Vergil Aen. i. 31: arcebat longe Latio, cf. errabant (graphic  description = what Juno "was doing" at the time, and only the  outcome of the story proves that she did not succeed). : hoc equidem occasum Troiae tristisque ruinas solabar, fatis  contraria fata rependens; nunc eadem fortuna viros .... inse-  quitur (immediate past with customary coloring, cf. contrast in  nwnc = I have been in the habit of comforting .... but now,  etc. This is one of the transitional cases between the pure custo-  mary part and the pure immediate past; cf. Am. Jour. Phil.  XXIV, p. 186, where Plautus, Mud. 1123: dudum dimidiam  petebas partem, immo nunc peto; Men. 729: at mihi negabas  dudum surripuisse te, nunc ea<V>dem ante oculos, attines, are  cited. In both of these passages, though there is no customary  coloring, there is the same contrast between continuance in the  past and the present as in Vergil loc. cit. Blase would probably  term both of the Plautus passages "erzahlende"). Tacitus Ann.  i. 6. 3 trudebantur in paludem ni Caesar, etc. (a very common  form of graphic description in Tacitus = the soldiers were being  crowded into .... but (ni) . . . . i. e., the effect was partly  produced, but was prevented, cf. Sallust Jug. 27. 1 above).   In all these cases, then, I can see no essential alteration in the  function of the tense. The idea "der nicht zu Ende geftihrten  Handlung" is derived in each case wholly from the context and  there is no reason for making a special category of imperfects  which happen to occur in contexts of this kind. Moreover, the  meaning of the verb has often been overlooked, e. g., prohibebant  (Caesar B. G. loc. cit.) may easily, with but slight aid from the  context, express "die nicht zu Ende gefuhrte Handlung;" cf.  redimebat, mittebatur, versabat, etc.   Whether the idea of real attempted action ever became con-  nected functionally with the imperfect remains to be investigated.  Certainly this did not occur in early Latin, and I doubt whether  it ever occurred. Among the cases cited by Blase are two which  more closely approximate this idea than any others. These are  Sallust Jug. 29. 3 : sed Jugurtha primo tantummodo belli moram  redimebat, existumans sese aliquid interim Romae pretio aut gratia  effecturum; postea vero quam, etc.; cf. Florus i. 10. 1: reducebat.     Impebfect Indicative in Early Latin 365   It is hard for us to feel the progressive force as the more promi-  nent in such cases. We regard as more important the attempt  which is implied in the context, but the Romans preferred to rep-  resent the act graphically as in progress, leaving the idea that it  was not successful to be inferred. When a Roman wished clearly  to express attempt (real conatus), he chose a clear conative  expression, 1 e. g., conari with infinitive. In strict accuracy we ought not to speak of a "descriptive"  imperfect, but of the progressive imperfect in description. The  term "descriptive" imperfect would be justified only in case we  could distinguish from the simple progressives those cases in which  the tense is used purely for graphic presentation of actions which  might more naturally have been indicated by the perfect. Such  a distinction may often be drawn, especially after the development  of a consciously artistic style, but the separation would be worth  little since the progressive function is equally characteristic of  both. The tense was chosen for graphic purposes because its pro-  gressive function made it the most vivid of the past tenses.   The chief difference between Blase's treatment here and my  own will become evident from a consideration of his definition  (Hist. Syntax) :   Aber seiner Hauptverwendung nach ist das Imperf. im latein. ein  Tempus der Schilderung geworden welches einmal im Nebensatz seine  Stelle hat zur Bezeichnung von Zustanden und Handlungen, die wahrend  anderer genannter Zustanden und Handlungen dauerten, und dann im  Hauptsatz bei Schilderungen von Zustanden, Sitten, Gebrauchen, welche  in Beziehung stehen zu irgead einer vorher oder nachher genannten  praeteritalen Handlung.   ! This whole question needs investigation. All the forms of expression of real  conatus should be collected and compared with the tenses as has been done for "cus-  tom" by Miss E. M. Perkins The Expression of Customary Past Action or State in  Early Latin, Bryn Mawr dissertation, 1904.   2 " Reminiscence, reminiscent" are here proposed as equivalents for the German  "Erz&hlung, erz&hlendes, etc.," since the English "narrative," whether noun or  adjective, does not, as may the German "Erz&hlung," etc., imply an appeal to the  memory or recollection. Blase points out (Kritik, p. 12) that I misunderstood the  Latin equivalents narratio, etc., as employed by Rodenbusch (De temporum usu  Plautino, Strassburg, 1888) who thus translates this peculiar German "Erzahlung"  into Latin. My error may seem pardonable under the circumstances.     366 Abthub Leslie Wheeler   This elevates the descriptive power of the imperfect to a higher  position than seems to me justified, unless one defines all cases  having the progressive function as descriptive which Blase evi-  dently does not do, for he makes separate categories of the  "erzahlendes" (reminiscent) function and, as has been seen, of  the conative, 1 in all of which he recognizes the nature of the action  as progressive.   Again it is to be noted that he speaks of the 'description of  customs,' etc., i. e., he does not regard the use of the imperfect to  indicate customary action as important enough even for a sub-  class, although he makes at least varieties of the reminiscent and  conative uses. I shall take up this point more fully below, 2 merely  remarking here that the cases usually termed customary are fully  as peculiar as those termed by Blase conative and far more  numerous, at least in early Latin.   1 would, then, understand as an imperfect used in description  one which is used in a descriptive passage to present any act or  state vividly to the hearer or reader. What Blase's conception is,  I can not discover. He appears to make a distinction (Kritik,  p. 7) between "Erzahlung" 3 (= here "narrative"?) and"Schilde-  rung" ( — description), e.g., in Plautus Bacch. 258-307, Capt.  497-515, Terence Andr. 48ff., 74-102 — passages which I had  cited as descriptive, 4 he sees "reine Erzahlung, keine Schilde-  rung." On the other hand, in Terence Phorm. 60-135, which I  had also cited, he sees "eine Erzahlung mit einzelnen Situations-  malereien." Without quibbling over our characterization of the   i "Conative" is used in this passage merely as representing Blase's classification.   2 With regard to Blase's peculiar distinction between imperfects in dependent and  independent clauses I would remark that in the study of probably two or three thousand  cases of the tense I have never been able to see any essential difference in function due  to the presence of a case in a dependent clause, cf . Am. Jour. Phil. And certainly customs, etc. ("Sitten, Gebrauchen") maybe described in a subordinate  clause as well as in an independent clause.   sif " Erzahlung " is here used by Blase in its technical sense as explained on p. 365,  note, my objections are strengthened, for there is certainly no special "appeal to  recollection" in the imperfects of these passages. One might as well say that the  descriptive presents and infinitives (so-called historical) in the Bacchides passage,  etc., are different from the same usages in, say, Livy, because here the speaker is  supposed to be telling of personal experiences, which is chronologically impossible in  Livy's case.   4 Some of the imperfects are primarily customary.     Imperfect Indicative in Early Latin 367   passages in question let us consider the main point, so far as it  can be discerned in Blase's discussion: that there is to him some  difference between the imperfects in the first group of passages  and those in the Phorm. 60-135. With his characterization of  the latter passage I agree, and I had classified the imperfects in  it as imperfects used in description ("Situationsmalereien"). 1  But what is the difference in the effect of imperfects in this pas-  sage and those in the Bacchides or those, to take a typical passage  from Blase's Tempora und Modi, in Caesar Bell. civ. i. 62. 3 ?  I give the essential parts of the three passages:   Phorm. 80 if. : hie Phaedria continuo quandam nactus est puellulam  .... hanc amare coepit . . . . ea serviebat lenoni .... neque quod  daretur quicquam .... restabat aliud nil nisi oculos pascere, .... nos  otiosi operant dabamus 2 .... in quo discebat ludo exadvorsum ilico  tonstrina erat quaedam, etc.   Bacch.flf . : dum circumspecto, atque ego lembun conspicor ....  is erat communis cum hospite et praedonibus .... is ... . nostrae  navi insidias dabat. occepi ego opservare .... interea nostra navis  solvitur .... homines remigio sequi, navem extemplo statuimus ....   Caesar Bell. civ. i. 62. 3 (in which Blase expressly characterizes nun-  tiabatur, etc., reperiebat as " schildernde," cf . Syntax III, p. 147): Caesar  .... hue iam reduxerat rem, ut equites, etsi difficultate, .... fiebat,  possent tamen .... flumen transire, pedites vero ad transeundum  impediuntur. sed tamen eodem fere tempore pons in Hibero prope  effectus nuntiabatur, etc.   To me there is no difference between the imperfects in the  passages of the Phormio and Bellum civile, on the one hand, and  those of the Bacchides, Captivi, and Andria on the other. All  seem to me to be progressive imperfects in description, some are  also customary (see the collection) and have been classified  under that head as the more important element. Is it not better  to separate such cases as Phorm. 87 operant dabamus, 90 solebamus from the progressive-descriptive types than to group all  together, 3 as is done by Blase?*   1 This term refers to the imperfects, I suppose, though Blase does not specify  exactly what he means.   2 Primarily customary.   3 Blase apparently takes a similar view of the frequentative imperfect; cf. Kritik,  p. 7 and see below.   4 In his Kritik, p. 7 Blase attempts to refute my assertion that the words of Quad-  rigarius are not exactly given by Gellius ix. 11 by pointing to the words of Gellius : ea res     368 Arthur Leslie Wheelek   The usage termed by Blase "erzahlendes," for which I have  proposed in English the term "reminiscent," seems to me to be  closely related to the so-called descriptive imperfect. Blase not  only considers this an important variety {Syn. Ill),  but is inclined to regard it as perhaps an original function. 1  According to his definition {Syn., loc. cit. after Delbriick) the  imperfect is thus used "wenn der Sprechende etwas aus seiner  personlichen Erinnerung mitteilt oder an die personliche Erinne-  rung des Angeredeten appelliert." Both the descriptive and  reminiscent uses, therefore, result from the use of the progressive  function to represent a past act vividly. The reminiscent effect  is due to the fact that in this usage the past acts are restricted to  those which concern the personal experience of the speaker or  hearer; it is a more intimate usage. As clear cases I cite from  Blase's list: Cicero Rep. iii. 43; ergo ubi tyrannus est, ibi non  vitiosam, ut heri dicebam, sed ut nunc ratio cogit, dicendum est  plane nullam esse rem publicam. Here Cicero clearly indicates  that he is repeating the substance of his own words of the day  before = " as I was saying yesterday, let me remind you." 2 So  Catullus 30. 7: eheu quid faciant, die, homines, cuive habeant  fidem ? certo tute iubebas animam tradere, inique, me ....  idem nunc retrains te, etc., where the poet reminds his friend (?)  of the latter's advice. In both cases the progressive force is  clear, and, as Blase says, the tenses stand in no clear temporal  relation to any preterite in their context. Now since the peculiar   .... sicpro/ecfoest in libris annalibus memorata. But profecto refers to the content,  not to the exact, words of the passage in the libri annates. And when Gellius gives a  word-for-word citation, he introduces it by more definite language, cf . ix. 13. 6 verba  Q. Olaudii .... adseripsi. In ix. 11 he is almost certainly paraphrasing, cf. haut  quisquam est. nobilium scriptorum, and in libris annalibus. This is the opinion of  Hertz, who prints this passage in ordinary type. The name of Quadrigarius is not  given, but Gellius was probably taking the substance of the account from him. I  have excluded this passage from the certain remains of early Latin.   iKritik, p. 15: "War die vorliterarische Periode des Lateinischen ahnlich der des  Alt-Indischen (vgl. Delbruck, p. 272) und des Alt-Griechischen (Brugmann Gr. Or. s ,  § 539. 2), so haben wir in den Resten des erzahlenden Gebrauchs ebenfalls eine uralte  Verwendung zu sehen;" cf. pp. 49 f.   2 The English imperfect is employed in the same way, e. g., " The facts are as fol-  lows, as I was saying yesterday," or in vulgar expressions like " Warn't I tellin' ye?"  Usually the time is denned by some adverb as by heri in Cicero. Notice, too, the  contrast between past and present as expressed in both passages by nunc.     Impebfect Indicative in Early Latin 369   appeal to recollection is the distinguishing feature of this remi-  niscent imperfect, it would seem proper to confine the usage to  those cases in which such an appeal is clear. Without discussing  doubtful cases I content myself with indicating those found in  Blase's lists which seem to me clearly not reminiscent. Plautus  Tri. 400: sed aperiuntur aedes quo ibam 1 (an immediate past of  the interrupted type). In the same category I would place  Cicero Att. i. 10. 2: quod ego etsi mea sponte ante faciebam, eo  nunc tamen et agam studiosius et contendam — -except that here  the action of faciebam is not interrupted, but is continued in the  present, cf. agam et contendam. Other immediate pasts are Ovid  Fasti i. 50: qui iam fastus erit, mane nefastus erat; ibid. 718:  si qua parum Komam terra timebat, amet; ibid. ii. 79: quern  modo caelatum stellis Delphina videbas, is fugiet visus nocte  sequente tuos (notice modo) ; ibid. 147: en etiam si quis Borean  horrere solebat, gaudeat; a zephyris mollior aura venit. Varro  R. r. iii. 2. 14: libertus eius, qui apparuit Varroni et me absente  patrono accipiebat, in annos singulos plus quinquagena milia e  villa capere dicebat. Here accipiebat seems simply progressive  and (also against Blase) contemporaneous with vidi just above.  dicebat is difficult and may, as Blase says, be reminiscent ; cf . the  exact details given by the speaker ; or did the phrase in annos  singulos influence the choice of the tense ? So in Cic. Off. i.  108 : erat in L. Crasso, .... multus lepos; 109 : sunt his  alii multi multum dispares .... qui nihil ex occulto, nihil de  insidiis agendum putant ut Sullam et M. Crassum vide-  bamus, the imperfect seems to be progressive used in description.  In Ovid Fast. viii. 331: et pecus antiquus dicebat 'Agonio'  sermo, the imperfect seems to be customary; cf. antiquus and  Paulus s. v. Agonium: Agonium dies appellabatur quo rex  hostiam immolabat; hostiam enim antiqui agoniam vocabant.   But however much the interpretation of single cases may vary,  this is clear: the progressive force is discernible in all these cases.  It would be better, therefore, to content ourselves with this and  not to discover an additional appeal to recollection, unless such  force is perfectly clear, since the real imperfect function is not  altered whether the reminiscent force be present or absent.   lOf. p. 359.    