Friday, July 5, 2024

GRICE ITALICO A/Z C6

 

 

Grice e Caporali: l’implicatura conversazionale di Pitagora, l’italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo italiano. Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or ‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he is, too!”   -- Grice: “For the Oxonians I always recommend his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo, Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on ‘scienza nuova.’” Laureatosi in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali e la matematica.  Nel corso dei suoi viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che  a Milano, dove l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse dell'evangelicismo.  A Perugia, e poi come ministro a Todi finì per distaccarsi dal movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova scienza. La notorietà che ne conseguì gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò.  Dal 1905 riprese e approfondì le questioni filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della coscienza e della volontà umane con i problemi della vita.  Opere principali Geografia enciclopedica rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano; Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria, Spoleto; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi; L'uomo secondo Pitagora, Atanor, Todi; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole, Atanor, Todi; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip. Tuderte, Todi. L'Enciclopedia Italiana, vedi, V. Vinay, Desanctis, Claudiana, Torino.  In tal senso Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari, che lo cita con i filosofi protestanti Taglialatela e Mazzarella; Furiozzi, C. tra politica, religione e filosofia, in Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli  R. Mariani, Del sommo filosofo pitagorico C. da Como: da Pitagora ad Alberto Einstein, Domini, Perugia. C. su C. M.C.C., C.  in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Pilone, C.  Dizionario biografico dei protestanti in Italia, Società di studi valdesi, sito studivaldesi. Filosofia Filosofo Filosofi italiani Professore Como Todi Scrittori italiani Personalità del protestantesimo.  LA NUOVA SCIENZA. Alcuni pedanti, non intendendo la sacra scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde. Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera veramente italiana, C., si ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi fascicoli. Restano quarantasette copie dell'Obera completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali dissertazioni contenute nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiano. La Formula Pitagorica della Cosmica Evoluzione. L'Evoluzione anti-clericale Germanica nella disperazione. L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti. L'Evoluzione malin tesa e la sua negazione. Monismo Pitagorico antico. Perpetua voce umana— Commedia degli Spiriti. La psicogenia pitagorica di Pauthan . La sostanza impasticciata di Pozzo. Il principio Eraclitico con frontato col Pitagorico -- Pitagorismo di Bruno. La formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale. La Sapienza Italica mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale *coltura. Atanòr, Todi; La Natura secondo Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr] où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo. Aristotele (Phys8).  La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola. Atanòr. Todi. MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA. Pitagora, secondo Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), e figlio di un gioielliere etrusco, che mercanteggia a Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata mentre la sua madre e incinta, dice: Avrai un figlio che sarà utile a tutti gl’uomini, in tutti i tempi. Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, segue le lezioni d’Ermodamate e quelle di Ferecide a Siro. Visita in Mileto Talete, l'iniziatore della filosofia, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi, presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, e stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, e da essi ricevuto nel loro tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa sua iniziazione, il saggio di Crotone puo bene internarsi in esse, e principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza del numero e dei principii universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formida in un modo originale. Egli arriva agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della plebe, e condotto insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accresce il suo sapere ed ha rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritorna a Samo, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggia, e volle subito fuggirne. Venne in Crotone, ove si stabilisce. Crotone, nel Golfo di Taranto, e, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che ha attinto a sì pure fonti di filosofia e acquistato grande esperienza della vita, nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei altri filosofi, dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che venne a diffondersi, ha visione di un rinnovamento da effettuare fra gl’uomini. Onde stabilì di fondare una setta dalla quale usceno, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei uomoni dall'animo nel vero senso della parola virile, e che e il nucleo, come il punto di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico di Crotone, in corrispondenza al suo ideale filosofico. Secondo questo ideale, affinchè lo stato e ordinato armonicamente, dovesi conciliare il principio elettivo con un reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pedagogico di quei tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione laica che sia stato mai impreso; e in breve ha a fiorire in tal modo che, non solo nell’area, come a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, sono stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in Etruria, la sacra terra donde il maestro e oriundo. Egli si circonda di scelti discepoli, e tutti seduce, poiché avviluppa di grazia l’austerità dei suoi insegnamenti. Essi doveno levarsi all'alba, adorare il sole, seguendo una dorica danza, quando il sole appare su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell' istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio, affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccoglia all'inizio del giorno. Indi, in ampie sale, venneno istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la preghiera al sole, si fa un pasto frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si anda allo stadio per gli esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, sono tenuti in onore. Poi si discute di amministrazione della città, di morale e di 'politica generale, e in fine si anda a cena, dove si mangia anche carne in piccola quantità e si beve vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di X, poiché X è il numero perfetto. Durante la cena, si fa una lettura ad alta voce, e questa lettura e seguita da libere obiezioni e discussion. Poi si ricordano le regole dell' Istituto, e, cantando un inno ad Apollo, si anda a letto. Il vestito di tutti i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Pitagora ha due figli, Arimneste e Telangete. Arimneste e autore di prose e poesie morali. Telangete divenne più tardi il maestro di Empedocle di Girgenti e a lui trasmise i secreti della dottrina. Altro pitagorico fu il più celebre degli atleti, Milone di Crotone. Dall'Istituto pitagorico usceno anche geometri, medici, artisti, amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portano, sotto certi aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concede di entrare nell' Istituto a scolari di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per avere rifiutato un certo Cilone, ricchissimo, il quale desidera di far parte dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre sta in casa di Milone. E, cogliendo pretesto dal voto contrario che Pitagora da sulla distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati hanno conquistate, il suo nemico Olone induce la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e ferendo molti alunni. Pitagora si rifugia negli istituti filiali di Locri, di Taranto e di Metaponto, dove muore. Pitagora non crede nella metempsicosi, ma sol-tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la metempsicosi dei Misteri Orfici e presentata al popolo come opportuna per spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento della dignità morale, e dice che la virtù non è perfetta se non è accompagnata dalla fede nel Sole, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina ordinatrice e perchè il Sole solo può dare alla morale sanzioni efficaci. Diogene Laerzio narra che Pitagora scrive tre saggi, uno sulla Educazione, uno sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura. Ma andarono tutti e tre perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distingueno Archita di Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao, Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Ipparco. Quando Platone viaggia in Italia, e Archita di Taranto che gì' insegna la dottrina del numerante. Ma Platone la guasta nell' intrecciarla alla sua teoria delle idee eterne ossia concetti gènerali delle cose ch'egli suppone esistere da se, indipendenti e separati dalle cose. Nella filiale pitagorica di Girgenti sorge Empedocle, il quale abbraccia con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici. Ma mentre Empedocle osserva  da vicino una eruzione dell’Etna soccombette asfissiato. Nella filiale pitagorica di Siracusa brilla Archimede, il fondatore della idrostatica, il quale scopre anche la quadratura della parabola, oggi ancora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere della filosofia di questa setta di Crotone? Pitagora e l’enciclopedista del suo tempo. Fonda la Filosofia Italica. Come fa notare Zeller gl’errori di Platone e di Aristotele erano quelli del popolo ellenico, troppo idealista e portato a giudicare le cose colla fantasia, ed a studiare poco la natura. Gl’ellenici sono artisti e poeti, non filosofi o scienziati. Appena hanno fatto dell’osservazioni superficiali, volano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora e in stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della natura, sicché puo fondare il Naturalismo Italiano. Da per primo il nome alla filosofia, come lo da al mondo, chiamandolo “cosmo”, che vuol dire ‘ordine’, vale a dire che porta in se la gran legge della tendenza di le IV elementi a formare più alta unità: in modo che ogni particella sta in armonia col Tutto ed è fatta da una forza numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione dell’energia divina, che si contrappone i punti di forza o atomi, i quali, derivando da una potentissima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla unità primitiva, sicché tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere nell’assurgere a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi. Ma è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e volontà, che a poco a poco, attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gl’organi ed i nervi. Egli precisa con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni; indovina per il primo che la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli in movimento. Scopre il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa nel triangolo rettangolo. Calcola la teoria degl’ isoperimetri, dimostrando non commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato. Introduce nell’aritmetica il sistema decimale X, e nella musica l'ottava, VIII, la quarta IV, e la quinta, V.. Il filosofo Lucio (in Plutarco Symp.) narra che gli’eruschi, che stimano Pitagora quanto i Greci, osservano i simboli di Pitagora. Ad un acuto osservatore come Pitagora non puo sfuggire la legge di attrazione e coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la causa in pretese pressioni dell'etere cosmico. Empedocle di Girgenti la chiama poeticamente “amore universale”, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensa la Natura organica, piante ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione -- benché non conoscesse la cellula -- e la malattia e la morte come un processo di dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove -- come pretendeva Eraclito, l’eleno che emula Pitagora), ma è l'unirsi delle particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del pensiero pitagorico Anassagora, il primo filosofo che separa lo spirito dalla materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il pitagorismo, in modo che dopo Anassagora la filosofìa d’Atene si allontana dalla Italica. Pitagora e il genio tutelare del pensiero laico Italiano, e da sempre il midollo alla coltura nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non e una provincia della filosofia ellenica. E grazie a Pitagora che un po' alla volta e sorpassato il Platonismo ed e vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento con le invasioni dei barbari dal Nord si oscura ogni luce di pensiero. Ma la idea pitagorica torna a brillare per la prima e a dare impulso alla nuova filosofia italiana grazie a Cuza, educato in Italia. Cuza scrive: «Ratio est mensura quae omnia in multitudinem, magnitudinemque resolvit. Mens est viva mensura quae mensurando alia, sui capacitatem atiingit. La mente è la unità che si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L' investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale della setta Pitagorica venne promossa dall'Accademia di Cosenza, a 40 miglia da Cotrone, fondata da Parrasio - dalla quale sorge Telesio che scrive: « Della natura delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova del primo Orto Botanico, dall’Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie, dall’Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli con Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per la fondazione delle loro accademie maggiori. Bruno sostenne poi contro i filosofi del Lizio che gli elementi medesimi della natura si ritrovano in terra e in cielo, indovina la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che se ne fa, nota che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un dispiegarsi dell'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale. Ma la verità Pitagorica della Attrazione e dimostrata da Newton e il newtoniano Boscovich concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali danno ragione agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Supponiamo che Pitagora siasi istruito dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico, che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti. Noi fondiamo la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. L’Hegelismo, che, invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. Terra, ma in tutti i 50 milioni di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica, ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere. Nel voi. IV. delle sue opere egli ci dice che questo primo Essere ha cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata, la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura (1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti, dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura, bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. fìcile formarsi concetti esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo. Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza, sia come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla, come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare. Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura. Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre, estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali. La fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito; altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi, uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la tartaruga, non la potrà mai raggiungere. Ma quando si considera lo spazio come un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali, e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa. Kant suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di- mostrano che le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- Lo spazio, il tempo, gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche, va considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che per i bambini non sono altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza, che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito, vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata. Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- « cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è « oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in « relazioni spaziali con altri corpi ». Più tardi però Kant concepì spazio e tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri provarono che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono anche se lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come Riemann, credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte dimensioni. Ma, se lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità), tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a distanza ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A. Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il rapporto inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole dimensioni, si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre ipotesi la gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione delle distanze. — Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi fisiche, ci provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra anche il chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905. La realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il maggior fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò che si deve prenderlo per base di tutte le misure. Abbiamo riassunto le ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza pa- gina 81 a 84.  La realtà del tempo poi che (come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è dimostrata vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile nell'Universo, tutta la meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità, e nessun cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si potrebbe dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di punti e di istanti, a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio ed il tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della possibile espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che uno. Lo implica la interazione delle forze; lo implica il coesistere di un numero enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra loro senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e degli istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna {Numerorum Fons di Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto che è l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai precisione; anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio) e dei successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e Tempo esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili  e tra i termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò che manca di larghezza, di sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos- sero nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die si calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi. Ogni punto è numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima; non vi sarebbe alcuna figura definita, non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta di minor numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del Tempo. Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si toccano interamente e allora invece di rato, ogni istante del pari, sono tutti diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d' inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg) che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi « Philosophiae naturalis Principia », 1714, (Def. Vili) Newton scrive: «Eadem est Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive nulli ». Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi, moti fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva: « Tempus non est affectio rerum sed modus cogitandi ». Aristotile. Phys. IV. 10 chiama àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi- nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale). Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum ». La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di materia continua; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe una specie di atmosfera diffusa allo infinito, con strati concentrici, sempre più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto di numero determinato, come dimostrò Saint-Venant. Nella « Révue du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici, ecc.). Il Secchi (« Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale: e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se, come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L' Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla scientifico, se non si dice che è la medesima in quantità. Bisogna dire che quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica non può somigliare alla nostra: ma sic- « come la genera, devono essere modi diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le cose e inaccessibile alla nostra « coscienza: le scienze studiano i loro fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre pensare la manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, « (conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico degli Àtomi ». Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità). Infatti la coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità dinamica. In altre parole si parla di quella sensazione primitiva minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e più raffinate della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai essere piegata dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i /QQ, 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E perchè? Unicamente per la forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da varie società di salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra- versano periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran forza, se in una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare i marosi in burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che non deriva da cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal piacere di unirsi delle molecole di olio. L'atomo di una goccia di acqua non vede, non ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da nessuna pressione di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti non la farebbero. Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più semplicemente di noi): e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar arcus tensi, qui non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz. La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti: mentre sono le vere realtà. La Materia (dice Righi) ha per proprietà distintiva Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo; ma in moltissimi casi non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e (secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico: ogni Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la- boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri, né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal movimento dagli atomi complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è colpito si difende in modo diverso (Microcosmos). E Lasson filosofo di non minor valore del Lotze, aggiunge: « Non esistono cose meramente oggettive, passive, esterne». Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant, Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner, Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer, Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è sbagliata. Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ». S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto.  La nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti di una casa ». E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss) osserva: « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica; anzi non si continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe « estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto: « dunque l'Atomo è Energia psichica ». Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto, di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che tendono ad unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano, Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità anzi ce lo indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo, sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla, perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage, Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres- sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. tornare all'armonia facendo la elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico (moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione (magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro scema: così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si estinguerà; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo non ha avuto principio nella sua energia potenziale. orientate, si lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti. Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas, si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici. Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio (raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann: La costituzione dell'Elettrone, Annalen der Physik. Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal- colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido. Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete, ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto continuo, attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare altri magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di- vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti di atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che scal- dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for- temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono carichi di elettricità come i raggi catodici; ma fanno sor- gere l'elettricità nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le scintille di, una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri- cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione, come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p. 257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il (1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che, urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe. Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali. piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici). La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in- focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura, si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura. Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio, Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio, Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti. Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi, che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio. Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale di azione e sono: Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale (non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia, ha valore per i fatti osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La meccanica ne coglie un solo aspetto: risolvere il mondo in figure è una mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito, dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s' introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema conservativo più ampio: ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace, invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione che si converte in calore: bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma opposti: così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui: ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887 Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo, dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, come è sempre ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle, pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione. Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem- meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio: ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua, nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro: anzi in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato. (1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 — Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV), scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo centro a « tutto il sistema solare ». Newton non ammise che la gravitazione fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell' Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata impossibile. — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce, non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani. Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. — Eichiedono un punto motore che agisca fuori e al di là dell'Universo. Esigono che la materia sia ora creata ed ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità. 3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice effetto di di- verse forze che ci sono ignote. Implicano la esistenza di capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.) (1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili- Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità; benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre- deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione; dando prova unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi: ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire: « Sic volo, sic jubeo: sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse, come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza): perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4. Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati. Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti. I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti. Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau (Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si distendono come piani: mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as- sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1). Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi. Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate, come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre (1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione, si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali, battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei. Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve essere in stato di relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il suono: quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi; ed è alla solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi, disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione.  La tendenza all'armonia fa i contrasti elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto: come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia, ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1). Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi Principia Definitio IIIa: « Materiae « vis insita est potentia resistendi ». Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. Il materiale dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma la costruzione è fisica, e conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1) L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che « Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le pareti; è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra i tre assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le soluzioni necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri, di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire altro che detriti, arena, polveri e spazzature: le prendono per la tendenza delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto, dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo. Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo, l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente; il polo positivo si riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che tendono ad una elasticità variabile: però si induriscono facilmente in colle, in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice, dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. Nelle vere gelatine le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as- sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio, soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua, e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori; tutti cercano di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc. ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche, rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del- l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. I cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici (riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell' interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice (combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce, colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie, della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro, di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio. lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina nel Brasile e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate. Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904 BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio, guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni. Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli: sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do- vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi stellari. Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita, la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un cardine di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare 36,5 di acido cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta la natura. Ma unito coi metalli fa gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli ele- menti i quali si trovano in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco alla prima scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro- glicerina e nella dinamite. Non e per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente il modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi? Chi troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni trasparenti, il silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo e dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere. Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire composte della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma, scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi, l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che determina il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il peso degli Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il cloro valgono 1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una valenza superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con 4 di cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d' idrogeno. Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo di carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che è trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2 atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri- valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4, quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica (idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi- gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non resistono al forte calore: meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque: e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. La vita non sta mai nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata »; sicché le forze fìsiche avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua alla sua superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto una atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, i quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio. Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse, secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra. La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando, abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono, formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori, l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno. L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac- qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so- stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata dagli Atomi; ma è Velevazione delle Unità atomiche ad Unità più alta e a godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare. Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera- menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha 72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali e luce ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente, respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura; ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il castoro la sua capanna; se viene guastata, non si accomoda da se, non si provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare (come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia- cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella sua armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre, e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo- sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma (rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716 ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. Se si raccoglie in uno stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta cel- lule: è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono, as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono formando, in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. Nella putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte contrattile e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi si vede la ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva di una massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri- trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di struttura: ma sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si nutrono, si moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società e spiegano i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno struttura visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e negli animali, come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza prendervi alle volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella fabbricazione dell'acido solforico. I fermenti aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria, cercandolo nei liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od unificazione (animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere solubile, ossia senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto apparente. Ve ne sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi, degli idratanti, che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi- danti (come la laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei germogli del grano e della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo zucchero del latte; il mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono aerobicamente lo zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le circostanze, è aerobio o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei bacteri sono anaerobi; tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono fermenti, i quali trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le terre di leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel 1886 furono descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha scoperto il modo di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante coltivate, sicché ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da se, senza sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe me- — 81 — diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,, (che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole forze chimiche, e tanto meno con le sole forze incidenti dell'ambiente, al modo Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es. la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti, venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi in due) ha una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia- cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno. Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/ idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar- rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti. Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza. Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1) vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » » Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino, dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande e nelle Montagne Rocciose: oppure 6 In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo (1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra- sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima, mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30 milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor- rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. —massima della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire, tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire », ma è una legge sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi. In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re- stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno, ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti. Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0° gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a 16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto « Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del colera, della febbre gialla, della peste; riformò la teoria Le Fucacee furono le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà, mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine (Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria, messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore, seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante: l'una intenta ad accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli: ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio, diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo- luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano piccole, e crebbero in al- tezza. Fin dalle prime Ofioglossee il tallo dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il tallo poi fu ridotto quasi a nulla nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé) lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli, emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme (conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere, nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono relativamente caldi e respirano più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine: una di esse farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta. Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. — Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed è rara la generazione alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti sanno che nelle Begonie persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano, poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono senza nozze. Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice, e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre, con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente, vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano subito; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria, modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al- l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all' individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie, anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a parità di volume). Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto, essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima, benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900 da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904 Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F. Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee- eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili. Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia, re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio. Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63 A2 O 4. Nelle piante acotile- doni è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre- scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0. Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati ad acido cianidrico. Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli) si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te- pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo, formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei fasci fibrosi vascolari arcuati sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti; e così avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come una macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle basi ed ai sali.Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in- grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi, distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio, con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal- damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le forme mirabili della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori, all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni ». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire, desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente, cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta, e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. La formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si compiono meno bene, ma si compiono: e che ci vuole molto tempo a fare gli or- gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma esterno viscoso: e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda, detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi, che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche, essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega. L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1) Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia, nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono al loro corso: i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so- pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni, con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli; ma discendendo dalle frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ritornando più volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che atten- deva ad un determinato progresso morfologico: la coscienza se ne ritira, dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere. La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè, con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che ^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le sensazioni, i ricordi e le voli- zioni: base psichica, che viene dalle singole unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio, Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco, ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza nuove aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti. Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio, e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo, desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e le isolava; cosicché alla fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi. — La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen- sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione, non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita, nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti. Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero gli anelli sono assai diversi: gli uni portano antenne, i seguenti mascelle, zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente. Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. Come dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni. (Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini, il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus (che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo: tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni, abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea. Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E. Ziegler: «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. stacci, i Zoofiti, i Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che, senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano. Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo; essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti, avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede, e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli, diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni. Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto, detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel- lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil' Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe- roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all' origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi (1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori, svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli, digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più alte delle Palme le Giraffe allungarono molto il collo; per nutrirsi di mosche e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le corna; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani; per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af- flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente in nove mesi: Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio, Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo non cambia mai; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle funzioni, giacche la modificazione degli organi per farli servire a funzioni nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz, disse Schelling, la materia è pensiero congelato ». Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 « Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del quale è una forma ». «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235.  « La Unità ordinatrice dello Indistinto assoluto fa la Natura », p. 247. « Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma in fondo vi è una razionalità sapientissima », p. 249. « L' Indistinto Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine », p. 250. « L'ordine nel caso, e il caso nell'ordine: ecco la ragione della distinzione o formazione naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad ogni distinto », p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu- de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249: « La Intelligenza viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto ». I suoi discepoli poi ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro maestro: Marchesini (« Vita e pensiero di Ardigò », 1907, p. 338), scrive: «L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite, succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre ». E a pag. 259 ci dà questa bella genesi degli Uccelli: « La specie della Gallina è un apparato  « fisiologico riuscito, per aggiunte e modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente ». Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L' Indistinto a che cosa è ridotto? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. « Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto ». È questo il Positivismo radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente Oggetto o Soggetto: nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi, e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero Positivismo armonico, pitagorico, Italico. Come la psiche fa la vita interna sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » ) stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso, come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot- trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è « la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e molteplicità della Natura. 254: la realtà «della psiche e della materia insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296: A sostrato « dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie- « gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo Catechismo). 331: Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire è per noi « ed in noi necessariamente sensazione ». Marchesini non ha capito che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling ed egli non ha mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta, non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto, secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa, formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi, dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo. Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca, faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe. Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). Meno nella Tenia ed in altri parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue l' acqua ed i principi in essa disciolti: la ghiandola, che era pallida, si ar- rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare - volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. Gli animali, mangiando vegetali, ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo- logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi. Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi (circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi. Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero, albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina, glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito: ma se il sangue è morto, l'ago sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. l'ossido di carbonio uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo. Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie parti del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif- ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere: è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e il piacere. Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del ventre stearina oleina e palmitina; nelle mammelle butirina e margarina; nelle api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere, vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando.sono arrivati nei diversi organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove. L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso, ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina, ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra). Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri- menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere, godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. Se no, allora l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso (compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi. Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero) e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina, lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali, vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina, lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari. Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori: quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l' inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia, ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi dei quali ha bisogno (1) portano verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare la salute; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta. La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini vasomotori ed il cuore, e le arterie; alza la temperatura da due a sette gradi sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi dei Bacteri e specialmente le contagiose: I microbi anaerobi fanno escrezioni velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve- nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna. Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati, che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L' uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto. Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo, i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo; se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini, cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose, la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo (1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva, ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza. Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi, che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po' alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico, dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano. Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso; mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa, formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo, salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism », ha i suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute; guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti, ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel « Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione. Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero. Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata, appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute, depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli- catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i Vermi la catena dei gangli: ma nella metamorfosi il sistema nervoso si concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello; e nei Pesci inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio (di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore, ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza fodere; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio, ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta. Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello, dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi, grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti, sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l' infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo: essi compivano gli altri tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori, giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in- trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono quattro colonne: due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi, divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui.  Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro. Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline. Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova. Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di- sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato, ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa, che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof. Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi- sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode, soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni, mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini. Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali, senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute, toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda, rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta- bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto, si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo «L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo, ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque, relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai: è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie) e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca- vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse, chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso; anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene (1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina, cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici, mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria di archi intrecciati; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente, secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell' influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono; mentre il nervo motore muove un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore è la Energia della Natura che si fa; e sono quindi elastici, perchè gli estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo, di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente. Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i pròtagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca, Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare, col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà. Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi' intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali, rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza. La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono, senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare. assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore, bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli, nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco. All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1 muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita, appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione, delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie, in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i coefficienti del passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge, una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso. Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente, necessariamente; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici: camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so- stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con- fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia? Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea.  In realtà non vi è affatto questa pretesa lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea, Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato. Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo, con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali. Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione, volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati, Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che si isolano nuotando per godere le nozze, le fanno. Un siconoforo è una federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie; ma anche fra essi vi è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa, ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano, fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe, nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare, portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià, non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani- maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api, nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes: Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A. Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita, prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore totale. L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof. Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper- matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida) l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane, facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male. Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone, il testicolo cresce a spese della neratrice è affidata a questi elementi chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera: ma presto ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline come mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo, intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma. Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè il Mesoderma in- vaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni. L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio. La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati, fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione: è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici) detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità. Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l' intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali. Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra. Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due secondi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il bilancio dei vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze dell'in- dividuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini, nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica depuratori del san- gue; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al- largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti- nuo nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non danno latte. nosciute e già provate: e questo è lo stimolo che fa ascendere i piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen (nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco, la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol- tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1) Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza, la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli, dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori, raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate, Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così; se vi sono e vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i delinquenti convicts, deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del « Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli (Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima: ma è l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente: chi è triste rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale, è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista, at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie, p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l' ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in giudizio); nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi, venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal- tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta, passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille? Chi non sa quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi, nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta. L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi, per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e per conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull' Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici, primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra, Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani, che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole. Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la Maya o illusione del mondo. Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni. L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio- riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti, anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia, intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe- ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart, «L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo per lievito: Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento, centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti.  La Unità Numerante nella Volontà Se il Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli. L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale. I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The functions of the Brain), vide che i centri inibitori impediscono la distra- zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali. Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile, una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, La Volontà non può essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta; è tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica. Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire, volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere, Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle quali si astrae il concetto di spirito o di anima). Il riferimento delle sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne facciamo poco a poco l'abitudine. Dunque non vi sono schemi a priori dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me, prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle forze incidenti. Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina 163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero: Gli atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni, gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen- sazioni, e dipendono dall'organismo ». Così l' Italia non si faceva dal di dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse: no, erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi a rispondere a Bixio: « Non ci ritiriamo: qui si fa l' Italia o si muore ». E dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere: tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano, buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling. L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi? Se è l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique » 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme Philosophique come «profonde et habituelle distinction ». Essa concilia in modo strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo; ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères », 1894, opposero egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti, agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso; i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili, meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed ottimisti. Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero, versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli, cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento, pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente); quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato, i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F. Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune. Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie. Le conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc. lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie, alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo di agire delle energie cimentate: assimilando le forze della natura alla volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto,se si pensa che l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere, ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare. Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Spesso un uomo d' ingegno ha volontà mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a saltare. Il giudizio muove il riso: ma è la volontà che scarica la forza nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità irresistibile; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili: giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni meschinità.Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola.. La prima estrinsecazione del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »  La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV. - La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche combinazioni » L'Unità assimilatrice cellu- lare » Come le Unità cellulari si ac- centrano nelle Piante per godere l'amore »Origine psichica delle specie animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana »Come la Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso » Come la Psiche fa il Sistema Muscolare »  La Psiche generatrice... » La Unità intima nel Senti- mento » La Unità Numerante nella Volontà. » 181 ^  LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- SAUNIER La Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L. 6,- ERMETE TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia » 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3, — Prossimamente: Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita pubblica. La filosofia di Pitagora che è generalmente conosciuta  appena in alcuni dei suoi punti fondamentali come la  metempsicosi, l’armonia delle sfere, la scienza dei numeri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, e in  realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, un ve?v e propìzio sistema di speculazione e di morale,  la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in piccola parte sì per la scarsità dei documenti scritti originali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì  per le amplificazioni, le falsificazioni, e le invenzioni  che partorirono le fantasie di tardi seguaci di pseudo-eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale filosofia e non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera  e ragionata speculazione a cui si accompagna, parallela,  ima conseguente e logica ragione di vita, sì che, mentre da un lato potè attrarre, seducendole col fascino  delle verità da essa chiarite e coll’armonica bellezza dei suoi insegnamenti. le anime di molti cui pungeva  r assillante aculeo della conoscenza., incontrò daW altro ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie interessate  o di volghi ignobili e sciocchi.   Divulgata. se non creata interamente ex novo, per opera di Pitagora, del quale, come  di Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa e coltivata prima che altrove, sulle rive dell' Ionio nella  Magna Grecia e in Sicilia., di dove si diffuse, sebbene  osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca., com'essa  era., di principii che oggi si direbbero idealistici e tra-  sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una  sua particolare armonica concezione della vita individuale e collettiva teorica insomma e pratica nello stesso  tempo., essa era ben atta ad informare di se religione  e scienza., politica e morale. consuetudini e leggi. Essa w da molti connessa non pure con anteriori antichissime dottriìie della Grecia, dell’Egitto, dell’ India  e per fin della Cina, dalle quali sarebbe in tutto o in  parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di  somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Platone, in molte parti ricalcata sulle sue orme. Conservata  poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tramandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto  delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filosofi, quando, inalveatesi nel suo letto altre correditi di pensiero, alimenta le speculazioni della teosofia neoplatonica e nieopitagorica di Plotino, di Porfirio e di altri molti, e diede origine a molteplici scritture, quali più quali meno profonde ed attendibili, intorno alla vita ed ai primi insegnamenti dell’antico  maestro. Da essa infine trassero ispirazione alcuni filosofi della rinascenza, e qualche sua derivazione può  dirsi non del tutto spenta anche oggi.  Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque massime  per noi italiani, lo studiare la storia di questa dottrina e il ricercarne e ìiarrarne le vicende nei vari tempi  e nei vari paesi: poiché sebbene molti abbiano fatto studi e ricerche in proposito — basta ricordare fra tanti, i lavori di Bitter, Zeller, Gomperz, Chaignet e Mullach, e, in Italia, di Capellina, Centofanti, Gognetti, Martiis, Ferrari e Ferri  -- e benché da tutti Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Hamburg, Zellbe, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vortràge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts^ Leipzig, 1865 e  Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P  Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2*  ed. alleni, par A. Raymond, Paris, Alcan, Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor., Paris, Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc-  cessoribus, in Fragmenta philosoph.. graecor. Paris, Capellina, “Delle dottrine dell'antica scuola pitagorica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di  Scienxe di Torino -- Centofanti, Studi sopra Pitagora, in La letteratura greca, Firenze, Le Monnier -- CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R.  Accad. delle Scienxe di Torino, Socialismo antico, Torino, Bocca -- Ferrari, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivista ital. di Ulosofia, Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni degl'Italiani  intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accademia  dei Lincei, Rendiconti, -- questi e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte  notizie ma si siano anche esaminate e discusse quistioni importaìitissiìne pure troppe cose ancora rimangono  da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del Pitagorismo. E fors'anche^ riprendendone i?i  esame il contenuto, ossia tenendo l’occhio alla sua storia interna, che è poi, per la filosofia, la sola importante, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata  dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi validamente fondata e tale da poter resistere agli assalti del  nostro più acuto criticismo.   Gli studi raccolti in questo volume furono già da me  in gran parte pubblicati in Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie  ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali  ero giunto, e nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono  indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecitazioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme.   Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia  che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno  a dimostrare che intorìio a queste importantissime dot-  trine non si è detto ancora tutto e che inolio ancora si  può indagare e scoprire. Da diverse tradizioni furono connessi i piiì antichi istituti  religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con il Pitagorismo. Ne fa meraviglia che alle dottrine di  Pitagora si fa risalire anche le prime istituzioni e  le più antiche leggi di Roma. Numa, il sacro legislatore  della città capitolina, e ritenuto scolaro di Pitagora, e le  stesse leggi di Le XII Tavole, copiate dalle legislazioni  della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta  traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, sono altresì ricongiunte con questo. Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter  determinare in che consistessero questi legami di dipendenza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi  dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze  e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione  Seneca, per esempio, (Epist. ad Lucilium) sull'autorità  di Posìdonio, dice, parlando dei grandi legislatori dell'Italia. Hi  non in foro, nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti lune Siciliae et  per Italiani Oraeciae ponerent --  romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si  sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una determinazione neppure approssimativa. Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta soltanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita  civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore influsso, determinando attraverso le  vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente  di filosofia sua propria, continua o interrotta, palese o  recondita? Di vera e propria tradizione scritta non ci restano tracce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo  invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non pochi seguaci che la dottrina pitagorica ha in Roma. Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte  le conclusioni di queste nostre ricerche, che questi innamorati cultori di una così riposta e difficile sapienza non  furono già uomini oscuri nè poeti o scrittori di second’ordine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati,  pensatori insigni e grandi uomini politici. Cosicché la filosofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegnamenti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati  famosi, come APPIO CLAUDIO e il maggiore SCIPIONE, nelle  fantasie di autori eccellenti, come ENNIO e VIRGILIO, nei  cuori di cittadini nobilissimi, come FIGULO, VARRONE e i  SESTII, accompagna in certo modo passo per passo il progredire della potenza e della grandezza di Roma; finché  poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura e  l'indole dei romani, e il meno idoneo ad allettarli, e  all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un  lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un ApolIonio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi elementi eterogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,  essa si ritira di nuovo nel silenzio e nella segretezza di  qualche scuola, illumina appena la vita e lo spirito di  qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì  per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle speculazioni di un Macrobio o di un Eulogio. Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la maggior diligenza possìbile i ricordi, le testimonianze, le tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé  lascia il pensiero pitagorico nella storia e nella letteratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e studi esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di trovare. Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere di Zeller, Chaignet, Mullach, nella “Storia di  Roma” del Pais, e in storie generali e particolari della  letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lunghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse  qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle  mie ricerche non consistono dunque nella novità dei risultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin  qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella  quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne  ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche questione spero anche di avere maggiormente chiarita, sebbene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso costruire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni  definitive. Che molte delle antiche istituzioni di Roma sono derivate dalla filosofia pitagorica e riconosciuto ed ammesso esplicitamente da CICERONE, il quale nelle Tusculane scrive: “Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret, pernianavisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniectura probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indicator.” A conforto dunque della sua opinione CICERONE adduce  due argomenti, uno congetturale e uno di fatto. “Quis  enim est qui putet cum fiorerei in  Italia Graecia potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est, in eisque primum ipsius Pythagorae,  deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset, nostrorum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas  fuisee f Quin etiam arhitror propter Pythagoreorum admistrationem NUMAM quoque regem pytagoreum a posterioribus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et  instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapientìam a maiorihus suis accepisseut aetates autem et tempora ignorarent propter vetustatenii eum, qui sapientia  excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse.” E  questa è la congettura. L constatazione di fatto poi è,  che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture  vi sono molte non indubbie tracce di pitagorismo. Quanto  alle istituzioni, CICERONE trova materia di raffronto nell'uso dei  canti e della musica. “Vestigia autem Pythagoreorum,  quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur. Nam cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum  intentione eantu fidibusque ad tranquillitatem traducere,  gravissimus auctor in Originibus dixit CAIO morem apud  maiores hunc epuìarum fuisse ut deinceps qui accubarent,  canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos  vocum sonls et carmina. Quamquam id quidem etiam XII TABULAE declarant, condi iam tum solltum esse carmen, quod ne licer et fieri ad alter ius iniuriam lege sanxerunt.  Sec vero illud non eruditorum temporum argumentum est,  quod et deorum puloinaribus et epulis magistratuum fides  praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, disciplinae.” E quanto alle antiche scritture CICERONE ricorda un  carme di APPIO CIECO, che a lui pare pitagoreo. “Mihi  quidem etiam APII CACCI  carmen, quod valde PANAETIVS  laudat epistula quadam, quae est ad Q. TVBERONEM, Pythagoreum videtur.” CICERONE conclude: “Multa etiam  sunt in nostris institutis ducta ab illis; quae praetereo,  ne ea, quae repperisse ipsi putamur aliunde didicisse vi-deamur.” È davvero un peccato che Cicerone, per sentimento d’orgoglio nazionale — che non doveva peraltro  essere soltanto suo — e forse anche per ragioni, se non  di stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di  utilità pubblica, *tace* intorno  a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal pitagorismo, alle quali, come si è visto accenna per ben due  volte; tanto piii che CICERONE e per le cariche da lui coperte,  e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e  sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda  cultura storica, letteraria e FILOSOFICA, e bene in grado  di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo  assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di questa sua affermazione categorica, per quanto generica, e  vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano validi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò contro la sua tesi.  Che in verità il pitagorismo importato nella Magna  Grecia “temporihiis isdem”  — come dice lo Cicerone — “quibus L. Brutus patriam liberavit” -- e propagatosi in tutta l'Italia meridionale, dove si conserva, non dove rimanere ignoto ai romani e dove esercitare su di loro,  presto tardi, qualche influsso notevole, è ovvio, e le  presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei  fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale influsso si  possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei    --  [E detto che Pitagora venne in  Italia “superbo regnante” -- suoi primi seguaci, come Cicerone crede, oppure, come  crede LIVIO, se esso si fa sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la  conquista della Campania e della Magna Grecia --  e, d' altra parte, se  questa azione sia stata così larga e profonda da dover  lasciare molte tracce di sé negli istituti politici e religiosi  di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manifestazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime speculazioni filosofico-religiose.   Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimostrino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima  dell'Arpinate, e precisamente PRIMA della conquista dell'Italia meridionale, dove  essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla  sua dottrina e alle sue leggi e debitrice di molto Roma. Il primo di questi fatti è che durante la guerra sannitica e innalzata a Pitagora ai lati del comizio in  Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase  poi sino ai tempi di Siila. Ora la guerra contro i San-niti si combattè in tre periodi. Pais crede che la cosa si debba  ritenere avvenuta appunto in questi ultimini anni. Ma in realtà  non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire anche ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un  poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea     -- La cosa ci è attestata da Plinio, il quale però non cita la  fonte da cui ha attinto la notizia. Dice PLINIO infatti. “Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus Comitii positas statuas, cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari.” Cfr. Plutarco, Numa.  -- e di Taranto e con l'arrivo nella città di Livio  Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale,  sono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno  Zaleuco. Ora perche mai sono stati concessi a Pitagora due onori così distinti e di carattere pubblico, se  non si sono riconosciute le sue benemerenze verso Roma? Evidentemente, in quei tempi più antichi, l'orgoglio  nazionale non ha ancora oscurato, come più tardi, il  senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esaminare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà CICERONE. I carmina convivalia che, ormai disusati nell'età  ciceroniana, sono invece ancora in uso al tempo della  seconda guerra punica e che risalivano,  come afferma CATONE, a molte generazioni prima di lui,  sono certamente anteriori alla legislazione decemvirale. Cicerone, infatti, per  dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti  musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei  tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, insieme con la testimonianza di CATONE, il fatto che le leggi  di Le XII TABULAE comminavano gravi pene a chi avesse usato quei canti “ad alterius inkiriam.” Senonchè  Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti -- Vedasi il framm. nei Fragni. Hist. Graec. e  Symm. ep. X, 25.   -- Cfr. De rep. IV, fr, 12. “Nostrae XII tabulae quuni  perpaueas res capite sanxissent, in his hane quoque saneiendam pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen condidisset quod infamiam faeeret fìagitiumve alteri” --  e vedi auche Plinio, Nat. Hist.   -- audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti a tempo  del re NUMA. Se così è, non avrebbe dunque dovuto valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva, come si è veduto, alla leggenda che il re Numa e stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi  canti egli puo logicamente ammettere la derivazione  dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji  istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro  autore credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del  filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cicerone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun  valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se  fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più antica storia di Roma — , oppure, come è più probabile,  in conformità dei risultati generali e particolari a cui è  giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende  romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal pitagorismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da ritenere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto  fa risalire all’antico un'usanza che dovette essere piu nuova. Quanto poi all'analogia considerata in se, in che consisteva essa? Semplicemente   --  (De orai. “Nikil est autem tam eognatum mentibus  nostris quam, numeri atque voces; qtiibus et excitamicr et ineendimur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad tristitiam  saepe deducimur; quorum Ula sumnia vis carminibus est aptior  et eantibus, non neglecta ut mihi videtur, a NUMA rege doctissimo  maioribusque ìiostri ut epularum sollemnium fides ac tibiae Saliorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere celebrate.” Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè  nel Brutus e nelle Tusculane. Si vedano anche TACITO, Ann. Ili, 5, Val. Massimo, Nonio ad assa voce  ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner.  nell'uso comune del canto e della musica in occasione di  feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel contenuto dei canti stessi, che gli uni. -- cioè i Pitagorici, adoperarono come mezzo terapeutico e di insegnamento esoterico, e gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare la  memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti  tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegnamenti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti  accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga  meditazione, così gl’antichi Romani soleno, al principio  dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù  degli eroi, ed hanno anche l'usanza di far precedere tanto  alle mense in onore del divino, quanto ai banchetti dei magistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico dei Pitagorici. Insomma, le piu antiche manifestazioni dell'arte musicale in Roma si ha per l'influsso diretto  del Pitagorismo. A quel modo che si è dimostrata la possibilità che sono derivate dal pitagorismo queste antichissime manifestazioni dell'arte musicale, si puo anche riconoscere  come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensa Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora.   La notizia che il re Numa e stato scolaro di Pitagora  è probabilmente vecchia. Anzi il  Pais afferma che essa si deve forse far risalire ad Aristosseno. Ma in tal caso e necessario credere che Aristosseno conosce una cronologia della storia romana diversa da quella che fu poi consacrata dalla storiografia  ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu-     [Storia di Roma] ma e anteriore a quella di Pitagora.  Tanto è vero che quasi tutti i filosofi presso i quali  troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'Alicarnasso, Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio —  notano e discutono variamente questa inconciliabilità cronologica, concludendo tutti press'a poco come fa Manilio  nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di queste  relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali  e quindi da ritenersi un errore inveterate. Ora che  dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così  dovesse concludersi, è troppo naturale. Data la indiscutibile verità della tradizione e della relativa cronologia, non puo esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte  di Numa di essere alunno di Pitagora. Ma tale impossibilità non esiste per noi, che sappiamo come la storia  delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai  tarda, come i computi cronologici che a quella si riferiscono siano il risultato di una lunga elaborazione tradizionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di  verità, e infine come molte figure della leggenda siano soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso di  fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi successivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se  e validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sussiste più oggi che la critica storica ha demolito l'antichissima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che     [De re publ.: «Inveteratus ho77tinum errore.  Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic.{.Exc. de vlrt. et vii.; Livio; Plut. iVwma;  Plinio, Nat. Hist. quella sollevata da LIVIO, il quale ritenne impossibile ogni  rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di distanza e DI LINGUA. Dice Livio infatti. “Auctorem doctrinae  Numae quia non exstat alius, falso Samium  Pythagoram edunt, quem Servio Tullio regnante Romae,  centum amplius post annos, in ultima Italiae ora circa METAPONTUM HERACLEAMQUE ET CROTONA iuvenum aemulantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset quae fama in Sabinos e aut quo LINGVAE commercio quemquam ad cupiditatem discendi excivisset e quove praesidio unus per tot gentes dissonas sermone moribusque pervenisset e suopte igitur  ingenuo temperatum animum virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum quo genere nullmn quondam incorruptius fuit.” Ma nel  campo della storia, come giustamente osserva De Marchi, è forse detta l'ultima parola sui rapporti che legarono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni italiche del centro? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una “disciplina tetrica ac tristis” presso i sabini non è  cosa molto più problematica di quello che non sia probabile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra  Numa e Pitagora dovd dunque, a parer nostro, accettarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di  Numa, se questi è realmente esistito, o, in ogni modo,   -- “Passi'scelti da Livio ad illustrare le istituzioni religiose, politiche e militari di Roma antica” (Milano, Vallardi il formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che  la tradizione riporta a Numa, dovd ritenersi posteriore  almeno al tempo di Pitagora, appunto perchè dalla tradizione e tenuto in stretto  rapporto di dipendenza dal pitagorismo. In tal modo non  e più necessario, come fa il Pais, di ritenere inventata d’Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a  questo filosofo che parla genericamente  di Romani accorsi ad ascoltar Pitagora, e piu facilmente si comprendeno alcuni dati della leggenda di Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re, e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, ammetta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla. Racconta ancora la tradizione che Numa ha tanta  venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare  a un proprio figlio il nome di “Mamerco”, in onore dell'omonimo figlio del filosofo. Che significato può avere questo  nuovo particolare? Alcuni hanno creduto di scorgere in  esso un tentativo da parte degl’Emili Mamertini di far  risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa.  Se così e, noi doviamo allora ammettere che quando  il particolare e inserito nella leggenda, la cronologia di  questa non e ancora quella ufficiale. Altrimenti il tentativo e puerile. Ma così non è, come  e giustamente osservato da Mtille. Probabilmente il     (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp -- cioè Pitagora --  &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog, xal  Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice Porfirio nella sua Vita di Pitagora; e il medesimo affermano,  senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio e Giamblico (Vita Pythag.). Quanto a Pais, vedasi St. di Roma -- Plutarco, Numa -- Emilio -- Q. Ennius, Pietrob. -- particolare non ha altro ufficio che di avvalorare con  un indizio di piu la leggenda. Un'altra notizia, a proposito della quale non è veramente fatta menzione alcuna di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per  la quale Numa ha particolare venerazione. Allude  forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di  cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È possibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame,  che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di coloro che dubitano delle sue facoltà soprannaturali,  non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pitagora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per  il loro carattere favoloso, pouo indurci a credere  l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione  storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del  saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica  non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione  diversa. Voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi  libri di Numa, avvenuta in occasione di  uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta  e la inverosimiglianza di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tradizione, che questi libri sono antichi. Siano  poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza,  come s'è già detto, dove necessariamente porsi in  un'epoca posteriore  — o di qualche altro  sapiente imbevuto di sapienza italica, essi starebbero  sempre a dimostrare che effettivamente il pitagorismo esercita una qualche azione sull'antica civiltà di Roma. Plutarco, Numa -- DioN. Hauc. Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi  possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei rapporti fra i due legislatori dove essere assai diffusa  ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di vero. Di guisa che se Cicerone la disce “inveteratus hominum error” noi possiamo senz'altro accettarne la vetustà. E,  quanto all'erroneità, essa e probabilmente soltanto  un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio, che pure scrive dopo che diversi filosofi hanno mosso  alla leggenda le critiche accennate, puo ben accettarla  senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose attribuite a Numa, persino la sua riforma del calendario – gennaio, febbraio --, dalla educazione pitagorica da lui ricevuta.  Anche alcune disposizioni legislative di Le XII TABVULAE sono messe in relazione col Pitagorismo. Cosa ben naturale, se si pensi alla loro origine. Non sono esse infatti  ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia,  che, alla lor volta, com'è ben noto, si informano ai principii di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla  con CICERONE, semplice coniectura, ha poi la sua riprova  nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai  frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo  in esse sancito s'ispira al principio del taglione: « Si     [Metam., Fast., Pont.]. e.  membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ TALLO està », dice il  secondo frammento della XVIII TABVLA, e questo principio,  che, come attesta Demostene, ha largo svolgimento nelle  leggi di Zaleuco, e indubitatamente tolto dai pitagorici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice  infatti Aristotile che la giustizia e da loro consideata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una proporzione — non inversa, ma diretta, come notò bene Zeller  — fra l'offeso, l'offensore e il Giudice. Nel che essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può aver luogo che la distributiva. Ora, dice Chiappelli -- in qual modo si determinasse dal pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere quali elementi di essa penetrassero in le XII TABVLAE e  a quali trasformazioni anda soggetta in Roma. Un punto  tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo negativo. Alla legge generale, in le XII TABVLAE segueno  le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa     Timocr.  « ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv  è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j-  oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX-  jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si  ritrovano in quello che 1' autore della Grande Morale ci riferisce  dei pitagorici, il ohe è una riprova del rapporto storico fra questi  e Zaleuco.  -- Eth. Nic.-- xst 5s xtat  xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi nuO-ayópsiot  Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ».  Sopra alcuni frammenti di le XII TABVULAE nelle loro relazioni  con Eraclito e Pitagora, in Areh. Giuria 00 misura della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad  uno schiavo. Ora i Pitagorici non pare che avessero  fatta questa distinzione, se l'autore della Grande Morale  combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella  che non si può applicare incondizionatamente al servo o  al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto,  se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena corrispondente. E in verità siffatta distinzione e bensì  impossibile nel sistema dei pitagorici, per i quali il corpo  e come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne  trasmigrazione, e il più alto precetto etico e l'imitazione  del divino per via della virtù, l'osservanza della legge e il  rispetto verso tutti gl’uomini. Ma e invece possibilissima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così  netto e il distacco fra cittadini liberi e schiavi.  Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse  ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di APPIO CLAUDIO CIECO, che, censore e console, e indubbiamente uno dei personaggi  storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei  primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene, che il  giudizio di Cicerone non e errato parrebbero dimostrare  a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono  rimasti. E in verità la famosa sentenza “fabrum esse suae  quemque fortunae” non puo esprimere meglio il fondamento della dottrina morale di Pitagora. L’altra, altis-     [Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ; « Manu fustive si os  fregit libero CCC, si servo GL poenani subito.” Magn. Mar.  « xò Si^ TotoaTov o5x èaxt  Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv xaOxóv »] sima, come dice Pascoli, se fosse certa la lezione e  l’interpretazione – “amicum cum vides obliscere miserias;  inimicus sies; commentus nec libens aeque idem tamen  teneto” -- «tu dimentichi  la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico  "quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volentieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia” ,  è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che  insegna amore e fratellanza. Il terzo infine « sui quemque oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis  stuprique ferocia pariat” non e certo disforme dalle pratiche e dagl’esercizi spirituali degli adepti al pitagorismo,  che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del  proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori,  per dirigerle al bene. Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè anche intorno all'autenticità di questo antico poema, che e una delle prime manifestazioni letterarie di Roma,  si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso  e data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone  ha indotto per esempio Pais a pensare che si tratti  di una falsificazione posteriore, da collegarsi con le altre  falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno  ai romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di  Roma. Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio  furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo,  nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lucania che ragione c'è per negare che Appio conosce quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per    [Lyra romana, Livorno,St. di Roma] il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fondamento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attribuirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercita sopra gli uomini di stato romani dal tempo di Appio e  di Pirro? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi  non si vedrebbe neppur chiaramente la ragione, non ci  sembra dunque per nulla fondata. Sì che noi possiamo  con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in conformità dei dati tradizionali, esercita una qualche azione  tanto sulla più antica civiltà di Roma, quanto sui primi prodotti del pensiero e  dell' arte -- Chi, più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma  la conoscenza delle dottrine di Pitagora e senza dubbio ENNIO, il padre della filosofia romana. Nativo di Rudie, paese  fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, Ennio studiato a Taranto, che era il centro italico, in  cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche.  Versato nell'osco, nel latino, e nel greco, Ennio diceva scherzando di avere tre cuori. Si trova a militare  in Sardegna fra gl’ausiliari che Taranto manda -- Gellio, N. A. --  ai Romani, e quivi da Catone e invitato a recarsi a Roma.  Come si spiega tale invito? Quali vincoli si stabilirono fra  questi due uomini, destinati a sì grandi cose, che si incontrarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Sono vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune grandezza d'animo e da comuni aspirazioni? Si sono essi  già conosciuti prima, quando Catone e in Taranto ospito del pitagorico Nearco? Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda  scienza e il forte intelletto del rudino dovettero certo  colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che  alle qualità pratiche dell’uomo di stato une l’attitudine del filosofo. In virtù della sua sapienza Ennio dove apparire  al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le  antiche gesta di Roma; ed è forse per questo che Catone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria  e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dove  suggerirgli l'idea del poema, che quegli poi realmente  scrive, e per la composizione di esso ojffrirsi di agevolargli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e  promettergli tutto il suo aiuto -- il quale, e per la condizione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non apparire ad Ennio prezioso e inestimabile. Ad ENNIO d'altro  lato, piena l'anima dell'antica sapienza della sua terra, di  quella sapienza che nessuno   in somnis vidit priu' quam sam discere coepit -- Plutarco, Gaio maior, — Cicerone, Caio maior -- Annalee, (Yalmagoi)] dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di  illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al  tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza sconosciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva  sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra  di nuova civiltà alle più lontane generazioni! Venuto in Roma, Ennio vi si dedica totalmente a diffondere fra i romani colti l'amore del sapere. Ennio chiama intorno a sé,  a formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti  cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le  cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e  l'integrità del carattere, per la modestia della vita e dei  costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascoltarlo accorsero fra gli altri SCIPIONE Africano, Scipione  Nasica, Aulo Postumio Albino, Marco e Quinto Fulvio  Nobiliore, e con tali amicizie Ennio sa vivere sempre sereno, mostrando così con l'efficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e praticate sono le più atte a dare la felicità e la  pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio  Elio Stilone sole dire che Ennio fa il ritratto di sé  medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono  il vero amico – “Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter  mensam sermonesque suos rerumque suarum  comiter inpartit, magnam cum lassus diei  partem trivisset de summis rebus regundis    -- E « decemvir sacrorum » (Livio).  Consilio indù foro lato sanctoque senatu;   quo res audacter magnas parvasque iocumque  eloqueretur cuncta simul malaque et bona dictu  evomeretj si qui vellet, tutoque locaret;  quocum multa volup et gaudia clamque palamque, ingenium quoi nulla malum sententia suadet   ut faceret facinus levis aut malus ; doctus, fidelis,  suavis homo, facundus, suo contentus, beatus,  scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum  paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas quem facit et mores veteresque novosque tenentem  multorum veterum leges divomque hominumque,  prudenter qui dieta loquive tacereve posset.” In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente  pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e raccor  gliersi nella meditazione, che sa parlare con piacevolezza  e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non commette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'amicizia e servizievole contento del suo, felice, che infine  sa molte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeticamente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle  in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto  ad intenderle.  E anche possibile, come osserva acutamente Pascal, che in questi versi Ennio vuole altresì rappresentare i suoi rapporti col grande SCIPIONE, del quale si puo dire assai piu convenientemente quello che Macrobio scrive d’'Emiliano, che cioè e “vir non minus     [Gellio – “L. Aelium Stilonem dicere solitum  ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse picturamque istam  morum et ingenii ipsius Q. ENNI factam esse.” I versi sono secondo il testo dato da Valmaggi (Mìjller, Baehrens).  Antologia latina, Milano] philosopMa quam virtute praecellens -- e l'ipotesi tanto  pili è accettabile se pensiamo che Scipione e forse il migliore dei discepoli d’ENNIO, il quale lo ha in tanta  considerazione da comporre intorno a lui un poemetto  — Scipione — e da fargli dire – “A Sole exoriente supra Maeotis paludes nemo est qui factis me aequiperare queat. Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli caeli maxima porta patet.” Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre  che per la fama delle sue imprese, non lo scolge come  protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De  Repuhlica  [Di Ennio e notissimo ai Romani il sogno col quale  incominciavano gl’Annales e di cui ci sono rimasti appena alcuni frammenti insieme con le testimonianze di  Lucrezio, Cicerone, Orazio, di Persio e altri -- In Somnium Seipionis^ I, 3.   (2) Cicerone, Tusc., Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca poi,  nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione – “animus eius in  eaelum ex quo erat rediisse persuadeo rtiihi.” Vedili in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, ediz. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. e nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, Vedi  anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, e lo studio di Valmaggi pubblicato nel Bollettino di  filai, classica – Lucrezio -- Cicerone, Somn. Scip., -- Aead, -- Orazio, Ep.  -- Persio, -- Schol. in Pers. Sehol. Cruq. in  Orazio, Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep.12, p. 74 Nab.; Sergio,  ad Aen. Questo sogno che leva grande rumore nel mondo romano e di cui spesso si parla, ora con serietà filosofica,  ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale -- dove essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato  sarebbe apparso sul monte Parnasso il fantasma piangente di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno  all'ordine dell'universo, alle trasmigrazioni di ogni anima umana attraverso un proprio ciclo di vite e alla  sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma  intermedia fra l'anima e il corpo e a ricordargli le  mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte  del corpo, in un pavone e rinata appunto in lui, il   -- Pasdera, Il sogno di Scipione, Torino, Loescher, -- Persio, Prol. “Nec fonte labra prolui eaballino Nee in  bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodirem », e Schol. ad V. 21 « tangit Ennium qui dicit se vidisse  sommando in Parnaso Homerum sibi dicent em quod eius anima  in suo esset eorpore. La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di  gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno?   -- Lucrezio, “rerum naturam expandere dictis”   -- Lucrezio, “an contra nascentibus insinuetur anima” “ pecudes alias insinuet se ».  Lucrezio,  « Etsi praeterea tamen esse Acherusia  tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque permaneant aniìnae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis  palleniia miris » .  Persio, Sat. « Cor iubet hoc Enni, postquam  destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo. Tertulliano, de an., “pavum se meminit Homerus Ennio sommante » ; Hbid.  « perinde in pavo retunderetur Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus » ; cfr. eiusd. de resurrectione I,  G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10; Persio, YI, 9, e schol. ; Lattanzio in Theb. Ili, 484.  discendente del re Messapo, il poeta rudino. Tale,  press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo  non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma  altresì per l' accenno alle trasformazioni e incarnazioni  dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela spirituale dei due poeti.   Che il pavone poi, importato dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora,  ha nella filosofia mistica di questo iniziato un'importanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche —  per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stellato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime  umane -- onde l'espressione per me simbolica del fieri pavom usata da Ennio) -- opportunamente fu scelto dal  poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'anima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora.  Il fatto che il grande poema storico degli Annales,  il quale hada par te dei Romani un culto analogo a  quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomincia con tale sogno, ha grande importanza per la diffusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma. Poiché, appunto per lo studio che del poema si fa, fin     [Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393.  MuELLER, Q. Ennius Cfr. Hehn, Kulturpflanxen  und Hausthiere. Dall'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre  consimili nacque forse presso gli antichi — uno dei primi e Senofane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laerzio i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se  non satirica — l'opinione che Pitagora crede nella metempsicosi  anche animale.    nelle scuole di grammatica e di  rettorica (e per le pubbliche letture di esso, ancora in  uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo, si  dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di  Pitagora, che nel sogno si ricorda e che era poi una  delle principali di detto sistema. Difatti sono assai frequenti nella letteratura posteriore le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del  resto e forse introdotta in Roma anche per altro tramite,  sia cioè per mezzo dei misteri, nei quali si insegnano  appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pitagoriche, sia per mezzo della filosofia platonica e quella del PORTICO,  che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore  air apparire del neo-pitagorismo, e derivata almeno in  qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche  stesse.  Se nel poema di Ennio vi e altri accenni  alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi  e slegati frammenti che ce ne restano. Ma non è improbabile che, a proposito di NUMA, e non solo notate  incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa  ampiezza le somiglianze fra la sua legge ed istituzioni e  quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per la  prima volta e stata inserita in un'opera filosofica latina la notizia desunta dalla tradizione orale anteriore, che il gran re Numa ha  a maestro Pitagora -- SvETONio, de gramm.  Noctes Atticae, MuELLBB, Q. Ennius.   In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che  Ennio tratta ancora delle dottrine pitagoriche: e precisamente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più  valenti seguaci della scuola italica. Anche in questo  lavoro, il nostro scrittore finse un sogno. Nam videbar somniare med ego esse morluum” e che il filosofo Epicarmo gli comunicasse, nelle  regioni infernali, dottrine di filosofia naturale sull’origine  e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso  nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il  noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco – “terra corpus est, et mentis ignis est.” Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso dello  stesso Ennio, scrive – “animalium semen ignis qui anima  ac mens: qui caldor e caelo quod Mnc innumerahiles et  immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit:   istic est de sole sumptus isque totus mentis est.: Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaest.  epich.  Yedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie  di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in Biv. di fìlol. e di istrux.  classica^ a.-- Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51.   -- Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii all'Eneide, YI, -- De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili sg.  -- Un'altra sentenza pitagorica è quella che ricorda Cicerone (“de divin.”) a proposito dei sogni : « aliquot somnia vera inquit Ennius sed omnia  noenum necesse est.”  Ma oltre che alle opere filosofiche, le quali, hanno tarda efficacia, Ennio rivolge l'attività dell' ingegno, trasfondendovi  i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale. Senza  dire poi che l'esempio della sua vita intemerata sprona  all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili  cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Ennio si studia di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e  ad una concezione individuale delle cose, alla quale non  sono certo avvezzi i romani, educati sotto una disciplina  ferrea. Abituando le loro intelligenze alle bellezze ed alle  sottigliezze della filosofia, insegnando in privato le  dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero  le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti  ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in  se stesso, nelle profondità dell'anima, il fondamento del  proprio valore, della propria libertà e della propria felicità, da impulso a una vera rivoluzione razionalistica  nello spirito romano. Sì che fra quei valorosi soldati  e pratici legislatori comincia ad essere tenuta in conto la filosofia, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche  in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legittima, fondata su ciò che l' uomo ha di più sostanziale e  di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito. Non è improbabile che appunto per questo CATONE, il  quale, sopra tutto e innanzi tutto, vede l'interesse e il  bene dello stato romano, osteggiasse il movimento a cui ha  dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A-    [ (1) GiussANi, Letterat. romana^ Milano, Yallardi, Si veda  anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (Torino, Bocca).     - Bl -   fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé  molte ire violente e molte accuse politiche, si ritira sdegnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, sono scoperti i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai  strano, venneno molto opportunamente a confermare gli  insegnamenti pitagorici di Ennio. La notizia della scoperta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio narrava  come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei  lavori in un suo podere sul Gianicolo, ha scoperta e   [Livio, -- Sull'esilio e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi  C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica -- Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, “Ueber  die Bueeher des Numa”, negli Atti dell' Accademia di Monaco -- Nat. Eist. XIII, 84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter:  “Cassius B. Emina vetustissimus auctor annalium, quarto eorum,  libro prodidit Cn. Terentium, scribam agrum suum, in laniculo  repastinantem offendisse arcani in qua NVMA qui Romae regnavii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L. f.  Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno NVMAE colliguntur anni DXXXV, et hos fuisse a charta maiore etiam num mir acuto quod tot infossi duraverunt annis. Quapropter in  re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur alii quomodo  ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat : « Lapidem  fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis quoque versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse propterea arbitrarier tineas non tetigisse: IN HIS LIBRIS SCRIPTA ERANT PHILOSOPHIAE PYTHAGORICAE – EOSQUE COMBVSTOS A Q. PETILIO PRAETORE QVIA PHILOSOPHIA SCRIPTA ESSENT.” --  scavata la tomba del re Numa, che conteneva i libri di  lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di  carta s'erano perfettamente conservati. Ma, come spiega Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto  che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trova quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dall'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I libri stessi poi contenevano scritti di filosofìa pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso racconto fa pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Frugi, secondo il quale però detti libri erano VII di diritto pontificio e altrettanti pitagorici. XIV ano  pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano e  contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate  infine essi sono invece XXIV, XII pontificali e XII di filosofia, e non  si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in un'arca adiacente. Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi     [Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : “Hoc idem tradii O. Piso censorius primo commentari or um, sed libros VII  iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse.” (2) Plinio l. e. = H. R. rell. I, p, 142-143 P : “Tuditanus  decimo tertio Numae decretorum fuisse”   Plinio /. e. : « Libros XII fuisse ipse Varro Humanarum  antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII pontificales totidem praecepta philosophiae continents. Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R. rell. I,  p. 240-241 P. Si noti però che Peter crede (/. e. p. CC.) che  Livio cita per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio  Pisone] ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la scoperta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego  e di M. Bebio Panfilo sia la loro pronta distruzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è  possibile dubitare che il fatto e avvenuto. Senonchè la  critica piu recente si è affrettata ad affermare che essi  dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore,  fanatico dell’idee pitagoriche, in quegli anni appunto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da  Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una  grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la  tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa  dottrina era la segretezza e il mistero? E proprio un  pitagorico divulga le dottrine della sua scuola,  in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma  così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già  la tradizione ammette la filiazione degli istituti e delle  leggi religiose di Numa dal pitagorismo? Ed è poi possibile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su parere del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente scoperti, non vi e alcuno in grado di comprendere una così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i libri furono bruciati con la convinzione che essi sono quelli del re sapiente e perchè contenneno,     [V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da Agostino (De civ. dei), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto  la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1,  12), di Festo (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa,  22) e del de vir. ili. 3.  Livio osserva che questa convinzione deriva dall' opinione  diffusa che Numa e discepolo di Pitagora, opinione che   [secondo la testimonianza di Varrone la spiegazione degli  stituiti religiosi di Numa (“cur quidque in sacris fuerlt  institutum”) fondati, come quelli di tutte le religioni, su  ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione particolare della natura.   Ora, dice assai giustamente  Chaignet, questa interpretazione razionale ed umana delle credenze e delle istituzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fondamento sovrannaturale, ha certo, divulgandosi, tolta  ogni consistenza a quella religione di stato che, come  tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle  pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio)  esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede  cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pensarono il pretore urbano e il senato, che si affrettarono a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali e filosoficamente provata ed attestata 1' origine del diritto  pontificale romano, cardine e fondamento primo dello stato,  dall'occultismo pitagorico. Se pure il motivo di tale distruzione non fu quello stesso per il quale Cicerone non volle troppo approfondire la ricerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e  i piu antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-     [egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio »  (XL, 29).   (1) Pythag. et la philos. pytkag.^ Parigi, Didier, [È interessantissimo a questo proposito il passo d’Agostino (De civit. dei), il quale spiega per quali ragioni demoniache Numa compone i suoi libri e poi li fece seppellire  nella sua tomba, e il Senato li fa abbruciare. Né meno interessante è il capitolo seguente in cui si parla delle arti « idromantiche » e delle evocazioni di Numa.]  arco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso  e per ordine suo sepolti con lui. E ciò perchè, secondo  la massima pitagorica, non era bene affidare la conservazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, anziché alla sola memoria di quelli che ne sono degni. E,  forse, per questa medesima ragione i pitagorici romani  non dovettero fare molta opposizione alla proposta di  distruggere i libri stessi, gelosi come sono delle loro  dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di  scherno e di riso, se male interpretate o fraintese. Nel tempo in cui Ennio si adopera così efficacemente per introdurre in Roma l' antica sapienza della  Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e penetrano nella grande metropoli anche i culti bacchici  e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche  per gli stretti rapporti che vi sono fra le due dottrine  segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicano II senato-consulti e si istituirono tribunali (quaestiones de Bacchanalibus sacrisque noeturnis extra ordinem), che ne di-     [Sklden, nell'intro-  duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam, volendo sostenere ch.e  ogni sapienza viene dall’Oriente tre  volte rinnovata, di cui gli orientali erano i depositari, afferma invece  che Numa Pompilio e in segreto un adoratore del vero divino, che  i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua  morte sono la giustificazione della sua fede e la glorificazione del  divino d’Oriente, e che appunto per questo il Senato ne ordina la  distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di stato.    Ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto in Calabria) che ordina, fra le altre cose: Bacas vir ne-  quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini » .   mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il  violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano  pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal-  vagi culti forestieri : « contra pravìs et externis religionidus captas mentes » (1). E ben vero che queste associazioni misteriose — “clandestinae conmrationes” come dice  Livio  — e questi culti sempre perseguitati dall' ortodossia romana venneno in parte dall' Etruria e dalla Campania, ma le ricerche giudiziarie ne fa scoprire diversi focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e specialmente a Taranto, uno dei  centri d'origine del Pitagorismo. Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in  tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thiirium ci conservano l'eco di versi orfici che  sino ad ora non si conoscevano per altro che per una citazione di Proclo, neo-pitagorico. « lo     “L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia evenerat reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni  exsecutus est cura” – “L. Duronio praetori cui provincia Apulia evenera adiecta de Bacchanalibus quaestio est :  cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam priore  anno adparuerant. Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè. Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli  scavi^ e nel Journal of Hellenic Studies. Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Firenze. Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog "^sXCoio »  quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog   sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze»,  grida in uno slancio di speranza l'anima che ha « subita  tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora  « implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina  dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre  divinità dell'Ade; essa si vanta di appartenere alla loro  «razza felice», e domanda ad esse che la mandino ora  nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la parola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale! »  In questi brani, dice Gomperz, bisogna vedere  redazioni diverse d'un testo comune piti antico. Parecchie  altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, trovate nelle stesse località. Altre sono state scoperte  nell'isola di Creta e datano dall'epoca romana posterior. Tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo  sotterraneo. Ora è notevole il fatto che un cap. del  « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione negativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello  che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole. In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama  con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza     YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, richiama 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche  H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, -- Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri.  Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris, Alcan, Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull.  de corr. héll.Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism,  Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. e Brttgsoh, Steinin-schrift und Bibelwort. Y. anche Maspero, Hist. ancienne -- fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l' anima dell'orfico pretende di avere espiato « le azioni  inique » e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne deriva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le colpe che ha  saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti,  dice Gomperz, nella storia della religione e dei costumi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di quest'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe  rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le  comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale  non comune e che ci può persino sorprendere per la sua  squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non  ho allontanato il latte dalla bocca del lattante ! Non ho  reso il povero più povero! Non ho trattenuto, l'operaio  ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto ! Non  sono stato negligente! Non sono stato fiacco! Non ho  messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padrone! Non ho fatto versare lacrime a nessuno!» Ma  la morale che scaturisce da questa confessione non si è  contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli  atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto,  ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato  chi aveva sete, vestito chi era nudo! Ho dato una barca  al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi !» ET anima  giusta, dopo aver subito iiyiumerevoli prove, arriva finalmente nel coro del divino. « La mia impurità, grida piena  di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso  l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti gloriosi.... » « Yoi che mi state dinanzi aggiunge rivolta agli  dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io  uno dei vostri ! »  Nessuna meraviglia quindi che i filosofi del tempo  di ENNIO, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno,  fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.   Di Stazio Cecilio, che fa parte del collegium poetarum dell'Aventino  e abita in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano  troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del  contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però  r intimità sua col filosofo di Rudie dove esercitare un  qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della  sua arte.   Con Ennio visse pure in Roma, frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote  Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi, si ritirò poi  a Taranto. Che egli  dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre  che l'esplicita dichiarazione di Pompilio: “Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit Enni^  Emiius Musar um^ Pompilius clueor   -- i due frammenti del suo Ghryses^ nel primo dei quali  mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai  falsi sacerdoti, che anche notata Ennio: nam istis qui linguam avium intellegunt,  plusque ex alieno iecorc sapiunt^ quam ex suo,  magis audiendum quam ausoultandum eenseo; pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio  246, 9. -- Si confrontino i versi di Ennio : Sed superstitiosi vates  impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut quibus egestas  imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam. Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt’, e gli   e nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto,  pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: v   hoc vide circum supraque quod complexu continet   terram....   solisque exortu capessit candorem, oecasu nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera:   quidquid est hoe^ omnia animai format alit\ auget^ creai,   sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,   indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.  mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat. Istic est is lupiter' quem dìco quem Or acci vocant  a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber postea,  atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer denuo,  kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi,  quia mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat.   Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^ Milano.)  era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il  fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio. Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre  e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora e peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici.    Questi versi ed alcuni altri, se sono per sé poca  cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti  superstiti di questi primi filosofi di Roma, mostrano una  certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure  ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i     altri : « Qui sui quaestus causa fìctas suscitant sententias » e  « Omnes dant consilium vànum atque ad voluptatem omnia ».   (1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Varrone, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi  ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio :   (2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).   versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che  si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici  greci, nonché il suo concetto della virtu, come non  pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne  sia stato r influsso — quando leggiamo sentenze come  queste di Sesto Turpili, l’una che  ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei desiderii. “Profecto ut quisque minimo contentus fuit ita fortunatam vitam vixit maxime ut philosopki aiunt isti^ quibus quidvis sat est -- e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere :   Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est sapientia.  Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti  di questo poeta (200 versi appena), avessero badato piu  al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una  raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi     [V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le note.   (2) Pascal (p. 42) : “nam si a me regnum Fortuna atque  opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut quem-  eumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas ingenium infirmai bonum ?    (3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl pkilosophi...  isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il filosofo, imitatore di Monandro, ha alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo  quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo,  di cui Gellio {N. a. IV, il) puo scrivere: mediae comoediae proprium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio ».   (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum iter.,  che forse può intendersi in senso proprio, non traslato.   e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugualmente notevoli e significativi.   Così veramente notevoli sono le sentenze di comici  ignoti citate dal Pascal, che certo non sarebbero fuor  di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono  motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pitagorismo quanto di altri sistemi posteriori. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus. Non est beatus esse se qui non putat. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit.  Quod vult habet qui velie quod satis est potest. In nullum avarus bonus est in se pessimus. Ab alio expectes alteri quod feceris. Beneficia in volgus eum largiri institueris  perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. Quid ? tu non intellegis   tantum te adimere gratiae quantum morae  adicis ? (S)     (1) pag. 68 sg.   (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta;  esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si  tratterebbe di un altro verso, che Lachmann ricompone così :  “suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita  Att. Il, 6 ed altri, di cui Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147.   (3) pr, Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come  dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettive dello spirito o non  l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermano ripetutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer.  Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la  prima sentenza di Turpilio su citata.   (5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9.   (6) pr. Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex.  Sever. 51 : « quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei Garm.  epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod feceris».   (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62:  « benefacta male locata malefacta arbitror » .   pr. Seneca, de benef. II, 5, 2. Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti:   Felicitas est quam vocant sapientiam. Tutare amici eausam, potis es, suscipe.  Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter.   In amici causa es, imm,o certe potior es. Iniuriarum remedium, est oblivio. Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una  certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non possono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera  e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della filosofia latina dalla ellenica è da credere  che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine  filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che i filosofi latini imitano o traduceno. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere  prettamente romane dimostra che le dottrine stesse avevano un contenuto ideale — morale specialmente — con-  sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale,  sopra ogni cosa, ha un profondo senso del giusto, che  poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi. Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10  noi potremmo certo aver notizia del Pitagorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in  Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri  di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che si  occupasse principalmente di mettere in parodia e in derisione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte-     [QuiNTiL. YI, 3, 97.   (2) Charis. V, p. 253 P.   (3) Seneca, epist.^ 94, 28.] nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro  sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo filosofo poco  o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente  libera dai pregiudizi volgari. Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena   vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda   vera putant credunt signis cor inesse in ahenis sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo  frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e  nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtu. Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum quis in versatnm quis vivimus rebus potesse,   virtus est homini seire id quod quaeque valet res. Virtus seire homini rectum utile quid sit honestum quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ;   virtus quaerendae fène^n rei seire modumque ;   virtus divitiis pretium persolvere posse ;   virtus' id dare^ quod re ipsa debètur honori ;   hostem esse atque inimicum hominum morumque malo rum,   contra defensorem hominum morumque bonorum,   magnifècare hos, his bene velle his vivere amicum ;   commoda praeterea patriai prima putare deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra. (1)     (1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13.  (1) fr. 119 del Bàhr. = Latt. VI, 5, 2.    D’Agostino (ci è stato conservato, dell'opera Yarroniana De gente populi romani un passo per  noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt esse  in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav  Graeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL ut idem corpus et eadem anima j quae fuerint coniuncta  in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in coniunetionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano  nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano  persino il compimento nello spazio di quattrocento e quaranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed  astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi di  caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma col decadere dei culti ufficiali e l'in-     [De civitaie dei, XXII, 28.] filtrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dall'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello  stato. Poiché, come dice Pascal in un suo geniale e  interessante studio, svolgendo in particolare la dottrina  della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metempsicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro  particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute  nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di conoscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi  umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini,  dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per  mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente  svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da  rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire  di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente seguire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque,  aggiunge Pascal, « un tentativo di giustificazione scientifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica,  della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse  regolata dall' astro che lo aveva visto nascere. Strani  davvero questi filosofi che si sforzano di ribadire  con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche  le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto  bene nel loro proposito da far sentire a Favorino il bisogno di abbattere con una confutazione sistematica il loro edifizio logico, ancora saldo sulle sue basi   [La resurrezione della carne nel mondo pagano, in Atene e  Roma, e in Fatti e leggende di Roma antica, Firenze, -- AULO Gellio, Noct. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente  il discorso di Favorino a più di due secoli di distanza! Io in verità non posso acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mondano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argomenti che Pascal porta a sostegno della sua affermazione  mi inducono piuttosto a credere il contrario e cioè che  l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco-italico-romana e da, questa passasse poi al volgo per  mezzo dei responsi sibillini e dei poeti che l'accolsero  e la diffusero per il popolo. Di più, un'altra credenza  notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci:  la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano dovesse  essere il Sole od Apollo che avrebbe bruciato l'universo e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini  rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm.  I, 2) invoca perchè venisse a redimere l'umanità dal  peccato. Tandem venias precamur^  ISube candentes umeros amictus  Augur Apollo.  Così Cicerone ci parla nel De divin. II, 46, 97 di un' altra  scuola di astrologi per la quale 1'estensione di tempo era molto  maggiore, e cioè di 470000 anni !   (2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre-  detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ».   Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI,  748-751; Ovidio, Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg.   Servio nel commento al v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta  il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo :  “Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus fdistin-  guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde  lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt  Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa  ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il Lobeck, Aglaophamus^ pag. 791 sgg.   La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione dell'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabilmente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da  alcuno come reale ed effettiva — furono dunque due  concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più  precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sappiamo quanta parte e che profonda significazione avesse  il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere  stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo,  e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole  attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così immaginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così credenzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi  più elevata e razionale, a una creazione veramente intellettuale e FILOSOFICA, che, passando dai dotti agli indotti,  dai sapienti agi' ignoranti, si materializza e degenera dall'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto  parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni  realistiche e concrete?  In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane  deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in Roma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi  e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze,  aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero,  come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro popolare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci  del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro     [Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82  d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche  terapeuta od esseno.  dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti  col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente  in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole,  per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sapienza loro tramandata attraverso tante generazioni.   Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filosofìa di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai  estinta come complesso di teorie e d'insegnamenti pratici  ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente,  del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e  amicissimo di CICERONE. Il quale appunto nel proemio del  Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P.  Nigidio FIGULO: « Fuit vir ille cum ceteris artihus, quae  « quidem dignae libero essente ornatus omnibus^ tum acer  « investigator et diUgens earum rerum quae a natura invo-  « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico  « post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta  « est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » .   Senatore, pretoro, legato in Asia, e infine esiliato da C.  Griulio Cesare, forse non soltanto,mper  aver seguita la causa di Pompeo. (2).     (1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia  di questa sua legazione con le parole : « Nigidius, eum. me  in Gilieiatn profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex legatìone ipse decedens.” SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45  a. C. : « Nigidius Figulus Pythagoricus et MAGVS in exsilio moritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come  nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre,  il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei) parlando  di Nigidio, lo chiama « mathematicus ».   Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone,  e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti  dei suoi scritti, pure sappiamo che FIGULO scrive molto e  con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruseria », come dice il Giussani, cioè oltrepassava quel limite  al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non vedono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam-  MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maximus rerum naturaUum indagator », e lo stesso Macrobio  [Sat. YI, 8) lo dice « homo omnium bonàrum artlum di-  scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto,  lo giudica acuto e diligente studioso dei più involuti fenomeni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli  studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo,  quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. AGOSTINO lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e  mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto  mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso  SvETONio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta  come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nacque, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Catilina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente,  essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Mgidio, conosciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, afferma  che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la terra. Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto     [Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889.   (2) Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230.   (3) SvETON., Aug. 94: “a quo natus est die, cuni de Catilinae coniuratione ageretur iti Curia et Octavius ab uxDris puerperium  serius adfuisset, nota ac vulgata est res P. Nigidium comperta     — si-  che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionb Cassio  (1. XLY, cap. T), alle elucubrazioni astrologiche di Nigidio. Apuleio a sua volta riferisce di aver letto in  Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte  somma di denaro, anda da Nìgidio per consultarlo e questi,  per mezzo di fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed  incantesimi (Carmine) ossia, coma oggi si direbbe, ipnotizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era  stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le  altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai  fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte  conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un  viaggio in oriente? Non sappiamo, sebbene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella  Grecia impara che la terra si muove con la velocità della  ruota di un vasaio (2).     – “morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù  num terrarum orbi natum.” (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me ajìud Varronem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum,  eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum  quingenios denarium perdidisset ad Nigidium consultum, venisse;  ab eo pueros cannine instinctos indicavisse ubi locorum defossa  esset crumena cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum  etiam denarium^ ex eo numero habere CATONEM philosophum^ quem  se a pedissequo in stipem Apollinis accepisse Caio confessus est ».   Ciò si desume da una nota del Commentum a Lucano dove è detto che Nigidio ha il soprannome di Figulo perchè « regressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae  figuli torqueri.” Del soprannome altri davano una ragione un po'  diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così  spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo     [Quanto alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora  che usava una dieta assai parca, possiamo dire che  furono molte e di varia natura. Nigidio scrive di filosofia,  di astrologia e anche di filologia. Di lui si ricorda  un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto  dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli  dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo  accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei  penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'Inferi e quelli degli uomini, cioè, probabilmente, gli spiriti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' occultismo) ed umani. Perchè di quest'opera ci  restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il grammatico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius  solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theologia^ Me in eommunihus litteriSy nam uterque utrumque  scripserunt » . La luce di Varrone dunque oscura quella  di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto,  come dice lo Swoboda, dagli investigatori della dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90), Gellio,  N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e S.  Agostino 1. e.   (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius : nos ìpsi ieiunìa ientaeulis levibus solvimus.   Egli sostenne, come ci attesta Gellio N. J.., X, 4, CHE IL LINGUAGGIO E D’ORIGINE NATURALE E NON CONVENZIONALE. Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni-  gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas sequens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^  alios Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos.,  inexplicable nescio quid dieens » .   (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quaestiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p. 25, ] più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone,  uomo assai dotto. Di  Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divinazione per mezzo delle viscere e intorno ai sogni,  una Sphaera graecanica e una Sphaera barbarica,  un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi interamente perduti.  Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da  Gellio (N. a.) il quale ci fa sapere precisamente che mentre le opere di Varrone erano lette e conosciute da tutti « Nigidianae commentationes non proinde  in vulgus exibant et obscuritas subUlitasque earum tamquam parum utilis derelicta est » . Dunque gli scritti di  Nigidio hanno un carattere piuttosto riservato e segreto,  sono poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E  che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-  bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata?  dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle  stesse dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla diffusione  delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo  della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva e all'infinito numero di profezie, di predizioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente annunziavano  l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen-  siamo che fu questa appunto l'età nella quale,     (1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port,  dell'anno 1877.   (2) Gellio, N. A. XVI, 6, 12.   (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm.   (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.   (5) Serv. ad Qeory. I, 19.    [in Roma fece la sua apparizione  la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redivivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'imperatori, non può esservi alcun dubbio. Se Figulo e costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici  le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze  nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ha molte  noie) ; se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, i Sestii, che sono ugualmente perseguitati; le  vecchie dottrine di Pitagora andano tuttavia sempre più  diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà  di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono finalmente abbandonare in gran parte la segretezza e il mistero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui  si servivano prima. LUCANO nella sua “Farsaglia” riferisce una  oscura predizione di Nigidio, che com'egli dice, si studia di conoscere il divino e i segreti del cielo e in queste conoscenze astrologiche e superiore ai sapienti dell'Egizia  Menfi – “At Figulus, cui cura deos secret ac/ue caeli  nosse fuit quem non stellarum Aegyptia Memphis  acquar et visu numerisque moventibus astra aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum  mundus et incerto discurrunt sidera motu :  aut, si fata 7novent, orbi generique paratur  humano maturalues  Nigidio predice dunque alla terra e agli uomini un vicino  flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con  lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente  pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi  migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del  mondo, su cui l'aquila di Roma anda stendendo e allargando sempre più le sue ali insanguinate, erano assai tristi. Ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise  talvolta per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa  senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabilmente certa.   Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di  Cicerone, con Nigidio Figulo si inizia in Roma un vero  e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora  in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'antica disciplina italica.   Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali  non solamente accennano a una vera e propria scuola, a  un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in modo,  che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio  stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse  tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato  amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo  di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè vagliarle troppo, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori  dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli  scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio  queste notevolissime notizie. “Fuit autem illis temporibus NIGIDIUS quidam vir doctrina et eruditione studiorum praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iactiabatnr, qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari vellent.”    l(1) V. tomo V, part. 2, p. 317 delI'Orelli.   -- A altrove si dice di un tale che € ablit  “in sodalicium sacrilegii Nigidiani.” In casa sua dunqae  Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai  misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedicano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlataneria di quel Vatinio, che, volendo farsi credere pitagorico  e dottissimo, fa evocazioni di morti e si abbandona  a nefandità d'ogni genere. E questi convegni finirono  col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi  furono degli ohtrectatoreSy i quali andavano sussurrando  qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega;  le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto minore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi,  furono forse un ottimo pretesto per legittimare l'allontanamento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra  repubblicana. Che poi il tentativo di NIGIDIO ha un  carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico-  stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza  sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova  felicità umana, è cosa più che probabile, ma non certissima. E così il sapientissimo mago, il maestro pitago-    [PsEUD. CicER. in Sali.]   – “Tu qui te Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni  nomen tuis immanibus et barbar is moribus praetendere cum  inaudita ac nefaria saera susceperis eum infernrum animas elicere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas » Cicesone,  in Vatinium. Dal che si può vedere, sia detto incidentalmente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna!   V. quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii Pascal. Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica (Riv. d'I-  talia, Fatti e leggende, Firenze,  Le Monnier).  rico, il matematico P. Nigidio muore nell'esilio, nel tempo stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di ottenerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma dove  essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacrilego Figulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e  quelli ch'egli ha più cari ne parlassero con ammirazione  e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lascia troppo  commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che  in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica  (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello  Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte  agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.  Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente conservataci, nella quale Cicerone, dando notizia all' esiliato  delle pratiche ch'egli fa indirettamente presso Giulio Cesare  e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a ottenergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera  espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero  che la riferissimo per intero. Basti accennare tut-  tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni  omnium doctissimo et sanctissimo et maxima quondam  gratta e suo amicissimo, e che accingendosi a conso-     [È la lettera 13* del quarto libro Ad familiars. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere primum ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum ad salutem  tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' amicizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo  ritorno ; poiché in realtà il filosofo e lasciato morire in  esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — « familiares  eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt,  mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit eodem  vulgi voluntas vel potius consensus omnium » !]  larlo crede opportuno di premettere : « at ea quidem facultas vel tui vel alterius consolandi in te summa est si  umquam in ullo fuit.” Cosicché, “eam partem quae ab exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non  attingam: tibi totani relinquam -- e concliiudendo termina  col pregarlo “animo ut maximo sis nec ea solum memineris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed illa etiam,  quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges et  sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt,  sapienter feres. Sed haec tu melius vel optime omnium.” Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole  si ricordano i versi citati della “Farsaglia”, e se si pensa  ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente  ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, possiamo formarci un'idea approssimativa del genere di dottrina e di conoscenze che ha e di cui si fa maestro:  il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divinazione (quella che oggi si dice chiaroveggenza) in tutte  le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in  un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che  fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di  tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a  poco a poco caddero nell'oblio.  E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi  seguaci? Probabilmente non si dispersero e continuarono  a riunirsi. Tanto piu che non manca certo fra loro chi  potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la  sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo,  ci fu in Roma un'ALTRA setta, ch'io non dubito punto fosse  continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi  insegnamenti: voglio alludere alla “Sextiorum nova et  romani rohoris seda » la quale però « Inter initia sua,  quum magno impetu coepisset, extincta est » Decisamente i tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a  certa filosofia! E in verità non potevano essere molti quelli  che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle  speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della  nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi divertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia  di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate! Cosicché gli sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richiamare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e  più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco  duraturi.   Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le  notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma sufficienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corruzione, come uomini desiderosi piu delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della  scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini  infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto  maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio. Del primo di essi, di nome Quinto, parla specialmente,  e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione,  il più grande dei moralisti romani, SENECA, in quelle sue  mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza  e così degne d'essere studiate e meditate più che non  siano! In una di queste, la novantottesima, volendo Seneca provare al suo alunno Lucilio che spesso molti disprezzarono quei  beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli  esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il     [ Seneca, Quaest. nat. cap. ultimo.] padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere  un giorno governare la cosa pubblica, rifiuta persino la  carioa di senatore, offertagli da Giulio Cesare. Poiché egli  non annette alcuna importanza ai pubblici onori, ritenendoli, come sono, troppo incerti e transitory. Una  rinunzia di questo genere non e certamente cosa che  tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate  ambizioni ; e tanto meno poi per ragioni filosofiche! Ma  tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno  visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero,  che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù,  che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse liberamente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di  latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza; per la quale e acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,  progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desiderio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi. Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ricchezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene,  ripete quanto fa il filosofo Democrito, il quale,  avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio,  prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive  faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon     [€ Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut rempuhlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non recepii; intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse.” Plutarco, « Del modo di conoscere i propri progressi nella  virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg  èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv  aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t,  dXtyow Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ». mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta realmente la carestia, restituì ai primi proprietarii la merce  acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe  stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto. Ma che uomo era Sestio! Che scrittore vigoroso e ardito,  e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in  cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun  vigore perchè non ne hanno! A leggere Sestio — son parole di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore,  uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti  sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato  d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la  fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi ostacolo! Poiché Quinto Sestio ha questo grande merito, che, pur  mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non  ti fa disperare di raggiungerla. Quinto Sestio la mette bensì molto  in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conquistare, sì che ammirandola tu speri. Quale più alta lode     [Plinio, Naturalts Historia: “Ferun  Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli  societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium,  praevista ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum  vìlitate propter spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum,  mirantibus qui paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant  in primis cordi esse. Atque ut apparuit causa, et ingens divitia-  rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum, poe-  nitentiae, contentwm ita probasse opes sibi in facili, quum vellet,  fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus Atkenis  fecit eadem ratione.”   (2) Seneca, Epistola – “Lectus est deinde liber Quinti  Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et, licet neget.  Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc  non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta clarum] per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da  Seneca ?   E i suoi insegnamenti poi quanto erano sentiti e pro-  fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu persuadere un uomo della bruttezza dell'ira? egli ammaestrava:  portalo, mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che  vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a  quel modo anche l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed  agitata ne sarebbe atterrito. Della onestà e della virtù  egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo   habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu-  tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni  legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est,  dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione  mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro-  vocare, libet exelamare : Quid eessas, Fortuna? congredere! para-  tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiaiuT,  ubi virtutem suam ostendat,   Spumantemque davi pecora inter inertia votis  Optai aprum, aut fulvum descendere monte leonem.   Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia exereear.  Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet Ubi  beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet. Seies  illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn virtus  tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres.” Seneca, De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait  Sextius iratis profuit aspexisse speculum; perturbavit illos tanta  mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se,  et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa  reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere pos-  set., intuentes nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et  distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per  ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis : quid si nudus o-  stenderetur ? et e. onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che  per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto  il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice  quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi  la felicità umana e la divina differenza se non di durata.  Ond'è che egji potè veramente additare ai volonterosi il  bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta  alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for-  tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di  popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa,  persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi  la mano. . . . (1).     (1) Seneca, Epistola LXXIII: “Solebat Sextìus dicere^ « lovem  plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae '  praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-  cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re-  gendi gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque  navigium est. lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus  est. Sapiens nihilo se minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio  breviore clauduntur. Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui  senior decessiti non est beatior <?o, euius intra pauciores annos  terminata virtus est : sìe Deus non vincit sapiente ut felicitate^  etiam, si vincit aetate. Non est virtus maior^ quae longior. lupi-  ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum hie  unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est: sapiens tam  aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et hoc  se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens non  vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et  clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,  secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;  admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem  ad deos ire? Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in  hom.'ines venit. Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo-  ribus kumanis divina dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.” Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero suscitatrice di virtù, era la nota caratteristica di  Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofa scrivendo con gravità romana, e che paragona l'uomo  sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo,  a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e  pronto alla battaglia. Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per  esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio,   simìlia origini prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur-  gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne-  cat, ac deinde creai purganienta prò frugihus » .   (1) Seneca, Epistola – “Sextium ecce quam maxiìne lego^  virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus philosophantem.  Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exercitum^  ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^  inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique expan-  dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia  sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod in  exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^  ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae,  ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ;  hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim  saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque illi iter, quod  suspeetissimum fuit. Nihil siultitia pacatum habet ; tam superne  UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur  pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^ et ipsis  terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus  est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si ignomi-  nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus et  contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante  diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati  sumus, sed infecti ».   (2) Nel De illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che « ad  Q. Sextii philosophi sectam transiisse dicitur ^ . Alcuni codici  però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.] questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli  col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua  vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sorgere quella « romani rohoris seda » , di cui abbiamo fatto  già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia dei  seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria,  che fu maestro anche di Seneca, Cornelio Gelso,    [Dì lui parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24.  Vedi anche Gellio, èi. A., I, 8. Nella interessante epistola, Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice come oltre all'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai funghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri,  aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e  ciò per gli insegnamenti di Soxione che dimostrava la inutilità e  i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pitagora e di QUINTO SESTIO, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per intero il passo di Seneca, che suona così : « Quonìam coepi Ubi ex-  ponere quantum maior impetu ad philosophiam iuvenis aeeesse-  rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi amorem  Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus ab-  siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^ sed   uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-   posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,  aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse  quam dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut  aqua m,ersis illum quondam hominis animum morari? Non cre-  dis nihil perire in hoc mundo, sed anulare regionem? nec tantum  caelestia per eertos circuitus verti, sed ammalia quoque per vices  ire., et animos per orbem agi ? Magtii ista crediderunt viri. Ita-  que iudicium quidetn tuum sustine: ceterum omnia tibi integra  serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innoeentia est.,  si falsa frugalUas est. Quod istic credulitatis tuae àamnum est ?  Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio. His instinstus abstinere  animalibus coepi., et anno peracio non tantum facilis erat m,ihi  consuetudo., sed dulcis... »   [Quintiliano, Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa  Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine cultu ae nitore.”]   Papirio Fabiano, Moderato di Cadice, ed altri.   I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due. Il primo  quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al  tempo di Ottaviano e anche di Cesare, se, come dice Seneca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante », e avrebbe  pure, secondo il surriferito passo di Plinio dimorato,  non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene. L’altro QUINTO SESTIO, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che prosegue l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a  torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome  di Sesto pitagorico, della cui vita infine non sappiamo  assolutamente nulla.   Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi?     [Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Controversie^ prefaz.   Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, e famoso per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei numeri, e maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv.  Vili, 7) e scrive un'opera voluminosa intorno alla dottrina pitagorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33 ed. Nauck; Stefano Bizantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio, Vita di  Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III.   (3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico.,  che fiorì ai tempi d'Ottaviano, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade  195. 1 = 1 d. C). (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10.   (5) Vedile nella collezione del Mìjllach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e  voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di  esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.),  anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie  der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg]  Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se,  come riferisce Claudiano Mamerte spiegarono che l'a-nima è una certa forza incorporea, ilìocale e inafferrabile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene il corpo. Ma questo evidentemente è troppo poco per  determinare a che scuola essi appartennero. E ben vero  che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epistola LXIY) che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio era un filosofo del PORTICO; ma quel « volere o no » ci fa comprendere che in realtà Sestio non si professa un filosofo del PORTICO. E infatti  qualche altra testimonianza lo dice pitagorico, e tale lo  proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimostrate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune  abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni  giorno l'esame di coscienza e quella di astenersi dai  cibi carnei, l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei  seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima  è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora,     [De statu anirnae, II, 8 : « ... Eomanos etiam eosdemque  philosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater^ Sextius fìlius  propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati  sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft . Incor-  poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque indeprehensa  vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et continet-» .   Y. pag. preced., nota 3. .   Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc  Sextius ut consuniTnato die^ quum se ad noeturnam qutetem. re-  cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum  sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? » .   A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca riportata  nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Origene, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che  suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più  conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non  già del nostro Sestio.     — escori la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno astrusi. “Gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri  «alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della carne; si deve dunque ridurre al minimo ciò che può alimentar la lussuria e conclude dicendo che la  varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per  i nostri corpi. Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii  non furono ne filosofi del PORTICO ne pitagorici, ma ebbero un proprio  sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di  elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non e ne  inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici dell'ultima maniera) né materialista -- come i filosofi del Giardino --, sibbene  avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara  luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su  opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo insomma,  che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'oziosa occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria  forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò appunto destinato a raccogliere pochi seguaci e a vivere per  tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di corruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la  grande Roma nel trapasso dalla repubblica al principato.     [Seneca, Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimentorum eitra sanguinem esse eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi-  nem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta laceratio. Adiciebat  contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat bonae valetudini  contraria esse alimenta varia et nostris aliena eorporibus ».    Poiché si è visto come, dopo NIGIDIO, i Sestii cercano di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non  sarà certo inutile indagare quali tracce esso lascia di  sé nella filosofia romana,  siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o semplici notizie incidentali. Così infatti potremo non solo farci  un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel   tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chiarirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in  luce gli aspetti più notevoli.   Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze  religiose e i più diversi sistemi di filosofìa affluendo in  Roma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia  e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per vicendevole  influsso, non è facile sceverare e seguire uno per  uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che,  come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo  avuto larga diffusione e gran numero di seguaci, trasmisero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche  posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci permette almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori  latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa esplicita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei  luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine  e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per  concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di  Samo.   Incominceremo pertanto dal poema di LUCREZIO, che  e, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elaborazione poetica in lingua latina di un sistema filosofico precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi  di esporre in versi dottrine di filosofi  sono bensì  stati fatti da APPIO Claudio, da ENNIO, da qualche altro,  ma per brevi trattazioni. Sì che Lucrezio — pur conscio  della grandezza del cantore degli Annales — puo ben affermare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare  di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e dell’Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla  profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, la speculazione.  Il “Della Natura” infatti non solo espone con  ordine sistematico la complessa dottrina de la filosofia dell’Orto intorno air essere delle cose in generale, all' infinità dell'universo, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, composizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensazioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo  e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni  meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano  piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,  le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e  combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni possibili degli avversari.   Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora  su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e  distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che  noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica,  per vedere se e quanto in essa il filosofo – come rappresentante dell’Orto -- h tenuto conto delle dottrine di Pitagora.  Ora, su due punti essenzialmente LUCREZIO discute  e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal  suo. Sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a  proposito della prima combatte e confuta esplicitamente,  nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo  di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né  qui ne in altra parte dei poema. Ma ciò non toglie che  un attento esame del “De rerum natura” stesso non ci permetta di  scoprire dove e quando, pur senza dirlo, LUCREZIO pensi  a combattere i principii della filosofia pitagorica,  È ben nota, in verità, la disistima che la filosofia dell’ORTO ha  per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci escludere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì,  per un sistema che studia e rappresenta sotto  l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche matematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però possiamo escludere a priori soltanto questo: che i filosofi dell’orto tenesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola  italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo studio del “De rerum natura” di Lucrezio conferma senz' altro questa  induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica  dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e lo  svolgimento dei principii intorno al mondo e alla  materia, e la teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi accenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche.   Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero  e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima  e il dividno), e quanto all'anima, pur considerando anche di  questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano soprattutto il concetto della sua eternità. Non mai nata,  perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immortale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (metempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di  Pitagora dove pure essere tenuta in qualche considerazione dall’Orto, se scopo fondamentale della sua speculazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce  r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello  del divino, e se, per vincere il primo, difese con tutte le  armi della logica il principio della materialità e della  mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran parte  alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le speculazioni del PORTICO intorno alla origine divina e all'immortalità dell' anima? E la filosofia pitagorica non si uniforma forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate superstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffuse  credenze religiose degli uomini?   Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione  teorica dei suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, accettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1' appli  cazione al mondo fisico, l’estendesse, come fece realmente,  al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d' un  aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza  della mortalità dell' anima o, più precisamente, del necessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo.  Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat-  tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui,  dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e  dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo,  l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre-  denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione,  dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da  poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava  ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi  corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter-  rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsicosi. E per di più questa credenza, anche nei termini  strettamente epicurei, poteva in un certo senso apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità  del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli  atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile  il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ricreasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima anima. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende  che l’Orto dovessero esaminarla anche al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne  le loro conseguenze in rapporto alle due questioni dell'eternità dell'anima e del timore della morte.   Tanto ciò è vero, che Lucrezio svolge appunto in modo ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione  polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima  e la vanità del temere la morte. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte  del poema che si riallaccia così strettamente con la dottrina pitagorica, è necessario premettere che già al principio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proemio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia  della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze  e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale  che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema  epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dall' animo  umano il timore della morte.   E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che  ad esso si collega del famoso sogno di ENNIO, ha pure  importanza per il nostro tema.   Per rassicurare infatti MEMMIO — al quale Lucrezio dedica “De rerum natura”  — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina  epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lucrezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli  uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio  d’Ifigenia in Aulide. E poi soggiunge che,  vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner  sempre quell' altro timore, che è alimentato dalle spaventose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e  da apparizioni, e trova la sua ragion d' essere nell' igno-  ranza umana intorno alla vera natura dell' anima. Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme  con la natura delle cose celesti, degli dei e della materia — anche il problema dell' essenza dell' anima e della  natura dei sogni e delle visioni. E precisamente nei questi versi si accenna in par-  ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e  intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:  Ignoratur enim quae sii natura animai,   nata sit^ an cantra nascentihus insinuetur^  et simul intereat nobiscum morte dir empia, an tenehras Orci visat vastasque lacunas^  an pecudes alias divinitus insinuet se,  Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno  detulit ex Helicone perenni fronde coronam,  per gentis Italas kominuìu quae darà clueret\   120 etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia  Ennius aeternis exponit versibus edens^  quo ncque permanentanimae ncque corpora nostra^  sed quaedam simulacra modis pallentia miris;  unde sibi exortam semper fiorentis Homeri   125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas  coepisse et rerum naturam expandere diciis. Quanto all' origine dell' anima, l’Orto sostene che  essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata  già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra     [Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta  dal Gobel (permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più  ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so vedere in qual modo tale correzione urti, come dice Giussani, con-  tro il senso di permanare. In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi  attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum na-  tura, Torino, Loescher,     nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava  al morire del corpo le opinioni invece erano tre: l'epicu-  rea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi  corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la  popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne [te-  nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che  passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pecudes alias divinitus insinuet se ). Le due ultime però  non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap-  punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur  esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza  dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen-  deva non già l'anima (questa passava — subito? — in  altri corpi), ma un' ombra, come a dire un doppio, del-  l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisamente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno —  doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a-  mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose.   E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina  psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri  filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di  Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e  lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della  metempsicosi. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che  fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire  della concezione dell' anima- armonia?     La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lucrezio compose verosimilmente questa parte del proemio del primo  libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito  la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5). È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac-  cingersi a determinare la natura materiale - atomica dell' anima nelle sue due distinzioni dì animus od anima.,  confuta una dottrina • — certo ancor diffusa ai suoi gior-  ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne-  gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea,  ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe-  cie di armonia delle funzioni organiche :   98 sensum aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^   vermn habitum quendam vitalem corporis esse^   100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat nus  vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens :  ut bona saepe valetudo eum dicitur esse  corporis, et non est tamen haec pars ulta valentis,  sic animi sensum non certa parte reponunt.   Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot-  trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era  tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne-  cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe-  cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato  e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale  concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli     (1) Platone, Fedone e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del-  Vanima^ I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e  difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e  DiCEARCo di Messina (Cicerone, ibidem^ I, 20).   La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea  (Diog. Laerzio): ma che debba riconoscersi anche come  propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo  Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi  la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate pitagoreo  la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).   qui da Lucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel  dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso  si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro  della metempsicosi, ossia con il concetto della preesistenza  e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana dun-  que dei versi 131-135:   ... recide harmoniai  fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi  — sive aliunde ipsi porro traxere et in illam  trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat -  quid quid id est habeant. .   — come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era-  no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro  quella interpretazione e limitazione materialistica di essa,  per cui r anima era ridotta a semplice funzione del corpo.  Ed è ben naturale che — così limitata e interpretata — la  combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i  materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la  negazione della essenza individuale e quindi della immor-  talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten-  za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-  riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre  tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u-  mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di     [Pell’Orto, 1' anima è bensì nativa e mortale, ma è però,  fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte  dell' essere umano — ne più ne meno di quel che ne siano parte  le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) — e localizzata  nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re-  cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel-  lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia veniva a  cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle imaccingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu-  tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una  sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi  a negarne 1' esistenza (1).   Dimostrata la materialità dell'animo, Lucrezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della  sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat-  tono il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già  del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree-  sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità  delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766,  774-781).   Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi,  e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi.   Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina  della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-  stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli  Stoici; e inoltre, come ho già osservato più volte, tale  dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre-  denza largamente diffusa nelle leggende popolari, nella  poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-     magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste  vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma non  produce essa stessa.   (1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice  appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nihil  esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^ frustraque  ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse animum  vel animam nec in bestia.” {Ttcsc.^ I, 21), e più esplicitamente  più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum  omnino animum esse dixerunt ».  segnamenti religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che  gli argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si-  curezza — non sono esclusivamente contro i Pitagorici.  Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra  il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo-  gliono, dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede  veste filosofica, e su di essa fondò 41 suo sistema dottrinario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli  altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta  epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia  ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica.  Gli argomenti che Lucrezio adduce contro 1' opinione  della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro  successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi —  dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat-  tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore  della morte.   a) Il primo argomento è desunto dalla  mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore  alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta  e quindi è entrata nel corpo al momento della nascita (2),  perche non siamo assolutamente in grado di ricordarci  del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-     [C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale  ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti-  colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in-  controvertibile esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun  uomo — Platone deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza  dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone  ì capitoli l8-22ì.   2) E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato  nel proemio al primo canto. membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima  ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà  di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non  differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere  che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo  in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).  Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della  memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le-  gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice  soltanto che — dato pure che potesse essere material-  mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del  passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità  (personalità infatti non è altro che persistere di una me-  desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per  diventare un'altra.   