One more remark needs to be made concerning the remini-  scent imperfect. This category has served as a convenient catch-  all for many cases of the imperfect which are difficult to classify  and especially for those in which it is difficult or impossible to  discern any progressive force, many of which I have classified as  aoristic. To classify these last cases as reminiscent is doubly  wrong ; first, because it usually involves a petitio principii, i. e. ,  an effort to discover imperfect function because the form is  imperfect; secondly, because the reminiscent coloring is con-  nected only with instances in which the imperfect (progressive)  function is clear. The shadowy appeal to memory does not exist  as a separate function It has already been pointed out that Blase would not elevate  this variety of the progressive imperfect to the dignity of a sub-  class. The tense, however, occurs so often in the expression of  custom, habit, method, etc., that it seems to me worthy of sepa-  ration from other varieties of the progressive. In early Latin  I have counted about 450 instances in which the customary  coloring seems tome the most prominent element (see the table).   Blase (Kritik, p. 9) has objected to my statement ( Am. Jour.  Phil.) that verbs whose meaning implies repe-  tition (vocito) or even custom (soleo) are especially well adapted  to the expression of the customary past function. He gives no  reason with regard to the first group, vocito, etc., where the mean-  ing is connected with the form. With regard to soleo, etc., he  says only that the reciprocal influence of verb-meaning and tense-  function appears "nicht nachweisbar, da doch der Verfasser  selbst ihr seltenes Vorkommen im Imperfekt natiirlich findet,  weil sie in jedem Tempus der Vergangenheit 'the customary  past function' ausdrucken." There appears here to be some mis-  understanding on Blase 's part and perhaps my statement was too  brief. I did not mean by reciprocal influence of verb-meaning  and tense-function that the tense borrows anything, as Blase  seems to understand me, from the meaning of the verb, but that  when a verb whose meaning implies repetition or custom occurs   i See p. 378 for further remarks.     Imperfect Indicative in Eaely Latin  in the imperfect tense, the expression of custom becomes especially  clear. The meaning of the verb and the function of the tense  are mutually helpful to the expression of the thought. 1 Verbs  like appello, voco, vocito, dico (="name") imply not merely a  single act of naming, but usually many acts at intervals. 2 There  are numerous instances of such verbs in the imperfect (see the  collection) and nothing seems to me to be clearer than that these  verbs are especially well adapted to the expression of custom — •  past, present, or future. If we compare Varro, M. r. i. 17. 2:  iique quos obaeratos nostri vocitarunt with id. L. L. v. 162: ubi  cenabant, cenaculum voeitabant, etc., we see that in the first case  the tense merely states, while the verb-meaning, together with  the context, gives the idea of custom or habit; in the second  (voeitabant) the verb- meaning is reinforced by the imperfect  tense — both aid in the expression of custom. This does not mean  that a Roman more often used the imperfect tense of such verbs  when he wished to express custom, but that when the imperfect  was used, a clearer expression of customary past action resulted. 3  As to soleo, consuesco, etc., the same principle holds, for cus-  tom and repetition are inseparably connected; but since these  verbs imply by their meaning the very function (custom) in  question, it is clear that the imperfect tense would occur more  rarely. When, however, the imperfect was used, there was, just  as in vocito, etc., a more emphatic expression of the customary  idea; cf. Phorm. 90: Tonstrina erat quaedam: hie solebamus  fere plerumque earn opperiri .... Here tense, verb, and particles  all lend their aid to the expression of the idea of custom or habit.  The same idea would have been expressed less clearly by hie fere  plerumque opperiebamur, or by hie fere plerumque soliti sumus  opperiri, or by hie opperiebamur. In the last form only does the   i Cf . Trans. Am. Philolog. Ass., where I first expressed this  view. That verbs like soleo "dominate the tense" I no longer believe; they  aid the tense, but it is impossible to say whether the tense or the verb-meaning is  more influential in the total effect. Cf. also Morris, Principles and Methods in  Syntax, 1901, p. 72.   2 If the intervals are very close together without the implication of custom, I  would classify as frequentative ; see below.   3 Am. Jour. Phil., and the dissertation of Miss Perkins cited  above.    tense-form become entirely dissevered from the influence of verb-  meaning and accompanying particles, and even here context is  operative. The progressive function inherent in all true imperfects renders  the tense well fitted to express repetition in the past. The repeated  acts may naturally occur at wider or narrower intervals, as the case  may require. All expressions of custom, for example, involve an  idea of repetition, but it is only to cases of the imperfect which indi-  cate an act as repeated insistently, usually at intervals very close  together, that I would give the title "frequentative" or "iterative,"  i. e., imperfects in which this element of repetition becomes more  prominent than any other. It seems to me that the existence of  a few such cases in early Latin is not fanciful. In Plautus'  Captivi: aulas .... omnis confregit nisi quae modiales  erant: cocum percontabatur, possentne seriae fervescere, 2 a single  situation is described wherein the parasite repeatedly and insist-  ently asked, kept asking, whether, etc. There is something more  than mere progressive force, on the one hand, and there is no  idea of habit or custom, on the other. The primary element of  the tense is here repetition. When, therefore, Blase sees in As.  207 ff. repetition, he is right, for repetition in a general way is  present in all cases of the customary imperfect; but he is wrong  in viewing repetition as the more important element. The more  important element seems to me custom and in accordance with  this we ought to classify these cases as customary. 3   iln a review of Miss Perkins' dissertation Woch.f. kl. Phil., 1904, cols. 1277-80,  Blase has since admitted the truth of my assertion with regard to the influence of  verb-meaning: "Die Verbalbedeutung ist massgebend z. B.bei alien Verben, die  'nennen,' 'benennen,' bezeichnen, wie appellare dicere vocare, denn der Name  entsteht durch ein gewohnheitsmassiges Nennen. Damit ist der Grand gegeben (by  Miss Perkins) fur eine Behauptung, die ich .... bei Wheeler bezweifelt habe."   2 Blase (Kritik) misses among my cases Rud. 540, which was nevertheless  cited, but escaped him because by a misprint the imperfect was not italicized. On the  same page he cites ten passages and says that I "hier uberall gewohnheitsmftssige  Handlungen erkenne." This is very inaccurate, unless "hier" refers to the last two  passages, As. 207 ff., Bacch. 424 — the only two of the list which I have classified as  customary. My classification of the other eight passages may be seen by referring to  the collection at the end of this paper.   3 Blase (Kritik) seems to imply that I have said that the frequentative  imperfect is commoner in later Latin. I have nowhere said this and my statement,     Imperfect Indicative in Early Latin 373   the aoristic imperfect  Excessive deference to the principle that a difference of form  implies a difference of meaning and the well-known tendency of  investigators to abhor an exception are chiefly responsible for the  unwillingness of some scholars to admit that the imperfect occurs  in Latin with no progressive force, i. e., as an aorist. While I  can not pretend to criticize this method as applied to Sanskrit and  Greek by Delbruck, 1 it seems to me that there are reasons against  its application, in the same degree at least, to Latin. The situa-  tion in early Latin differs essentially from that in Sanskrit and in  Greek. In the first place there is no 'great mass' 2 of cases of the  imperfect in which real progressive force is not discernible, and  the cases (about sixty) are restricted almost entirely to two verbs,  aibam and eram. This seems to indicate that the phenomenon  arose on Latin ground alone and has its explanation in some  peculiarity of the few verbs concerned. Again the greater wealth  of tenses in Sanskrit and Greek would lead us a priori to expect   Am. Jour. Phil, "Latin seems .... to have been unwilling to  take that step," implies the opposite belief. When I added (ibid., p. 187), " If the fre-  quentative imperfect in early Latin is still in its infancy, etc.," it was naturally not  implied that it ever passed out of its infancy ! The facts in later Latin are not known  because they are not collected. Wimmerer naturally repeats from Blase's Kritik both  these errors ( Wien. Stud., 1905, p. 263). He, too, is of the opinion that it is of no ad-  vantage to separate so-called iterative imperfects from those of customary nature:  " wenn doch in jedem Falle erst auf Grund des gewahlten Tempus aus dem Zusam-  menhange erkannt wird, dass es sich um eine Gewohnheit handelt." To this it must  be answered, first, that it is by no means always, and often not at all, on the basis of  the tense that we recognize the presence of customary action. Such action may be  expressed in many ways, the tense being but one element ; and, secondly, if the cases  interpreted by me as frequentative are really essentially different from any other  variety of the progressive, then they should be classified separately, at least until it can  be proved that they belong elsewhere.   1 It will suffice to quote two of Delbruck's statements. He says of the Greek tenses :  "Man muss sich eben mit der Erwagung begnugen, dass es einem Schriftsteller bald  gut schien, zu konstatieren, bald zu erzahlen, ohne dass wir uns seine Motive immer  klar machen konnten" (Vergl. Syn. II, p. 304, cf. pp. 302, 303). A saner. method is  evinced ibid.: " Den Unterschied zwischen Perfekt und Imperfekt (of Sanskrit)  in den einzelnen Stellen nachzuweisen, sind wir nicht mehr im Stande." This is at least  safe agnosticism, biding its time until the lost distinctions shall be found. Blase is  in entire agreement even as regards Latin with the first statement of Delbrflck, cf .  Kritik, p. 12.   2 Delbruck (ibid., p. 304, of Greek) : "Aber .... bleibt doch auch eine grosse  Menge von Stellen ubrig, bei denen wir einen Grund fur die Wahl des Tempus nicht  ausfindig machen konnen."     374 Arthur Leslie Wheeler   in those languages a larger number of instances in which it is  hard to differentiate similar tenses, whereas the much narrower  tense-system of Latin exhibits a tendency to merge the functions  of similar tenses, cf. the perfect in -v- with the reduplicated per-  fect and the formally aoristic perfect in -s-. In accordance with  this preliterary development we should expect indications of the  same tendency in the literary period. The aoristic imperfect is,  I believe, an illustration of this tendency, resulting from the  merging of the functions of imperfect and preterite (aorist) in  certain verbs. The restricted range of the phenomenon and its  probable explanation (see below) would make it unlikely that we  are here dealing with a survival of an Indo-European confusion.   As illustrations of the aoristic usage I will cite : Plautus Poen.  1069 : nam mihi sobrina Ampsigura tua mater fuit (cf. fecit),  pater tuos is erat frater patruelis meus. Here there seems to be  no difference between erat and fuit. Ibid. 900: et ille qui eas  vendebat dixit se furtivas vendere: ingenuos Carthagine aibat  esse, where aibat and dixit seem to be equivalent. For other cases  see the collection.   It is quite possible that others may be able to detect true im-  perfect force in some of the cases which I have classified as aoristic.  Blase, though not quite certain of his own classification, has con-  vinced me that I may have been wrong with regard to Varro H. r.  ii. 4. 11: in Hispania ulteriore in Lusitania .... sus cum esset  occisus, Atilius Hispaniensis minime mendax .... dicebat ....  L. Volumnio senatori missam esse offulam cum duobus costis,  etc. There are so many exact details here that we suspect  Scrofa of reminiscing. So possibly Varro ibid. iii. 17. 4 dice-  bat. 1 But though perhaps a dozen 2 cases might be taken from the  total of those which seem to me aoristic, enough remain to establish  this category on a firm basis.   The exact process by which the progressive function became  lost can not, of course, be proved. I have suggested (Am. Jour.  Phil.) that it is a weakening due to the constant   'Blase is quite right (Kritik, p. 11) in classifying As. 208 aibas as customary. I  neglected to exclude this from four cases cited from Rodenbusch. It was classified on  my own slips as customary.   2 1 have indicated in the collection those which seem to me questionable.     Imperfect Indicative in Early Latin 375   use of certain verbs in ever-recurring similar contexts, until  in the case of aibam the originally graphic ' force was used out of  the form and aibam became a mere tag to indicate an indirect  discourse. 2 With eram the vagueness of the verb-meaning and  the frequency of its occurrence side by side with fui were the  chief influences. In contexts where there are many other imper-  fects all of a definite time, these usually colorless verbs naturally  take the prevailing color 3 of the context; cf. As. 208 aibas.   In his "Tempora und Modi" (Syn. Ill, p. 145) Blase expresses  his belief that an aoristic imperfect as accepted by Luebbert and  J. Schneider has been proven not to exist by E. Hoffmann (Zeit-  partikeln 2 , pp. 181 ff . ) . But neither Luebbert nor Schneider seems  absolutely to have believed in an aoristic usage. 4 Luebbert says  (Quom, pp. 156 ff.) that in Men. 1145 and 1136 ff. we find aoris-  tic perfect and the imperfect, etc. "promiscue gebraucht da der  Unterschied zwischen beiden gering war." "Grering" indicates  that there was to him some difference, even though it was slight.  Schneider's statements are not consistent. In his De temporum  apud priscos scriptores latinos usu quaestiones selectae, Glatz, he says correctly that in many cases no difference  can be seen between aibat and dixit, and that "aibat aoristi  munere fungi," but he adds that the imperfect represents an act  as "infectam ideoque aliter intellegendam acsi perfectam." Hoff-  mann's supposed refutation is very weak. In the first place he   1 If originally reminiscent, the explanation is the same ; for the reminiscent usage  is due to the speaker's effort to represent a past act graphically.   2 Cf. Am. Jour. Phil., where it is stated that the indirect discourse is  always present or implied (rarely) with aibam. Occasionally the object is represented  by a pronoun. Bacch. 982: quid ait?, Capt. 676: ira vosmet aiebatis itaque, etc.   8 Cf. Blase (Kritik, p. 11): "wo aibam mitten zwischen Imperfekta der wieder-  holten oder gewohnheitsmassigen Handlung steht und unmdglich anders gef asst werden  kann."   4 But cf. O. Seyffert in Bursian's Jahresb.: " Das Imperf. findet sich.  bekanntlich bei den Scenikern mehrfach in einem so geringen Bedeutungsunterschiede  vom Perf . und bisweilen unmittelbar neben demselben, dass man ohne wesentliche  Anderung des Sinnes und oft auch unbeschadet des Metrums (Rud. 543, Capt. 717) das  eine Tempus f iir das andere einsetzen kann. Es zeigt sich dies besonders bei den verba  dicendi; das Imperf. von aio vertritt ja geradezu das fehlende Perfect;" cf. ibid.  LjXXX, p. 336, where Seyffert repeats the statement that aibat, e. g., Ps. 1083, represents  the lost perfect of aio. In Am. Jour. Phil.  I had overlooked this remarkable  anticipation of my own conclusions. confuses different uses of the tense, asserting, for example, that in  Plautus Tri. 400: aedes quo ibam, etc., the imperfect is wholly  analogous to that in Tacitus Ann. ii. 34: simul curiam relinquebat.  commotus est Tiberius, etc. ; cf. iv. 43 sequebatur Vibius Crispus,  donee, etc., and that in the last two cases the imperfect jars on us  because such an action is not usually presented "in der Phase ihres  Vollzugs." Such an application of the tense may seem strange to  a German, but to one who speaks English, it is entirely natural  and could not for a moment be mistaken for anything but a  simple progressive imperfect. To refute such a usage as a supposed  aorist is to knock down a man of straw. The supposed analogy of  these cases to Tri. 400 does not bear on the point, but it may be  remarked that ibam is analogous only in the fact that its action is  progressive and interrupted, but it belongs to the immediate past  type. 1 Hoffmann then cites ten cases of aibat, six of which may  be taken aoristically, and asserts that the tense is in all used  "in voller Gesetzmassigkeit." This assertion rests on entirely  inadequate foundation. 2   the shifted imperfect  Blase seems right in restricting the 'shifted' imperfect to one  class (Kritik) = an imperfect subjunctive with present  meaning; for, as he says, there is no real shifting if the  preterital sense remains. But when he adds 3 that "ein sicherer  derartiger Fall ist weder bei Plautus und Terenz, noch sonst im  Altlatein vorhanden," I can not agree. He accepts as cases  of shifting Varro, L. L. viii. 65: sic Graeci nostra senis casibus  .... dicere debebant, quod cum non faciunt, non est analogia,  and ix. 85: si esset denarii in recto casu .... tunc in patrico  denariorum dici oportebat, and ix. 23: si enim usquequaque esset  analogia, turn sequebatur, ut in his verbis quoque non esset, non,    2 J. Ley Vergilianar. quaestion. specimen prius de temporum usu, Saarbriicken,  1877, apparently believes that eram and fui in Vergil are so nearly equivalent that  metrical convenience often decided between them ; cf . Blase Syn. Ill, p. 164 Anm. I  have not seen this dissertation, but the explanation is, on its face, insufficient.   S0f. his Syntax: " Der Indikativ des Imperfekts hat erst seit Beginn der  klassischen Zeit eine allmahliche Verschiebung aus der Sphfire der Vergangenheit in  die der Gegenwart erfahren."     Imperfect Indicative in Eably Latin 377   cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis. If these are  real cases of shifting, how do the following differ ? Plautus Merc.  983 e : temperare istac aetate istis decet ted artibus ....  vacnom esse istac ted aetate his decebat noxiis. itidem at tem-  pus anni, aetate alia aliud factum convenit; Mil. 755: insanivisti  hercle (perf. def.): nam idem hoc hominibus sa/[a] era[n]t  decern; ibid. 911: bonus vatis poteras esse: nam quae sunt  futura dicis. 1 If the passages from Varro move in the present  (Blase Kritik, pp. 13, 14), the same is true here; cf. Auct. ad  Herenn. ii. 22. 34: satis eratjiv. 41. 53 infimae (infirmae?) erant. 2  That Varro L. L. viii. 74 oportebat stands "zwischen zwei Per-  fekten" (Blase) is accidental. 3   This peculiar shifting was explained by me Am. Jour. Phil. as due to the unreal (contrary-to-fact) idea  present in the context or in the meaning of the verb (oportebat,  etc.) or in both ; cf. Blase (Syn. Ill, p. 149) who also calls attention  to the auxiliary character 4 of the verbs involved and thinks that  the shifting began with verbs of possibility and necessity which  seems a probable view.   In conclusion a few words are necessary with regard to some  general aspects of the subject and its method of treatment. The  original function or functions 5 of the imperfect can not, of course,  be certainly inferred from a syntactical investigation of material  which is relatively so late even with the aid of etymology and  comparative philology. My statement (loc. cit., p. 184) that the  progressive function was probably original was therefore intended   i Cf. Rud. 269 aequius erat, True. 511 poterat, Aul. 424. For the other eases  see collection.   2 But not iv. 16. 23, which I now see is not shifted.   8 And both are cases of debuerunt! In his Kritik, p. 13, Blase denies my assertion  (loc. cit., p. 181, n. 1), that the perfect indie, and the perfect infin. of these verbs are  shifted in Varro, cf . L. L. viii. 72-74 ; viii. 48 ; viii. 50 ; viii. 61, 66. I am glad to find my  view supported by Wimmerer Wien. Stud., 1905, p. 264 : " Denn da der Grund der Ver-  schiebung hier vor allem in der Bedeutung der Verba liegt, so kann konsequenterweise  ebenso gut ein debuit wie ein debebat verschoben werden."   «Cf. Am. Jour. Phil. XXIV, p. 190.   6 It is uncertain whether the original meaning of the tense was vague, admitting  several uses which gradually became narrowed to one (the progressive), or whether  there was one original meaning which split into several related uses. The facts seem  to point to the second alternative.     378 Arthur Leslie Wheeler   only as a probability based upon the existence of this force in  nearly all the cases and upon the generally accepted etymology of  the imperfect form. But nothing like proof was claimed for this  theory. Blase is inclined, following Delbrtick and Brugmann, to  regard the reminiscent usage also as an original one (cf. p. 26,  n. 2), but he rightly says that no statistics can prove which of  these two is earlier. If my view that the reminiscent usage is  rather an application of the progressive than itself a separate  function is correct, then the progressive is older. The existence  of the reminiscent imperfect in Sanskrit and Greek certainly  makes it very probable, as Blase says, that it existed in preliterary  Latin also. If this is so, I am inclined to refer it to the same  general origin as the so-called descriptive imperfect — to the effort  to present a past act (here a personal experience) vividly. 1   But the search for original meanings must ever remain within  the realm of theory; nor can we hope even theoretically to reach  any considerable degree of probability in the establishment of  such meanings without the most careful collection and classifica-  tion of the facts within the period of written speech. And this  should precede the appeal to etymology and comparative phi-  lology. What is actually found in any given language, not what  according to comparative philology ought to be found, should be  our first aim. Although I would not minimize the importance in  syntactical study of the comparative method, it seems to me prop-  erly applied only as a supplement, not as the controlling factor  to which all else is subordinated. Indeed, a premature appeal to  comparative philology may result in premature conclusions,  for an investigator whose head is filled with preconceived notions  drawn from Sanskrit and Greek is all too apt to imagine peculi-  arities in Latin phenomena which he would not have perceived  at all, had he approached by a Latin route alone; and such  peculiarities have little value unless they can be recognized as  Latin without foreign assistance. Once recognized they may,  and often do, receive much additional light from comparative  philology. While it is true, then, that scholars will differ with   •Cf. Am. Jour. Phil., where it was surmised that the descrip-  tive application of the tense was Indo-European.     Imperfect Indicative in Early Latin 379   regard to a few cases' in any given syntactical phenomenon and  the ultimate classification must not neglect the aid of comparative  philology, yet the chief basis of investigation is agreement among  scholars with regard to the great majority of such cases viewed  as purely Latin phenomena. If this agreement is lacking,  comparative philology can rarely bring reliability to the results. The statistical table shows that this investigation is based upon  a collection of 1,223 imperfects. It has been my aim to exclude  from consideration (and from the table) all passages of dubious  authorship, corrupt text, or insufficient context. About 170 cases  have thus been excluded, a seemingly large proportion, but it  must be remembered that much of the literature of the third and  second centuries before Christ is fragmentary and very often  there is not enough context to render classification at all certain.  In so large a body of text it is probable that some cases have  escaped my notice, but most of the ground has been examined at  least twice and such omissions can hardly be numerous or alter  essentially the results. I have subjected the material to a careful  revision and the table differs slightly from that published in  Am. Jour. Phil.  It would seem unnecessary nowadays for any syntactical  scholar to state that he lays no stress on statistics as such, but  when a reviewer 2 attributes to me the conviction that I have  proved this and that by just so many exact figures, it seems  proper for me to disclaim any such conviction. The fact that  exact figures do not in themselves mean anything does not,  however, excuse one from being as exact as possible.   iCf. Wimmerer Wien. Stud.: "die syntaktischen Einzeltatsachen sind  viel zu sehr umstritten als dass auf sie allein eine brauchbare Klassiflkation  und Erkl&rung der Arten eines einigermassen verzweigten syntaktischen Gebrauches  gesttizt werden kdnnte." With this I agree, except possibly as to what is a "brauch-  bare Klassiflkation," but when he says (p. 61), with reference to my inference that the  progressive function is original: "Den Begriff aber hat die vergleichende Sprach-  wissenschaft langst festgestellt," I would suggest that such a conclusion could not be  regarded as 'firmly established' except with several investigations like mine as chief  ies.   2 In Archiv.f. lat. Lex. und Gk. XIV, p. 289.     380 Abthuk Leslie Wheelee   The method of citation adopted in the collection will doubtless  seem to many inadequate. It is especially true, however, of the  classification of tense functions, that very often a large body of  context must be taken into consideration. For this reason very  many of the citations even in Blase's "Tempora und Modi" are  quite useless and misleading because of their brevity. It seemed  best, therefore, to cite as fully as possible in the body of the  article, but in the collection to cite only each form and the place  of its occurrence. Those who are interested in examining a given  usage in detail will in any case revert to the complete context, as  I know by experience. I. Progressive Imperfect  A. Simple Types, including imperfects in description, reminiscence,  and the "immediate" past variety.  Plautus, ed. Goetz and Schoell, ed. minor, Lipsiae, 1892-96.  Amph. prol. 22 scibat; 199 pugnabant .... fugiebam; 251 com-   plectabantur;  aiebas; 385 sci[e]bam; 429erat; 597 credebam;   603 stabam; 711 solebas; 1027 censebas; 1067 confulgebant;   1095 rebamur; 1096 confulgebant. 14   As. 300 scibam; 315 mirabar; 385 censebam; 392 volebam; 395   volebas; 452 volebam; 486 volebas; 888 suppilabat; 889 suspi-   cabar .... eruciabam; 927 ingerebas .... eram; 931 dissua-   debam. 13   Aul. 178 praesagibat .... exibam; 179 abibam;  poterat; 376   erat; 424 aequom .... erat; 427 erat; 550 meditabar; 625   radebat .... croccibat; 667 censebam expectabam ....   abstrudebat; 754 scibas; 827 apparabas. 15   Bacch. 18 (frag, x) erat; 189 volebam; 282 erat dabat; 297   dabant; 342 censebam; 563 erat; 675 sumebas; 676 nescibas;   683 suspicabar; 788 orabat restabant; 983 auscultabat   .... loquebar. 14   Capt. 273 erat; 491 obambulabant; 504 eminebam; 561 aibat;   654 assimulabat; 407 audebas; 913 frendebat. 7   Cas. 178 ibam; 279 aiebat; 356 rebar; 432 trepidabant .... fes-   tinabat; 433 subsultabat; 532 erat; 578 praestolabar; 594 ibam;   674 volebam; 702 volebam; 882 erant erat .... erat   .... erat.  Cist. 153 poteram; 187 exponebat; 566 perducebam; 569 adiura-   bat; 607 ai[e]bas properabas; 721 rogabat; 723 quaeritabas;   759 quaeritabam. 9   Cure. 390 quaerebam; 541 credebam. 2     Imperfect Indicative in Early Latin 381   Epid. 48 amabat; 98 solebas; 138 desipiebam ; .... mittebam; 214  occurrebant; 215 captabant; 216 habebant; 218 ibant; 221 prae-  stolabatur; 238 dissimulabam ; 239 exaudibam .... fallebar;  241 ibat; 409 apparabat; 420 adsimulabam; 421 me faciebam.  482 deperibat; 587 vocabas; 603 dicebant; 612 aderat. 20   Men. 29 erant; 59 erat; 63 ibant; 195 amabas .... oportebat;  420 advorsabar; .... metuebam; 493 eram; 564 ferebat; 605  censebas; 633 negabas; 634 negabas .... ai[e]bas; 636 cense-  bas; 729 negabas; 773, 774 suspicabar; 936aiebat; 1042ai[e]bat;  1046 aiebant; 1052 ferebant; 1053 clamabas; 1072 censebam;  1116 cadebant; 1120 eramus; 1135 erat .... vocabat; 1136  censebat; 1145 vocabat. 28   Merc. 43 abibat; 45 rapiebat; 175 quaerebas; 190 abstrudebas;  191 eramus; 197 censebam; 212 credebat; 247 cruciabar; 360  habebam; 754 obsonabas; 815 censebam; 845 erat .... quae-  ritabam; 884 ibas; 981 ibat. 15   Miles 54 erant; 100 amabant; 111 amabat; 181 exibam ....  erat; 320 ai[e]bas; 463 dissimulabat; 507 osculabatur; 835 cale-  bat .... amburebat; 853 erat; 854 erat; 1135 exoptabam; 1323  eram .... eram; 1336 temptabam; 1140 erat; 1430 habebat. 18   Most. 210 quaerebas; 221 su<b>blandiebar; 257 erat; 787 erat;  806 aiebat; 961 faciebat. 6   Persa 59 poterat; 171 censebam; 257 somniabam .... opinabar;  .... censebam; 262 erant; 301 cupiebam; 415 censebam; 477  credebam; 493 occultabam; 626 pavebam; 686 metuebas. 12   Poen. 391 dicebas; 458 sat erat; 485 accidebant; 509 scibam; 525  properabas; 748 dicebant; 899 vendebat; 1178 aderat; 1179  complebat; 1180 erat; 1231 volebam; 1391 expectabam. 12   Pseud. 286 amabas; 421 subolebat; 422 dissimulabam; 492 nole-  bam; 499 scibam; 500 scibas; 501 mussitabas .... scibam;  502 aderat .... aberat; 503 erat .... era<n>t; 677 habebam;  698 arbitrabare; 718 ferebat; 719 accersebat; 799 conducebas  .... erat; 800 sedebas .... eras; 912 circumspectabam ....  metuebam; 957 censebam; 1314 negabas. 24   Kud. 49 erat; 52 erant; 58 erat; 222 oblectabam; 307 exibat; 324  suspicabar; 378 scibatis; 379 amabat; 452 censebam; 519 age-  bam; 542 aiebas; 543 postulabas; 600 quibat; 841 erat; 846  sedebant; 956a faciebat; 9566 fiebat; 1080 aiebas; 1123 pete-  bas; 1186 credebam; 1251 monstrabant; 1252 ibant; 1253 erat;  1308 erat. 24   Stich. 130placebat; 244praedicabas; 328 visebam; 329 miserebat;  365 superabat; 390 negabam; 540 erant; 542 erant; 543 erat; 545  erant; 559 postulabat. 11     382 Arthur Leslie Wheeler   Trin. 195 volebam; 212 aiebant;.400 ibam; 657 scibam ....  quibam; 901 erat .... gerebat; 910 vorsabatur; 927 latitabat;  976 eras; 1092 agebat; 1100 effodiebam. 12   True. 164 vivebas; 186 cupiebat; 198 lavabat; 201 celebat metue-  batque; 332 dicebam; 333 revocabas; 648 debebat; 719 eras;  733 dabas; 748 volebas; 757 aibas; 813 erat .... valebat ....  petebat; 921 ibat. 16   Vid. 71 miserebat; 98 piscabar. 2   Fragmenta fabb. cert. 86 sororiabant; 87 fraterculabant. 2   Plautus, IA, Total 291  Terence, ed. Dziatzko, 1884.   Ad. 78 agebam; 91 amabat; 151 taedebat; 152 sperabam; 153  gaudebam; 234 eras; 274 pudebat; 307 instabat; 332 iurabat;  333 dicebat; 461 quaerebam; 561 aibas; 567 audebam; 642  mirabar; 693 credebas; 809 tollebas; 810 putabas; 821 ibam;  901 eras. 19   And. 54 prohibebant; 59 studebat; 60 gaudebam; 62 erat; 63  erat; 74 agebat; 80 amabant; 86 erat; 88 amabant; 90 gaude-  bam; 92 putabam; 96 placebat; 107 amabant .... aderat; 108  curabat; 110 cogitabam; 113 putabam; 118 aderant; 122 erat;  175 mirabar; 176 verebar; 435 expectabam; 490 imperabat;  533 quaerebam; 534 aibant; 545 dabam; 580 ibam; 656 adpar-  abantur; 657 postulabat; 792 poterat; exit, suppositic. I expec-  tabam. 