Praeterea si immortalis natura animai  constai et in corpus nascentibus insinuatur,   670 cur super ante actam aetatem meminisse nequimus   nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ?  nani si tanto operest animi mutata potestas,  omnis ut actarum exciderit retinentia rerum,  non, ut opinor, id a lete iam longiter errai;   675 quajjropter fateare necessest quae fuii ante   interasse, et quae nune est nunc esse creaiam.   Insomma in questi versi non si nega la possibilità che  siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-  ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-     fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come  vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice  cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan-  do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo.  stere in eterno della coscienza, che, per Epicuro, deriva  dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima.   D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del-  l'anima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo  alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa —  che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra  immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa  col corpo, vivere a sé come in una prigione. Ora, poiché  avviene proprio il contrario — e cioè 1' anima é diffusa  per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-  sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é  entrata in esso perfetta, e che, partecipando delle vicende  del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am-  messo pure che, • perfetta e in sé raccolta all'atto di en-  trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua parte  appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e  dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a  un morire per rinascere tosto altra da quella di prima.   b) Un altro argomento pare a Lucrezio di poter trarre  dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere  in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è costitui-  ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani-  ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa, potendo  frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette-  re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi  si incarnino anime preesistenti; nel qual caso, lasciando  pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove  una è partita, o esse stesse si formano il proprio corpo  dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en-  trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,  piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontaneamente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces-  sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il  ragionamento fatto precedentemente che un' anima non  può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già  formato senza snaturarsi.   720 quod si forte animus extrinsecus insinuari   vermibus et privas in corpora posse venire  eredis, nec reputas cur milia multa animarum  conveniant unde una recesserit, hoc tamen est ut  quaerendum, videatur et in discrimen agendum, utrum tandem animae venentur semina quaeque   vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint,  an quasi corporibus perfectis insinuentur .  at neque cur faciant ipsae quareve laborent  dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,   730 sollicitae volitant morbis alguque fameque:   corpus enim magis his vitiis adfine laborat,  et mala multa animus contage fungitur eius.  sed tamen his esto quamvis facere utile corpus  cui subeant: at qua possint via nulla videtur.   735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus,   nec tamen est uiqui perfectis insinuentur  corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse  conexae, neque consensus contagia fient.   c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem-  psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregrinazioni,  un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o  quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per  modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e  colombe feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole  specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei  caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi,  questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe  molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mutando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non  rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore  per rinascere un'altra: Dejiiqiie cur acris violentia triste leonum  740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga cervi»   a patribus datur et patribus pavor incitai artus^  et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris  ex ineunte aevo, generascunt ingenìoque,  si non, certa suo quia serrane seminioque vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ?   quod si immortalis foret et mutare soler et  corpora, permixtis anirnantes moribus essent,  eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe  cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras  750 aeris accipiter fugiens veniente columba,   desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum.  illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt  immortalem animam mutato corpore flecti :  quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo.   Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo  entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima  umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi-  ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di  [Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni  deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini  della specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui-  scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu-  crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può  dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira,  sono errate per confusione della metempsicosi pitagorica con  quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono  spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al passaggio dell'ani-  ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la  testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fasaggia che era, diventare sciocca, dal momento che non  s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu-  ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men-  te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora  dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in  tal modo la vita e il sentimento di prima:   Sin animas hominum dicent in corpora sem,per  ire humana, tamen quaerain cur e sapienti  760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus,   762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ?   scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem  confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst  765 mortalem esse animam, quoniam mutata per artus   tcmto opere amittit vitam sensumque priorem.   d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore  umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la  preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo  ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad  ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in  numero innumerevole, immortali aspettino membra mor-  tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza  riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto  che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi non  ci sia fra loro nessuna lotta violenta:   Denique conubia ad Veneris partusque ferarum  llb esse animas praesto deridieulum esse videtur,   expeetare immortalis niortalia membra  innumero numero, ceriareque praeproperanter     cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa  anche dire d'essere divenuta un pavone (« pavone » qui significa  « cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la  dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide.  inter se quae prima potissimaque insinuetur ;  si non forte ita sunt animarum foedera pacta,  780 ut, quae prima volans advenerit, insinuetur   prima, neque inter se contendant virihus hilum.   Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle credenze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in  quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo-  stra la vanità del timore della morte, è formulata l' ipo-  tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede-  simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno identificata  con l’analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi,  dobbiamo esaminare anche questo passo.   Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della  mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima  conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla. Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca-  duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra  non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per-  chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima  (e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia-  mo solo per l'intima unione di entrambi, non esisteremo  e quindi non sentiremo più. E giunto a  questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi,  come infatti, sembra, si fermò in una prima redazione  del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione  i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi,  tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la  suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare. Accetto senz' altro le conclusioni di Giussani, sì per l' interpretazione, sì per la composizione di tutto que-  sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci-  tata, voi. Ili, pp. 106-107.   Poiché in essa è detto anzitutto che se pura, dopo  avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di sentire,  anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi,  che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in  un'esistenza unica (vv. 841-844).   La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta staccata  dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha  detto precedentemente, che non era assolutamente ammis-  sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste,  consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame  tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato-  mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.   Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più  poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto —  come la precedente — con la dottrina epicurea ; l'ipotesi  cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del  nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso però  la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione  della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo-  tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in  questo modo :  [Giussani crede di poter sostenere che l'ipotesi,  per quanto strana, non è però in contraddizione assoluta — in astratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non  sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia  formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina  d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi-  stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal  corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori  del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata  l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio-  ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione  per absurdum.   845 iVec, si materiem nostram collegerit aetas   post ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est,  atque iterum nobis fuerint data lumina vitac,  pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum,  interrupta semel cum, sit repetentia nostri;   850 et nune nil ad nos de nobis attinet, ante   qui fuimus, neque iain de illis nos adficit angor,  nam cum respicias immensi temporis omne  praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai  multimodis quam sint, facile hoc adcredere possis,   855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta   haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse :  nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente :  inter enim iectast vitai pausa, vageque  deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes.   Ora a prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire  identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove  si fa pur cenno della interruzione della coscienza. Tanto  che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu-  sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che  nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la medesima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente  dalla dottrina della palingenesi universale che era propria  dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si  tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si  parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi,  e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi  dell'identica anima e dell'identico corpo (nell' un caso e  neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso-  nalità), qui invece si considera il caso di una duplice     (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre-  zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei  XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III.  creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi,  cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden-  tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della  teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è  un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for-  mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro.   7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve-  duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi-  nioni intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma  risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di  Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa nasce e si distrug-  ge col corpo, ma ha una propria ubicazione nell'organi-  smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto,  caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-  rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade,  donde può uscire per apparire agli uomini (credenza  popolare); 4^) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma  è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia-  mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia-  mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in  modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol-  teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana);  h) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze,  ma entro i limiti della propria specie e conservando la  propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica);  e) l'anima può bensì rinascere, magari nell'identico corpo.     [L'ha posta con molta sottigliezza Giussani. Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto Pascal nel suo saggio “Morte e resurrezione in Lucrezio” Riv. di Filologia classica, ristam-  pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti.  senza però conservare la propria identità personale (ipo-  tesi (1) epicurea-lucreziana).   La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup-  pata, poiché vi era chi sosteneva che l' anima potesse  bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece  che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in atti-  nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se-  condo la quale non pur l' anima e il corpo umano anda-  vano soggetti a periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni-  verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico  (pitagorici, stoici e genetliaci).   Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza  nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se  anche l'anima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio  (eidolon, simulacrum) che poteva anche riuscirne (e ve-  rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima tornava  a nuova vita terrena) (Ennio).   Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo  veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi:  1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2") nella  confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel  terzo libro; e che non debbono ritenersi affatto come riferi-  menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima-  armonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della rinascita,  come è formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro.     (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro ; che, in so-  stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l' argo-  mento per lui capitale della interruzione della coscienza anche a  coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero  potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col medesi-  mo corpo.  Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappiamo con certezza che compose VARRONE, di Rieti. Eruditissimo in ogni campo della filosofia, e, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare  di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande biblioteca, specialmente di opere latine. Ciò che  gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le  sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati  argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, raccogliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e  profane della patria, e dettando pure a quel che ci ha  lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica in versi  {praecepta sapientiae versibus tradidit). Della sua  prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere  letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano  di lui non meno di 74 opere in CCCCCCXX libri — non ci restano purtroppo che scarsi avanzi (poco più di IX libri) e numerose citazioni che  da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì  che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della maggior  parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena  appena il titolo. Così dei suoi famosi “Logistorici” che sono in LXXVI libri, e contenevano discussioni di argomento  filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i titoli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno  largamente di filosofia pitagorica. Tali sono: “Atticus sive de numeris”, “Tubero sive de origine humana,” “Gallus de admirandis,” “De saeculis” ed altro de philosophia; ma quale ne fosse precisamente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte,  ci è rimasta notizia d' un' opera in IX libri “de principiis numerorum”, la quale,  messa accanto sìi Attico già citato e alla testimonianza     [intorno a Varrone si veda l'opera di Boissier, Etude  sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum  rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo studio  dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement-  band I Heft, Leipzig, 1di Gellio (Notti Attiche), che riferisce come Varrone  tratta in maniera oltremodo compiuta del numero settenario – “Varrò de numero septenario scripsit admodum  conquisite” -- prova che il grande reatino dovette conoscere  profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dottrina fondamentale dei numeri. È veramente un peccato che di tali opere non  resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse potuto  trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,  che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica  di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto,  vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè  avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria  stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte  nel campo delle scienze sperimentali.   Poiché le investigazioni matematiche dei Pitagorici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprietà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica  e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe  applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni naturali.   Una delle prime e forse la più importante scoperta di  Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che,  in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo  parlare della determinazione matematica degli accordi, che  poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura,     [Kathgeber (“Grossgriechenland und Pythagoras” (Gotha)  scrive. “Dem M. Terentius VARRO AUSS REATO, der  aufgeklàrt iiber Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gelegenheit zur Erwàhnung dar.” portò a molte curiose osservazioni come quelle che riguardano le due diverse specie di parto (a termine e  settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica  dell' armonia delle sfere e alla concezione dell' universo  come di un tutto perfettamente armonico (kósmos).   h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa  di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli accordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era  affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Passando un giorno per istrada accanìo a due fabbri che  martellavano alternatamente un ferro sopra l' incudine,  Varrone e colpito dai suoni cadenzati e armonici dei martelli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente  a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel  suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. Varrone ha così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno  al quale già da qualche tempo lavora col pensiero, e  non si lascia sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvicinatosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e  nota i suoni che sono prodotti dai colpi di ciascuno.  Credendo che la loro diversità di tono dipende dalla  diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i martelli e si accorge che invece essa dipende da questi.  Allora volge tutta la sua attenzione a determinare con  esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fa fare altri  martelli più o meno pesanti di quei due. Ma dai loro colpi  nasceno suoni diversi da quei primi e per di più non  intonati. In tal modo, capì che l'accordo dei suoni nasce da un determinato rapporto matematico dei pesi,  che cerca subito di calcolare. Trovati che ha tutti i numeri che corrispondeno ai pesi dai quali nasceno suoni intonati, passa dai martelli alle corde musicali. Prende  alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale grossezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi  proporzionati a quelli di cui fa il computo e determinato il rapporto coi martelli. Fattele risuonare per  mezzo della percussione, non solo trova che le corde tese  da pesi uguali vibrano all'unisono al vibrare di una sola  di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente  dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di III:IV 3:4 ( 5tà  xeaaàptóv o èrul xpiTov o supe?^ tertium), di 2 : 3  II:III (5tà Tcévxe)  e di 2:4 II:IV (5tà Traawv). Per averne poi un'altra riprova,  ripetè r esperienza con alcuni flauti. In questo modo: ne  fa preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza  diversa, il I, poniamo, lungo VI pollici, il II, VIII  il III, IX e il IV, XII. Poi facendoli sonare a due a  due trova che il primo e il secondo armonizzavano in  accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4) – VI:VII::III:IV; il primo e il terzo in  accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) – VI:IX::II:III e il primo e il quarto in  accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) – VI:XII::II:IV. In tal modo Varrone  riusce molto genialmente alla determinazione matematica degl’accordi, ciò che permise in seguito di estendere e  perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo conduce alla scoperta non è molto dissimile da quello per  il quale il Galilei, dall'osservazione dei movimenti d'una  lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le  leggi della oscillazione del pendolo o da quello in virtù  del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a  scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è     [Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-  cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de  die natali 10,7.  vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre  partito dalle cose e dai fatti più semplici !   -- E una volta messosi su questa via, che mirabile  serie di investigazioni non seppe escogitare quella profonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì due fabbri all'incudine arriva non pure alle leggi dell'armonia  musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto l’universo! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e  alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo  e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso  della vita e degli eventi umani — trova che essi avevano  un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e  suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accordo, da formare una dolcissima armonia, non però percepibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la  facoltà del nostro udito.   Calcolate infatti le distanze dalla terra a ciascun pianeta in stadi italici di 625 – CCCCCCXXV piedi, trovò che dalla terra  alla luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappresenta per lui r intervallo di un tono. Dalla Luna a Mercurio (Stilbon) calcola una distanza uguale alla metà, ossia  un semitone. Di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino  al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il  sole quindi distava, secondo Varrone, dalla terra tre toni e  mezzo, formando così con essa un accordo diapente e  dalla luna due toni e mezzo, formando un accordo diatessdron. Dal sole poi a Marte (Pyrois) stima esserci eguale distanza che dalla terra alla luna, ossia un tono. Di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitone. Da  Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitone. Di  qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un  mezzo tono. E però da questo cielo al sole pone un     [FIRMAMENTO     Orbita di Orbita Saturno Giove Marte  e-  3 Q. ooII» HK> •Wi■O-SOLE Venehe  Mercurio Luna     ©   •0   Wi   TJSKBà,     d>>3   Q.  •«  O   o  tt)      •0  u      cs  i)    >  »3  o  8  ti    •0  u     ^  7.  —] intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso  cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei  toni)   [Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale  che Pitagora dove convincersi che nell' universo tutto  è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di  fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine  e da una determinata e determinabile proporzione. Sicché dalla musica e dall' astronomia passando, per esempio, '  alla tisiologia, trova nel decórso del puerperio ancora  una riprova della regolarità matematica dei fenomeni naturali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fa della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso  dei processi fisiologici, cioè alla generazione, e appunto  spiegata in una delle opere varroniane ricordate (“Tubero seu de origine humana”). Queir acuto e profondo osservatore infatti avendo studiato accuratamente il decorso delle due diverse specie di  parto, l'uno di sette – settimino) e Y altro di dieci mesi  lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e  274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i.  numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei  due parti, si compiono i mutamenti più importanti — del  seme in sangue, del sangue in carne, della carne in forma umana — trova che il parto settimino è in rapporto  col numero VI e quello a termine col numero VII; non solo,  ma che i nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto nell'altro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musicali. Ed ecco in qual modo.     [Censorino, de die natali, cap. 13.   (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4, 14.  Nel parto di VII mesi, per i primi sei giorni dopo la  fecondazione, l’umore che è contenuto nell' utero è di  aspetto lattiginoso. Nei successivi VIII giorni è di aspetto  sanguigno. Il rapporto fra VI e VIII è, come abbiamo veduto  più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd-  ron (6:8 = 3:4). – VI:VIII::III:IV -- Nel terzo stadio si hanno IX giorni,  in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno  in carne : e il IX col VI forma il secondo accordo diapènte  (6:9 = 2: 3) – VI:IX::II:III ; finalmente nei XII giorni seguenti si ottiene il corpo già formato : e il rapporto di XII con VI  forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). VI:XII::I:II. Questi  quattro numeri 6, 8, 9, 12 – VI VII IX XII sommati insieme formano 35  XXXV giorni, i quali moltiplicati per 6 VI danno appunto il nu-  mero totale dei giorni, di durata della gestazione, ossia  210. CCX -- Nel parto a termine invece, con analogo ragionamento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2,  14, -- VII IX XII X XII XIV che sommati insieme danno 40 XL e una frazione; 40  XL moltiplicato per 7 VI dà 280 CCLXXX, da cui detraendo 6 VI si ha 274 CCLXXIV.  Vale a dire che nel parto di dieci X mesi iL mutamento  del seme in umore latteo avviene in sette VII giorni anziché  in sei VI, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo  40 XC giorni interi, che moltiplicati per 7 VII danno 280 CCLXXX, cioè  quaranta XL settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo I giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei XV  giorni, onde ne restano 274 CCLXXIV Tanto il 210 CCX che il 274 CCLXXIV sono veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava  speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere —  in virtii delle sue molteplici osservazioni — che tutto è  regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino     (1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad  Bmol. Vili, 75.   che riporta tutto questo passo Varroniano, egli non era  qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari  209  CCIX e 273 CCLXXIII sono bensì compiuti, ma non si compie ne il  210 CCX né il 274 CCLXXIV giorno in cui il parto avviene; in conformità precisamente di quanto ha fatto la natura sia riguardo alla durata dell' anno (365 CCCLXV giorni più una frazione)  che a quella del mese (29 XXIX giorni più una frazione.   Non è il caso di entrare qui in merito al valore intrinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché  anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener  conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine e di  esperimento da oggi al tempo di Varrone, e pensare  dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei numeri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pitagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci.  In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-  duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano  campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma  trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os-  servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub-  biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di  aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione  dei tempi, non fu merito piccolo.   f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri-  scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale  che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica  degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi-  steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' é, per  esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda     (l) Censorino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il  passo di Gellio, Notti attiche, III, 10, 7.   la particolare considerazione in cui erano tenuti i così  detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere  i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan-  do di comporre in una sola volta 216 righe o versi  (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! Ora questo è uno di quei particolari che, presi a se,  prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in  verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra-  gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo  tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ;  poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rientrassero nell' ambito del sistema per puro amor dell' ordi-  ne e doll'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una  certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti  della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi, di  esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi  insegnamenti del Maestro.   Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è  ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla —  quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di  Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto,  che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al  suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per  meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini. Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle  indagini già fatte da altri (3), ho cercato di esporre si-   [ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p. 104, 1.   (2) Censorino, de die natali 12, 4.   (3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha-  goreae doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae)  l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae frag-menta continens ».]  stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei  numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Varrone,  intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai  suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema.   Così Varrone pone 1' esistenza di Pitagora al tempo  di Tarquinio Prisco e quindi implicitamente non accetta la tradizione che Numa e suo scolaro a  Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito di  essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sapere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire :  già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il futuro ; come pure accennava altrove alla sua andata a  Turio (Sibari) nella Calabria. E Agostino ci ha  conservato un altro passo nel quale Varrone, da vero  romano, esprime la sua ammirazione perchè 1' ultima  cosa che Pitagora insegna ai suoi discepoli, quando già  fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare  la cosa pubblica. Appartiene al libro quinto dell' opera intorno alla lingua latina un brano in cui Varrone afferma che Pitagora  insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come finito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e  notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che  « vi è nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò  « che quasi tutte le cose siano quadripartite ed eterne,  poiché ne paò mai esservi stato tempo se non prece-     [S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25.   (2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.   (3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54.   « duto da moto, — se tempo è appunto l' intervallo fra  « un moto e l' altro — ; né moto senza spazio e senza  « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove e  <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove  « e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio  « e corpo, tempo e azione ». Altrove ci ricorda Varrone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto  poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che l'esistenza degli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto  principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti. E  parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro  elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu-  nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir-  genti, vissuto un secolo dopo. Non manca neppure  nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita-     [Varrone, de Lingua Latina, --  Pythagoras Samius ait  omnium rerum initia esse hina ut finitum et infinitum^ honum  et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo,  status et m,otus : quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur  locus; dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio; quare  fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod nc-  que unquam tempus quin fuerit motus, eius enim intervallum  tempus; ncque motus ubi non locus et corpus, quod alter um est  quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non actio ihi;  igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ».   Varrone, de re rustica, Sive enim aliquod fuit prin-  cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut credidii Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est humanae vitae a summa memoria gradatine descendisse » . Cfr. CenSORINO, de die natali, IV, 3.   ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI,  724; ad Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg.  E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25.   gorica deir eternità dell' anima e alla sua dottrina della  metempsicosi, a conferma della quale ricorda persino le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo  Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e finalmente  Ermotimo. Altrove ancora Varrone accenna alle pratiche di evocazioni dei morti, che del resto erano largamente usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la  rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in  un monumento cretese, scoperto da poco, che risale ai  tempo pre-omerico della così detta  civiltà micenea o minoica. È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non  manca di parlare del famoso divieto pitagorico di mangiar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi  e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post-mortale   Symmaghus, Ep. I, 4.   (2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello,  p. 121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; Ago-  stino, de cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13.   (3) Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII,  24.   (4) Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiònis idem Varrò e Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et  postea Pythagoram philosophum usum fuisse commemorai ; ubi  adhihito sanguine etìam inferos perhibet sciseitari et nekyoman-  teian graeee dicit vocari » . Quanto alle rappresentazioni di scene  di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo  I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa  Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.   (5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist.  XVIII, 118, XXXV, 160.  Tali a un di presso le notizie di contenuto pitagorico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità  delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui sono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali  però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita  quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si  è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie  utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'antichità classica.   Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto  da Varrone, come delle sue speculazioni e delle sue ricerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco  i filosofi contemporanei o che vissero poco dopo di lui,  così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo rimane nelle opere di altri filosofi di questo tempo, potremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della  dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della conoscenza che ne ebbero i contemporanei di Giulio Cesare e d’Ottaviano.  Fra gli amici dVarrone è degno  di essere ricordato queir APPIO CLAUDIO FULCRO, del quale  sappiamo che e augure, pretore, console, censore, governatore della Cilicia e legato in rapporti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano  diverse lettere a lui indirizzate.   Convinto che la scienza augurale avesse il suo fondamento non già nel desiderio o nel bisogno di giovare  anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii interessi dello stato romano — come la pensa l' altro grande  augure GAIO CLAUDIO MARCELLO — ma che realmente e  un dono concesso dal divino agli uomini, perchè questi sono in grado di meglio intendere la loro volontà e di  regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta, era solito far sortilegi, oroscopi, evocazioni di morti. Ne più né meno di quello che, secondo  la tradizione fa  Numa, il filosofo Ferecide di Siro, il suo  discepolo Pitagora, e Platone. Questa convinzione ,  suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale  cui era dedito, dove appunto indurre Appio a scrivere  quei suo “Liber auguralis,” forse di carattere polemico,  che dedica all' amico Cicerone, lì quale fra l’interpretazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensa come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pensano come Appio Claudio, ha un'opinione intermedia,  in questo senso : che cioè una vera e propria scienza e  arte augurale e già esistita in antico, ma che di essa  però non e più depositario, al tempo suo, il collegio  degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per  l’abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era,     (1) CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio  vestro inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dissensio fnam eorum ego in libros incidi, quom alteri plaeeat  auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae composita, alteri disciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » .   (2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus amicus  Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ; 58,  132.   (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII, i capitoli  34 e 35.   (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17, 39.   (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone, R.  R. 3, 2f 2.]  secondo lui, svanita. Dichiarazione questa, che per  essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo  di lieve momento. Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella  ricerca di quel che e proprio questa ra antica, come  la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ha nella vita degl’Elioni e degli antichi  Italici. Ma questa trattazione mi porterebbe troppo lontano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto  ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto soddisfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito.  Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si  esercita in forme e modi diversi — con l’osservazione  del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo detto “templum” -- onde trasse origine la parola “contemplazione”), con 1' esame dei visceri (cuore, polmone, fegato)  di animali sacrificati a questo scopo (“hostiae consultatoriae”) con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con  la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, fulmine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi  profetici - ; e che era pure praticata da Pitagora, il  quale vi annette anzi un particolarissimo valore, tanto  da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che     (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non est,  quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate  et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai  unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse  etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70.   (2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsenschììtz, Sogni e cabala nelV antichità, Berlinoe del Cak-  TANi-LovATELLi, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889.   (3i CiCEBONE, de divinatione, L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè  alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,.. tribuit, qui     no     naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche  prova di virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli  ne diede infatti non poche.   Altro amicissimo di Varrone e, come è noto, Cicerone. Negli scritti che in gran numero ci restano di CICERONE frequentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola  e alla sua filosofia ; non però tali da farci pensare a una  elaborazione personale e originale, o all' approfondimento  di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come e di un eclettismo che sta fra l’Accademia e il Portico, iniziato ai misteri religiosi,  augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore  della filosofia, della quale si fece divulgatore, creando quasi ex novo per essi, dopo il mirabile  tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore  anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di  arte, tratta dei più svariati argomenti sì metasifici che  morali, Cicerone ha senza dubbio una conoscenza abbastanza larga dell'antica filosofia italica, l'unica forse  che ha già avuto in Roma insigni divulgatori e seguaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori  come Nigidio. È anche indubitato che molto gli giovarono per tale conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi l’amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo,  e la lettura dei loro scritti. Ma non per     etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed anche 45, 102 :  « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt, sed etiam  hominum, quae vocant omina » . questo possiamo dire che i'Arpinate fa particolari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se  collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-  sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute,  si prestavano assai meno delle posteriori e piìi note filo-  sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate  artisticamente.   3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere  le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola,  dovrei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane in cui Cicerone parla delle dottrine pitagoriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che  esse lasciarono nelle istituzioni e nella LEGGE dì Roma. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che e discepolo di Ferecide, specialmente per la sua dottrina  suir eternità dell' anima, in quanto egli insegna l’esistenza di un' anima universale, compenetrante tutta la  natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la derivazione da essa di ogni anima umana. E per ciò che  riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accetta la  distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone —     (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: « Pherecides  Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. .. Rane  opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ».   (2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani-  mum esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem,  ex quo nostri animi earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au-   dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse, quin   ex universa mente divina delibatos animos haberemus ».] dell' anima in due parti, l’una ragionevole, in cui questi  filosofi poneno la tranquillità, cioè una placida immutabile costanza, e l’altra irragionevole, onde traevano  origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio. Per la quale credenza l’uno e l'altro ammisero la possibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,  specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse  disposto opportunamente con particolare dieta e con una  meditazione preparatoria; e credettero nella divinazione,  al punto che Pitagora pretende di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei  viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo  colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la  prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta  in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un     (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem Pytkagorae  pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum in  duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y alte-  rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy id  est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus turbi-  dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni ».  Cfr. libro I, 17, 39.   (2) De divinatione, II, 58, 119: « Pythagoras et Plato,., quo  in somnis certiora videamus, praeparatos quodam eultu atque  victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem Pythagorei  utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ».  Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule  11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,  eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con-  fronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119.   (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87.   (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio,  Proemio, 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontioo.  bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema,  della sua dimora a Crotone e a Taormina in Sicilia,  della sua operosa vecchiezza, e infine della sua dimora  e della morte a Metaponto. Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin-  cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello  che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone  ricorda la teoria dei numeri (7), 1' armonia del mondo e  il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii cruenti  e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza  del concetto pitagorico della vita, il divieto del suicidio e infine la bella concezione dell' amicizia, vera  comunanza di spiriti e di vita, che diede fra gli altri  il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia;  oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici.     (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par cre-  dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare  una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue  un altare. E non ha torto.   (2) De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19, 3.   (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122.   (4) De senectute 7, 23.   (5) De finibus V, 2, 4.   (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo  principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio pitago-  rico di Crotone » .   (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sei-  pionis, 12 e 18.   (8) De nat. deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113.  (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19.   (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5.   (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66.  a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus, II,   24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59.]   e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contemporanei di Platone.   Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo  la morte di Socrate, prima si reca in Egitto e poi in Italia  e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da  Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè  procurarsi i commentarli di Filolao (che esponeno per  iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino  allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della  segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai celebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, pratica  con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, prediligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappresentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la  piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità del  simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il  maestro in modo che, anche quando discuteva di morale  e di politica, si studia di mescolarvi i numeri, la geometria  e r armonia, alla guisa di Pitagora. Dal quale poi     (1) De finibus, V, 29, 87.   (2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis  ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus  denique de republica disputet, numeros tamen et geometriam et  harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio :  Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem, So-  crate mortuo, primum in Aegyptum discendi causa, post in Ita-  liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret,  eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro multum,  fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo tem-  pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et hominibus  Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem uniee  dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem Socraticum  tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima,  aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale. Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni,  superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco  il grado di conoscenza che del Pitagorismo hanno gli  uomini colti dell'età di Cicerone. Ma vi è un' opera di questo secondo scrittore,  anzi un frammento della sua opera "più importante, sul  quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la  nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pitagorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione  così famoso e di tanta importanza per la storia della mistica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che  ha; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni,  da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima analisi, all'inglese Wynn Westcott, che     su Milìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa  flurimarum artium gravitate contexuit » .   (1) TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno-  sceret, in Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque  de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha-  goram sed rationem etiam attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 :  « Neque enim adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt,  cum corporibus simul animos interire atque omnia m>orte deieri.  Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum m>ajo-  Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae-  ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et  praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo sapien-  tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in plerisque,  sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum ex  corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~  stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur »   (2) AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom-  Quentarius ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii  EuLoan oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipionis, scripta Superio y. e. cos. Provinciae Bizacenae. non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione dicendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento  che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram-  mento dei Misteri (1).   Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che,  affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non  voglio con ciò asserire né che Cicerone e un seguace  di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee  informative del sogno stesso da scritti pitagorici : poiché  so bene che studi fatti recentemente da valentissimi critici come Gylden, Corssen, Pascal, hanno  messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di  esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed Eratostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso  tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso attribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra  ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo-  sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro  molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-  niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'esposizione di principi filosofici già era venuta, agli albori  della filosofia romana, a un grande scrittore e poeta,  pitagorico per giunta: voglio dire ENNIO.     (1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a  fragment of the Mysteries, London, 1899.   (2) Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848.   (3) De Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul. disp.  et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae, 1878.   (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di Cicerone,  nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle  Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta », Firenze,  Le Monnier. Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione di  questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che  abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone,  che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno  e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella  quiete del corpo.   Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio,  partecipa contemporaneamente di tutte e tre le forme  principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo,  visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in  quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio  Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Maggiore, uomini venerandi, che avevano anche coperto cariche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe  fatto come generale e come magistrato e la sua morte; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il  sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e  più precisamente nella via lattea, dove avrebbe poi  dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa  dal divino ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù contemplare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa  nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som-  nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità delle cose a  lui dette dalla grande anima di Scipione non puo essere  svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica.  Tanto è vero che il commento interpretativo di Macrobio  è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Repubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio,  che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei  numeri e alla musica delle stelle.  (1) Macbobio, 1. I, e. 3.  Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini  che -si resero benemeriti della patria e mostrare quale  premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello  cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che  uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla Repubblica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narra agli  altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo  tribuno in Africa, e ospite del re Massinissa, grande  amico di Scipione il Maggiore.   Uscita dal corpo durante il sonno, l’anima dell' Emiliano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea,  dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede  le anime degl’eroi, tanto prima di scendere in terra a  vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pellegrinaggio quaggiù.   Ascoltata dall'Africano la predizione delle sue imprese  e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua     (1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint,  adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi   beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores   hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-  SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti  a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è  detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle  porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli  asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Porfirio (àe antro ISiympharum, e. 28) che il popolo dei sogni non  sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi  nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago-  rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de  faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si  indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo  che chiamavano prati dell' Ade.  età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri  e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei  quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto  perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli  anni la somma a lui predestinata », e saputo — quasi  a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe  salito lassù, dove si trovava anche suo padre Paolo,  « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri  che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,  anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami  corporei come da un carcere siamo veramente vivi; la  vostra, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con  intensa commozione, 1'anima del padre, chiede ad essa:  « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo indugiarmi e vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli  viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto l'uni-  verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non  ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini  sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa  il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo,  originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni  e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da  menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro  con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gl’uomini pii  dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e  non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data,  dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate     [Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume-  ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI, adducendone  partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e  le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.\   sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio  » . Perciò  il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà,  perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo  fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora separate dalla materia corporea, abitano la via lattea.  Dalla quale poi l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo  dell' universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio  globi, di cui il pili esterno, che abbraccia gli altri, è  quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso divino supremo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri,  cioè i cieli di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di  Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta,  immobile, la Terra. E mentre osserva i cieli roteanti,  ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè  che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro percuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi,  che insieme formano i sette accordi della lira: proprio  secondo la dottrina pitagorica. L' ammirazione per la grandezza e  la novità delle cose che vede e ode non fa però che  Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano     [Somnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute  (20, 73) dove è detto esplicitamente che questo concetto è di Pi-  tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de  praesidio et statione vitae decedere ».   (2) Somnium, 8, 16.   (3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di  un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i  sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure, se-  condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti  e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken Natur-  wissenschaft in Miiller's Handbuch V, 1.   (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I, 10, 12.]  gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque  e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria  degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la quale  non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi  anni mondani. « Se tu dunque, conchiude la grande  anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a  questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo  né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli  uomini: bisogna che la virtù per sé stessa con le sue  blandizie ti tragga alla vera gloria » Esaltato dallo  spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predizioni, dai consigli uditi, Emiliano promette di adoperarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1'avo  lo conferma nel suo proposito dichiarandogli l’immortalità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo  è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma  corporea fa apparire. Ciascuno é ciò che é l'anima sua,  non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che  tu sei divino; se divina è quella forza che anima, che sente,  che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove  questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo divino  regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso divino  eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così  il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno »    Della durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine  dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo.   (2) Somnium, 17, 25.   (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non esse  te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista  declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae  digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est  deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam  « Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime  sono le cure spese per il bene della patria (1); onde  l'animo che in esse si adopera e si esercita volerà piti  velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più  presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà  uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, staccarsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che  si abbandonano ai piaceri del corpo e si rendouo quasi  schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti  ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo  vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a  questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agitazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi  concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce.     regit et tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam  kune mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadam  parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus  senipiternus movet ».   [Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico;  tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai  suoi discepoli quello relativo all' esercizio dei pubblici poteri. V.  S. Agostino, de ordine II, 24, 54.   (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt  autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer-  citatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit.  Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore,  eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime  se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis  voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros praebuerunt  impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et homi-  num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram ipsam  volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever-  tuntur ».  Nel tempo del quale ci stiamo occupando non  è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i  suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del  genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un  pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' insegnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè  la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle  fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel dominio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel  teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che sono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione  di morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di  Cicerone e del quale Tertulliano ricorda  una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insomma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio  secondo 1' opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo  e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione  volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili,  non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non indurrebbe forse anche a credere che ci si debba perciò astenere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di  non comperare eventualmente del manzo di qualche suo  antenato ? » Laberio dunque avrà tirato scherzosamente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro  sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile  pensare che gliene abbia data occasione una situazione  comica in cui fossero in contrasto 1' ostinata cocciutaggine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il  commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle  carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è  forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci  rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica; voglio dire  i noti versi di un'elegia di Senofane, contemporaneo di  Pitagora:   E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato,   Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò :  € Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico   r anima, che ravvisai, quando 1' ho udita guair » Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si qui philosophus  adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae, hominem fieri  ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia argu-  m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et fìdem,  infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum, quis  habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »   (2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36)  Anche in questi versi infatti, come nel commento di  Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi anche animale (per una falsa estensione però, come ho già  detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ridicolo.   Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer,  è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un  « dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo  ritenere che fosse la stessa metempsicosi. Finalmente  Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un  terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba,  del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso  dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e  1' astensione dalle fave. Né è davvero il caso di me-     e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno-  phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo-  nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc.  ciò che ha scritto lo Zeller nei Siizungsber. d. preuss. Akad.  1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che  questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al  GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota) infondati. Ed ha per-  fettamente ragione.   (1) Prisoiano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal.  Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nec pythagoream  dogmam docius ».   (2) Cicerone, ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no-  strum, quem Curio antea apotheosin vocabat, si hic factus erit,  fabam mimum futurum ? » e Seneca Apocoloc. 9 : o olim magna  res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis ». Debbo tuttavia  notare che da qualcuno si è proposto di leggere 8-aù[jia in luogo  del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in proposito  la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.   (3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,  Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere ] ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti  piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persuadere della necessità di tale astensione. Del resto anche ORAZOP si prende  amabilmente gioco di questi due stessi punti della dottrina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava  con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campagna fatte di fave e di erbaggi conditi col lardo, è evidente che egli — da buon epicureo — si infischiava del  precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un  po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di  Pitagora ».   E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare,  per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici     in azione la parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava  e l’uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste,  più che opinioni del severo filosofo, sono certo stramberie di  begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e  delle suo idee, come fa ORAZIO, per esempio. Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di Poefirionk.   (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64:   quando faba Pythagorae cognata siwiulque  XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ?   Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter-  preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu  pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo trucidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi  che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei  morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che  s' occupa di filosofia — e con lui la dottrina pitagorica della  metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione.  Qualcuno peraltro (per es. Ritter) nega ogni allusione.   che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi  quasi personificati in Archytas, per opera del quale il  Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » Dice  infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e  la terra e l' innumerabile arena, tiene ora fermo presso  il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla  ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo abita,  e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato  a morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur  banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra  e sollevato neir aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar-  cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio  di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta  (dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene,  con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio  di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del  tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera  morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la  pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido  mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.-  Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti  dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi)  la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-     [Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti. Per  altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda  il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher,  1900, voi. I, pag. 119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso  autore Uode d' Archita. Roma, 1893.   (2) habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro  di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i funerali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina  non ebbe mai rispetto ad alcun capo ».   E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che  tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor-  tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione  al ricordo « di Pitagora redivivo » , come lo chiama altra  volta (1), fa doli' ironia bella e buona alle spese del « fi-  gliuolo di Panto ».   E VIRGILIO -- in qual  conto tenne le dottrine pitagoriche? Esercitarono esse  qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio visibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per  quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci  hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che  egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che  desiderio di tutta la sua vita fu quello di potervisi dedicare di proposito?   Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far  rivivere in Roma la filosofia pitagorica, è possibile pensare che uno spirito come quello di VIRGILIO, colto, curioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche,  non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non  v' è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche     [In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna ancora alle  varie vite di Pitagora nel verso « nee te Pythagorae fallant  arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione al carat-  tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no-  mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e  nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52).   a; ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti  credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin-  [Pitagorismo Torigine di molte delle più antiche  L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na-  ;e anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera  giore mirò a rappresentare in un meraviglioso  r insieme le origini e lo svolgersi della potenza e che perciò fece lunghi studi intorno alle  ) e alle antichità romane, dovette proprio in modo  re rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita-  a quale per di più aveva già ispirato anche il  Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo-  i quali fu condotta 1' Eneide. Questo mi par che  i affermare con certezza, anche indipendentemente  3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che  procediamo a questo esame — ancorché molto  rio — non solo sarà confermata a posteriori la  induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu-  )he di lui fece il Fontano, quanda lo disse esplici-  te « poeta augurale e profondo conoscitore della  la di Pitagora » (2).   ne tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e fu avviato in essi da un   ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama.   r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe     [Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet  omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad sua  tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia  eonfusus est ordo, etc. ».   (2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » ,  come è detto in una nota al Commento di Macrobìo al Somnium  Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66.   9.  anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse ^ !  Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile  tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filosofo. Filosofia e in Virgilio solo in potenza : i germi latenti  nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chiaramente a chi ne mediti l' opera poetica — sarebbero  certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse vissuto più a  lungo, sì che, condotta a perfezione 1' “Eneide”, egli ha  potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente  maturato e più volte espresso — di poter attendere alla  FILOSOFIA : così noi avremmo forse, accanto al poerna  di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del materialismo  epicureo, un poema virgiliano informato ai principi dell' idealismo pitagorico-stoico.   L' avviamento epicureo eh' egli ebbe da Sirone, e l'animirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-  sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale,  neir opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle  Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta  abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op-  posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e  larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria  sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle  un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente,  col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò  che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e  della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista  fa parlare i personaggi che sono figli della sua fantasia  secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla  stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle  idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta  poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-  gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona  propria, in secondo luogo perchè il concetto che l' informa  tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti posteriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva  in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e  formato.  La quarta ecloga fu composta quando il poeta  aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a.  C, allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione,  console designato per 1' anno successivo. Sulla inter-  pretazione di questo carene, così stranamente suggestivo,  s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno  d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai  commentatori cristiani si credette di poter vedere in quest' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del  Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia;  anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura  identificato col Nazareno, e non con Ottaviano, come Virgilio affirma. Non e' è da meravigliarsene,  che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal-  volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista  tal forza di significazione e un tale carattere "di univer-  salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle    [Generalraente si ritiene composta al principio del 40, anziché  alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa  sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di  anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo  Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare che  non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo  meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule del  y. 11.    disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del pensiero  di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi  proprio Virgilio ha consapevolmente ‘profettizato’ ex post fato la nacita d’Ottaviano per conoscenza che avesse delle predi-  zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta  dai critici in senso non del tutto negative. Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo  — che si ritiene generalmente e, se non Ottaviano, Asinio Gallo, figlio  di Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — Virgilio afferma  ormai venuta 1' ultima età (quella di Apollo) predetta dall' oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di  iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del CONSOLATO  di Pollione, una nuova serie di generazioni  umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tornata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sarebbero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia  l’età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere     (1) Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron) scrive: (p. 48/ : « Non si può appunto escludere assolu-  « tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse  « in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo  « pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare  « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli ef-  « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si  acquistò con questa ecloga dedocata a Asinio Gallo, per ha quale fu sollevato  alla dignità dei profeti, si veda  il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione  di questa  eclog a Asinio Gallo era già molto in voga presso i filosofi. Si vedano anche i lavori di C. Pascal, “Il culto d’Apollo in Roma  nel secolo d’Ottaviano e La questione dellEcloga IV di Virgilio  (Torino), ristampati nel volume Commentationes vergilianae  (Palermo, R. Sandron,).   una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jaw, nova pro-  genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, Asinio Gallo, figlio del console Pollione, allora  nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens  ferrea » e crescere insieme con lui la « gens aurea »  e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla  terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con  loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui  delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione  necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove  spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre,  come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto  a pieno la felice pace della nuova età, della quale già  si allietavano e cielo e terra e mare.   Come si vede da questo accenno, siamo lontani le  mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa concezione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì profondo entusiasmo poetico? Pura finzione del suo spirito?  No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini prometteva certo con l’ età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi  periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo  e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filosofiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ricordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico  dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei medesimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e  delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci).  Pensa dunque Virgilio, nel fingere che proprio col cominciare dell'anno colla nascita del figlio del console si iniziasse l'ultima età mondana  designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare  che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere  se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra-  sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre »   che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora  « sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi  di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita  universale, oppure indichino soltanto una generica legge  dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi-  cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo  quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi  simili, ma non proprio gli stessi. "Certo però che, assegnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente  quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta  e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in-  dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato  e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua  arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della  palingenesi. E ancora : parlando della <^ nova progenies »,  la quale « eaelo demittitur alto » , a che cosa ebbe pre-  cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua  immaginazione come un flusso di anime emananti dal-  l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo  mondano posto sotto 1' egida di Apollo ? (1).   L' anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non  v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie  spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum  suboles, magnum lovis mcrementum » (v. 49), non par-  rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima  è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e  Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio  dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima]  Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen-  tatore (p, es. di Pestalozza), che si debba precisamente dare all' espressione il suo senso proprio e letterale.    dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an-  cora riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e  che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani-  ma di Auchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la  famosa « storia dell' anima ».   Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto  cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel-  r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante  neir artista; che questi può, indipendentemente dai pro-  cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla  visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro  il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale  com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno  ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi  nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe-  tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si  prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide  seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto,  almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,  che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc-  cessivi momenti dell' attività poetica del nostro autore. Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle  della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che  prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-  vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non  lo aveva neppure orientato definitivamente quando compose le Georgiche ; poiché in queste si  osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e  di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano  immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare,  per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro nei quali VIRGILIO accenna, senza ancora accettarla  come propria, ma con evidente simpatia, la concezione  panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e  degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri  viventi non è che una parte, più o meno grande, dello  spirito divino che, suscitando in mille forme la vita, per-  vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna.   His quidam signis atque kaec exempla secuti  220 esse apibus partem divinae mentis et haustus   aetherios dixere : deum namque ire per omnia,  terrasque traefusque maris eaelumque profundum.  Hine peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^  quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ;  seilieet hue reddi deinde ae resoluta referri   omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \  sideris in numerum atque alto succedere eaelo.   Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam...  dixere)^ fa ancora le sue riserve; ma il poeta evidente-  mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon-  dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto  che uno di questi versi mirabili non è nuovo,  ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga, lega idealmente questa col passo delle Georgiche.   L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo a  lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave-  vano combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio;  ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che  via via si vennero elaborando in lui col maturare degli  anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic-  ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide, immergendosi  tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità  romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leggenda collegava colla sacra figura del re Numa, che  aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in que-  gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do-  vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi-  larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle  poi dare anche più precisa e più degna espressione là pro-  prio dove il poema attinge la più alta romanità e acquista  nel medesimo tempo carattere di universalità.  Al principio del libro VI dell'”Eneide”, che si  ritene generalmente dagli antichi contenesse la più profonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premettere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza,  nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la  parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del  canto XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplicemente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia,  molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi. Talché parecchi hanno scritto interi trattati su ciascuna di tali cose che trovansi in questo libro». Di questi trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno  quello, certo assai interessante dal punto di vista del  nostro tema, che scrive Macrobio, 1' erudito grammatico; poiché dei suoi Saturnali, che pure  ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella  parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico  dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,     (1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi dei  Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come  ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V). Anzi, per la superiorità  della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione  di Eustazio e la prima di tutte, come appare da ciò che è detto come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii elementi pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del  quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnium  Scipionis il terque quaterque beati, riconosce  neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri.   Non è certo il caso di andar cercando, come qualche  antico ha fatto, in ogni espressione, in ogni parola  di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse allegorie,  e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel  comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come  la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente  è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sapienza dei filosofi, noi fermeremo la nostra  attenzione. ENEA, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso all'Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte,  attraversato 1' anti-inferno o limbo (dove sono le anime  dei neo-nati, dei condannati a morte ingiustamente, dei  suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa  d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mutilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori, e si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad  accentuare il carattere profetico di Virgilio.   [Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in ogni genere di  sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnntm  lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum om-  nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :  omnium diseiplinarum peritus.   (2j Per esempio Elio Donato, il quale attribuiv a Virgilio un  sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi  filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai.   (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti co-  loro che in qualche modo hanno violato le leggi umane  e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che  sono il felicissimo regno dei beati   locos laetos et amoena mrecta   630 fortunatorum nemorum sedesque heatas.   Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante,  le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti,  poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor-  rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo-  schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro  abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al  quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre  per guida. Il padre d'ENEA sta in quel momento ad  osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare  alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle  che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per conoscerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future.  At pater Anchises penitus eonvalle virenti  680 inclusas animas superumque ad lumen ituras   lustrabat studio recolens omnemque suorum  forte recensebai numeruni carosque nepotes  fataque fortunasque virum 7noresque manusque.   Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon-  tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un  bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete  (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e  intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo-  lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sussurro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni  meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di  fiori e si addensano intorno ai candidi gigli. L' eroe,  stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia  quello, e che uomini quelli che si affollano così numerosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le  anime alle quali è dovuto per destino un altro corpo,  bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno  in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della  vita trascorsa »:   animae, quibus altera fato  corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm  715 seeuros latices et longa oblivia potant.   Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli,  enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-  scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da  Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di  essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea  subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere  che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-  tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual  mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe-  lici ? » :   pater, anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est  720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido ?     [Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla pa-  lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine  (Sabbadini). Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh io ho chia-  mata la storia dell'anima :   « Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo,  la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli-  genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra  la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani-  mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che  si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a-  nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore  etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la  lue corporea e le membra terrene e periture li ottun-  dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri,  a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car-  cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto  che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la  vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né  le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle  quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono necessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo  in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e  pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui  infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-  ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo  abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando  nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione,  dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi soltanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo  volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le  traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro  il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte  queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate  da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori  del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a  sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v.   « Principio caelum ac terras camposque liquentis  725 lucentemque globum lunae Titanìaque astra   spiritus intus alit totamque infusa per artus   mens agitai molem et magno se corpore miscet.   inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum   et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus.  730 igneus est oUis vigor et caelestis origo   seminibus, quantum non noxia corpora tardant   terrenique liebetant artus moribundaque membra.   hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras   dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco. quin et supremo cum lumino vita reliquit,   non tamen omne malum miseris nec funditus omnes   corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est   multa diu concreta modis inolescere miris.   ergo exercentur poenis veterumque malorum supplicia expendunt. aliae panduntur inanes   suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto   infectum elicitur scelus aut exuritur igni ;   quisque suos patimur manis ; exinde per amplum   mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus, donec longa dies, perfecto temporis orbo,   concretam exemit labem purumque relinquit   aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem.   has omnis, iibi mille rotam volvere per annos,   Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno, scilicet immemores supera ut convexa revisant   rursus et incipiant in corpora velie reverti ».   Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti  vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di  una teoria, nella quale è riaffermato anzitutto il concetto di uno spirito immanente nell' universo,  di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri  animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ;  cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel  quarto delle G-eorgiche, e perfettamente identico a quello  che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae-  stro di Pitagora. Di piti la forza spirituale, di origine  divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, e  concepita in perfetta antitesi con la materia del loro  corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe-  dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni,  delle colpe, dei traviamenti. Sicché la vita è un male  (vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o  antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-  partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come  s' è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti,  per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb-  bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione  infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, non  però eterni, che debbono subirsi per il tempo necessario  all' espiazione perfetta.   Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e  del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle  cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1' espiazione pu-  rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo di  beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che  furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena  felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché  non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai  lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom-  paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-     Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78.  (2) Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove.   cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi  la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis-  solversi in seno all' anima universale. Le altre invece, e  sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una  delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate  da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete  r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi.  Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo dice, se  queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ritorneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse-  guente espiazione negli elementi, all' Elisio, vi resteranno  tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o  se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra.  Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe  limitato ad un massimo di due — una con prevalenza  del male e una del bene — , nel secondo sarebbe inde-  finito. Ma in un modo o nell' altro la teoria della resurrezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo-  mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale  fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet-  tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo  di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen-  nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu-  tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte  che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748-  751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del-  l' Orficismo e del Pitagorismo.  Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio  le occupazioni a cui attendevano sulla terra.  Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere  questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e  chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo  di emanazione delle anime dallo spirito universale avve-  nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente.  Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire ne una  volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo  delle anime individuali in seno all' anima universa, ne  sarebbe seguita in un determinato momento la scom-  parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (parche  in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il  numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo  punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il  male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in-  tervalli, r idea di tale processo d' emanazione si ricolle-  gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon-  dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema-  nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei  bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire  di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come,  dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da  qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi     (1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era  diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto  il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,  filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-  nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni  stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se-  coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre  identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e  si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto  più su (§ 4) parlando della quarta ecloga.   10.    unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi-  cosi anche animale (1).   Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por-  terebbero al di là di quello che Virgilio ci ha voluto o  potuto dire, come si concilia questa storia dell' anima  con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno  e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-  damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein-  feruo e le punizioni evidentemente eterne che subiscono  quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare  con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic-  ché noi siamo indotti a pensare che nella rappresentazione  virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten-  tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima  del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio —  di fondere insieme quella che era rappresentazione po-  polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta.   E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug-  gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e  d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide a  pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe  la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte,  fors' anche indipendentemente e in tempo anteriore a  quello della composizione del poema, e poi opportuna-  mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, fi-     [Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del-  l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma  anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che  le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che nel-  r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato  uno stato di vita intermedio fra due vite umane.    losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di  valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la  rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot-  trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif-  fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit-  tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi  parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse  proprio vedere in essa un brano di quel poema della  Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se-  condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse ad-  dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre  eh' esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo  prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve-  duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot-  trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi dunque la  teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto  una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto  per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre-  sentazione, ma esprimerebbe la genuina e schietta con-  cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contra^^to     (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l. VI  dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di  rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea  e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne  parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella  quale appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera  virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una  effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come  sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli  arcaismi che si trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere  un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom-  mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha  derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales.    a cui abbiamo accennato fra l' idealismo pitagorico-stoico  e il materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa-  mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la-  sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e  sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii  albori del pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra-  smessa di generazione in generazione da una civiltà al-  l' altra, dall' Oriente all' Occidente, custodita con cura  gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità  più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,  come già nei miti immortali di Platone, alla luce della  poesia e dell' arte.     Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se-  condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco-  laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze  di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne  fa Ovidio nelle Metamorfosi. Essa ha una  importanza specialissima e merita di essere studiata sepa-  ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi-  zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se  non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la  pili organica che ci rimanga nella letteratura romana —     della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due  punti fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e  la metempsicosi.   Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso Romolo,  si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave  com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e  che una fama non menzognera designò all'impero Numa, già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so-  pratutto, per la sua sapienza: che, non solo conosceva a  perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,  abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti  ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della  natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato  a Crotone:   Quaeritur interea qui tantae pondera niolis  Sustineat, tantoque queat succedere regi.  Destinai imperio elarum praenuntia veri  Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae  5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci   Goncipit, et quae sit rerum naiura requirit.  Iluius amor curae, patria Guribusque relictis,  Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem.   Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi  60-478, l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che  or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo  di che ritornò in paCria e prese le redini del governo di  Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e  le arti della pace:   Talibus atque aliis instructo pectore dictis tn patriam remeasse ferunt., ultroque petitum   Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas:  Goniuge qui felix nym^pha ducibusque Gamenis  Sacrificos docuit ritus, gentemque feroci  Adsuetam bello pacis traduxit ad artes.   Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non  solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa^  la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita-  gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes-  sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a  Numa e l' educazione pitagorica da lui ricevuta ; per  quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria  e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap-  presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella  creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe-  riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei  dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito,  preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che  pur Cicerone aveva chiamata inveteratus hominum ei-ror;  e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi-  rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-  tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe-  ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil-  mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza  dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva, massime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma.     [Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast.) accenna  alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a   Numa dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses sen-   sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos  putat, Egeria sive monente sua ».   (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella  terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta, immagi-  nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro,  lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da  quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo  verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. :   In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il  quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon-  taneamente la patria, mal sopportando la tirannide onde  era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia.  Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente,  per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio  celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel-  letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini»:   60 Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed fugcrat una   Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul  Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^  Mente deos adiit et quae natura nogabat  Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit.   Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi-  denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con  grande efiìcacia rappresentativa la natura del suo misti-  cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo dell'intelletto e  la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi-  sione e alla comprensione delle più alte verità.   Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura   In medium discenda dahat, coetusque silentum  Dictaque mirantum magni primordia mundi  Et rerum causas et, quid natura, docebat :  Quid deus, unde nives^ quae fulminis esset origo,  luppiter an venti discussa nube tonarent^   Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent,  Ed quodcumque latet.     At non Chionides Eumolpus in Orphea talis ;   In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ;  Praemia nec Chiron ab Achilli talia eepit,   Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam.  Nomina neu referam longutn collecta per aevum,   Discipulo perii solus ab ipse meo.  E in questi altri versi ecco parimenti accennata con  grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti,  che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera  dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali  dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della na-  tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine,  del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il  corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi  della filosofia naturale e della scienza » Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci-  barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con  molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva-  zione :   Primusque anitnalia mensis  Arguii imponi : primus quuni talibus ora  Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis.   Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per-  sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età dell'oro, quando gli uomini non conoscevano ancora tale  uso; e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo ac-  cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni  più ardue e a svelare più riposti misteri :   Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventem  Rite deum, Delphosque meos ipsumque recludarn  145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis.   Magna, nee ingeniis evestigata priorum,  Quaeque diu latuere, canam. luvat ire per alta     il) I vv. 67-71, cke riassumono la supposta fisica pitagorica,  sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dice il Lafaye, Les mé-  tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904,  p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo.   Astra \ iuoat terris et inerti sede relieta  Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^  150 Palantesque homines passim ac rationis egentes   Despectare procul^ trepidosque obitur/ique timentes  Sic exhortari, seriemque evoltere fati.   « E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina,  seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il  rito, e vi svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi  schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della  mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle  menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulte.  Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban-  donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor-  tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso  Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e  là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con  trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere  la visione del loro destino con queste parole... »   Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono-  scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore  della morte :   genus attonitu7n gelidae formidine ìnortis !  Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana timetis, Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1)   Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas  Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, ^   Morte careni animae; semperque priore relieta  Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae.   (1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie  Georgiche (II, 490-492) :   Felix, qui potuit rerum eognoscere caussas,  Atque metus omnis et inexorabile fatum  Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari,    « schiatta attonita per lo spavento della fredda morte !  Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan-  tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non  crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la  sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire  mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e  sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di-  more che nuovamente le accolgono ».   E in prova di ciò Pitagora ricord d'es-  sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel  corpo d' Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente chiarita  ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol-  garmente attribuita a Pitagora :   Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne   Hue venit^ hine illuc, et quoslibet occupai artus  Spiritus: eque feris humana in corpora transita  Inque feras noster, nec tempore deperii ullo,   Utque novis facilis signatur cera figuris,   Nec manet ut fuerat^ nec formas servai easdem,   Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper eandem  Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras.   « Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er-  rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna  nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor-  pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle     che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun-  gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della  morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè  Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o  passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al-  tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to-  tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi  onde l'anima si compone.    cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando  quale era prima e non conservando le stesse forme, tut-  tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sem-  pre la medesima, senonchò passa sotto varii aspetti » (1).   Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar  carne. A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e  il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il  divenire incessante di tutto il creato :   Et quoniam magno feror aequore plenaque ventis  Vela dedi : nihil est tato, quod perstet, in orbe.  Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur imago.   « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto  mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto  l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni  mutevole aspetto ».   E questa nuova proposizione illustra con una lunga  serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen-  darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi-  tudini degli elementi (vv. 179-251).   Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta-  menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-  versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor-  ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i  saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano  le cause : questi fenomeni straordinari — spesso elencati  e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate     (1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto proba-  bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si  è già visto.     Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen-  za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336  riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabiiia  fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418-  452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società  umane, sino al glorioso principaio d'Augusto, predetto  già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia :   Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere Rotnam^  Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis  Mole sub ingenti rerum fundamina pomi.  Haec igitur forviam crescendo mutata et olim   435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates   Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor,  Dixerat Aeneae^ cum res Troia?ia labaret^  Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis : (1)  « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae   440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia.   fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una  Pergama rapta feres, donec Troiaeque tibique  Externum patria contingat am,ieius arvum,  Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes,   445 Quanta nec est nec erit nec visa prioribus annis.   Hanc aia proceres per saecula longa potentem^  Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli  Efficiet. Quo cum tellus erit u>sa, fruentur  Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus illi ».  Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae  Mente mem,or refero, cognataque moenia laetor  Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos.   Così Pitagora è fatto profeta della divina e fatale po-  tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel     (1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di  Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302,  306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98).   poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi  è assunta quale mezzo artistico per la predizione della  futura grandezza di Rom3.   Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora finalmente ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi-  ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra  anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia-  mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia-  mo scorrere il sangue di nostri congiunti ? » . Analizzato così il contenuto della esposizione  ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia  stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.   Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa domanda noi possiamo rispondere negativamente senz' om-  bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio,  anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me-  tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse-  gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare  pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a  quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem-  pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe-  culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno  una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia  ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua  maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio-  ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad  essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi  delle Tristezze (1).     (1) ìrist,, III, .3, 59-64:   Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^  Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos. E quasi certamente poi questa predilezione del poeta  si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo,  che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima  metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali  traccie se ne riscontrino nella letteratura dell' età di Ci-  cerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del poeta  fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne  notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano  alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce  e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci.  Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio-  ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pitagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi  determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno  riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere  state le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi-  narum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis)     Nam si morte carens vacua volai altus in aura  Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis,   Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^  Ferque feros manes kospita semper erit.   Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col  corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga  alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo spi-  rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri  gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà  costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e-  stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè  mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so-  stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer-  mavano la immortalità dell'anima.  oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei  loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1).   Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi,  sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono  moìto anteriori a lui.   D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio,  più poeta che filosofo, non intese certo di trattar l'argo-  mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte-  nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma  che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che  (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre  che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se-  guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi  della materia dogmatica nella forma genuina soltanto  nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera sua e  non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando  di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo-  strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi-  tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come  a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto  imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute  negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi-     (1) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De  Pythagora omdiano \ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag.  100-107); A. ScHMEKKL, De omdiana Pythagoreae doctrinae adum-  hratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der mìttleren Stoa,  Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificate in parte le  conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X.   (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La dottrina pitagorica e la  eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicato  nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207; e  per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^ Firen-  ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15]. zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore  di documento storico, in quanto che, supplendo in parte  alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito, dovuta  alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^  ci mostra molto approssimativamente in che consistesse  il neo-pitagorismo romano. L'esame che abbiamo così compiuto della filosofia latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua  maggior fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pitaorismo e nelle varie età di Roma abbastanza largamente  conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune  delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tramandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione  e il Canto VI dell' Eneide : sicché dobbiamo concludere  che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una  grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica.  Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono  notevole influsso nel sorgere delle più antiche istituzioni  romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte  titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza  politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il sodalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo  tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza  di resistenza e quella specie di malìa fascinatrice che suscita le pili alte energie morali. Se le idee tanto piii valgono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna  e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita  degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche,  venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie,  molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di moralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore  altissimo.   Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema,  pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al  loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis-  situdini del pensiero, ai loro successivo e alterno rina-  scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più  intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pitagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi  neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Costantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ultimo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo  che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope-  ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e  che accennano per diversi segni, in questa nuova prima-  vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occidentale, noi possiamo con sicurezza affermare che esse  non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero  individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga  perenne dalle più profonde radici dell'anima umana.     (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di  scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova,  Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale del  Mattino di Bologna.    p: U P H O R B o s.     Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^  a. XXXIX, fase. 2 (marzo-aprile 1912) Genova. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. Pitagora rincaraazione  di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora.     1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per  Eùphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver-  so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse  « muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve-  ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni  sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me-  nelao, dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo  Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura non solo di una  spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade, ma  di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato  per sempre al ricordo di un grande pensiero e di una  più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.   Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0-  mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto  dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione guer-  resca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille , più  grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata  del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le  armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia,   verso l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad  Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi  « tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo  del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto cadere  lo scudo, slacciata la corazza:   II. XVI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi  e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta  infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un trojano,  il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali  con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi,   810 ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati  venti nemici avea, di guerra già prode campione.  Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ;  ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia,  tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro   815 Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1).  Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta,  anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte.  Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi  Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia,   820 presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse  sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta.  Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai.     (1) I versi 814-815 trovo segnati come spurii nella quinta edi-  zione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia, 1890), sulla quale  è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare ohe sia  proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi, così ome-  rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima  la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle carni  di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore in-  nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1' ardito colpo  del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa-  troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere an-  cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla fe-  rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a Patroclo, Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma  il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto-  ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno  ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini,  Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano  d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di  battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca  di portare in salvo il cocchio d'Achille.   A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A-  tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti  al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-  mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora  Eùphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei piìi  begli episodi della battaglia :   II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1), s'avvide  ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi     che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un  troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che  non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen-  tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio  di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene-  lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa-  role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo:   Anzi dal corpo ricovrando il ferro   Si fuggi pauroso, e nella turba   Si confuse il fellon, che di Patroclo   Benché piagato e già dell'armi ignudo   Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150)   (1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta  ha detto che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia »  (XVI, 809), e che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806  e XVII, lo), come con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo  di Menelao (XVIi, 43-45).  disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao :  « Menelao, divino germoglio, signor di gran genti,  vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1).  Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati,   15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia:  lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojani,  che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ».  Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo :  « Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi !   20 Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone  di cignal feroce, a cui nel fiorissimo petto  gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza,  qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria !  Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse   25 di giovinezza il fiore, allor che sprezzante affrontommi  e disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero !  Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato,  ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti !  Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci,   30 rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti   dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ».  Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose :  « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta  pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando -   35 e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa,  e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti !  Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua,  se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja,  fra le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide!   40 Ma non più a lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi  s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura ».  Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo,  ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta  nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta     (1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo,  giacevano in terra poco lungi dal cadavere.  l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre,   e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del collo;  dentro spinge con forza calcando la mano pesante,  e dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta.  Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ;   50 s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1)  i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento.  Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come l' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2;  ma piombando improvviso un vento con turbine grande  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte;  tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo  l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi,   60 Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti *  da pascolante gregge rapì la giovenca più bella,   Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co-  me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin-  daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun-  ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let-  teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro,  fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si veda  in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire  a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: « e  « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si-  « mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in-  « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi-  « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII).   (2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta-  gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante  s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro  fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla prima  fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian-  ta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet-  to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che  già s' intesseva intorno al suo capo. ]  cui la cervice infranse tenendola forte co' denti,  poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —  intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono  65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno  non regge il cor, che tutti li fa scolorir la paura;  così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita,  eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao,   E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi  di Eùphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il  quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente, lo  consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli  d'Achille e ad accorrere invece là dove   or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo,  89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani,  il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire.   Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede  r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in  terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi-  neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito,  non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il  corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare  qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure  portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura;  della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi,  quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi  entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso  trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene.   Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e glo-  rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per  avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere  non meno belle e gloriose? Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman-  dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola  italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi-  cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di  « bronzo, disse che quello portava e gli era stat^ tolto  « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli Argivi,  « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome  « d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero  (//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor-  dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto  per citare i piìi noti, quella famosa ode d'Archita, dove  Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che  « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso  « all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece  « staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja-  « na, non avesse concesso alla nera morte niente più che  « i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico  ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me-  tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2)  Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi  fa esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli-  cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo :   Ben io — sì lo rammento — nei dì della guerra di Troja  ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto     (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 :   habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissum, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus, nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   (2J Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati » ]    la grave lancia infissa, per man .del più giovine Atride,   Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne,   or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1)   E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por-  firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie  intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava  « a molti di quelli che si recavano da lui la precedente  « vita che 1' anima loro aveva vissuto già un tempo pri-  « ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso  « rivelò con prove indubitabili d'essere stato Euphorbos  « figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa-  « gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza:   50 s' insaguinàr le chiome, che simili aveva a le Grazie,  i caj)elli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento.  Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre,   ma piombando improvviso un vento con turbine grand®  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ;  tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo  r Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi.   < Poiché quel che si racconta dello scudo di questo  « Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino     (1) Ovidio, Metamorph. XV, vv. 160-164:   Ipse ego — nam memini — Trojani tempore belli  Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam  Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae.  Cognovi clipeum, laevae gestamina nostrae,  Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis,  « trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si-  « lenzio come cosa ben nota » (1).   La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi.  Ora quale ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e  semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem-  mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace  del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina  della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la  storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne  autore lo stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da  quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che  il filosofo, appassionato lettore d' Omero, recitava e can-  tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Eùphor-  bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più  semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan-  tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde  testimonianza degli antichi. Vi è forse nella cosa alcun-  ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero-  simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi-  cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia  e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-  culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi  seguaci ? Dunque e ben possibile che egli, il quale aveva  virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi-  glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante  profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi  in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche  magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-     (1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei  Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo,  questi si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».   ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal  corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere  nel suo passato la storia della propria anima e ne desse  notizia ~ se non proprio alle turbe — agi' iniziati della  sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei  quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me  r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven-  tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite  anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che  credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge-  re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma-  gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine  prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo  stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e  naturalmente anche credere — poiché non é ammissibile  la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu  tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato  Eùphorbos.   Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi  accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha  tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di  essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di  conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà  storica d' Eùphorbos, non già iato dalla feconda fantasia  d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que-  sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo —  per non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette  nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza  di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di  Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e  dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la qui-  stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto Wolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere  e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo-  sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre  incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por-  firio, un poco più innanzi : « Affermava di essere già vis-  « suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù-  « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro  « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è  « immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi  « dell'antica sua vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha  conservato in proposito una testimonianza — che risali-  rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu-  sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di  Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in-  carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma  anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione),  anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che sarebbe     (1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo ~ anche  in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega-  zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come  possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti  del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si  mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup  {Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in  Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e  in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli  rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione  contro Troja (p. 231 e seg.).   (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani,  come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio {Epit. Instit.  dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24).   inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas,  e non a Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio :  « Dice Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava di  « se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her-  « raes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che  « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il dono  « di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti  « gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto,  « e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria.  « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da Me-  te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo  « Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor-  « dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute,  « e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e  « che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte  « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos morì  « la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta,  « volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran-  « chidas ed entrato nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo  « che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re-  « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che quan-     ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes,  il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle  dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere  in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva di Pitagora  un « figlio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico  fraintese.   (2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion  di Micene, dice ben chiaro che nel pronao del tempio, a destra,  dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno  scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ». (De-  scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché sappiamo che Pausania  descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto coi suoi occhi    « do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ;  « e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima  « Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E  « che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda-  « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo, ma a  sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis-  suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb-  bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre  volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come  una bella etera chiamata Alce (2).   E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte-  e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le  più varie condizioni d' esistenza, sarà essa — dopo aver  compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino -—  tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer-  sale ? (3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma-  na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano?     (tanto che una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta  delle famose tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto  quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane  fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del  tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza  dell'antica notissima tradizione? Pausania in ogni modo visse  nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo.   (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5.   (2) Gellio, Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero  « ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita  « haec remotiora sunt bis, quae Glearchus et Dicaearchus memo-  « riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam,  « deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen fuerat  « Alce ».   (3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i  principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De  republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva commesso ingiu-    « Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo-  « sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma  « r anima mia venisse via da Apollo volando, ed entrasse  « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa...  « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi  « ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare  « in Pitagora ; ma fra 1' un tempo e V altro non ebbi  « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse  « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di Pitagora  « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di  « Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo  « Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? —  « Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza!  « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po-  « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-  « chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte.  « Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le     stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima  ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare  le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in  tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina)  almeno altre due vite. — - Per il luogo platonico e le relazioni che  esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si  veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea  del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^ II, pa-  gina 199).   (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul-  le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^  II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di  « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva  « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette  « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de-  « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia-  « marlo Pitagora od Euforbo ».  « altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove-  « relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa-  « gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que-  « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè  « non sai i mali che comportano... » (1).   E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu-  dere questa singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto,  il quale fu veramente molto caro ai celesti.     (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga-  sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no-  stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Eùphor-  bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice  delle opere di Luciano.  IL SODALIZIO PITAGORICO  DI CROTONE.     Edito dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto  e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi. XXXVII,  n. 219-20 (nov.-dic. 1905).     Oggetto del presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So-  dalizio pitagorico. — 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du-  rata. — 5. Suo ordinamento. — 6, Natura degl'insegnamenti  che vi si impartivano. — 7. Conclusione.     L — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel-  r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-  smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato  nelle regioni d' Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in  Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nell' E-  gitto — e ^ver presa quivi conoscenza delle dottrine se-  grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio  nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse  (604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1)  venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della  Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di  ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap-  punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la  costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose  e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta.     (1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G.  De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904,  22 ediz. 1919).  che ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1),  Porfirio (2), GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4),  nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori,  delle quali poi si servirono, in misura piii o meno larga,  con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del-  la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico  in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen-  tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6)  ed altri.   2. — Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con-  corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o  poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom-  pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da  Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da  conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in  gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che     (1) Vitae et placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I.   (2) De vita Pythagorae.   (3) De pythagorica vita.   (4) Stromat. libri, passim.   (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum conditae  scopo politico commentano^ Gotting, 1831.   (6) Les Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari,  Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192.   (7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno  della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dall' Ueberweg,  Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p.  I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto  all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi  si trovasse già.   (8) GlAMBL. 29.   (9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e  Cfr. GlAMBL. l. e. 30.  predicava verità non mai udite prima d'allora in quella  regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza  tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al-  lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su-  scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira-  tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion  od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse-  gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi-  vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo  presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti-  colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai  giovani che vi si trovavano suscitandone l' ammirazione (2),  del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori  avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ;  ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne  tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico  il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron-  tamente, mossi dalla fama, subito dilBFusa per tutto il  paese, della grande austerità d' aspetto, della dolce soavità  d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo-  restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli  potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi     (1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella  che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana.   (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di-  scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento esso-  terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo  Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi pare  sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri-  ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal  secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co-  nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ».  si allargò, diffondendosi nei paesi vicini della Magna Gre-  cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca-  tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle  tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed  anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo' i  sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco,  Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro (2),  sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque  r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo  modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea-  lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione  nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la  diffeirenza di razze degli Elleni italioti » ; il che peraltro  ò inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento di Pi-  tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu  politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-  giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco-  glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato,  una persona con la quale egli doveva essersi trovato in  rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero-  tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze  personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone  e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia     (1) DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc.   (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf.  21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili, 17 ; Diod.  XII, 20.   (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54; Giambl. 33, 50, 132,  214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554; Giustino XX, 4;  Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776.   (4) Op. ciL, V. I, p. 75,   (5) Cognetti De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465.  furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse-  che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al-  tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in-  tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni  moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron-  to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi  più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder-  na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno  sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita-  goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto  che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza  morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del  Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare  più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico,  di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren-  sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti-  rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella  spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al-  tri tutti i grandi apostoli dell' umanità.   Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto     (1) Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e ca-  valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac-  chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II).  Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me-  ridionale, (di dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a nuovo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola di Bernardino  Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru-  no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg.   (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit-  tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell' Homakoeion e vis-  sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati  loro dal filosofo, che veneravano come un Dio.   l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla  sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-  dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del-  l' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato,  egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.  L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione,  un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot-  to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della  teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle  arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle  scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intel-  letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come  l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita-  gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu  il piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an-  ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il  frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin-  di quell'attuazione interna e viva della verità che sola  può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma d'im-  portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2).   3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno  all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita-  gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso     (1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno  studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era  impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa-  rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267,  dà i nomi di 17, tutte chiarissime— -Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo.  Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche Schure, op. cit. pa-  gine 379 sgg.   (2) ScHURÈ op. cit. p. 314.  e il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per  quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo  Sodalizio.   Alcuni non ne videro che l'intento politico; così, se-  condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo  di restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto  degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno  morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem-  bri buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg-  gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po-  tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo  che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al  suo stato ; e di far studiare la filosofia a coloro che si  accingessero al governo dello Stato, perchè non si può  aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia  colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-  perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito  del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono  politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;  né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o  alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ; il con-  tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una  parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema  scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile.  Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe-     (1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc.  etc. V. II, p. ]85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma  antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze  « oligarchiche informavano la lega solidaria degli « Amici » (?),  « fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la  « classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei  « della classe servile ecc. » !  rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago-  rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche intorno  a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di Stato,  il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1).  In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu-  mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e  una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la  più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con  questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile  e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente  e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni  discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola,  nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dot-  trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e  con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in  conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un  mutamento anche nel governo della città, per il fatto  che i primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove  dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi  direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente,  se erano privati cittadini, dovettero portare nel governo  un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.  L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come  osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto  dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i  migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co-  me un' associazione politica, ciò è vero a patto che non  vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso,  etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi-     ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6; Erodoto IV, 95 — Zeller, D.  PhiL d, Oriech. P p. 328.  zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè  invece fu proprio il contrario.   Assai diversamente giudicò la natura della società pi-  tagorica il Grote (1), che la disse di carattere religioso  ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante,  poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di  influire nel governo e sul governo, mentre i contempla-  tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza-  zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano  una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci  del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo  d'uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli-  giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (? !)  d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione  con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi è  appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la  mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio  in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto l' in-  segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera-  vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non  si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio-  nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì  bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in  Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole  filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa  nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque  derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica,  fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla-  bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla     (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter, Oeseh. d, Phi-  los, I, p. 365 sgg.     192     setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po-  tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi-  rito che informava quell' antichissimo istituto ; è un giu-  dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne  gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno svi-  sare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apo-  stoli che r umanità abbia avuto.   Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan-  to egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' in-  tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più giusto  e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la-  sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede  uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So-  « ci età modello, la quale, se intendeva a migliorare le  « condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare  « una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa  « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo  « morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per-  « fezionamento del vivere secondo un' idea tanto larga  « quanto è la virtualità delV umana natura » (2). Con  lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel-  ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le  associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog-  giato su motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu-  cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris-  se con molta verità che Pitagora fu « non solo il Maestro  « d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una     (1) Op. Git. l, p. 83.   (2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi-  renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg.   (3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98.   (4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328.    « nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi-  « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va  intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come  ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori-  gini assai remote.   Se tale era dunque l' intento della Società pita-  gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande  di Samo pose quella di riformare interiormente gli uomini  e con ciò di modificare anche — necessariamente — le  condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli  mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in-  teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali  ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono-  scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore  di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico,  era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-  scitare i timori degli elementi conservatori della società  crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari-  stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien-  za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano  allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire  al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della  gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge-  re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre-  dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle  nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per-  sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo mo-  vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi-  co e sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de-     (5) Qeseh. d, Alter. VI, p. 636.   13.   bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti  e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre  partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove  dottrine. Ma di questo noTi è fatto ricordo da nessun au-  tore. È fatto invoce espresso ricordo di un tal Cilene,  aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la sua  inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So-  dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co-  minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun-  niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e 1' azione  segreta della Società, continuando la lotta con quell'a-  sprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gra-  vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da  molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla  sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche,  allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil-  mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano  dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon-  dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen-  ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero,  dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro  il filosofo ed i suoi seguaci. Così che, se  il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi-  mento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte  meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1).  Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, die,  dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a Locri,  fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do-  po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago- V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti,  op. cit. p. 4l6 sgg.   rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e  profughi nelle terre vicine.   La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non  pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna-  mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se-  coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata  religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione  in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa-  cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-  che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic-  cola parte poterono conoscerle. Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti;  quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-  poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici  uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro  volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi  gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e  discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso-  terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le-  ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente morale (3), e     (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che \q sissitie italiche,  anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo  per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V. Cen-  TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466.   (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e noli' Italia me-  dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La  repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro-  ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato  neir istituto Crotonese.   !3; V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ;  PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil-  LOisoN, Anecd. II, 216. - Secondo uno scrittore dal quale attinse     19t)     non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come  dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die-  tro un velario che lo nascondeva ai loro occhi.   Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi d'i-  niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove  ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non  ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut-  to, come ci narra Aulo Gelilo (1), un esame fisionomico  che attestasse della buona disposizione morale e delle  attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame  era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla  moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era  ammesso senz'altro e gli era prescritto un determinato  periodo di silenzio (echemythia), che variava, secondo gli  individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non  gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri,  senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In  questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e  severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata  per mezzo di prove assai difficili, prese dall'iniziazione  egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui erano     Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in Sebastici, politici,  matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e lo stesso scrittore  aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago-  rici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici o novizi  pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg.,  966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica  erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra-  gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o  discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di pri-  mo grado.   (1) Noci. Att. I, 9.   (2) OmaiNE fa Pitagora inventore della « fisionomica ».  sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato,  col lungo tirocinio, le due cose piti difficili, cioè l'ascol-  tare e il tacer e, erano ammessi fra i matematici (1) e  allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche  scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen-  te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad  accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro  sapienza si faceva a grado a grado più elevata e più va-  sta, sino a giungere all'intelligenza deìV Essere assoluto,  immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava a  questa che era la più alta cima della speculazione filo-  sofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso-  terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia-  zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleìos) e di ve  nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per eccellenza  nomo.   L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era  quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri,  senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per-  sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche  cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar-  tenere alla Società e considerati come morti dagli altri  confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti-     (Ij Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo-  tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la musica ed altre d' ordine  superiore, per mezzo delle quali si elevavano alle più sublimi ed  eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E-  LiANO, Var. Hist. IX, 22.   (2) V. Tauro pr. Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II,  15; Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel.  71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct.  3; Plut, De curios. p. 309.  tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale  quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu-  stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2).  Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur  avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza  spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che  aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò  bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun-  ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da  un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere  impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le de-  lusioni.   L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta  iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica.  Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non  sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre     (1) A questo proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D),  che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap-  punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro  con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche  Diogene Laerzio (VITI, lo) e Giamblico (199), fu cacciato dalla  Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn III, p. 142 e II, p. 67 Can-  tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet. I, 2.   (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1;  PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg.,  246 sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr.  Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma-  zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso  scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl-  lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si  tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ra-  gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54) af-  ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento  pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ».   ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural-  mente informavano ai principii morali e alle conoscenze  acquisite, diffondendo così con la pratica e con la parola  il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano  questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo-  nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre  nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre  pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so-  pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di  orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione  di beni. E non è poi così strano da doversene negare la  verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re-  ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme' per  uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per  il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle  loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^  non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu-  nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale  pensare che, per la virtù della fratellanza e dell'amore  acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse  spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me-     (1) Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr.  Diog. X, Il e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche,  secondo Fozio (Lex. y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu-  nità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re-  centi. Ma cfr. anche gli Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e  le testimonianze che troviamo in Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol.  Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il  Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata  una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli  amici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi  che non è neppur corto che questa massima appartenesse in modo  particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8, 1168 b 0).   desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed infatti  noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni  di riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno-  mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri-  stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per  conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni  sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di  altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia  come nella Grecia e nell'Oriente (6).   La vita che si conduceva nell' istituto da quei disce-  poli che vi rimanevano in permanenza ci e sufficiente-  mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le  notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori.  Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra-  sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen-  si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razionale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano     (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. Vili, 21.   (2) GiAMBL. 238.   ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249 Dind.   (4) Krische l. e. p. 44.   (5) Luciano, De Salut.^ e. 5.   (6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a-  dunanze notturne di cui ci parla Diog. VIII, 15) si è paragonato  da alcuno l' Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri  tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dici, de  biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les  souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens  ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle  société de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ».   (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un  libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256.   date più in forma di redola o di consiglio, che di vero  e proprio comando (1).   Di buon mattino, dopo Ja levata del sole, i cenobiti  si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen-  ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri-  ma di avere ben disposto il loro animo con la medita-  zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi  in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi-  ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica-  vano continuamente particolari esercizi per acquistare la  padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup-  pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa-  coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat-  tava peraltro né di mortificazione della carne e rinun-  zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia vita,  ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-  tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado  di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que-  sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi-  mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto  sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-  mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin-  nastici d' ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri-  zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi  e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi,    Il rispetto alia libertà individuale era una delle caratteristi-  che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V. su  tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque insti-  siuerit (1833).   Anche questa era una sapiente e razionale disposizione, abi-  tuando i discepoli alla virtù attiva. ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes-  se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare  inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe  cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità  ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera  durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter-  minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg-  giate, non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre,  e dal  bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno  alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a  discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia-  no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della  buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad  una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde  tutte le parti del corpo sono composte a costante unità  di vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo-  rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta-     I     (1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle  carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria-  no, come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV  a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer-  mare che tale dieta fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al-  trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze  parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil-  mente P astinenza dalle carni e dal vino ( quella delle fave pare  fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice  uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di manteaer sempre sve-  glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur conservandolo  sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della  trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ;  poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel-  lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della sua  derivazione dall' Egitto.  mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man-  cavano iiifìno, durante la giornata, alcune semplici ceri-  monie religiose, piii precisamente simboliche, che servi-  vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il  culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a  cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del  Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun  individuo umano.   Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac-  cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli lunghi (3).  Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo Zeller,  non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è  contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano,  moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto piìi  figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri-     (1) Cento FANTI, op. cit. p. 390.   i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco  cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui è  forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non  parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56;  Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32.   (3) FlLOSTR. l. C.   (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e Diog. Vili,  19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da alcuni si  affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore carna-  le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse loro  proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra-  tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci-  tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si  abbandonasse a pratiche sessuali » .   (5) Ermesianatte pr. Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf.  19 ; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204;  Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug. praec. 31, p. 142 ; Stob.  Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii. Monac. 268-270 (Stob.  Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi. 12.  guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1);  e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito  della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa-  cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta  precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto  alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere  che una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti  interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre-  dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta-  colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni.   6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della  storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno.  Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab-  biamo dunque veduto che esso era duplice e che per  essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario  aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de-  gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo.  Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del-  l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim-  bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente  morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote-  rici erano iniziati gradatamente a forme sempre piìi ele-  vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste  sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da  ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio  che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il  loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi-     I     (1) DioG. vili, 9.   (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo, uno  dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cortare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero  date in balia a menti inette a comprenderle, le quali,  appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,  limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza  inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle  dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri-  terio usato neir impartirle era dunque che « non si do-  vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico  nel senso più ampio e più bello della parola — del pro-  porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non  può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e  di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni  tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via  perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per-  fezione primitiva ed abbiano finito o con V andare sog-  gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od  anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale,  pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for-  mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto  all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e  le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol-  gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella  progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo  i gradi della superiorità loro nell' ordinata ed armonica  conformazione della persona umana, non veniva ad esse-  re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale  sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di  ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace  indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava     NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una.  simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci. mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la  vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si-  stematica e c(mtiuua, e delle attitudini individuali face-  vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli  che erano piti in alto nell' ascesa verso la perfezione.   Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi-  ni era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava  sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e desi-  derose di attuare quant' ò possibile in questa vita quel-  l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne  aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegna-  mento invece era il principio autoritario che prevaleva ;  principio razionale e giusto quando corrisponda a una  vera gradazione di merito e di valore individuale, e per  nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia animato  vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri,  e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi  si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac-  quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre  nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara,  finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine  necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non  sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si  unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché  non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es-  sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era  necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo-  ro ragioni intrinseche ed ideali, non era possibile l'inse-  gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro  lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-  rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse  accompagnata anche la persuasione, nata dal riconoscimento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese,  era giustissimo il priocipio di coordinare l'insegnamento  teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti accettavano  volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati  superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli-  ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'auto-  rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè  gradatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo  per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit  era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la  parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora  condizionata alla visione delle verità più alte e non par-  tecipante al sacramento della Società », mentre poi il  vedere in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto la meritata ini-  ziazione all'arcano della Società e della scienza ». Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva  l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e  prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò  fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere  tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a  quale spirito era informato un. sistema educativo, che non  solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po-  tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu-  zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri-  na pitagorica è già stata fatta da molti), basti qui il  dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli-  [Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori di Centofanti e ScHURÈ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte  il necessario corredo di prove e di testimonianze.   gioso che la tradizione leggendaria personificò in Orfeo, coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e  compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimentale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta  la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con  l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze teoriche, ma  anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado  la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ottenuto con lunghe e pazienti pratiche delle facoltà  latenti del riposto ego divino, principio sostanziale di ogni  attività dell* uomo. Erano pratiche magiche che si usavano del resto in tutte le  scuole mistiche e che non eccedevano, se non apparentemente e solo per i profani, i limiti della natura; e chi abbia una conoscenza anche superficiale di questi studi sa bene che la magia non  era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi  particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste pra-  tiche V. Plut. Numa, Apul. De Magia; Porf.; GiAMBL., dove sì parla di « antichi scrittori  degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut., Euseb. pr.  ev.; Aristot. p. Eliano, ecc. Inizii leggendarii e storici. Quinto Ennio e i suoi tempi. Sette e scuole pitagoriciie in Roma. Pitagora e le sue dottrine nei filosofi latini. Lucrezio e il poema « Della Natura ». Frammenti della dottrina di Pitagora desunti dalle opere di Varrone. Appio Claudio Pulcro. CICERONE e il Somnium Scipionis. Mimi. Orazio.Virgilio. Pitagora e le sue dottrine nella poesia di Ovidio. Eitphorhos. Il Sodalizio pitagorico di Crotone rigs pytagoreum pythagoreum Turis Turio fatto fatta persino e persino permaneant permanont stituiti istituti Queste righe sono rimaste inter nel testo, mentre andavano in i pie di pagina ist  isti per fra intellegibili    intelligibili    »ultima  Geory. Georg. ferun    ferunt   prae vista    praevisa   aequo  aeque   ilUis  illis  maior maiore Mullach Mullach ultima    Leipzg    Leipzig  (Centra   Centra  a poco    a poco a poco senza altro senz'altro Gianola.  La fortuna de Pitagora presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto. Enrico Caporali. Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” – The Swimming-Pool Library. Caporali.