31   Eun. 86 eras; 87 stabas .... ibas; 97 erat; 112 dicebat; 113  scibat .... erat; 114 addebat; 118 credebant; 119 habebam;  122 eras; 155 nescibam; 310 congerebam; 323 stomachabar; 338  volebam; 345 erat; 372 dicebas; 378 iocabar; 423 erat; 432 ade-  rant; 433'metuebant; 514 erat; 533 orabant; 569 erat; 574 cupi-  ebam; 584 inerat; 587 gaudebat; 606 simulabar; 620 faciebat  .... cupiebat; 621 erat; 681 erat; 727 adcubabam; 736 erat  .... nescibam; 743 expectabam; 841 erant; 928 amabant; 1000  quaerebat; 1004 scibam; 1013paenitebat; 1065 quaerebam; 1089  ignorabat. 43   Heaut. 127 faciebant; 200 erat; 201 erat; 256 volebam; 260 can ta-  bat; 293 nebat; 294 erat .... texebat; 308 scibam; 366 tracta-  bat; 445 erat .... erant; 536 oportebat; 629 erat; 758 opta-  bam; 781 dicebam; 785credebam; 844 quaerebam; 907 videbat;  924 aiebas; 960 aiebas; 966 erat. 22   Hec. pro. II. 16 scibam; 91 eram; 94 licebat; 115 amabat; 162  erat; 172 redibat; 178 conveniebat; 230 erant; 283 eram; 322  poteram; 340 eras; 374 dabat; 375 monebat .... poterat; 422  expectabam; 455 agebam; 498 orabam; 538 negabas; 561 aderam;  581 rebar; 651 optabamus; 713 credebam; 806 pudebat. 23     Imperfect Indicative in Eaely Latin 383   Phorm. 36 erat; 51 conabar; 69 erat .... supererat; 83 servi-   ebat; 85 restabat; 88 discebat; 89 erat; 97 erat? 99aderat; 105   aderat; 109 amabat; 118 cupiebat .... metuebat; 298 duce   bat; 299 deerat; 355 agebam; 365 habebat; 468 erant; 472 quae-   rebam; 480 aibat; 490 mirabar; 529 scibat; 570 manebat; 573   commorabare; 582 scibam; 595gaudebat .... laudabat ....   quaerebat; 596 gratias agebat; 614 agebam; 642 insanibat; 652   ven<i>bat; 654 opus erat; 759 volebam .... volebam; 760daba-   mus operam; 797 sat erat; 858 aderas .... aderam; 900 iba-   mus; 902 ibatis; 929 dabat; 945 eras; 1012 erant; 1013 erat;   1023 erat. 47   Terence, I A, Total 185  Cato ed. Jordan, Lipsiae, 1860.   p. 36. 2 sedebant .... lacessebamur. Total 2   Dramatic and epic fragments.  Naevius. Bell, pun., ed. Mueller, 1884.   5 immolabat; 7 exibant; 12 exibant; 65 inerant.   tabular, fragmenta, ed. Ribbeck 3 , 1897-98.   I p. 16 IV habebat .... erat; p. 322 II proveniebant.   II p. 30 VII faciebant .... tintinnabant. 9  Ennius, ed. Vahlen 2 , 1903.   Annal. 28 premebat; 41 videbar; 43 stabilibat; 82 certabant;  87 expectabat; 87 tenebat; 138 mandebat; 139 condebat; 147  volabat; 190 sonabat; 202 solebat; 216 erat; 307 vivebant; 307  agitabant; 309 explebant .... replebant; 343 aspectabat; 408  sollicitabant; 459 parabant; 497 fremebat; 555 cernebant. 21  Scenica. 15 eiciebantur; 123 erat; 127 inibat; 251 petebant; 324  scibas.   Saturar. 65 adstabat.   Varia. 45 videbar; 64 ibant. 8   Pacuvius, ed. Ribbeck 3 1, p. 65 XVI conabar. 1   Accius, ed. Ribbeck 3 , p. 162 V ostentabat; p. 162 VII scibam;   p. 165 VI expectabat; p. 205 X erat; p. 210 XII commiserebam   .... miserebar; p. 213 XX educabant; p. 251 XIII mollibat. 8   Incert. p. 273 V ecsacrificabat; p. 282 XXXII hortabar; p. 285   XLV scibam; p. 304 CI expetebant. 4   Turpilius, ed. Ribbeck 3 II, p. 101 II nescibam; p. 107 V sperebam;   p. 120 X videbar. 3   Titinius, ed. Ribbeck 3 II, p. 168 II aibat. 1   Afranius, ed. Ribbeck 3 II, p. 215 VI hortabatur; p. 217 XII sup-   ponebas. 2   Pomponius, ed. Ribbeck 3 II, p. 303 II cubabat. 1   Incert., ed. Ribbeck 3 II, p. 137 XXIV ferebat simulabat. 2   Dramatic and Epic Fragments, IA, Total 60     384 Arthur Leslie Wheeler   Historicorum fragm., ed. Peter, 1883.   p. 70. 9 nesciebant; 72. 23 erant; 72. 27 cymbalissabat; 72. 27 can-  tabat; 73. 37 mirabantur .... reddebat; 83. 27 apparebat ....  habebat .... sedebant; 94. 13 erat; 110. 7 habebat; 136. 5  erant; 137. 8 concedebat; 137. 8 praecellebat; 137. 10 b antista-  bat; 138. 10 audebat; 138. 11 licebat; 141. 29 erant; 142. 37 erant;  143. 46 captabat; 145. 57 erat .... erat .... sciebant ....  apparebat; 149. 81 mirabantur; 150. 85 sauciabantur .... opus  erat .... defendebant; 178. 8 erat .... tegebat; 178. 9 pot-  erat; 179. 23 indigebat; 184. 79 sciebat; 184. 86 erat.   I A, Total 34  Orator, fragm., ed Meyer, Turici, 1842.  p. 192 narrabat .... poteram; p. 231 existimabam .... arbitra-  bar .... stabant .... erant; 236 ferebantur .... lavabantur.   I A, Total 8  Lucilius, ed. Marx, 1904.  393 stabat; 394 obiciebat; 479 erat; 531 serebat; 534 ibat; 1108  gemebat; 1142 ibat (not in Mueller's ed.); 1174 volebat; 1175  ducebant; 1187 haerebat; 1207 premebat.   I A, Total 11  Auctor ad Herennium, ed. C. L. Kayser, 1854. G. Friederich's text in  C. F. W. Mueller's Cicero, Vol. I, has been compared throughout.  1. 1. 1 intelligebamus .... attinebant .... videbantur; 1. 10.  16 postulabat; 1.12. 21 erat; 1. 13. 23 defendebant .... erant;  2. 1. 2 existimabamus .... ostendebatur; 2. 2. 2 videbatur; 2.  5. 8 faciebat; 2. 19. 28 volebat .... metuebat .... videbat  .... sperabat .... verebatur .... hortabatur .... remove-  bat; 2. 21. 33 erant .... habebat; 3. 1. 1 pertinebant ....  erant .... videbantur; 3. 15. 26 demonstrabatur; 4. 9. 13 pote-  rant .... videbant; 4. 12. 18 inpendebant; 4. 13. 19 ingenio-  sus erat, doctus erat, .... amicus erat; 4. 14. 20 erat; 4. 15. 22  removebas .... abalienabas; 4. 16. 23 damnabant .... ini-  quom erat; 4. 18. 25 erant .... poterant; 4. 19. 26 proderas  .... laedebas .... proderas .... laedebas .... consule-  bas; 4. 20. 27 oppetebat .... comparabat; 4. 24. 33 putabas;  4. 24. 34 habebamus .... habebam .... erat .... obside-  bamur .... videbar; 4. 33. 44 adsequebatur .... profluebat  .... erat; 4. 33. 45 pulsabat .... ducebat; 4. 34. 46 videban-  tur; 4. 37. 49 erat .... oppugnabat; 4. 41. 53 veniebat ....  occidebatur; 4. 49. 62 inibat; 4. 55. 68 faciebat.   I A, Total 62  Corpus Inscr. Lat., Vol. I.  201. 6 animum .... indoucebamus .... scibamus .... arbi-  trabamur.   I A, Total 3     Imperfect Indicative in Early Latin 385   Varro, De lingua Lat., ed. Spengel, 1885.   5. 9 videbatur; 5. lOOerat; 5. 128erat; 5. 147 pertinebat; 7. 39erat;  7. 73 erant; 8. 20 erant; 8. 59 erant. 8   De re rust., ed Keil, 1889,   1. 2. 25 ignorabat .... despiciebat; 1. 13. 6 habebat; 2. 11. 12  ibam; 3.2. lstudebamus; 3. 2. 2sedebat; 3. 13. 2erat .... dice-  bat .... erat .... cenabamus; 3. 5. 18 dicebatur; 3. 16. 3 erat;  3. 17. 1 sciebamus; 3. 17. 9 ardebat. 14   Sat. Menipp., ed. Kiese, 1865, p. 198, 1. 1 regnabat; p. 223, 1. 9  findebat. 2   I A, Total 24   Grand Total, I A, 680   B. Imperfect of Customary Action.   Plautus   As. 142 habebas; 143 oblectabas; 207 arridebant .... veniebam;   208 ai[e]bas; 210 eratis .... erant; 211 adhaerebatis; 212 faci-   ebatis .... nolebam; 213 fugiebatis .... audebatis; 341 sub-   vectabant. 13   Aul. 114 salutabant; 499 erant. 2   Bacch. 421 erat .... eras; 424 accersebatur; 425perhibebantur;   429 exercebant ; 430 extendebant ; 438 capiebat ; 439 desinebat. 8   Capt. 244 imperitabam; 474 erat; 482 solebam. 3   Cist. 19 dabat .... infuscabat; 162 habitabat. 3   Epid. 135 amabam. 1   Men. 20 dabat; 484 dicebam; 715praedicabant; 716 faciebat; 717   ingerebat; 1118 eratis; 1119 eratis; 1122 eratis .... erat; 1123   vocabant; 1131 erat. 11   Merc. 217 credebat. 1   Miles 15 erat; 61 rogitabant; 99 erat; 848 erat; 849 imperabat   .... promebam; 850 sisteba<h>t; 852cassaba<n>t; 855 a com -   plebatur; 856 bacc<h>abatur .... cassabant. 11   Most. 150 erat; 153 victitabam; 154 eram; 155 expetebant; 731   erat. 5   Persa 649 amabant; 824 faciebat; 826 faciebat. 3   Poen. 478 praesternebant; 481 indebant; 486 necabam. 3   Pseud. eram; 1180 ibat .... ibat; 1181 conveniebatur. 4   Rud. 389 habebat .... habebat; 745 erant; 1226 memorabam.  Stich. 185 utebantur. 1   Triu. 503 erat; 504 dicebat. 2   True. 81 memorabat; 162 habebam; 217 habebat; 381 sordeba-   mus; 393 habebat; 596 erat. 6   Pragmenta fabb. cert. 24 erat; 26 monebat .... erat. 3   I B, Total 84     386 Arthur Leslie Wheeler   Terence   Adel. 345 erat. 1   And. 38 servibas; 83 observabam; 84 rogitabam; 87 dicebant; 90   quaerebam .... comperiebam; 107 habitabat; 109 conla-   crumabat. 8   Eun. 398 agebat sc. gratias; 405 volebat; 407 abducebat. 3   Heaut. 102 accusabam; 110 operam dabam; 988 indulgebant   .... dabant. 4   Hec. 60 iurabat; 157 ibat; 294 habebam; 426 impellebant; 804   accedebam; 805 negabant. 6   Phorm.  operam dabamus; 90 solebamus; 363 erat; 364 con   tinebat; 366 narrabat; 790 capiebant. 6   I B, Total 28   Cato, De agr., ed. Keil, 1895, and fragmenta, ed. Jordan, 1860.  1. 2 laudabant .... laudabant; 1. 3 existimabatur ....  laudabatur.   Jordan, p. 37. 20 capiebam; p. 39. 8veniebant .... deverte-  bantur; 64. 2 dabant; 82. 10putabant(?); 82. habebatur ....  laudabatur; 83.1 mos erat .... erat; 83. 2emebant; 83. 3 erat  .... studebat .... adplicabat; 83. 4 vocabatur.   I B, Total 18   Dramatic and epic.  Ennius, Ann. 214 canebant; 371 ponebat.   Scenica 355 suppetebat. 3   Incert. Ribbeck 3 1, p. 287 I aspectabant .... obvertebant. 2   Turpilius, Ribbeck 3 II, p. 101 V flabat .... erat. 2   I B, Total 7   Historicor. fragg.  p. 64, 114 unguitabant' .... unctitabant; 1 66. 128 temptabam  .... spectabam .... donabam .... laudabam; 83. 27 faci-  ebat; 109. 1 demonstrabant; 110. 6 proficiscebatur .... seque-  bantur; 123. 13 utebatur; 141. 31 vocabantur; 202. 9 claudebant  .... educebant .... continebant .... cogebant ....  insuebant.   I B, Total 16   I B, Total 2   I B, Total 1     Orators, ed. Meyer, p. 222 vocabant; 355 solebas.  Lucilius, ed. Marx 1236 solebat.     1 Perhaps different versions of the same passage ; cf . Peter. I count them as one  case.     Imperfect Indicative in Early Latin 387   Auctor ad Herenn., ed. Kayser.   4. 6. 9 videbat .... poterat; 4. 7. lOerant .... poterant; 4. 16.  23 putabant .... existimabatur .... putabant .... opserva-  bant; 4. 22. 31 concedebant; 4. 53. 66 erat; 4. 54. 67 solebat.   I B, Total 11  CIL. I. 1011. 17 florebat.   I B, Total 1  Varro, De ling. Lat., ed. Spengel.   5. 3 dicebant .... dicebant .... significabant; 5. 24 dicebant;  5. 25 obruebantur .... putescebant; 5. 33 progrediebantur; 5.  34 agebant .... agebat .... poterat; 5. 35 agebant ....  vehebant .... ibant; 5. 36 coalescebant .... capiebant ....  colebant .... possidebant; 5. 37 videbatur; 5. 43 erat ....  advehebantur .... escendebant; 5. 55 dicebat; 5. 66 dicebat  .... putabat; 5. 68 dicebant; 5. 79 dicebant; 5. 81 mittebantur;  5. 82 dicebatur; 5. 83 dicebat; 5. 84 erant .... habebant; 5. 86  praeerant .... fiebat .... mittebantur; 5. 89 fiebat ....  mittebant .... pugnabant .... deponebantur .... subside-  bant; 5. 90 praesidebant; 5. 91 fiebant .... adoptabant; 5. 95  perpascebant .... consistebat; 5. 96 dicebant .... parabantur;  5. 98 dicebant; 5. 101 dicebat; 5. 105 faciebant .... servabant  condebant; 5. 106 coquebatur .... fundebant; 5. 107 faciebant  .... vocabant; 5. 108 edebant .... ferebat .... decoque-  bant; 5. 116 faciebant .... habebant .... opponebatur; 5. 117  fiebant; 5. 118 appellabant .... erat .... ponebant; 5. 119  infundebant .... figebantur; 5. 120 ponebant .... ponebant;  5. 121 nominabatur; 5. 122 erant; 5. habebat  dabant  sumebant erat vocabatur ponebatur erat vocabatur habebant solebat apponebatur .bibebant coquebant arcebantur ministrabat vellebant utebantur iaciebant corruebant muniebant exaggerabant  portabatur sepiebant relinquebant condebant circumagebant faciebant vocabant fiebat erat erat aiebat coibant vehebantur adibant relinquebatur dicebatur  impluebat compluebat volebant cubabant cenabant vocitabant cenabant exigebant legebant ponebant dicebant involvebant erant dicebant calcabant insternebant appellabant operibantur Scandebant dicebatur erat valebant volebant erat dicebant petebat inficiabatur Wheeler deponebant auferebat redibat exigebatur; dicebant erant ponebant stipabant componebant pendebant accedebat dicebant inspiciebantur dicebant dicebat videbatur dicebantur putabant persolvebantur erat fiebant dicebat circumibant conveniebant dicebant consumebatur vitabant ponebant legebantur spondebatur appellabatur dicebant promittebat consuetude erat dicebant dicebant acciebat videbatur intererat fiebant dicebant appellabant putabant relucebant legebantur poterant dicebantur fiebat erant habebant conducebantur ascribebantur habebant committebant dicebat animadvertebantur arabant dicebant dicebant erat vocabatur erat erant erat dicebantur erat notabant erant utebantur dicebatur pendebat dicebant valebat dicebatur constabat dicebatur dicebant. De re rust., ed. Keil, Lipsiae solebant dicebat poterat .... effodiebat appellabant faciebant vocabant pendebat dicebantur faciebant erant laudabatur providebant dabant dicebant inserebantur vocabant praeponebant putabant appellabant reiciebant hibernabant .... aestivabant vocabat solebat dicebant dicebant habitabant sciebant alebantur redigebant; credebant habebant serebant pascebant habebat ostendebas accipiebat .... dicebat dicebat dicebant erat pascebantur erat erat  habebant erat laudabant aiebat dicebant vocabant dicebantur iubebat putabat appellabant appellabant dabat consumebat habebat adgerebant coiciebat erat laborabat  aiebat .... despiciebat Sat. Menipp., ed. Eiese P. erat radebat vehebantur sol vebat loquebantur solebat; suscitabat habebant habitabant. Total  Imperfect Indicative in Early Latin Imperfect of Frequentative Action.   Plautus, Asin. dicebam; Capt.  percontabatur; Epid. mittebat; missiculabas; Merc. promittebas; Miles dicebat; Persa visitabam negabas; Kud.  promittebas;  True. poscebat Ennius, Ann. tendebam vocabam. Historicor. fragg. expoliabantur Total  Aoristio Imperfect   Plautus, Amph. aibas erat; As. aibat Bacch. aibat;  Capt. aiebatis(?); Cist. ai[e]bat  ai[e]bat; Cure. Aiebat aiebat; Epid. Aiebat agnoscebas; Men. aiebas aiebat; Merc. poterat ai[e]bant aiebat 8aiebant aiebat aiebat aiebant; Miles ai[e]bant aiebat erat erat; Most. aiebant aiebat aiebat;  Poen. aibat aibat erat; Ps. Aiebat aibat aibat; Eud. Aibat erat aiebas(?); Stich. aibat; Tri. aibas aibat aibant aibat aiebas aibat. Terence, Adel. erat erat aibat; Andr. aiebat aibat; Eun. Scibas dicebat; Heaut. erat; Hec. aibant; Phorm. Aibant sat erat. Historicor. fragg. poterat Varro, Der. dicebat dicebas Auctor ad Herenn.poterat erat 2 Total Shifted Imperfect   Plautus, Merc. 6decebat; Miles sat era[n]t; 911poteras; Rud. aequius erat; True.poterat Terence, Heaut. poterat Lucilius (Marx) sat erat. Varro, De 1. L. oportebat debebant oportebat sequebatur oportebat. Auctor ad Herenn satis erat infimae erant. Arthur Leslie Wheeler I.PEOOBESSIVE (TeUB) ImPEKFECT Total II. Aobistic III. Shifted A. Simple B, Cast. G. Fre- Prog. Past quent. Plautus Terence Cato Dramatic and Epic Orators Lucilius Auctor ad Herenn. Varro Except historical works the citations from which are included among the  historians. Laberius and later writers not included.  3 Nepos and later historians not included.   4 Hortensius and later fragments not included. Grice: “Ceccato developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual philosopher!” -- Silvio Ceccato. Ceccato. Keywords: il perfetto filosofo, logonia – logonico, tabella di Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria della felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di Bridgman, influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione, adattazione, soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale, modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- --  l’aspetto perfettivo, non-perfettivo, imperfettivo della conjugazione Latina -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library. Ceccato.

 

Grice Cecina: il circolo di Cicerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of CICERONE, and an expert on divination. According to Seneca, he wrote a book about lightning. Aulo Cecina. Cecina.

 

Grice e Cecina: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The husband of Arria Peto Maggiore. He belonged to the Porch. He becomes involved ina plot against the emperor Claudio. He was condemned to commit suicide and his wife encouraged him to go through it by committing suicide first, and passing the knife in the proceeding with the infamous utterance, ‘It does not hurt.’ Cecina Peto. Cecina.

 

Grice e Ceila: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Cheilas. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Celestio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An ally of Pelagius, he argues that because sin is an act of free will, the existence of sin proves the existence of free will. Celestio.

 

Grice e Celio: Roma antica -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He composes  a history of medical thought and translated some of the works of Sorano. Celio Aureliano. Celio.

 

Grice e Cellucci: l’implicatura conversazionale del paradiso – aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben können -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa Maria Caputa Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s earthly paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of Strawson; in his, because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione, filosofia della matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre opere: “Breve storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento” (Lulu, Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no? “La filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone. Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi,  Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento  [Lulu Press, Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome, Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione, Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo,  La Cultura. La logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo del nous  nella conoscenza scientifica”, In  Il Nous di Aristotele, ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In  La guerra dei mondi. Scienzae senso comune, ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In  I modi della razionalità, ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria della logica polivalente nell'antichità o la storia antica,  Bollettino della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la filosofia. Un colloquio con (e su) C.; La spiegazione in matematica. Periodicodi Matematiche  (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 = 12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le scienze, Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”, in Logica ediritto: argomentazione e scoperta, Lateran University Press, Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta, Bruno Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi. L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi sviluppi interdisciplinari  Pisa-Tirrenia, Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica.  Nuova Secondaria. La logica della macchina, in Le macchine per pensare,La Nuova Italia, Firenze); Logica e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia della scienza in Italia nel ‘900, Angeli, Milano; Bolzano,  Del metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia,Garzanti, Milano; Storia della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva, Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’ adaequatio?” Scienza e storia, Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica, Editori Riuniti, Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità, Bologna (il Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche. Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia. Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o non meccanico? In  L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La filosofia della matematica. Laterza, Roma.  C. Cellucci ha illustrato gli scopi della logica matematica di Peano. Anche se con motivazioni diverse, tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege, e consistono principalmente nell ' ottenere.  Infiniti  LM Prima di addentrarci nelle questioni concernenti gli insiemi qualsiasi, facciamo una breve rilettura di quello che sappiamo sugli insiemi finiti. Lo studio degli insiemi infiniti è iniziato ad opera del matematico tedesco CANTOR Infiniti    Cardinalità di insiemi finiti LM Cosa vuol dire che in una palazzina ci sono 10 appartamenti? Infiniti. Cardinalità di insiemi finiti LM Per contare gli appartamenti abbiamo associato univocamente a ciascuno di essi un numero (naturale) tra 1 e 10.  In termini matematici, abbiamo determinato una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli appartamenti e l’insieme ω10 = {1,2,3,4,5,6,7,8,9,10}  Infiniti  LM f è un’iniezione di A in B se è una corrispondenza biunivoca tra A e un sottoinsieme di B Siano A e B due insiemi qualsiasi e f : A → B una funzione, ossia una legge tale per cui   per ogni a A esiste uno e un solo b B tale che f (a) = b.. Definizione 1 (Corrispondenza biunivoca)    f è una corrispondenza biunivoca tra A e B se per ogni b B esiste uno e un solo a A tale che f (a) = b.    Definizione 2 (Iniezione) Dire quali di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n􏰀→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio 􏰀→ mamma (c) f : quadrati → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato 􏰀→ area del quadrato (e) f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 14 / 75    LM   Esercizio 1    Dire quali di queste funzioni sono iniezioni e quali sono corrispondenze biunivoche, giustificando la risposta. (a) f:N→{numeripari},n􏰀→2n (b) f : {esseri umani} → {donne}, figlio 􏰀→ mamma (c) f : quadrati → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato (d) f : {quadrati centrati in O} → R+, quadrato 􏰀→ area del quadrato (e) f : {quadrati centrati in O} → R, quadrato 􏰀→ area del quadrato    Soluzione dell’Esercizio 1 (c) niente (d) corrispondenza biunivoca (e) iniezione    (a) corrispondenza biunivoca (b) niente  Questo caso scriveremo |A| = n; LM Cardinalità degli insiemi finiti In conclusione, per contare gli elementi di un insieme finito ci servono l’insieme dei numeri naturali N = {0, 1, 2, 3, 4, 5, 6 . . .}; i sottoinsiemi di N della forma ωn = {1,2,3,...,n}; la nozione di corrispondenza biunivoca.   Definizione 3 (Cardinalità degli insiemi finiti)    Sia A un insieme e n un numero naturale. Diremo che A ha n elementi (o anche che ha cardinalità uguale ad n) se esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme {1, 2, 3, 4, . . . , n}. In Diremo che A è un insieme finito se esiste n N tale che |A| = n; Diremo che A è un insieme infinito se non è finito.     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 15 / 75   Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.  Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A B di un insieme finito è un insieme finito.  Proprietà della cardinalità di insiemi finiti LM La cardinalità degli insiemi finiti gode di proprietà che ci sono ben note: (1) due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro. (2) un sottoinsieme A B di un insieme finito è un insieme finito. (3) se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B, allora |A| < |B|. Riflettiamo un po’ su queste proprietà. Due insiemi finiti hanno la stessa cardinalità se e solo se sono in corrispondenza biunivoca tra loro.   Ci sta semplicemende dicendo che le corrispondenzee biunivoche  A a b c d  e f g h B  1 2 3 4  equivalgono a  A a b c d  e f g h B  La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta). La nozione di corrispondenza biunivoca vale anche tra insiemi infiniti (ad esempio, i punti di una semicirconferenza sono in corrispondenza biunivoca con i punti di una retta).  Questo ci permette di estendere il concetto di "equinumerosità":    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o  sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Ovviamente, se gli insiemi sono infiniti la cardinalità NON è un numero. Nel caso di insiemi finiti "<" è l’usuale simbolo per l’ordinamento tra numeri. Nel caso di insiemi infiniti denota una nozione astratta nuova, introdotta per analogia. Sempre "imparando" dagli insiemi finiti e utilizzando le funzioni, possiamo introdurre una nozione di "maggiore numerosità".   se A è un sottoinsieme proprio di un insieme finito B, allora |A| < |B|. Inoltre, |A| < |B| se e solo se esiste un’iniezione di A in B    B a b c d  g h A      Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo  |A| ≤ |B|. La stravaganza dell’infinito naturali N. LM Abbiamo ora a disposizione gli strumenti per confrontare la cardinalità di insiemi qualsiasi. Prima di procedere oltre, entriamo nello spirito giusto per studiare gli insiemi infiniti con una storia stravagante: l’albergo di Hilbert (immagini tratte da "A. Catalioto, Seminario TFA 2015") L’insieme infinito protagonista di questa storia è l’insieme dei numeri IonilTraLnquillocercava M una camera.... Pensò di trovarla all’Hotel Infinito,  noto per avere infinite stanze.     Ion non ebbe fortuna perché l’hotel ospitava i delegati del congresso di zoologia cosmica. Siccome gli zoologi cosmici venivano da  alassie, e di galassie ne esiste un numero infinito, tutte le stanze erano occupate. tutte le g  Soluzione del problema...  Il direttore dec ide di spostare lo zoologo della stanza 1 nella 2, quello della 2 nella 3 e così via... così può mettere Ion nella stanza 1! In generale, viene spostato lo zoologo della stanza «n» nella stanza «n+1»  Il problema si complica perché arrivò un rappresentante dei filatelici per ogni galassia per partecipare al congresso interstellare dei filatelici  Il direttore, come soluzione al problema, decise di spostare l’ospite della 1 nella 2, quello della 2 nella 4, quello della 3 nella 6 e così via... In generale mettere l’ospite della stanza «n» nella stanza «2n»  Così, gli zoologi occuparono l’insieme delle stanze dei numeri pari e i filatelici occuparono l’insieme delle stanze dei numeri dispari, visto che il filatelico n-esimo nella coda ottenne il numero di stanza «2n-1»  rimettere tutto in ordine e a chiudere tutti gli hotel, eccetto l’Hotel Cosmos   I costruttori dell’Hotel Cosmos avevano smantellato tantissime galassie per costruire infiniti hotel con infinite stanze.    Furono costretti, però, a        Quindi venne chiesto al direttore di mettere le infinite persone di infiniti hotel nel suo hotel, già pieno. COME FARE ? Ion propose di usare solo le progressioni dei numeri primi poiché se si prendono due numeri primi, nessuna delle potenze intere positive di uno può equivalere a quelle dell’altro. In questo modo nessuna stanza avrebbe avuto due occupanti!  Vediamo cosa ci ha insegnato questa storia. Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={nN, n≥7} (2) A={2n+1, ninN} VediamLo cosa ci ha insegnato quMesta storia.   Mostrare che N ha la stessa cardinalità dei suoi seguenti sottoinsiemi propri (1) A={nN, n≥7} (2) A={2n+1, ninN}   Soluzione 2 01234 n 7 8 9 1011 7+n 01234 n 1 3 5 7 9 2n+1  L’ultimo partecipanti, che sostanzialmente ci racconta che l’insieme prodotto N × N ha la stessa cardinalità di N) è più complicato e ci torneremo più tardi. I risultati dell’Esercizio 2 sono una vera e propria rivoluzione del pensiero. caso descritto nella sto ria(quello degli infiniti convegni con infiniti    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 30 / 75   Povero Euclide! LM Abbiamo imparato che se togliamo all’insieme N i primi n0 termini (pensate n0 grande quanto volete!), quello che resta ha esattamente la stessa cardinalità di tutto l’insieme. Crolla così il principio fissato da Euclide: "il tutto è maggiore di una sua qualsiasi parte" (Elementi,300 a.C.) Ricordiamo che Euclide è probabilmente il più grande matematico dell’antichità e i suoi Elementi (opera in 13 libri) sono stati la principale opera di riferimento per la geometria fino al XIX secolo. Quello citato è uno degli 8 enunciati di "nozioni comuni" contenuti nel Libro I, quello in cui vengono fissati tutti i fondamenti per la trattazione di tutta la geometria nota all’epoca. Povero Galileo! D’altra Lparte, di questo problemMa si era accorto anche Galileo, senza trovarne soluzione: "queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrere che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agli infiniti, dandogli quegli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed ugualità non convenghino agli infiniti, dei quali non si può dire uno essere maggiore o minore o uguale all’altro" (Nuove Scienze, 1638) Parafrasando Galileo, possiamo dire che la teoria della cardinalità di Cantor è esatta il giusto attributo di maggioranza, minorità ed ugualità che convenga agli infiniti mente  Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   LM Riepilogo e domande Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|.  Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite. Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|. Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le altre?  Finora sono stati solo definiti solo dei metodi di confronto tra cardinalità infinite.    Diremo che due insiemi A e B (qualsiasi) hanno la stessa cardinalità (o sono equinumerosi) se esiste una corrispondenza biunivoca tra loro. In questo caso scriveremo |A| = |B|. Diremo che la cardinalità di un insieme A è minore o uguale di quella di un insieme B se esiste una iniezione di A in B. In questo caso scriveremo |A| ≤ |B|.   Ora è arrivato il momento di porsi qualche domanda: ci sono insiemi infiniti con cardinalità diverse? c’è una "cardinalità infinita" più piccola di tutte le altre? c’è una "cardinalità infinita" più grande di tutte le altre? Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A B, allora |A| ≤ |B|. Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. La funzione f : A → B, a 􏰀→ a è un’iniezione di A in B. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 Ripartiamo dal caso dell’albergo di Hilbert che non abbiamo ancora discusso. La storia ci racconta che la funzione (m,n) 􏰀→ 2m3n mette in corrispondenza biunivoca il prodotto cartesiano N × N con un sottoinsieme proprio di N e sembra complicato esibire una corrispondenza biunivoca tra questo e N. Facciamoci aiutare dalla teoria. Se A B, allora |A| ≤ |B|. Soluzione. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|.  Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 35 / 75    LM   Teorema    Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3:   Ogni sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N.  Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dim: Dobbiamo costruire un’iniezione di N in A, ossia associare ad ogni  n N un unico elemento an di A. Lo faremo in maniera ricorsiva. Passo base: associamo a n = 0 un qualsiasi elemento a0 A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0}, quindi siamo in grado di associarean=1unelementoa1 A,a1 ̸=a0. Meccanismo ricorsivo: supponiamo di aver associato ai numeri 0, 1, . . . , n gli elementi distinti a0, a1, . . . , an di A. Siccome A è un insieme infinito, A ̸= {a0,a1,...,an}, quindi siamo in grado di associare al numero n+1 un elemento an+1 A distinto da tutti i precedenti. Conseguenza immediata del Teorema e dell’Esercizio 3:   Ogni sottoinsieme infinito di N ha la stessa cardinalità di N. In particolare, {p N della forma p = 2m3n, n, m N}, ha la stessa cardinalità di N. Quindi N × N ha la stessa cardinalità di N. Cardinalità numerabile Quindi la cardinalità dell’insieme numerico N è "la più piccola cardinalità infinita". Per questo si è meritata un "nome proprio" e un simbolo speciale א0 = |N| prende il nome di CARDINALITA’ NUMERABILE.  Il simbolo "א” è l’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico.     Diremo che un insieme A è numerabile se |A| = א0, cioè se A può essere messo in corrispondenza biunivoca con N.       14/3/18 36 / 75     LM NZQR Ricordiamo brevemente cosa sono per poi confrontare le loro cardinalità. Esistono insiemi infiniti con cardinalità diversa (maggiore) da quella numerabile? Per rispondere a questa domanda usiamo gli insiemi numerici come prototipo. N = {0,1,2,3,4,5,6...} Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} numeri NATURALI numeri INTERI 􏰁p 􏰂 Q = q , p intero, q ̸= 0 naturale numeri RAZIONALI R numeri REALI Valgono le inclusioni strette:   I numeri interi Z = {...,,−3,−2,−1,0,1,2,3,...} I numeri interi sono un’estensione dei numeri naturali, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la sottrazione. Si ottengono considerando tutti i numeri naturali e tutti i loro opposti. Possiamo rappresentare l’insieme dei numeri interi tramite punti di una retta ordinata. Basta fissare un punto che determina lo zero fissare un’unità di misura disegnare tutti punti equidistanti dal successivo.   -6-5-4-3-2-10 1 2 3 4 5 6 In un certo senso, i numeri interi sono "il doppio" dei numeri naturali, quindi è ragionevole pensare che siano un insieme numerabile.    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 38 / 75   Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM an = n  2 sen=0oppuresenèpari −n+1 senèdispari 2     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 39 / 75    Corrispondenza biunivoca tra N e Z LM -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4  14/3/18 n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678          39 / 75    LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 40 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678         -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4   n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 42 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 43 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 44 / 75   LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    Ann  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678       -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4    14/3/18 46 / 75    -4 −3 −2 −1 0 1 2 3 4 LM n  2 sen=0oppuresenèpari an = 2 −n+1 senèdispari 012345678        Abbiamo così ottenuto che Z è numerabile. 􏰁􏰂 LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali.  􏰁􏰂 (i numeri interi sono discreti). LM I numeri razionali Q = qp , p intero, q ̸= 0 naturale I numeri razionali sono un’estensione dei numeri interi, nata dall’esigenza di poter fare liberamente la divisione. Si ottengono considerando tutte le possibili frazioni con a numeratore un numero intero (che quindi determina il segno della frazione); a denominatore un naturale non nullo. Cerchiamo di farci un’idea di "quanti siano" i numeri razionali. Tra un numero intero e il suo successivo non c’è nessun altro numero intero   01  Densità dei numeri razionali Invece tLra due numeri razionali dMistinti c’è sicuramente un altro numero razionale (ad esempio la loro media).   