 

Grice e Cappelletti: l’implicatura conversazionale dell’entellechia – izzing and hazzing -- all’origine della filosofia antropologica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean, one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the ‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble: vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it shows!” --  Vincenzo Cappelletti (Roma ), filosofo.  Dopo gli studi liceali classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Consegue la libera docenza in storia della scienza che insegna, per incarico, all'Perugia, quindi, all'Roma La Sapienza dove consegue l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università Roma Tre fino a quando è andato in quiescenza. Collabora con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne vicedirettore generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti editoriali. Vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis, quindi da Aldo Ferrabino di cui C. sarà appunto collaboratore. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei "Martedì Letterari". Presidente della Domus Galilaeana di Pisa e dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi presidente, promuovendone il passaggio da istituzione culturale a ente di ricerca. Presiede inoltre la Società Europea di Cultura,il Centro Italiano di Sessuologia, la Fondazione Nazionale "C. Collodi", il Consorzio BAICR-Sistema Cultura (Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma), la Fondazione FUCI. Dottore honoris causa dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Riceve il Premio internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito accademico, è insignito della medaglia Koiré dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza.  La sua attività scientifica ha riguardato inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Virchow, Helmholtz. Quindi, dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane. Emil Du Bois-ReymondI sette enigmi del mondo, Firenze, Tip. L'impronta,; Atomi e vita, Bologna, Cappelli; Entelechìa. Saggi sulle dottrine biologiche; Firenze, G.C. Sansoni; Opere di Helmholtz, Torino, POMBA; Virchow Vecchio e nuovo vitalismo, Roma-Bari, Editori Laterza; L'interpretazione dei fenomeni della vita, Bologna, Società editrice il Mulino; Emil Du Bois-ReymondI confini della conoscenza della natura, Milano, Giangiacomo Feltrinelli; Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza; Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica, curati da C. e Antiseri; Roma, Arti grafiche E. Cossidente; La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni Studium; Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio Tonini, Roma, Casa Editrice Jouvence; Antropologia dei valori e critica del marxismo, Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia; Alle origini della "philosophia anthropologica", Napoli, Guida; De sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; L'Enciclopedia Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro; Le scienze umane nella cultura e nella società odierne, Edizioni Studium; Etnia e Stato, localismo e universalismo, Roma, Edizioni Studium; Introduzione a Freud, Roma, Laterza; Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe Bertagna), Roma, Edizioni Studium,. Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte, Roma; Notizie bio-bibliografiche sull'autore si trovano in C., Natura e pensiero. Percorsi storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino; Appendice; Cfr. C. "Attualità della storiografia scientifica", in:  La storiografia della scienza: metodi e prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, Domus Galilaeana (Pisa), CLUEB, Bologna. La maggior parte delle notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore scritta da Cimino per l'Enciclopedia Italiana; Istituto Italiano di Studi germaniciHome page  Società europea di Cultura; Cimino, C., Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   italiana di Vincenzo Cappelletti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza  Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su RadioRadicale, Radio Radicale. C. La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine inconscio, documento video, Rai Scuola. Filosofia Filosofo Storici della scienza italiani  Roma Roma.  Il termine entelechia (entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo», a significare una sorta di «finalità interiore».  Aristotele parla di entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto. È noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da una stessa universale Anima del mondo.  Anche Leibniz conciliò l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non riceve alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso unitario, retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto proprio ma sincronizzati tra di loro.  Goethe in seguito designò come entelechia l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore, adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali in cui si imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta immanente agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima); Così Plotino in Enneadi; Goethe, La metamorfosi delle piante; Sul concetto di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di Faust, Olschki; Dizionario di filosofia Treccani. Voci correlate Aristotele Monade Entelechia, Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Entelechia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.Filosofia Portale Filosofia: filosofia Categorie: AristoteleConcetti filosofici greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia Termine usato da Aristotele in contrapposto a potenza (δύναμις), per designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il termine fu ripreso da Leibniz per indicare la monade, in quanto ha in sé il perfetto fine organico del suo sviluppo.  Nel campo delle scienze biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè dell’organismo completamente sviluppato. Energeia and Entelecheia. Entelecheia possible to transfer this meaning to the opposite extreme, so something can be “completely ruined”  or destroyed: “even death is by a transference of meaning called an end, because both are extremes, and the end for the sake of which something is is an extreme” (Met.). Thus,  telos  is not determined by its being opposed to something. It is not logically or ontologically dependent on its opposite. Rather, the opposite is borrows its meaning from the telos. It is not defined as the end-point of a sequence. Rather, the sequence is derived from it by positing an opposite. Aristotle argues for the primacy of an ongoing condition of  telos over telos as endpoint in his discussion of happiness in a complete life (Eth. Nich.). The primacy of the completion-related use of “telos” (fine, end) over its sequence-related usage is reinforced by  Aristotle’s use of telos to mean source (archē). The completion-related use is evident in the phrase, “hoi en telei,” which refers to a governor or magistrate. Telos thus suggests “origin (archē)”, a source of  action, events, or being that directs or structures what arises from it. Aristotle argues for the identification of telos with archē in Met. To be a  telos  is primarily to be that for the sake of which, which is different from (though not exclusive of) being an end-point of change (Met.).  When we speak of teleology, we may not necessarily mean Aristotle’s concept of  telos. We seem to mean the Scholastic idea of teleology, that is, an assimilation of the Aristotelian idea to the historical concept of divine providence (il fatum). It thus takes on the usage, for us, of a kind of goal set for a creature in advance, external to it, and toward which it is confined to strive. By contrast, at minimum, telos in Aristotle means the inherent completeness or wholeness of a thing, a completeness that may coincide with, and be  the thing itself. “ Telos ,”  for Aristotle, does not  primarily mean “ended,” or “ finished .” It means  “complete,” “fully there ,”whole,”   “entire ;” and here it means “having its complete sense.”  Its finality is akin to what makes us say  “at last ,” as  in “at last we find water.” Echein. The word  echein   means “to have” or “to hold on” to something. The “grip” of having, as it were, is “being in charge of, keeping,” or even “holding in guard, keeping safe,” and in a related sense, “holding fast, supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can mean “to be able.” When a location is specified, it can mean “to dwell” there.  The relationship of  telos  to being is the reason the word  echei  , “have,” is im portant to  entelecheia.  Aristotle uses  echein  to say: “Those things are said to be complete [ teleia ]   for which a good  telos  initiates activity from within [ huparchei ], since it is by having the  telos  that they are complete ”  (Met.). A thing is complete (teleia) by having or holding onto  telos . “Having,” then, stands in for the term “initiate from within” (huparchei ), a word often translated as “belong to” or “be present.”  Echein,  then, is another way to express the inherence of the  telos . The most revelatory sense of  echein  for our current context, perhaps, is that in ordinary Greek  the verb can substitute for “be”: in response to a greeting,   kalōs echei   means “it is well.” 29  Now3: Energeia and Entelecheia Energeia and Entelecheia in the Proof of Change 10  “having,” “holding on,” and “sustaining” are ongoing conditions or activities. Using  echein  as a synonym for being, then suggests that being is not static or passive, but a continual accomplishment. Based on these considerations, it seems clear that the standard practice, which translates  both  energeia  and  entelecheia  with the word “actuality,” should be abandoned. Energeia  should be  rendered “being-at-work” or “activity,” but could also be translated “being insofar as it works.”  Entelecheia  can only be rendered by a range of nearly-equivalent renderings. “en-“  literally  makes the word mean ‘being in the  telos,’  ‘telos’ is not conceived horizontally as “at the end of a sequence” or “finished off,” but vertically, as fulfillment, completion, or accomplishment, while  echein  means ongoing activity, but also is a word for being. In general, entelecheia  should be rendered   by “being-complete,” with the word “being” a translation of “having” (echein), and understood as an  ongoing accomplishment. Less versatile translations are “staying-fulfilled,” “holding o nto  completion,” “holding itself in completion,” “holding its completion in itself,” “in active completion,” and other such formulae.   Energeia   and  Entelecheia  in the Proof of Change  Now that we have examined the words  energeia  and  entelecheia  themselves in general, we  need to see how they are used in Aristotle’s account of change, and to resolve an apparent self -contradiction in the use of being-complete (entelecheia)  to define incomplete motion. I shall argue that energeia  applies to individuals, while entelecheia applies to composites, a broader class of things that includes individuals. In the proof for the existence of change, energeia and entelecheia  are used differently: being- built (oikodomeitai)  is the being-at-work (energeia) of what is built (oikodomēton ), while building (oikodomēsis) is change (kinēsis) and the being-in-completion (entelecheia) of what is built as built:  being-complete (entelecheia) change  building  being-at-work ( energeia ) of agent being-at-work ( energeia ) of what is worked-on  builder / agent ( oikodomikon ) buildable / patient ( oikodomēton ) requires buildable requires builder  Energeia  as being-built ( oikodomeitai ) means theVincenzo Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia antropologica, entelechia – vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The Swimming-Pool Library. Cappelletti.

 

Grice e Capra: l’implicatura conversazionale del del corpo animato – delo l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic] -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste   e descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di C. non si conoscono esattamente il luogo e la data precisa della morte.  Uomini illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio; che noi non vogliamo, ne dobbiam difendere l'Immortalità dell? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi, l'immortalità dell'animo è vita futura? rispondiamo, esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole corporea Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo, mostravano, che questa immortalità intendeano, come una permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pen​sare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasti​camente irretita la mitica. L'uomo adunque, come egli è creato in mezzo fra l’Angelo, e la bestia, cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello spirito, e in alcune cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della carne insino, che la carne. Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando de Sede Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere firum, qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque competit corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti Bufalini, C., de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. Panormi, apud J. F. De Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum  C., nicosioto, il quale inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta, adversus Galenum, l'altro De Immortalitate A nimae rationalis, justa principia Aristotelis, adversus Epicurum, LUCREZIO et Pythagoricos; C., nicosiensis, De sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum. Panormi in 4. De immortalitate animae rationalis, iuxta principia Aristotelis, adversus Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal C. in quel torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta, adversum Galenum. Quaesitum (Panor.); De immortalitate. C., filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di C., si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, C. dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della psicologia aristotelica. Per C. la quaestio de sede animae si presenta immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. C. distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo C., evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, C. fa affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue C., si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da C.. Et cum cor primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gl’anatomisti inoltre legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo C., infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo C. e possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo)   negli accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la soluzione fornita da C. è quella di postulare una duplice unione tra anima e corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire:  conclusione. Alla mente non spetta una sede. Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione. Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima. Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Tota humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Imaginativa est sedes mentis. Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede animae et mentis” C. si assiste al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica mossa da Telesio nel Quod animal universum.  Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza, non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond, l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continua nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro e un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella “Retorica,” Aristotele individua in primo luogo due ca­tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (“theo­ros”) e colui che decide (“krits”). Il primo agisce nella dimen­sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­to. Il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro. Co­me osserva giustamente Lanza, la classificazione è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­po che fin dall'epoca d’Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro fatto importante inaugurato dalla riflessione aristotelica è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguaggio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché in alcune teorie semiologiche è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­gni". Anzi, secondo un certo strutturalismo, questi termini del linguaggio sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­dello anche per gl’altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gl’elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di “simbolo”, mentre gl’altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­nati semeia o tekmiria. La teoria del segno propriamen­te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­noscenza. Il “simbolo” linguistico è connesso princi­palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra una espressione linguistica, una astrazione concettuali ed uno stato del mondo. È nel “De interpretatione” che Aristotele espone la sua teo­ ria del *simbolo* linguistico, articolandola secondo uno sche­ma a tre termini. Un suono della voce e un "simbolo" di una affezione dell'anima, la quale, a loro volta, e l’im­magine di una cosa esterna. Ordunque, i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo, poi, che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­desimi; tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono l’immagine (homoi 6mata) di una cosa (pragma­), già identici per tutti. (Arist., De int.) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­mine “semeion” come apparente sinonimo di “simbolo” non si­gnifica affatto che le due espressioni sono intercambiabili. In questo passo Aristotele usa il termine “semeion” in un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma appunto la tenden­za a un “uso sfumato” di una espressione del lessico semiotico, quando non e in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. Qui Aristotele usa “semeion” per dire che l'esistenza di un suono (o di una lettera) può essere considerata come un indizio dell’esistenza parallela di una affezio­ne dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo. Affezione dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil). Penstero (nomat8)  -- rapporto o rappresentazione convenzionale o arbitrario – versus motivato o iconico rapporto o rappresentazione (  sn ti phntl (prSgmsta) suono della voce – cosa estrena. Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade. Tra un suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo c'è un rapporto o rappresentazione finalmente immotivato e convenzionale o arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico, secondo Aristotele, per tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­conda delle varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham), esattamente come avvie­ne per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la cosa esterna c'è un rapporto o rappresentazione causale percettiva di motivazione iconica, che appare addirittura iconico. Il primo e l’immagine del secondo. Bi­sogna precisare che e scorretto identificare in manie­ra diretta la tesi dell’arbietrarieta o  convenzionalità degli elementi del lin­guaggio, cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­tità strettamente interne al linguaggio: il significante – segnante -- e il si­gnificato – segnato -- sono le due facce del segno, in quanto unità lin­guistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto conven­zionale tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­guaggio, in quanto sono entità *psichiche* (l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre ri­levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­verse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione (“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussu­re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti, ma all’espres­sione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione – Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ra­gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima nell’Analytica Priora. Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­le, almeno nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sem­bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e la garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della realtà. Tale garanzia sembra esserci quando si dia una reciproca­bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la simbolicità del linguaggio nei confron­ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”, che Ari­stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­to (D-K). Le ragioni che permettono la specializ­zazione del termine “simbolo” per indicare una espressio­ne linguistica convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo” indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta -- in ma­niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi, Eco). Il fat­to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­suppone – o implica, come per consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­spondenza, “simbolo” viene ad acquisire il si­gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un caso che symbolon sia attestato per indicare "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia. Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un simbolo di uno stato d'animo (percezione di una cosa come ‘shaggy’) in tanto che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Be­lardi In quanto sjmbolon, il nome non è più deoma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone. In Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phone s­emantika katà suntheke) (De int.). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la dunamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono finalmente di modo convenzionale o arbitrario una pura relazione di equivalenza tr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. Del resto, l'opposizione convenzionalel/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali -- questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono e definito una "voce" quando e emesso dalla bocca (con lingua) di un es­sere animato (II.); ed e dotato di significato (smantikos) (Il.). Ora, i suoni emessi dagli ani­mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emesse dagl’uomini sono due fattori. Non e una voce convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma e involuntario, meramente causato "per na­ tura" (De int.). E la voce e agrammata, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (Pot.). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano. Una voce o suono semplice (adiafretos, "invisibile") puo articolarsi per il primo grado in una uni­tà più grande dotata di significato. Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili (‘miao’ ‘read chimp lit.’) , ma non combinabile (Pot.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elemento indivisibile combinabile e elemento divisibile - lettera - elemento dotato di significato - simbolo – nome – nome aggettivo (shaggy) – suono e voce degli animali - per natura – causato fisicamente – involuntario – istinto – risponsa allo stimolo --- elemento indivisibile non combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­no", De int.), -- “manifestare” in Witters -- fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o finalmente l’aribitrario, come nel caso del linguaggio o il suono o la voce di un animale non umano, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono o la voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma che rivela la loro causa fisica. We must know the character, age, sect, nation, and other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a cer possessed their minds that they became mere automata in his hands, and pour out words and thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of a cistern, betrays profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was entertained in former times, and is probably not extinct. It doubtless originates in a vague notion, that the more entirely human agency is excluded from the doctrine of inspiration, the higher honour was bestowed on the divine spirit. And the etymology of the word “inspiration” has also its effect. It originally and properly signifies, a breathing in, and suggests the dark and mysterious conception of an effect produced on the thinking substance of a man , not unlike the inflation of a bladder. But inspiration has nothing in common with its etymology. Inspiration simply expresses the idea of super-natural assistance and guidance in the communication to mankind of a truth previousl unknown. He who is honoured  “magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates”  with it, is enabled to speak, act, and write, as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him; so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the faculties with which he has been endowed by his creator: with perception, memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence, that their own spirits performed an important office in composition. In the author of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom, made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold ,but somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative, tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah - the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that revelation consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus in verbis scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We   insult the Holy Ghost by supposing him unable to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he honoured with his influence — that when he "   When we read the Epistle to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions, bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear - fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld “the Lamb slain from the foundation of the world ,” never lost froin his view the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and yet speaks in milder tones, though with  made the prophet he was forced to unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his writings ,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no difference between them except in the length of the lines. It is important also to note the different kinds of composition they employed. Some were poets, and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican, David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp. Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors intended to give simple and perspicuous narratives of events as they actually occurred. The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them away, by doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws which are applied to other historical compositions. Yet it has been sanctioned by great names, especially in Germany. Grave divines are found, who insist that there is not one miracle in the gospels. The events which SEEM miraculous are entirely natural, but exaggerated and embellished by the warm fancies of the people among whom they occurred. Only strip, they say, the Evangelists of this semi-poetic drapery, and the business of exposition will go on delightfully. Moses fares, if possible, still worse. They turn him into an allegorist or reciter of mythological fables. The first ten chapters of “Genesis” contain about as large a body of real truth, as can pass with out inconvenience through the eye of a needle being made up of old stories and scraps  a — of song, which mean nothing, or anything, that a lively fancy may suggest. i authors are conceited sciolists, who, pranking Let not the Christian student take great pains to refute this wretched infidelity, which does not openly avow itself infidel, merely because its advocates earn their bread by a profession of Christianity; the most of them being either professors of Christian theology or pastors of Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum est. Such interpretations do not deserve the name. They are feats of jugglery and legerdemain; and their   In expounding Scripture, let there be a constant appeal to the tribunal of common sense. Language is not the invention of metaphysicians, or convocations of the wise and learned. It is the common blessing of mankind, framed for their mutual advantage in their intercourse with each other. Its laws therefore are popular, not philosophical- being founded on the general laws of thought which govern the whole mass of mind in the community. Now, however men may differ from each other,  themselves as the high-priests of philosophy, prove by their irreverence for things sacred, that they have not reached the portico of her temple. The true philosopher always trembles when he stands, or even suspects that he stands, in the presence of God! He can not trifle with such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the falsehood of which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him of his last stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism, manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse.  life, soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library. Capra.