0 12 1 In realtà ce ne sono infiniti (tutte le possibili medie delle medie). 01131 424     113 084828481 Si intuisce che i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci: Da quanto abbiamo detto sembrerebbe che i numeri razionali siano molti di più dei numeri interi (sono densi sulla retta reale), ma anche in questo caso gli insiemi infiniti tornano a stupirci:     Q ha cardinalità numerabile.  Per dimostrarlo, basta esibire una corrispondenza biunivoca tra Z e Q, che possiamo pensare come un modo di "etichettare" con numeri interi gli elementi di Q. Per fare questo utilizzeremo il cosiddetto (primo) metodo diagonale di Cantor. Trovare un percorso che passa una sola volta per ogni stellina e numerare le stelline man mano che si incontrano (nota: verso il basso e verso destra ci sono infinite stelline!) ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· LM ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆··· ⋆⋆⋆⋆⋆⋆⋆···11 20 14/3/18 1 → 2 6 → 7 15 → 16 ··· ↙↗↙↗↙ 3 5 8 14 17 ↗↙↗↙ 4 9 13 18 ··· ··· ··· ··· ↙↗↙ 10 12 19 ↗↙    52 / 75    Primo metodo diagonale di Cantor: costruire la tabella... LM 1234567 1111111  1234567 2222222 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 e percorrerla con il metodo che abbiamo determinato LM 1→23→4567··· 1111111 ↙↗↙ 1234567 ·2222222 ↓↗↙ 1234567 3333333 1234567 4444444 1234567 5555555 . . . . . . Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A B è numerabile. Questo produce una corrispondenza biunivoca tra A B e N. LM Abbiamo così mostrato come mettere in corrispondenza biunivoca tutti i numeri razionali positivi con i numeri naturali. In definitiva, abbiamo dimostrato che i numeri razionali positivi hanno cardinalità numerabile. Con lo stesso metodo si dimostra che tutti i numeri razionali negativi hanno cardinalità numerabile. Resta da dimostrare che se A e B sono due insiemi numerabili, allora A B è numerabile     Dimostrazione. visto che A e B sono due insiemi numerabili, allora esiste una corrispondenza biunivoca tra A e l’insieme dei numeri pari e una corrispondenza biunivoca tra B e l’insieme dei numeri dispari. A ←→ {pari} B ←→ {dispari} = A B ←→ N.  Voglia di misurare... LM 0? LA DIAGONALE DEL QUADRATO DI LATO UNITARIO NON HA LUNGHEZZA RAZIONALE! Abbiamo visto che i numeri razionali coprono abbastanza bene la retta. I Pitagorici pensavano che tutte le lunghezze fossero razionali (ossia che i punti corrispondenti ai razionali coprissero tutta la retta) e invece scoprirono presto che manca qualcosa...    1  ?    Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre}     ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da dimostrare). Quali numeri mancano? Per capire come estendere i numeri razionali in modo da ottenere tutte le possibili lunghezze, ricordiamo che ogni numero razionale si può scrivere come allineamento decimale finito o periodico (con periodo diverso da 9). Facciamo l’estensione di Q più ragionevole che ci viene in mente R = {allineamenti decimali con un numero arbitrario di cifre}     ed è quella giusta, nel senso che i numeri reali sono in corrispondenza biunivoca con i punti della retta (difficile da dimostrare). −π −2−√2−101 √22 π 22   Quindi, geometricamente, possiamo pensare di aver "tappato i buchi" sulla retta lasciati dai punti corrispondenti ai numeri razionali (abbiamo aggiunto tutti i numeri irrazionali). Non sembra che siano stati aggiunti tanti elementi... invece l’insieme dei numeri reali R NON ha cardinalità numerabile! R NON ha cardinalità numerabile!! Dimostreremo questa sorprendente proprietà in tre passi: l’intervallo (0, 1) non è numerabile; due intervalli distinti (a, b) e (c, d) hanno la stessa cardinalità; ogni intervallo (a, b) ha la stessa cardinalità di R (Ricordiamoci che R è in corrispondenza biunivoca con i punti della retta, quindi i due insiemi hanno la stessa cardinalità)    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 59 / 75   Secondo metodo diagonale di Cantor LM Dimostriamo, per assurdo, che l’intervallo (0, 1) non ha cardinalità numerabile. Ipotesi per assurdo: supponiamo che (0, 1) abbia una quantità numerabile di elementi ed enumeriamoli nel modo seguente: . Il numero reale x = 0,β1 β2 β3 ... con r1 = 0,a11 a12 a13 a14 ... r2 = 0,a21 a22 a23 a24 ... r3 = 0,a31 a32 a33 a34 ... βj ̸=ajj, βj ̸=0, βj ̸=9, j appartiene all’intervallo (0, 1) (è positivo e ha parte intera uguale a zero), ma è diverso da tutti i numeri reali rj , in contraddizione col fatto di aver enumerato tutti i valori nell’intervallo. Quindi sicuramente la cardinalità dell’intervallo (0, 1) è diversa da quella del numerabile. Passiamo a dimostrare che tutti gli intervalli della retta reale hanno la stessa cardinalità, dando solo un’idea grafica della dimostrazione.   Esercizio 4    Determinare (geometricamente) una corrispondenza biunivoca tra due intervalli aperti (a, b) e (c, d) della retta reale.  Suggerimento: allineare i due segmenti e considerare un punto P come in figura: a c b d P   P  a c b d  si proietta ogni punto di (a,b) in un unico punto di (c,d) dal punto P esterno ai due segmenti. Ovviamente questa operazione geometrica si può scrivere in formule utilizzando la geometria analitica e si trova la corrispondenza biunivoca cercata. Infine, per mettere in corrispondenza biunivoca un intervallo limitato, diciamo (−1, 1), con tutta la retta reale, serve una sorta di “meccanismo di amplificazione” (proiezione stereografica). Diamo un’idea geometrica della corrispondenza biunivoca: disegnamo la retta reale; dalla retta reale “stacchiamo l’intervallo (−1, 1)” e disegnamone una copia;  −1 1 R     Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 63 / 75     LM Proiezione stereografica disegnamo la semicirconferenza di raggio 1 tangente alla retta reale in 0; indichiamo con P il centro di tale circonferenza; P   −1 1 R   −1 1 Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); P   R     65 / 75   Proiezione stereografica fissiamo un qualsiasi punto dell’intervallo (−1, 1); proiettiamolo verticalmente sulla circonferenza; P    −1 1 R   −1 1 Proiezione stereografica tracciamo la retta per P e il punto della circonferenza; associamo al punto di partenza in (−1, 1) i punto intersezione tra la retta considerata e la retta reale; P     R   Se facciLamo questa operazione per ogni punto dell’intervallo (−1, 1) costruiamo una corrispondenza biunivoca tra questo intervallo e tutta la retta reale. −1 1 Il meccanismo di amplificazione funziona perchè proiettiamo tramite una semicirconferenza che ha tangente verticale agli estremi: i punti molto vicini a −1 o a 1 si proiettano sempre più lontano. P  Cardinalità del continuo La cardinalità della retta reale prende il nome di cardinalità del continuo. Possiamo dividere i numeri reali in tre gruppi: razionali irrazionali algebrici: le soluzioni di equazioni algebriche a coefficienti interi (ad es. tutte le radici quadrate, cubiche, ecc...) irrazionali trascendenti: tutti gli altri irrazionali (ad es. π) Conosciamo esplicitamente tantissimi irrazionali algebrici e abbastanza pochi trascendenti. Abbiamo visto che i numeri reali sono molti di più dei numeri razionali (ma ricordiamoci anche che i numeri razionali sono densi in R). Si può essere più precisi sulle informazioni riguardanti la cardinalità dei numeri irrazionali. Precisamente, si può dimostrare che i numeri irrazionali algebrici sono una quantità numerabile; quindi i numeri irrazionali trascendenti sono veramente tanti!    Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18 69 / 75     QuantLe e quali altre cardiMnalità ci sono? Studiando gli insiemi numerici abbiamo trovato due cardinalità distinte, quella del numerabile e quella del continuo. E’ del tutto naturale porsi due domande: ci sono cardinalità intermedie tra queste due? ci sono cardinalità superiori a quella del continuo? La prima apre una questione particolarmente affascinante (o frustrante, dipende dai punti di vista) che prende il nome di Ipotesi del continuo nda ha una risposta stup ci sono infinite cardinalità (infinite) distinte! La seco efacente:  CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera.   CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. CH “Continuum Hypothesis”    non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Per fortuna i modelli della matematica applicata non dipendono dalla validità o meno di CH, quindi la sua indecidibiltà non incide sui risultati che vengono utilizzati nella vita reale (fisica, ingegneria, informatica...)   CH “Continuum Hypothesis” non c’è nessuna cardinalità strettamente compresa tra quella dei naturali e quella dei reali.  Cantor era fermamente convinto del fatto che CH fosse vera. nel 1940 Kurt Gödel dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si poteva dimostrare che CH fosse falsa. nel 1963 Paul Cohen dimostrò che nell’ambito della usuale teoria degli insiemi non si può nemmeno dimostrare che CH sia vera. Quindi, la CH è indecidibile nell’ambito della usuale teoria degli insiemi, nel senso che è altrettanto coerente prenderla come vera che prenderla come falsa.    {a} {b} {c} {a,b} {a,c} {b,c} {a,b,c} LM L’insieme delle parti Per rispondere alla seconda domanda introduciamo una nuova nozione.   Insieme delle parti    Dato un insieme X, il suo insieme delle parti P(X) è dato da P(X) = {A sottoinsieme di X}.  Esempio. Se X = {a,b,c}, allora P(X) è l’insieme formato dai seguenti 8 insiemi: Si può dimostrare che se |X| = n allora |P(X)| = 2n > |X|.  Esistono infinite cardinalità infinite   Teorema di Cantor    Sia X un insieme. Allora |P(X)| > |X|. Come conseguenza del Teorema di Cantor, otteniamo che esiste una sequenza di cardinalità infinite, ciascuna strettamente maggiore della precedente.   Partendo da |N|, che sappiamo essere la cardinalità infinita minima, basta iterare il passaggio all’insieme delle parti: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < |P(P(P(P(N)))))| < · · ·    Dimostriamo il teorema di Cantor. L’applicazione ”x 􏰀→ {x}” è un’iniezione di X in P(X). Quindi |P(X)| ≥ |X|. Dimostriamo ora che non esiste un’applicazione biunivoca tra X e P(X). Supponiamo, per assurdo, che esista e indichiamola con ”x ↔ A(x)”. Consideriamo l’insieme C P(X) C = {x X tali che x ̸ A(x)}. L’ipotesi per assurdo garantisce che esiste un’unico x0 X tale che C = A(x0). Si ha che se x0 C = A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C, deve essere x0 ̸ C = A(x0)  se x0 ̸ C = A(x0), allora, per come sono definiti gli elementi di C,  deve essere x0 C = A(x0) Le contraddizioni trovate dipendono dal fatto che abbiamo supposto che ”x ↔ A(x)” sia biunivoca. Se ne conclude che non può esistere nessuna corrispondenza biunivoca tra X e l’insieme delle sue parti. Annalisa Malusa Infiniti 14/3/18    74 / 75 Aus dem Paradies, das Cantor uns geschaffen, soll uns niemand vertreiben können. Insiemi infiniti 1. Introduzione Finch ́e gli insiemi che si considerano sono finiti (cio`e si pu`o contare quanti sono i loro elementi mettendoli in corrispondenza biiettiva con i numeri che precedono un certo numero naturale) la nozione di insieme pu`o fornire un comodo modo di esprimersi, ma non `e indi- spensabile. Di fatto Cantor per primo elabor`o la nozione di insieme per risolvere problemi di quantita` di elementi in insiemi infiniti (cio`e non finiti). Definizione. Si dice che due classi hanno la stessa cardinalit`a quando c’`e una biiettivit`a tra le due classi. In tal caso si dir`a anche che le due classi sono equinumerose. Definizione. Si dice che un insieme A `e finito se esistono un numero naturale n e una biiettivit`a da A sull’insieme dei numeri naturali che precedono n; in questo caso diremo che A ha n elementi. Se ci`o non succede, si dice che l’insieme `e infinito. Se un insieme A `e finito e un altro insieme B `e contenuto propriamente (contenuto ma non uguale) in A allora A e B non sono equinumerosi, cio`e non c’`e alcuna biiettivit`a tra i due. Questo risultato dipende dal fatto che per nessun numero naturale ci pu`o essere una biiettivit`a tra l’insieme dei numeri che lo precedono e l’insieme di quelli che precedono un diverso numero naturale. L’ultima affermazione non si estende agli insiemi infiniti; lo giustifichiamo con un con- troesempio gi`a considerato da Galileo Galilei nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. I numeri pari sono un sottinsieme proprio dei numeri naturali, ed entrambi gli insiemi non sono finiti; inoltre la funzione che a un numero naturale associa il suo doppio `e una biiettivit`a dai numeri naturali sui numeri pari. Cos`ı si deve dire che i numeri naturali sono tanti quanti i numeri pari pur costituendo questi un sottinsieme proprio dell’insieme dei naturali. Per gli insiemi finiti non solo si pu`o dire se hanno lo stesso numero di elementi, ma anche se uno ha piu` elementi di un altro o meno. Per fare ci`o ci si rif`a alla relazione d’ordine naturale tra i numeri naturali che contano gli elementi di ciascuno dei due insiemi. Per gli insiemi infiniti non si pu`o utilizzare lo stesso metodo. Come decidere allora quando un insieme ha piu` o meno elementi di un altro? Ci si potrebbe limitare a dire che un insieme `e finito o infinito. Tuttavia l’esperienza di vari insiemi infiniti porta naturalmente a domandarci se si pu`o stabilire una gerarchia simile a quella fra gli insiemi finiti. Prenderemo a modello le stesse propriet`a degli insiemi finiti. 2. Cardinalit`a Definizione 1. Siano A e B due insiemi. Diremo che la cardinalit`a dell’insieme A `e minore o uguale a quella dell’insieme B, e scriveremo |A| ≤ |B| quando esiste una funzione totale iniettiva di A in B. Questa relazione fra insiemi non `e un ordine, n ́e stretto n ́e largo. Non `e stretto perch ́e |A| ≤ |A|, per motivi ovvi (basta considerare la funzione identit`a). Non `e un ordine largo, perch ́e pu`o accadere che |A| ≤ |B| e anche |B| ≤ |A|, con A ̸= B. Un esempio `e proprio quello in cui A `e l’insieme dei numeri naturali e B quello dei numeri naturali pari. Scopo di queste note `e di studiare le propriet`a di questa relazione. Attraverso essa potremo arrivare al concetto di “uguale cardinalit`a”, che `e ci`o che ci interessa. 1  2 (2) (3) INSIEMI INFINITI Esempi. (1) Se A `e un insieme e B A, allora |B| ≤ |A|. Se Z `e l’insieme dei numeri interi e N quello dei numeri naturali, allora |Z| ≤ |N|. Ci`o pu`o apparire paradossale, ma vedremo che non lo `e. Consideriamo infatti la seguente funzione: 􏰈2x se x ≥ 0, −2x−1 sex<0. Si pu`o facilmente verificare che f : Z → N `e non solo iniettiva, ma anche suriettiva. Se X `e un insieme finito e Y `e un insieme infinito, allora |X| ≤ |Y |. Supponiamo che X abbia n elementi. Faremo induzione su n. Se n = 0, la funzione vuota `e quella che cerchiamo. Supponiamo la tesi vera per insiemi con n elementi e supponiamo che X abbia n + 1 elementi: X = {x1, . . . , xn, xn+1}. Per ipotesi induttiva esiste una funzione totale iniettiva f: {x1,...,xn} → Y. Siccome Y `e infinito, esiste un elemento y / Im(f) (altrimenti Y avrebbe n elementi). Possiamo allora definire una funzione totale iniettiva g : X → Y che estende f ponendo g(xn+1) = y. Diamo subito la definizione che ci interessa maggiormente. Definizione 2. Siano A e B due insiemi. Diremo che A e B hanno la stessa cardinalit`a, f(x) = e scriveremo |A| = |B|, quando esiste una funzione biiettiva (totale) di A su B. Non daremo la definizione di cardinalit`a, per la quale occorrerebbe molta piu` teoria e che non ci servir`a. Sar`a piu` rilevante per noi scoprire le connessioni fra le due relazioni introdotte. 3. Propriet`a della cardinalit`a di insiemi infiniti (C1) Se A `e un insieme, allora |A| = |A|. (C2) Se A e B sono insiemi e |A| = |B|, allora |B| = |A|. (C3) SeA,BeCsonoinsiemi,|A|=|B|e|B|=|C|,allora|A|=|C|. Queste tre proprieta` sono quasi ovvie: basta, nel primo caso, considerare la funzione identit`a; nel secondo si prende la funzione inversa della biiettivit`a A → B; nel terzo si prende la composizione fra la biiettivit`a A → B e la biiettivit`a B → C. (M1) Se A `e un insieme, allora |A| ≤ |A|. (M2) Se A, B e C sono insiemi, |A|≤|B|e|B|≤|C|, allora|A|≤|C|. La dimostrazione di queste due `e facile (esercizio). C’`e un legame fra le due relazioni? La risposta `e s`ı e sta proprio nella “propriet`a antisimmetrica” che sappiamo non valere per ≤. Il risultato che enunceremo ora `e uno fra i piu` importanti della teoria degli insiemi e risale allo stesso Cantor, poi perfezionato da altri studiosi. Teorema 1 (Cantor, Schr ̈oder, Bernstein). Siano A e B insiemi tali che |A| ≤ |B| e |B| ≤ |A|, allora |A| = |B|. Dimostrazione. L’ipotesi dice che esistono una funzione f : A → B iniettiva totale e una funzione g : B → A iniettiva totale. Per completare la dimostrazione dobbiamo trovare una funzione biiettiva h: A → B. Un elemento a A ha un genitore se esiste un elemento b B tale che g(b) = a. Analogamente diremo che un elemento b B ha un genitore se esiste a A tale che f(a) = b. Siccome f e g sono iniettive, il genitore di un elemento, se esiste, `e unico. Dato un elemento a A oppure b B, possiamo avviare una procedura: (a) poniamo x0 = a o, rispettivamente x0 = b e i = 0; (b) se xi non ha genitore, ci fermiamo; (c) se xi ha genitore, lo chiamiamo xi+1, aumentiamo di uno il valore di i e torniamo al passo (b). Partendo da un elemento a A, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che a A0;  3. PROPRIET`a DELLA CARDINALIT`a DI INSIEMI INFINITI 3 • la procedura termina in un elemento di A; scriveremo che a AA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che a AB. Analogamente, partendo da un elemento b B, possono accadere tre casi: • la procedura non termina; scriveremo che b B0; • la procedura termina in un elemento di A; scriveremo che b BA; • la procedura termina in un elemento di B; scriveremo che b BB. Abbiamo diviso ciascuno degli insiemi A e B in tre sottoinsiemi a due a due disgiunti: A = A0 AA AB , B = B0 BA BB . Se prendiamo un elemento a A0, `e evidente che f(a) B0, perch ́e, per definizione, a `e genitore di f(a). Dunque f induce una funzione h0 : A0 → B0, dove h0(a) = f(a). Questa funzione, essendo una restrizione di f, `e iniettiva e anche totale. E` suriettiva, perch ́e, se b B0, esso ha un genitore a che deve appartenere ad A0. Se prendiamo un elemento a AA, allora f(a) BA: infatti a `e genitore di f(a) e la procedura, a partire da b = f(a) termina in A. Dunque f induce una funzione hA : AA → BA che `e iniettiva e totale. Essa `e anche suriettiva, perch ́e ogni elemento di BA ha genitore che deve appartenere ad AA. Analogamente, se partiamo da un elemento b BB, allora g(b) AB e g induce una funzione iniettiva e totale hB : BB → AB che `e suriettiva, esattamente per lo stesso motivo di prima. Ci resta da porre h = h0 hA h−1. Allora h `e una funzione h: A → B che `e totale, B iniettiva e suriettiva (lo si verifichi). Esempio. Illustriamo la dimostrazione precedente con la seguente situazione: sia f : N → Z la funzione inclusione; consideriamo poi la funzione g : Z → N 􏰈4z se z ≥ 0, −4z−2 sez<0. Quali sono gli elementi di N che hanno un genitore? Esattamente quelli che appartengono all’immagine di g, cio`e i numeri pari. I numeri dispari, quindi, appartengono a NN, perch ́e la procedura si ferma a loro stessi. Consideriamo x0 = 2 N; siccome g(−1) = 2, abbiamo x1 = −1; poich ́e −1 / Im(f), la procedura si ferma e 2 NZ. Consideriamo invece x0 = 4 N; siccome g(1) = 4, abbiamo x1 = 1 e possiamo andare avanti, perch ́e 1 = f(1), dunque x2 = 1 N. Poich ́e 1 / Im(g), abbiamo che 4 NN. Studiamo ora x0 = 16 N; siccome g(4) = 16, abbiamo x1 = 4; siccome f(4) = 4, abbiamo x2 = 4 N; siccome 4 = g(1), abbiamo x3 = 1 Z; siccome 1 = f(1), abbiamo x4 = 1 N. La procedura si ferma qui, dunque 16 NN. Si lascia al lettore l’esame di altri elementi di N o di Z. La relazione ≤ si pu`o allora vedere non come una relazione d’ordine largo fra insiemi, ma piuttosto come un ordine largo fra le “cardinalit`a” degli insiemi. Non vogliamo per`o definire il concetto di cardinalit`a; ci limiteremo a confrontarle usando le relazioni introdotte. Il teorema seguente dice, in sostanza, che la cardinalit`a dell’insieme dei numeri naturali `e la piu` piccola cardinalit`a infinita. Teorema 2. Sia A un insieme infinito. Allora |N| ≤ |A|. Dimostrazione. Costruiremo un sottoinsieme di A per induzione. Siccome A `e infinito, esso non `e vuoto; sia x0 A. Evidentemente {x0} ̸= A, quindi esiste x1 A \ {x0}. Ancora {x0, x1} ≠ A, quindi esiste x2 A \ {x0, x1, x2}. Proseguiamo allo stesso modo: supponiamo di avere scelto gli elementi x0, x1, . . . , xn A, a due a due distinti. Siccome {x0, . . . , xn} ≠ A, esiste xn+1 A\{x0,...,xn}. Dunque la procedura associa a ogni numero naturale un elemento di A e la funzione n 􏰀→ xn `e iniettiva. 􏰃 Questo risultato ha una conseguenza immediata. g(z) = 􏰃  4 INSIEMI INFINITI Corollario 3. Sia A N. Allora A `e finito oppure |A| = |N|. Dimostrazione. Se A non `e finito, allora `e infinito. Per il teorema, |N| ≤ |A|. Ma |A| ≤ |N| perch ́e A N. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. 􏰃 Un altro corollario `e la caratterizzazione che Dedekind prese come definizione di insieme infinito. Corollario 4. Un insieme A `e infinito se e solo se esiste un sottoinsieme proprio B A tale che |B| = |A|. Dimostrazione. Se A `e finito, `e evidente che un suo sottoinsieme proprio non pu`o avere tanti elementi quanti A. Supponiamo ora che A sia infinito. Per il corollario precedente, esiste una funzione iniettiva totale f : N → A. Definiamo ora una funzione g : A → A ponendo: 􏰈f(n+1) seesistenNtalechex=f(n), x se x / Im(f). La condizione “esiste n N tale che x = f(n)” equivale alla condizione “x Im(f)”. La funzione g `e ben definita, perch ́e f `e iniettiva; dunque, se x = f(n) per qualche n, questo n `e unico. Osserviamo anche che x Im(f) se e solo se g(x) Im(f). Verifichiamo che g `e totale e iniettiva. Il fatto che sia totale `e ovvio. Supponiamo che g(x) = g(y). • Se x / Im(f), allora g(x) = x; dunque non pu`o essere y Im(f) e perci`o g(y) = y, da cui x = y. • SexIm(f),`ex=f(n)perununiconN. Allorag(x)=f(n+1)Im(f). Perci`o g(y) = g(x) = f(n + 1) Im(f) e quindi, per quanto osservato prima, y Im(f). Ne segue che y = f(m) per un unico m N e g(y) = f(m + 1). Abbiamo allora f(n+1) = f(m+1) e, siccome f `e iniettiva, n+1 = m+1; perci`o n = m e x = f(n) = f(m) = y. Qual `e l’immagine di g? E` chiaro che f(0) / Im(g). Viceversa, ogni elemento di A\{f(0)} appartiene all’immagine di g, cio`e Im(g) = A \ {f(0)}. Se allora consideriamo la funzione g come una funzione g : A → A \ {f (0)}, questa `e una biiettivit`a. In definitiva |A| = |A \ {f(0)}|; se poniamo B = A \ {f(0)}, abbiamo il sottoinsieme cercato. 􏰃 Notiamo che, nella dimostrazione precedente, A \ B = {f (0)} `e finito. Come esercizio si trovi in modo analogo al precedente un sottoinsieme C A tale che |C| = |A| e A \ C sia infinito. 4. Insiemi numerabili Il teorema secondo il quale per ogni insieme infinito A si ha |N| ≤ |A| ci porta ad attribuire un ruolo speciale a N (piu` precisamente alla sua cardinalit`a). Definizione 3. Un insieme A si dice numerabile se |A| = |N|. Un sottoinsieme di N `e allora finito o numerabile. Abbiamo gi`a visto in precedenza che anche Z (insieme dei numeri interi) `e numerabile. Piu` in generale possiamo enunciare alcune propriet`a degli insiemi numerabili. Teorema 5. Se A `e finito e B `e numerabile, allora A B `e numerabile. Dimostrazione. Se A B, l’affermazione `e ovvia. Siccome A B = (A \ B) B possiamo supporre che A e B siano disgiunti, sostituendo A con A \ B che `e finito. Possiamo allora scrivere A = {a0,...,am−1} e considerare una biiettivit`a g: N → B. Definiamo una funzione f : N → A B ponendo 􏰈an se 0 ≤ n < m, g(n−m) sen≥m. g(x) = f(n) =  4. INSIEMI NUMERABILI 5 E` facile verificare che f `e una biiettivit`a. 􏰃 Teorema 6. Se A e B sono numerabili, allora A B `e numerabile. Se A1, A2,..., An sono insiemi numerabili, allora A1 A2 ··· An `e un insieme numerabile. Dimostrazione. La seconda affermazione segue dalla prima per induzione (esercizio). Vediamo la prima. Supponiamo dapprima che A ∩ B = . Abbiamo due biiettivit`a f : N → A e g: N → B. Definiamo una funzione h: N → A B ponendo: f 􏰄n􏰅 2 h(n) = 􏰆 n − 1 􏰇 g 2 Si verifichi che h `e una biiettivit`a. In generale, possiamo porre A′ =A\(A∩B), e abbiamo AB = A′ (A∩B)B′; questi tre insiemi sono a due a due disgiunti. I casi possibili sono i seguenti: (1) A′, A ∩ B e B′ sono infiniti; (2) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e infinito; (3) A′ `e finito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (4) A′ `e infinito, A ∩ B `e infinito, B′ `e finito; (5) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e infinito; (6) A′ `e infinito, A ∩ B `e finito, B′ `e finito. Ci basta applicare quanto appena dimostrato e il teorema precedente. Si concluda la dimostrazione per induzione della seconda affermazione. 􏰃 Il prossimo teorema pu`o essere sorprendente. Un modo breve per enunciarlo `e dire: L’unione di un insieme numerabile di insiemi numerabili `e numerabile. Teorema 7. Per ogni n N, sia An un insieme numerabile e supponiamo che, per m ̸= n, Am ∩ An = . Allora A=􏰊{An :nN} `e numerabile. Dimostrazione. Per questa dimostrazione ci serve sapere che la successione dei numeri primi p0 = 2, p1 = 3, p2 = 5,..., `e infinita. Sia,perogninN,gn:An →Nunafunzionebiiettiva. SexA,esisteununiconN tale che x An; poniamo j(x) = n. Definiamo allora f(x) = pgj(x)(x). j (x) Per esempio, se x A2, sar`a f(x) = 5g2(x). La funzione f : A → N `e iniettiva; quindi |A| ≤ |N|. MaA0 Aequindi |N| = |A0| ≤ |A| ≤ |N|. Per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |A| = |N|. 􏰃 Il teorema si pu`o estendere anche al caso in cui gli insiemi An non sono a due a due disgiunti; si provi a delinearne una dimostrazione. Questo teorema ha una conseguenza sorprendente. Teorema 8. L’insieme N × N `e numerabile. Dimostrazione. Poniamo An = { (m, n) : m N }. Gli insiemi An sono a due a due disgiunti e ciascuno `e numerabile. E` evidente che 􏰉nN An = N × N. 􏰃 Ancora piu` sorprendente `e forse quest’altro fatto. Teorema 9. L’insieme Q dei numeri razionali `e numerabile. se n `e pari, se n `e dispari.  B′ =B\(A∩B)  INSIEMI INFINITI. Un numero razionale positivo si scrive in uno e un solo modo come m/n, con m, n N primi fra loro (cio`e aventi massimo comune divisore uguale a 1). Ne segue che l’insieme Q′ dei numeri razionali positivi `e numerabile, perch ́e a m/n (con m e n primi fra loro) possiamo associare la coppia (m, n) N × N e la funzione cos`ı ottenuta `e iniettiva. Dunque |N| ≤ |Q′| ≤ |N × N| = |N|. L’insieme Q′′ dei numeri razionali negativi `e numerabile, perch ́e la funzione f : Q′ → Q′′ definita da f(x) = −x `e chiaramente biiettiva. Per concludere, possiamo applicare altri teoremi precedenti, tenendo conto che Q = Q′ {0} Q′′. 􏰃 C’`e un altro modo per convincersi che Q′ `e numerabile, illustrato nella figura 1. Si   1/5 1/4 1/3 1/2 1/1 2/5 3/5 4/5 3/4 5/4 2/3 4/3 5/3 3/2 5/2 2/1 3/1 4/1 5/1  Figura 1. Enumerazione dei razionali positivi immagina una griglia dove segniamo tutte le coppie con coordinate intere positive. Possiamo percorrere tutta la griglia secondo il percorso indicato e associare in questo modo a ogni numero naturale un numero razionale, incontrandoli tutti. Trascuriamo naturalmente i punti in cui il quoziente fra ascissa e ordinata `e un numero razionale gi`a incontrato precedentemente (per esempio, nella prima diagonale si trascura il punto (2, 2) che corrisponderebbe al numero razionale 2/2 = 1, gi`a incontrato come 1/1; nella terza diagonale si trascurano (2, 4), (3, 3) e (4, 2)). 5. Esistenza di cardinalit`a A questo punto sorge naturale la domanda se ci sono insiemi infiniti di un’infinit`a diversa da quella dei numeri naturali. Non ci siamo riusciti nemmeno considerando l’insieme dei razionali che, intuitivamente, dovrebbe avere piu` elementi dei numeri naturali. C’`e una costruzione che produce cardinalit`a maggiori. Prima per`o definiamo con preci- sione ci`o che intendiamo. Definizione 4. Se A e B sono insiemi, diciamo che A ha cardinalit`a minore della cardinalit`a di B, e scriviamo |A| < |B|, se |A| ≤ |B|, ma non `e vero che |A| = |B|.  5. ESISTENZA DI CARDINALIT`a 7 Il modo corretto per verificare che |A| < |B| `e questo: • esiste una funzione totale iniettiva di A in B; • non esiste una biiettivit`a di A su B. Notiamo che non basta verificare che una funzione iniettiva totale di A in B non `e suriettiva. Per esempio, esiste certamente una funzione totale iniettiva di N in Q che non `e suriettiva; tuttavia, come abbiamo visto, |N| = |Q|. Un altro esempio: l’insieme N {−2} `e numerabile, anche se la funzione di inclusione N → N {−2} non `e suriettiva. Infatti la funzione f : N → N {−2} definita da f(0) = −2 e f(n) = n − 1 per n > 0 `e una biiettivit`a. L’idea per trovare un insieme di cardinalit`a maggiore partendo da un insieme X `e dovuta a Cantor. Teorema 10 (Cantor). Se X `e un insieme, allora |X| < |P (X)|. Dimostrazione. Dimostriamo che esiste una funzione totale iniettiva X → P(X); essa `e, per esempio, { (x, {x}) : x X } cio`e la funzione che all’elemento x X associa il sottoinsieme {x} P(X). Dobbiamo ora dimostrare che non esistono funzioni biiettive di X su P(X). Lo faremo per assurdo, supponendo che g: X → P(X) sia biiettiva. Consideriamo C ={xX :x/ g(x)}. La definizione di C ha senso, perch ́e g(x) `e un sottoinsieme di X, dunque si hanno sempre due casi: x g(x) oppure x / g(x). Siccome, per ipotesi, g `e suriettiva, deve esistere un elemento c X tale che C = g(c). DunquesihacC oppurec/C. Supponiamo c C; allora c g(c) e quindi, per definizione di C, c / C: questo `e assurdo. Supponiamo c / C; allora c / g(c) e quindi, per definizione di C, c C: assurdo. Ne concludiamo che l’ipotesi che g sia suriettiva porta a una contraddizione. Perci`o nessuna funzione di X in P(X) `e suriettiva. 􏰃 L’insieme P(X) ha la stessa cardinalit`a di un altro importante insieme. Indichiamo con 2X l’insieme delle funzioni totali di X in {0, 1}. Definizione 5. Se A `e un sottoinsieme di X, la funzione caratteristica di A `e la funzione χA : X → {0, 1} definita da 􏰈1 sexA, χA(x)= 0 sex/A. Possiamo definire due funzioni, f:P(X)→2X eg:2X →P(X)nelmodoseguente: per AP(X)siponef(A)=χA;perφ2X sipone g(φ)={xX :φ(x)=1}. Teorema 11. Per ogni insieme X si ha |P(X)| = |2X|. Dimostrazione. Proveremo che g ◦ f e f ◦ g sono funzioni identit`a. Sia A P(X); dobbiamo calcolare g(f(A)) = g(χA): abbiamo g(χA)={xX :χA(x)=1}=A, per definizione di χA. Sia φ 2X; dobbiamo calcolare f(g(φ)). Poniamo B = g(φ) = {x X : φ(x) = 1}. Occorreverificarecheφ=χB. SiaxX;seφ(x)=1,alloraxBequindiχB(x)=1; se φ(x) = 0, allora x / B e quindi χB(x) = 0. Non essendoci altri casi, concludiamo che φ = χB. Ora, siccome per ogni A P(X) si ha A = g(f(A)), g `e suriettiva e f `e iniettiva. Analogamente, per φ 2X, φ = f(g(φ)) e dunque f `e suriettiva e g `e iniettiva. 􏰃  8 INSIEMI INFINITI 6. La cardinalit`a dell’insieme dei numeri reali Con il teorema di Cantor a disposizione, si pu`o affrontare il problema di determinare la cardinalit`a dei numeri reali. Intanto dimostriamo un risultato preliminare; consideriamo l’intervallo aperto I={xR:0<x<1} e dimostriamo che |I| = |R|. Consideriamo la funzione f : R → R, √ 2  1+x−1 f(x) = x 0 Un facile studio di funzione mostra che f `e iniettiva e che Im(f) = I. Allo stesso risultato si arriva considerando la funzione g(x) = π2 arctan x. La considerazione di I ci permetter`a di semplificare i ragionamenti. Sappiamo che ogni numero reale in I si pu`o scrivere come allineamento decimale: 21 = 0,500000000000 . . . 31 = 0,333333333333 . . . √71 = 0,142857142857 . . . 22 = 0,707106781187 . . . π4 =0,785398163397... dove i puntini indicano altre cifre decimali. Prevedibili in base a uno schema periodico nei primi tre casi, non prevedibili negli ultimi due che sono numeri irrazionali. Il numero dieci non ha nulla di particolare. Si pu`o allo stesso modo sviluppare un nu- mero reale come allineamento binario. Gli stessi numeri, scritti a destra dell’uguale come allineamenti binari, sono: 21 = 0,100000000000000000000000000 . . . 13 = 0,010101010101010101010101010 17 = 0,001001001001001001001001001 √ 22 = 0,101101010000010011110011001 . . . π4 =0,110010010000111111011010101... e le cifre si ripetono ancora periodicamente nei primi tre casi. In generale un numero r I si scrive come r = 0,a0a1a2 ..., dove ai = 0 oppure ai = 1; in modo unico, se escludiamo tutte le successioni che, da un certo momento in poi, valgono 1. Questo `e analogo ai numeri di periodo 9 nel caso decimale. Dunque abbiamo in modo naturale una funzione f : I → 2N: f(r) `e la funzione φ: N → {0, 1} definita da φ(n) = an dove a0, a1, · · · sono le cifre di r nello sviluppo binario di r. La funzione f `e totale e iniettiva, quindi concludiamo che |I| ≤ |2N|. se x̸=0,  se x = 0.  7. IL PARADISO DI CANTOR 9 Vogliamo ora definire una funzione g: 2N → I. Prendiamo φ 2N; la tentazione sarebbe di definire g(φ) come quel numero reale il cui sviluppo binario `e 0,φ(0) φ(1) φ(2) . . . ma questo non funziona, perch ́e, se per esempio la funzione φ `e la costante 1, il numero 0,111111 . . . `e 1 / I. Se anche escludessimo questa funzione, avremmo il problema del “periodo 1”. Dunque agiamo in un altro modo. Alla funzione φ associamo il numero reale il cui sviluppo binario `e g(φ) = 0,0 φ(0) 0 φ(1) 0 φ(2) ... cio`e intercaliamo uno zero fra ogni termine. E` chiaro che, se φ ̸= ψ, allora g(φ) ̸= g(ψ), dunque g `e iniettiva e totale. Teorema 12 (Cantor). |R| = |P (N)|. Dimostrazione. Abbiamo gi`a a disposizione le funzioni f: I → 2N e g: 2N → I, entrambe iniettive. In particolare, |I| ≤ |2N e |2N| ≤ |I|; per il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, |I| = |2N|. Sappiamo poi che |I| = |R| e che |2N| = |P(N)|. Dunque |R| = |I| = |2N| = |P(N)|, come voluto. Occorre commentare questo risultato. Per dimostrarlo abbiamo usato il teorema di Cantor-Schr ̈oder-Bernstein, quindi non abbiamo potuto scrivere esplicitamente una biietti- vit`a di R su P (N). Ma non `e questo il punto piu` importante. La conseguenza piu` rilevante del teorema `e che non `e possibile descrivere ogni numero reale, perch ́e, come vedremo in seguito, i numeri reali che possono essere espressi con una formula sono un insieme numerabile. 7. Il paradiso di Cantor Un’altra applicazione del teorema di Cantor porta alla costruzione del cosiddetto “paradi- so di Cantor”. Questa espressione vuole indicare l’esistenza di una successione di cardinalit`a infinite ciascuna strettamente maggiore della precedente. Allo scopo basta iterare il passaggio all’insieme dei sottinsiemi, per esempio a partire dall’insieme dei numeri naturali, per ottene- re una successione di insiemi la cui cardinalit`a, per il teorema di Cantor, continua a crescere strettamente: |N| < |P(N)| < |P(P(N))| < |P(P(P(N)))| < ··· < |P(...P(P(P(N))))...)| < ··· Si potrebbe ancora andare avanti; definiamo, per induzione, P0(X) = X, Pn+1(X) = P(Pn(X)). Allora possiamo considerare l’insieme Y1 = 􏰊 Pn(N), nN e si pu`o dimostrare che |Pn(N)| < |Y1|, per ogni n N. Dunque abbiamo trovato una cardinalit`a ancora maggiore di tutte quelle trovate in precedenza e il gioco pu`o continuare: consideriamo Y2 = 􏰊 Pn(Y1) nN e ancora |Pn(Y1)| < |Y2|. E cos`ı via, costruendo una gerarchia infinita di cardinalit`a sempre maggiori. Oltre a interrogarci sul prolungarsi della successione delle cardinalit`a infinite sempre mag- giori, `e del tutto naturale domandarsi se tra |N| e |P (N)| c’`e o no una cardinalit`a strettamente compresa tra le due. Piu` in generale, ci si pu`o chiedere se, dato un insieme infinito X, esiste un insieme Y tale che |X| < |Y | < |P(X)|. 􏰃  10 INSIEMI INFINITI Cantor ipotizz`o che non ci siano insiemi Z tali che |N| < |Z| < |P(N)|, e questa ipotesi ha preso il nome di ipotesi del continuo. Non `e questo il luogo dove discutere questa questione, risolta brillantemente da P. J. Cohen nel 1963: l’ipotesi del continuo `e indecidibile rispetto agli assiomi della teoria degli insiemi, nel senso che `e altrettanto coerente prenderla come vera che prenderla come falsa. Non si tratta di argomenti semplici, tanto che per i suoi studi Cohen fu insignito della Fields Medal che, per i matematici, `e l’analogo del Premio Nobel. Esercizi Si ricordi che kN indica l’insieme dei numeri naturali multipli di k, N≥k l’insieme dei numeri naturali maggiori o uguali a k, e N>k l’insieme dei numeri naturali strettamente maggiori di k. Esercizio 1. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi 3N {2, 5} e 2N \ {10, 8} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 2. Si costruisca una funzione biiettiva tra gli insiemi 4N { 32 , 7, √2} e N>9 . Esercizio 3. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale e iniettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 4. Si dimostri che per ogni insieme finito X, se f : X → X `e totale e suriettiva, allora `e biiettiva. Si dia un esempio di un insieme infinito in cui l’analoga propriet`a non sussiste. Esercizio 5. Si costruisca una funzione biiettiva tra gli insiemi Z { 32 , √3 2} e 3N. Esercizio 6. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi (5N \ {5, 15}) {√3, 25 } e 2N {11, 17} hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 7. Si dica, motivando la risposta, se gli insiemi N≥50 5N e 3N ∩ 2N hanno la stessa cardinalit`a. Esercizio 8. Sia A un insieme numerabile e sia a / A. Si costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A {a}. Esercizio 9. Sia A un insieme numerabile e sia a A. Si costruisca una biiezione tra gli insiemi A e A \ {a}. Esercizio 10. Sia Π l’insieme dei numeri reali irrazionali. L’insieme Π `e numerabile? Esercizio 11. L’insieme di tutte le funzioni da Q all’insieme {0, 1, 2, 3} `e numerabile? Esercizio 12. Sia P = {I | I N e I `e un insieme finito} l’insieme delle parti finite di N. Qual `e la cardinalit`a di P ? Esercizio 13. Si dica, motivando la risposta, se l’insieme P(3N) `e numerabile. Carlo Cellucci. Keywords: il paradiso, Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione, calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita, gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato, il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’ ‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” – The Swimming-Pool Library. Cellucci

 

Grice e Celso: l’orto a Roma sotto il principato di Nerone– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Garden during the principate of Nerone.

 

Grice e Celso: Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The son of Archetimo and a friend of Simmaco, he teaches philosophy in Rome.

 

Grice e Cefalo: all’isola -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. A rich friend of Socrates who enjoyed philosophical discussions. Cefalo.

 

Grice e Centi: l’implicatura conversazionale di Savonarola e compagnia – dal pulpito al rogo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Segni). Filosofo italiano. Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“ Grice: “According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottora presso l'Angelicum di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino, Maestro in sacra teologia dal maestro generale dell'Ordine domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato per i tipi di Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di san Giovanni (Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli (Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae etc.) e varie Questiones Disputatae.  Oltre al commento d’AQUINO, si occupa anche di altre importanti figure storiche come SAVONAROLA e Beato Angelico. È stato membro della commissione storico-teologica incaricata di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha difeso l'ortodossia, dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui attribuite che avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo che la scomunica inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua condanna fosse la sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro VI.  Altre opere: “La somma teologica, testo latino dell'edizione leonina, commento a cura dei domenicani italiani, C., Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, POMBA (Torino); Catechismo Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che sconvolse Firenze (Città Nuova, Roma); “La scomunica di Savonarola. Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “AQUINO: Compendio di Teologia e altri scritti); Selva, POMBA, Torino); “Il Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Studio Domenicano. Nel segno del sole. Aquino, Ares, Milano. Speranza, “Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come punto di riferimento. Un segno particolare  o particolarizato è quello del sacramento, o segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ – ‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation” (cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di queste parti. AQUINO, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata interpretata e commentata durante il corso di logica tenuto da Gimigliano presso l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso il tutee elabora un’interpretazione su un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione sono ad opera di Gimigliano. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, id est definire quid sit nomen et quid sit verbum. In graeco habetur, primum oportet poni et idem SIGNIFICAT. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur.  Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum.  Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.  His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur.  Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo ARISTOTELE praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis.  Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera.  Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant: sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae.  Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota, non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici. Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus: quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet vocum significationem exponere.  Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno.  Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones SIGNIFICANT NATURALITER quaedam voces hominum, ut GEMITUS INFIRMORUM et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis EX INSTITUTIONE humana; et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam ARISTOTELE. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et eis mediantibus res.  Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus ARISTOTELE nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.  Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces NATURALITER SIGNIFICANT, sed ex institutione humana. VOCES AUTEM ILLAE, QUAE NATURALITER SIGNIFICANT, SICUT GEMITUS INFIRMORUM ET ALIA HUIUSMODI, SUNT EADEM APUD OMNES. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae, idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione.  Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet BOEZIO quod ARISTOTELE hic nominat PASSIONES ANIMAE conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo significatas.  Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert; et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.  Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus.  Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso.  Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima.  Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem.  Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem.  Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet.  Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis.  Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum.  Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.  Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter.  Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum.  Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio, licet non explicita.  Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Postquam philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.  Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat.  Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox significativa.  Sed cum vox sit quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas artificiales in abstracto.  Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium.  Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi.  Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus.  Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae.  Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet.  Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter.  Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est.  Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est.  Deinde cum dicit: CATONIS autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur.  Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem.  Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera.  Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat.  Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari.  Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati.  Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.  Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum.  Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo.  Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto.  Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter.  Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis.  Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum.  Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid.  Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens.  Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.  Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit.  Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem.  Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse.  Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis.  Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum.  Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum.  Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio.  Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod ARISTOTELE prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae.  Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.  Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.  Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter.  Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur CRATILO, ARISTOTELE obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat AD PLACITUM, id est secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.  Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.  Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est.  Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum.  Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam.  Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera.  Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam.  Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione.  Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae.  Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium.  Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est.  Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.  Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa.  Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur ARISTOTELE valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter.  Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis.  Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.  Circa quod considerandum est, secundum BOEZIO, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit.  Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod ARISTOTELE, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans.  Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, “Petrus currit.” Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.  Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum SIGNIFICAT. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum.  Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.  Alexander autem existimavit quod ARISTOTELE hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus.  Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo BOEZIO dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio et cetera.  Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa.  Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, PLATONE non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, PLATONE autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit PLATONE, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba ARISTOTELE. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut PLATONE posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, “Socrates ambulat”. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam.  Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et cetera.  Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto.  Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem.  Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae.  De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis.  Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis.  Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera.  Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem.  Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae.  Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici.  Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum.  Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal.  Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali.  Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.  Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera.  Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa.  Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae.  Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa.  Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria.  Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.  Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus.  In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse ARISTOTELE utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam PLATONE, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur.  Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus.  Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera.  Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis.  Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.  Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi.  Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen.  Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba.  Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera.  Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est.  Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis.  Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa.  Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur.  Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur.  Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte.  Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit.  Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera.  Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis.  Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt.  Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.  Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant.  Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.  Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus.  Est autem considerandum quod, sicut BOEZIO dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod BOEZIO attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.  Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo.  Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt.  Sed hanc rationem solvit ARISTOTELE in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio.  Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est.  Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur.  Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem.  Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant.  Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.   Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.  Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant.  Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae.  Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter.  Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera.  Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.  Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.  Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa.  Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera.  Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum.  Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum.  Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est.  Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens.  Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres.  Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis.  Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.  Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est.  Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur.  Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis ARISTOTELE. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit.  [Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae.  His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.  Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.  Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam BOEZIO ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.  Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes.  Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice: “You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus, Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando infirmus signat infirmitas -- tomismo, segno, segnante, segnato. Aquino, why Aquino is hated at Oxford. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool Library. Centi.

 

Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Calci). Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana, Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa); “Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri” (Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia – noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia” (Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano” (Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli; “Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica. I crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero (Hist. crit. phil., Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat. Deor.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless..) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc. Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P..; Giamblico). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.). Questo e l’ordine, questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina. Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto).Isocrate reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E CICERONE lo fa viaggiare per la Liguria (De Finibus). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina – Laerzio -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom.). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio). E noi qui alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio, pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val.) e tutti gli altri filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana (“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis” -- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano (Hist. de la phil. anc.). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit.) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna.  Alcuni videro in questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e da Porfirio ai quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae radicemque habentem” (Porph.). Il Moshemio sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven.; Niebuhr, Hist. rom., ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P.; Porfirio, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec.-- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito; Valerio Massimo; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio; Giamblico, V. P. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal. E anco Lampredi trova analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall.; Diodoro Siculo; Valerio Massimo; Ammiano Marcellino. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat  Pythagoras, ec., De Senect.; Tuscul.), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.; Dicearco, ap. Giamblico, V. P.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm.) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str..). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met.) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp.), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir.) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P. ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P.). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor.La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggitori. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il GIOBERTI vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla scienza;  e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose, questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril. phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide, i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza, ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di *sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du, tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners. All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro, potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne' due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso, alla lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos? ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini, questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia; e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora, vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta, Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi  senz'ombra pure di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia, sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente, la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo. Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici: l'uomo esser bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità: ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti, e che sono la formola del giuramento pitagorico: Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem perennis naturae radicemque habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico (in Theol. Arith. ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, $ 20, p. 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato, è sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph.,  Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect., XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm. XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma, la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma, quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi. Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj; tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand' ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano, Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne; ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo, contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone, presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ). Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono, prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma.  Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città; altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini, il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo, e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco, partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e, ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta, 4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio, sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio. Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno. Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio, Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona, acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico, il quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte, o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale calcolò l'uno e l'altro (anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a canto una lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei, che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon presente dal Nume; e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa, e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò, geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti, e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione, allesti al Nume una cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era giovane e bella, ma non per anche pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove disteso avea il letto: e dopo cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per aversela. Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna, e che le impose di andarsene sull'alba alla piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse incontrato, sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze, che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene, e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve in quel medesimo luogo, dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro, perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto chiamano velalura.?. Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che davano qualche spettacolo, coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co, incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin., 1. XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode de'porci di Amulio, raccolse i bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di Numitore, ' il quale di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede subito a divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole. Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini, facendo nascere in altrui una grande estima zione di se, che già manifestavasi nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami, considerandoli come uomini, che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce, i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i ladri, il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere, nella musica, e nelle belle arti. Furono poi spediti a Gabio, città dei Latini e colonia d’Alba, distante circa dodici miglia da Roma, siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo. Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo via de’be stiami agli altri rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero loro delle percosse, li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda, curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora, essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi con Remo, che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del fratello, ch'era uómo severo; al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva di ottenere soddisfazione, essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava, egli che pur gli era fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a rilasciargli Remo, perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto, se ne tornò a casa, e guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura, che di grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere, e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e soprattutto, com'è probabile, coope- · randogli un qualche Nume, e dando unitamente direzione a principj di cose grandi, egli, locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la verità, interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita, aggiungendogli fiducia e speranza, con voce mansueta e con amorevoli sguardi e benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire: « Io » non ti nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più » re tu, che Amulio; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due fratelli nati ROMOLO. » ad un parto; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te, ed in repentaglio della vita, gran cose dir » sentiamo di noi medesimi, le quali, se sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento, per quel che si dice, è un » arcano: il nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati, sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere, alle » quali fummo gittati, siamo noi stati nudriti, da una lupa » col latte, e da un picchio con altri cibi minuti, mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame, dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano, i quali un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento, quando noi morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso, e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era preso Re mo e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale per lo addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol quanto basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente. Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di sollecitudine pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro, e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale, essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio: conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 * Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser punto increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti, essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra, principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta, poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa, conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo, Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce, non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi: finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia, si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa, come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo veloce. Sul monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete discepolo di Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà. di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice: l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese, e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo, circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine, relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone, che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto, secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o, secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl' inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva, e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare. Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi, essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti: e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole, siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi. Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più, essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria, ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza, essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre: conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto, fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era, quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite, dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’ Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo: conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie, diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro, che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro, che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa, passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra, e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui. Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e, attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto, per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio, fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie. Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso, quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale. Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie, di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un, sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia, co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei, finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura. Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani, essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini, accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed, en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo, quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV. Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale, essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso, ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e, ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma, veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo, e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta, e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te, passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano, fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono; e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose » sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono, e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma » ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre » ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù, altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne; il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. » Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall' Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco. I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. · Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle Matronali, 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed inspirata da Febo, la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli oracoli in versi, mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo vero nome era Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per mo strarsi fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser privo, e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra, che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella solennità molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma, comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che si celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono, convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie, discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente; ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio, corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora, e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare, ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità, " S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3 Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale, Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria, Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni. Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino, presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero punto i Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano, altri per la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli antichi Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui. Prese poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni, repentinamente mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle porte, ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo loro teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non volle demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno, che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio, quanto sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori, si videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila. Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini, sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo; perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza, anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento, rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei, cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi, dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso; altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte. Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ, e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse: Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta; onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo, dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno. Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali, aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne' patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi, fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo, che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, » donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io » sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e, avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che, spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro, si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto. Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo, come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi, ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l ' asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora, riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo, e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine, riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela, coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno, e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro, subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra, come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia della storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formola logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio.  Refs.: “Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library. Centofanti.

 

Grice e Cerambo: la setta di Lucania -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.

 

Grice e Cerano: la filosofia sotto il principato di Nerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher in Rome in the time of Nerone. Cerano.

 

Grice e Cerdo: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) – Filosofo italiano. Only the soul resurrects.

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