 

Grice e Capua: l’implicatura conversazionale -- filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoli Irpino). Filosofo italiano. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!” Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!” -- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di un'accademia dal nome gli "Investiganti".  Pubblica il "Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via Carpine, da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa, non gli venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi grammaticali. Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo, all'approfondimento del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i genitori e dovette cominciare a provvedere da sé alla sua educazione. Trasferitosi a Napoli per seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri della Compagnia di Gesù. Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al tempo stesso anche le osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono profondamente la sua formazione, come è evidente in vari passaggi del suo "Parere" e nelle sue "Lezioni intorno alla natura delle mofete". Si laurea  e fa ritorno a Bagnoli, con l’intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali ed anatomiche, effettuando osservazioni dirette su animali vivi sezionati e con il supporto di testi reperiti a Napoli. Proprio in quegli anni prese forma il suo pensiero critico circa l'inadeguatezza del metodo della filosofia. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. Amenta, autore di una sua biografia, ci riferisce anche di una certa attività letteraria, collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia, non ci è giunta testimonianza. I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio verso Napoli.  Si trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo trasferimento fu favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il quale vantava una lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di Capua alla ricerca scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio, protagonisti della rivoluzione che la filosofia sperimentale portava all'interno di una cultura legata al passato e in cui vigeva la legge dell'"ipse dixit". Sulla scia di questo fervore intellettuale, fonda insieme a Cornelio, e Borelli Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta ispirazione anti0aristotelica.  La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo, di incontri tra gli intellettuali napoletani che facevano capo agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal Principe Francesco Carafa, di essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome di Alessi Cillenio. Tale riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità scientifica che ottenne non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo ruolo di spicco all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua opera più celebre, il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che fu da molti visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per contrastare il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico. Il processo era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un illustre innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della seconda metà del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute galileiane e i processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano al centro delle cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel periodo Di Capua era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta, ma soprattutto era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il suo amico Cornelio, riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali scienziati e filosofi italiani ed europei come Bacone, Cartesio, Harvey, Hobbes, Gassendi, Samert, Hooke, Willis, Boyle. Tra Cornelio e C. sorse una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate e di Galeno. Dello stesso pensiero era Borelli, medico fisico e matematico, ammiratore, anche lui, del metodo di GALILEI. Infatti lo sperimentalismo galileiano, basilare nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si congiunse con l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani.  L'ambiente culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via San Biagio dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si discuteva sulle novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. C., ancora prima della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già incominciato a contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando attivamente alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda metà del Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del tutto contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa cinquanta anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita letteraria e delle attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze a Napoli: si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie fiorentine e romane a quella napoletana.  Si forma quindi in questa “nuova” Napoli, sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli, i quali, durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto culturale che ‘Il Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano entrambi scienziati, intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e due seguivano il metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi scrisse a C. una lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla natura delle mofete", in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione. Redi fu il primo ad effettuare ricerche sul cancro e sulla parassitologia. L’ammirazione che provava nei confronti del C. era la dimostrazione che quest’ultimo era inserito nell'élite culturale italiana del tempo, anche al di fuori del circuito napoletano, fino al punto che la Regina Maria Cristina di Svezia si interessò vivamente a lui e alle sue idee, comunicandogli il desiderio di conoscere con maggiore chiarezza ed approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza della medicina. Scrisse allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei Medicamenti”.  Nelle sue pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto alunno, probabilmente in quanto al momento della sua morte il Vico aveva soltanto 25 anni. Quindi non aveva avuto modo di intuire le capacità intellettuali di VICO, il suo genio raziocinante di storico e di filosofo. Certamente Vico fu influenzato dalle idee e dalle teorie di C., che affiorano in alcune orazioni giovanili vichiane (il concetto della divinità presente in tutta la natura). Vico, di natura solitaria, fu molto sensibile alle novità scientifiche e filosofiche del tempo, partecipa al movimento culturale napoletano e frequenta la casa C., che considerava il suo ideale maestro. C., Cornelio, Andrea, e Borelli fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre illustri personalità del mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti sorgeno in uno scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi, di allontanarsi dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di Galeno, per abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una citazione di LUCREZIO: "vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali.  L'Accademia fu chiusa per la peste. Venne riaperta dal marchese Andrea Conclubet, spinta da una nuova energia vitale: superare l'arretratezza culturale del paese per mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli accademici della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia, quindi, le prime lezioni furono tenute dal C. su argomenti di natura scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima, la fisiologia e l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica, meccanica e idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si verificavano (per esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i fenomeni mefitici). Le nuove teorie degli Investiganti determinarono una reazione nel mondo del conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione di un'Accademia antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata dai famosi medici Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del Regno di Napoli, professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli venne affidata la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le due Accademie si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua scuola, dando prova della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo rappresenta un momento di massima notorietà del pensiero culturale a capo di C., tanto che, il viceré spagnolo Faiardo indisse un congresso, in cui diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò che concerne lo stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu così che, in occasione del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in otto ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Marino, ritenuto dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica, analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua italiana ebbe una notevole presa su C. grazie anche alla sua predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati “antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca. Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su VICO. Questo sottolinea il suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato, tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua da lui scelta.  La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari.  Di questa produzione non abbiamo testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime, considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale, un bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis, che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo. La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo", il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al "Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva. Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel "Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25 colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano, Piccin nuova libraria, Padova); Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, POMBA, Torino). “Parere di C. divisato in VIII ragionamenti, ne' quali partitamente narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Amenta, Vita di C., Venezia). Niccolò Amenta, Vita di C. detto fra gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Badaloni, Introduzione a Vico, Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Vico e le polemiche scientifiche e letter.; R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli, D'Anna editore, Messina-Firenze); Maturi, Nicolini, La giovinezza di Vico; saggio biografico, Napoli); Minieri Riccio, Cenno storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino" in Rivista storica italiana, Napoli); Reppucci, Saggio monografico su C., scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico, Autobiografia, a cura di Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano).Capua's “parere” is just that: an opinion -- in response to a specific request by the Viceroy and the Consiglio Collaterale  put to a group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. C.'s attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary Aristotle-bashing. C. maintains a theoretical investment in the anima. This is not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Capua's part. Capua wishes to protect philosophy from a mechanical application of a logical technique, and also from a premature, reductionist applications of the beast or the machine metaphor. Aristotle offers a biological concept of the soul as the first actuality of life, the principle of life.  C., Il suo parere, divisato in otto ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progretto della filosofia, chiaramente l'incertezza della medesima si sta manifefta. Napoli, Bulison Columa de Superiori. 1” All'illustrissimo, ed eccellentissimo signore LCTEA CARRAFA, principe di Belvedere, marchese d'Anzi, &c. On avendo io cosa, eccellentissimo signor mio, che m'abbia in più pregio di quel che so la padronanza vostra, cerco per quanto posso di farla palese a ciascuno, sicome altri fa il possedimento delle cose più care, e preziose, ch'egli s’abbia, o per sua industria, o per fortuna acquistate. Ho pensato dunque, che a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di questa che mi porge il presente saggio filosofico, che per mia gran vençura essendomi capitato alle mani, ho preso a far istampa re, s'io il mettesli fuori sotto il nome vostro, La scrittura veramente a giudicio di voi medesimo, e d'ogn altr'huomo intendente è tale, che agevolmente posso da lei promettertii il fine, che m'ho proposto; im perciocchè ben tosto n'andrà ella per le mani delle persone di miglior giudicio nelle buone letiere, sì per per ta cognizione, che s'ha dell'autore di lei, doa vunque ha di quelli, che se ne dilectano, sì perch' ella il vale, per l'eloquenza, e doctrina, di che si ve de ripiena: oltre all'autorità, e fama, che le si accrescerà dall'istesso nome vostro ch'ella porta seco. Poichè possiam dire, che poche sono quelle parti d'Europa, ove non s'abbia conrezza di voi, e delle vostre egregie qualità, o per la fama, o per la presenza di voi; ma che quasi tuttele havete cerche colle lunghe, e laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guisa, che da voi sono state fatte, sidebbono riporre fra quegli studj, con che vi siete sempre ingegnato, e v'è venuto fatto d'aprirvi la strada all’intera cognizione delle umane cose, e d'accrescere con le doti dell'animo, e dell'ingegno lo splendore ch'avete ereditato da'vostri maggiori. Oltre a ciò non doveva questa scrittura venirne fuori sotto altro nome che'l vostro: mentre, e la stima, che voi fate dell'autore di essa, e l'affezione, che gli portate, sicome fare ancora a ogn'altro huomo letterato e l'antica dimestichezza, ch'egli ha con esso voi il richiedeano. Ricevete dunque il presente dono, ch'io viso di questo saggio, o per più vero dire, della picciola parte, ch'io ho in quello, per l'opera da me polta in farlo stampare, con l'usata vostra umanità in segno dell'osservanza ch'io viporto. E pre go Iddio, ch'avanzi in bene ogni vostro desiderio; e alla buona vostra mercè umilmente mi raccomando. Di V. E, Umilissimo Servidore. Giacomo Raillar D. Carlo Buragna; a'Lettori. E Gli sono già alcuni mesi pasati, che d'ordine del Signor Vicerè fu tenuto consiglio da alcuni filosofi di metter qualche compenso agl’abusi ed errori, che tutta via si commettono nella filosofia. E dopo qualche ragionamenti intorno a cotal bisogna avuti, divisarono eglino, che per potere con piis loro acconcio esaminar le ragioni, e i pareri proposti, e da proporsi, ciascuno doveſſe mettere in iscritto il suo. Perchè convenne a C. che e uno de’chiamati a questa adunanza scrivere il parer suo intorno a cotal materia; e parendo a lui, che ciò non si potesse fare acconciamente, senza considerare innanzi tratto, e riandar con diligenza la natura della cosa, che s'aveva a trattare, cioè della filosofia. Sì il fa egli con tanta dottrina, eloquenza ed erudizione, che, ejfendo il suo scritto venuto al le mani d'alcuni huomini letterati, e altri amici di lui, par ve loro dettato più tosto per l'universalità di coloro, che fi dilettano delle bettere piie esquisite, che per haversi egli awe rimanere fra i termini d'una picciola, e privata compagnia. Comechè l'autore di quello non s'avesse nello scrivere proposto altro fine, che di soddisfare al carico da quella impostogli. Stimarono dunque coſtoro, che fosse una tale scrittura dameia ter in luce per mezzo delle stampe: e tanto fecero, che alla per fine persuaſero C. a farne loro copia, e a contentarſi, che si stampase almen queſta delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò non pure ebbero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i curioſi della lettura di queſto scritto, ma all'utile an che ne può riſultare a ogni forte di perſone, e spezialmente agl’avveduti, e giudiciofi ragguardatori delle cofe. Poichè, vedendo eglino la varietà delle opinioni, e delle Seite, e le diverſe, eSpelle volte contrarie guise del filosofare, che fra i filosofi di tempo in tempo fonvenute sì, anche ſenza entrar coʻfilosofanti in più sottili speculazioni, potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D 1 grand 4 derë, o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè dubbiosa e incerta ha in se dottrina, o principi, ſu i quali altri pola porre alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di coloro, che così fi danno ad intendere, espezialmente dove ne va la filosofia. Oltre a questo, chi non vede di quanto frutto può rium scire queſto scritto a’ filosofi, che danno opera alla filosofia? mentre dalla fola lettura di lui potranno efi per avventura apparar più di ciò, che alla cognizione della natura di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più riputati, e solenni maestri di quella: e accorger fi a un'ora qual via nell'impreſa del filosofare ſi vuol tener da colui, che laſciate andarele giunterie, e le ciance, intende Secondochè la condizined'untal mestiere comporta, faronore a fe, e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi. Ne meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere apertamente quanti, e nella filosofia, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e fono di quelli, che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o norciès o pure non ſi ritro va; e, come dile il noſtro Alighieri, Trattando l'ombre, come cosa falda. Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler dimoſtrares chente, e quale, e quanto profittevole, e dotta fi fia queſta ſcrittura, a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare, non per queſto rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa, e all'opinione, che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof. Sta ſano. EMINENTISSIMO SIGNORE Antonio Bulifon espone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un saggio da C. intitolato “Il mio parere intorno alle cose della filosofia”, per ciò ſupplica V. Em.commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus, & c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum, quod R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat, & in ſcriptis referat eidem Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs. EMINENTISSIMO SIGNORE. O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si gnor Lionardo di Capoa: intitolato Parere intor noalla medicina, ne vi ho ritrovato coſa alcuna contraria alla dottrina della Fede, overo a' buoni coſtumi. Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità, e per ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita, e fruttuosa filosofia. HE Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi. N Eminentiſs. Dom. Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum, quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris, imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN. 1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato Parere del sig. Lionardo diCapoa, intorno alle coſe della medicina, perciò ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, & c. Magnificus Michael Biancardi videat, &inferiptis referai. CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680. Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della inedicina, e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita. In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa ſupraſcripta relatione, iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA:  8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa, o Signo ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroso principe, quanto l'adoperar sì col ſenno, e colla mano, che i popoli alla ſua cura commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole, e generoſa il render loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più gravemente nuocer ſogliono,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli, che rade volte,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no. E nel vero, che monterebbe eglimai l'uſcir talvo, e ſicuro da' manifeſti riſchi della guerra ad huom, che poi nella tranquillità della pace,in tanto più acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe? Anzi queſti di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi, e più dure, e lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella nave, che ſcampata da più alti mari, giunta poi in bocca del porto miſerabilmente virompe. Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo, e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè; il quale auendo con maraviglioſa, e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto; e reſi vani gl'in tendimenti, e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e crudeli infeſtando i mari, e le terre, ad ogn'or di ſangue, e di fuoco ne minacciavano; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno malmenavano; ora con ogni ſtudio, e diligenza và riparando, che non ſia mo aman ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della filosofia. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia infra’li miti mantenuta della ſperienza, e della noſtra comeche debil ragione, eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune: così allo incontro s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino, affai più delle malattie mede fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano. Nè prima alla notizia di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar riparo: e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere, certe, ſicure, e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo quan te, e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare, tante fra me mcdeſimo confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol patiſca, du ro molto, e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la appartenenti. Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare, tacendo di non darmene briga, ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti di colui, icui senni,non che le richicke debbo di preſente, ſenza replica alcuna, e con ſomma venerazione ſeguire; da' quali ſol moſſo, ed anche dal giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di grado mi vilaſcierò entrare. Ed acciocchè ogni diliberazione, o partito, ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non rie ſca, tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi; diviſando in prima le malagevolezze, in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o Maeſtrati; ma FILOSOFI ancora, comechè faggi, e intendentiſſimi in dare ſtabili, e certe leggi alla Medicina; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura incerta, e dubbitoſa, ed incoſtan te. Indi poi pian piano, e con diſcreto avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo, col quale quanto law natura della coſa comporti, un buon Medico, ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole, ed a propoſito ſia per riparare alle perpetue, e quaſi fatali calamità della filosofia. E per cominciare dalle memorie più antiche, laſciando da parte ftare quanto poco duraſſe in India, in Babilonia, edin Afiria quel lor diviſo di dover allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura ti da’ viandanti; nell'Egitto là, dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj nacquero in prima, e fiorirono, ſolamente a’Rè, ed a' Sacerdoti, ed a pochi Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto; onde da Manetone fra' Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia: e Tofortro Rè della terza dinaſtia, la qual’era de'Menfitani. Ma poi tratto tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò, eziandio colla minuta plebe; e tan to il numero de' Medici s'accrebbe, che ben per ciaſcun male era il particolar Medico ſtabilito, che ad altro malo re non dovea por mano, come ne dà teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre, con queſte parole:; dè intpoxaj A κατα: 1 2 I Strab. lib. 3.8. 16.  κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ ' ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής, οι δε όδόντων, οι δε τών και νηδήν, οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico: Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro,perocchè altri curano gli occhi, altri il capo, altri i denti, altri le parti del ventre, e altri i mali interni, e na Scofi. Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones non ſi può creder di leggieri, quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco talento, che come dice ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran Rè della Perſia, allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l ſepper guarire, ma coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero. Perchè ſicome ſenza fallo è da credere, fù a’Medici, come narra Diodoro, nell'Egitto per legge vietato il traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri, a' quali ſe alcun contrave gnendo interveniva, che piggiorato ne foſſe lo infermo, n'era perciò acerbamente punito,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα,αθώοι παντός εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi; perocchè non così agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta della reverenda autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου γαρΙπποκράτης μόνον, αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα, και ταλόγω. ciοε, πότερον αληθές εςιν, ή fèuda ö yayçá Daci, Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto;maprima il vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia;ſe pure egli, che valente maeſtro di loica era, per iſchermirfi non aveſſe tali chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor ſentimenti ſtravolti, ed avviluppati, finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli era a grado. Coſtuina, che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i Me dici, che gli vanno appreffo, i quali in tal guiſa i ſuoi detti sformano, ed anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro di ciò che da prima ſi propoſero. E forſe gli Egizziaci medeſimi con iſchernire la lor legge anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il proverbio: fatta la legge, penſata lamalizia. E a tanto giunſe per avventura la lor traſcutata arditezza, che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni, e per lo più con in felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova ne publicarono, ſecondochè ne narri ARISTOTELE con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε" κινδύνω, eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno, che fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo.La qual mellonaggines non ritrovò gran fatto, ch'io mi creda, ricevitori, ſe mai avviſarono quanto di leggier poſſano avvenir que’mali, a? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la ſtato ſarebbe quel Medico, che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i quali come nell'arti, c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro: non mai dar vollono determinate leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio, che ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in condegna pena la ſola infa mia portata: και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns, la quale a coloro, cui preme l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice: Μόνω. 2 Ippocrate, Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν, αποθνήσκαν δε μη. Cioè a dire, al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man ſalva le genti. Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino PLATONE, laſciando egli così nella ſua Republica ordinato: Aniuna pena fia,che foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's tsw na odvopov. Dal cui divilo non punto ſi di lungo LUCIANO, ove dice: L'arte della Medicina quanto di maggior pregio è degna, e più dell'altre alla vita giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà'; e convene volcoſa è, che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta, o foggiogata da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa, e al timore, e alle pene acTribunali. π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις, και πνα πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως, αναγκάζεσθαι δε μηδεν, μήδε ποσάττεσθαι, πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar dixæsnetw. E cõciofoſſecoſa, che frà Greci gli Atenieli ſolamente vietaſſero alle donne, e a'ſervi lo ſtudio del la medicina; non è però gran fatto da lodare, per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto; perciocchè,co me più avanti diraſli, lo intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a ' ſervi ancora conce dette la natura più volte animo, e ingegno alla libertà fi loſofica acconcio: perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato: rapportando Igino: Obſtetricibus neceffitatis, honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab Atheniensibus con ceffus fuit. E molto meno dovrem noi credere, che rima neſſe in piè la beſſagine di Seleuco, che tal potremoſenza fallo quella ſua legge chiamare, colla quale non altrimen te, che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG,εί και περιεσώθη θάνατG- ή ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. LA ROMANA REPUBLICA, che non pur nel governo militare, ma nel politico ancora avanza di gran lunga le greche tutte, e le barbare nazioni, giudica convenevol com fa il non commetter senza freno alla balia de Medici la cu sa della vita de gl’uomini; e perciò prese per partito, che AQUILIO, tribuno della plebe, non so se GALLO, o altro e' ſi fofíe,con un plebiscito, il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma, qualche pena a'loro fallimenti iinponesse, per la qual’accorti divenuti foſſero, e cauti nell'operare. Non per tanto dimeno è da credere che legge tale, o plebiscito, che si fosse, non mai ſi metteſſe in uso, ch'altrimen te avrebbe avuto il torto PLINIO di sclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. Nulla præterea lex punit inscitiam capitalem, nullum exemplum vindiétæ: indi soggiugnere: difcunt periculis nostris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere: Medicoque tantum hominem occidiſe summa impunitas est. Ma vi ha di vantaggio secondo il me delimo Autore tranfit convitium, et intemperantia culpa tur, ultroque qui periere argauntur. E perciò immagino, ch'in compilando i Digesti per commandamento di Giusti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri Legiſtila sentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo sopra la legge Cornelia de Sicariis. S Si ex eo medicamine, quod ad salutem homini, vel ad remedium datum erat homo perierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam deportatur, humi lior autem capite punitur. La quale a giudicio di quella grand'animadella civil ragione Giacomo Cujacio, alla già detta legge Cornelia non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il medico sanandi, non nocendi animo dedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta, e ne’Di gefti vi rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo di LA LEGGE AQUILIA, ma ancora le ſeguenti parole d'V Ipiano, Sicuti Medico imputari eventus mortalitatis non debet, itad quod * Elannt. lib 2.9. cap.z. lib.recept. lent. 6 Cuias. in Ang Corn de Sioar. tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero; infra’quali il dottiſſimo Agnolo POLIZIANO in una ſua piſtola al Leoniceno così ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem, quod in fegraſari tamdiu impune tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat, unde mors certifima proficifcatur,e'l Vives co sì grida: Errata illius (del Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battista da Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros, homineſqueimpune necandi. E un satirico italiano scherzando col titolo del dottor dice a queſto propoſito medeſimo del medico: Mapoichè un tal ci può donar la morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo, hoc tamen ipfo -ſecuri, dice parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem: immo vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur. E un'altro Autore: Si quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula pænas? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos demittitis orco.? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu, laudemque parare. Ed avvegnachè Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici, perche non gli aveſſero o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore, nondimeno l'eſfemplo d'un tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna; e fu queſta non men, che tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo ſecolo, ſicome anche Alessandro meritevolme te riportò titolo di crudele, per haver fatto ingiuſtamente ammazzar Glaucia medico, per ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione. Comeallo incontro grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario Iſtaſpe Redella Perſia, il quale i medici già alla morte dannati, perchèlui aveſſer malamente cnrato, volentier permiſe, che liberaci foſſero da Democide illuſtre Medico da Cotrone. Ma non però creda alcuno, aver I medici per traſcutaggine de’reggi menti una tal libertà guadagnata; anzi egli è ſomma nc ceſſità del comune, e quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi affatto ſpenta, e com’Io avviſo annullata fin la memoria del meſtier della filosofia, ſe contro aʼme dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente logorato il tempo, e le fatiche dietro ad un'arte (ſe pur arte poſſiamo chiamar la Medicina, non avendo quella niuna certa, e filla regola nelle ſue operazioni ) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire, e ne gli avvenimenti dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento, che quel di colui, che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre, & udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli? Ed è anche malagevole ad imprendere, e incerta ſempre negli avve. nimenti: imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato. Ed o quanto aſſai ſoyente avviene, che contro ad ogni avviſo umano, ficome ſcriſſe Celso, etiam Spes fruſtratur: & moritur aliquis, de quo Medicus fecurus primòfuit. Ed: Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico, & avvedutiſſimo B giu 7 Plutarcom: 11 / a? !. 10  giudicato, purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto avvengano, o da natura delmale, o da altra interna cagione, in cuiſenno alcuno, ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri gli uſcimenti delle malattie ſi ſono,maſſimamente delle acute, ſecondo il ſentimento d'Ippocrate; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis,& mortis. Senza che ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente, iveleni per ſubitana, o precipitazione, o coagulazione; e può anche huomo, che non altri, ma Apollo, ed Esculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro enfiature, o altri nafcofi malori, che quando egli men ſi crede ſian, valevoli ad irreparabil morte condurlo; e ciò anche nel tempo ſteſſo, che li s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano, tal curbamento dentro cagionare, che l'ammalato le new muoja avanti, che noi col noſtro corto intendimento pof fiamo ne pur badarvi: 8 Quæque medendi caufa repertow ſunt (comene fà teſtimonianza Celso ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur, neque id evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft. Perchè non ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare. Ma su concedaſi, pure, che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto: come mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero? o co me mai potrebbe porſi in chiaro il delitto, acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi procedefle? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di ſet te, s lib.z.cap.6.  IT ) te, e diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti? Perche oda paleſe nimiſtà, o dacoperta invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano al Giudice tutt'altro, che di giuſtizia dovrebbero,e dannoli a divedere, come ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio; ſenza che il timor della pena, in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere dipiù efficacemente operare; ed egli timido, econ fuſo per non porre a riſchio la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo, comechè falſo, e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe. Coſa, chepiù ch'altrui a'Medici de Principi, come avvisò il Cardano, avvenir ſuole; i quali per tema non pur dell'infamia, ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non guari in verità per l'incertezza de'ſucceſſi lontano. Compativano anzi che nò I ROMANI Maestrati gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne montafſe perciò L’IMPERIO DI ROMA, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario. E più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne perdette la giornata di Vicenza, e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò tagliato, e ſconfitto. E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle principali cagioni, onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2 de' 12  1 ! DE’ ROMANI da noi teſtè rapportate, nõ già per li valétiMea dici oMetodici, o Empirici, o Razionali ſtare foſſer fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo appo coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare, ma quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi;come agevolmente ſi può ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere. E certamente in coſtoro ſolamente da credere, ch'aveſſe luogo l'ignoranza dell'arte; per cagion della quale furono IN ROMA contro a' Medici ordinate le leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione, quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa, venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto; avvegnacchè poi cotali divieti poco, o nulla fian melli in uſo. E ben d'eſſo loro a gran ragione dice Anneo de Roberti ciocchè degli Strolaghi diſſe in pri ma TACITO: Genus hominum potentibus infidum, Sperantibus fallax: quod in civitate noſtra vetabitur femper; & retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti; che i cattivelli degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari co'lor vani ſegre ti, e con lor ciarle, o rattengono gli ammalati, che non prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per avventura furon prima digradati, c poi nella perſona condenvati que' viliſimi paltonieri nel reame di Francia, ch’in vece diguarireil Rè Carlo VI, preſſo a morte coʻlor medicamenti, e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero. Ma egli fu per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano di giuntatori, e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori, così do 1 veali toſto e ſenza niuna pruova fare, o aſpettar di lor pro meſſe:del temerario, e folle ardimento punire. Se pure non fu malavoglienza, edaſtio de’maligni Medici di que’tem pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli, o i Maeſtrati, i quali po co, o nulla per la più parte di quella s'intendevano; le a tanto non poteronmaii più ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio molto adden tro in quella ſentivano? Inventore per quel che fi creda, o almeno antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſculapio, e come ne da teſtimonianza Ippocrate, o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe: ma ben to fto non buone conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs, dice e' parlando d’Eſculapio, è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può dirſi col toſcano lirico, che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento colui, che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto, e tanto oggimai creſciuta, e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri, e più nobili ſtu dj gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed vltimiconfinidella natura s'innoltra: pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri l'antico chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ; e'l nostro Seneca: Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum; anzi in quel dolce, e ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo, e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir, 3.  Non davan l'erbe, ne'lfapere ancora, o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca: Firmis adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem, voluptatemq; corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato, eziandio alle più grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre l'origine; que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo, o da bruti animali, o dalla propia induſtria venian manifeſti. 10 Perchè ragionevolmente credeſi, che Age nore, e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi di tutti i Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo είδη,Μάγνητες δέ Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone ritrovatore del Panace Chironio: πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι κενταύρου χρονίδαο φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο δείρη narra 11 Euſtazio, ch'eſſendo egli nella mano ferito, oco me vuole PLINIO, nel piede ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην χώρακαι την δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio,ilquale inſegnò come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε φάρμακον Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che medicaſſero altresì non con altro, che colle fole piante Ercole, onde traſſe il nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e APOLLO, e Arabo, e Cadmo, e BACCO per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in pregio il vino, medicamen to poderoſo, e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo la gran virtù dell'edera, la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni, che provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato, ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και τεφανά. σθαι διδάξαι τα βακχένοντας, ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο, τα κιλά κα ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10 Trif.appo Plur. u lib.i'lliad . Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio, col quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi anche adoperare. δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo, il quale come ſi legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained, cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay, e Podalirio, e Macaone non d'altro, che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca, e prima della guerra Trojana Medea, come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone, di Laerte, d’Atalanta, e di Tefpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou. E Trifone appo Plutarco in nalza, e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß. Quindi provati più volte, e riprovati poi i lor medicamenti, dieder la prima bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio: Per varios caſus artem experientia fecit Exemplo monftrante viam. Macome pochi, e ſemplici erano in prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la ſperiêza,abbiſognò,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler faccia,cam biandoſi tuttavia, è migliorandofi i primi medicamenti. Così cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza. Ma non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette, che tratto tratto non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me? dicamenti tratti vi cifoſſero; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero poi a tale,che bia ſimando, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina; comeche Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore, ed egli ſembri per quelche ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi debba attribuire: onuéte? Quiséger G Astana's (ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην. ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών προς πλησμο νην και κένωσιν, και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και αίρον έρω το, 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το ' ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι: και οίς μη ένεστιν έρως δει δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι, και εν όντα εξελεϊν, αγαθός αν είη δημιουργός: δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι, φίλα οΐόντ είναι ποιείν, και έραν αλήλων, έξι δε έχθισα, τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί, ξηρονυγρό πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν. Ma non per tanto non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze: e come varj erano, e diſcordanti quei, chela cſercitayano, così varia ella ne divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta; intanto che da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe, come Celso avviſa, parte di quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico. Or coſtui come rio traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginnasio dell’ACCADEMIA, di cui egli era Maestro, cpriino ministro, cagionevole divenuto della perſona, per lo biſogno, che gliene faceva, a coltivarla medicina con tutto l'aniino, e conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnastica congiugnendo, e prescrivendole alquante regole da lui per via della ragione, e della sperienza daprima ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle incominciaſſe. E allora venne ella pian piano a perderdella FILOSOFIA l'an tica uſata dimeſtichezza: comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per opera d'Ippocrate primieramente avvenuto. E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare, ed Eurifonte, e altri il coſtume di trattar ſeparatamente dalla FILOSOFIA le coſe alla medicina appartenenti apprelo aveſſero. Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran giovamen to alla medicina; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà comprendere per colui, ch'alla verità delle core voglia ben profondamente guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina, e quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando, per poco di razional non le rimare, altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava no: e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti. E Galieno pure osò dir d'Ippocrate, aver lui certamente gran ſenno fatto in non inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone, inveſtigar la natura, e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi, ondegiudicano ciaſcuna coſa, ela malli... turta del mondo cſſer compoſta, e ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente, e non già a'Medici appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente, compiuto,toſto che a ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento, o dalla meſcolanza del caldo, e del freddo, e dell'umido, e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa più offendevole, c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici, che razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando, più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per vaghezza ſolaméte della verità con C trila traſtar ſolevano, allora affondati tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire, e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio della medicina, era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de Medici tenu to, rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone, e mil lantatore; e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli dall'altrui urmanità, e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio,e gloria formontar ne doveſſe incominciò lo ſcaltcrito,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello,aprēdo la ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe, è di poca fermezza in mcdicando;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro, ficome narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermo Principe vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente eglimeri tóne poi cffer fulmimato,ed arſo da Giove;e laſcionne a'pe fteri un così ſeoncio, e così abbominevole eſemplo. E ol tre a ciò dicono,ch'egli in far l'indovino, el malioſo, ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille modi, e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre, che anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe. Ma per recarvi le molte parole in una, e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa: 19 la di medicina s'intendeſſe: e molto meno ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio; perciocchè sfidandoſi colui di poter nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio, e tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo, che per guarire un menomo dolor di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva forza no'l cavava, fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito? E'l ſuo gran Maestro Chirone non che altri, ma ſe medeſimo cu far non valſe, allor che a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita, e dell'immortalità 2 Prometeo, e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio. 13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere, re vere foſſero quelle tanto maraviglioſo, e tanto impareg giabili pruove, che di lor falfamente la menzoniera anti chità và millantando. Così per avventura gli aftioſi con tradittori di que'primi maeſtri favellano: c Io ancora a vo lerne dire al preſente ciò, che me ne paia, non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer que’ primi ritrovatori della medicina appo' Greci poco in quella cercamente pro firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora, quando colletà in cia lcuno ſtudio, carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome, e pregio per tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza rimanerci; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici; perciocchè ogni lor grave fallimento, ed errore in medicando, eſſendo, come diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra; e allo incontro appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro. agevolmente acquiſtar loda, e pregio immortale. Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive perſone certamente ciò avviene; le quali ſicome aſute, e malizioſe ſi van procac ciando per tutto favorevoli, e parteggianti; e dalla vera fapienzalontane non laſciano qualunque froda, 0 giunte ria, onde preſſo la minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da giudicare eſſere ftati coſtoro, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta tori, e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran dovizia potrei ritrarre dalle anti che, e dalle moderne memorie; ſolamente non laſcerò di rapportarc,effer'antica fama,che Acrone di GIRGENTI avesse una volta damortifera peſtilenza liberata la Città d'Atene colle grandi luminarie, e fuochi, cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa, non che da altro,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate. E Toſſare ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini; perciocchè, come narra LUCIANO, in tempo che Atene era più che mai dalla fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata, e ſgombra, diceſi eſſer apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago,e averle ſicuramente det to, che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di preſente farebbcſi attutata la peltilenza; e ciò facendo co loro, dilubito, conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti, δπι της ελάδα κατά τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον (8 ' γαρ ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io amereil'uſato ſuo avvedimento in LUCIANO, il quale ſcioccamente ſe'l crede, e va fantaſticando, ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino, i quali trameſtati all'aria Paveſſero purgata, e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi, che l'infcrtavano.Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo lungo ſterminio,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male; perchè dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e poco giovevoli ar gomenti, e non più toſto per isfogamento, c periſtracce del malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro, che alla natura del male attribuita. Artificio,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che diceÆfculapius: primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante, e si diverſe guiſe nar rate, ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da dire del tutto favoloſe, wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti per iſdegno di Giunone impazzati. E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto, e riſuſcitato Ippolito ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri.Ma Filarco rapporta tutto il ſuo buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra ' Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν Εριφύλη ειπων, όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά. ΠολύανθG-δε ο Κυρηναίς, εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο.Παρράσιο- δε, δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα · τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων, όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες. ΦύλαρχG- δε, εν τη εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως. Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente, e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero? Egli volle (liçome narra Cclio Rodigino, c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente oxaloDeéy @ ne fu chiama to, e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no ftro Azzio Sincero. Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre fraſche,e giunte rie, ch'egliuſava; ficcando carote alla ſciocca gentane, c tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e fanfaluche, oltre alla fama grande, che gliene ſeguì, di povero conta dino, ch'egli era, inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi, e ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto, e mariti delle figliuole di lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo del vino, o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea, e d'altri paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc, la qual prima di eſser medicata ſe ne morì: delle quali narra VIRGILIO nella Bucolica. “Pretides impleruntfalfis mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus; quamvis collo timuiffe: aratrum, Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte.” E che per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a ſanità coll'elleboro nero, come vuol Dioscoride; avvegnachè Galien giudichi, e con più falda ragione,eſsere ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse. Il qualmedicamento apparò in prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto, o più toſto dalle capre, ch'e'guardava,come scrive PLINIO; le qualicon paſcer l'el leboro ſi purgavano. Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo l'impazzate donzelle guarite non già coll’elleboro, ma con latte di capre paſciute in prima di quello; e altripur vogliano eſser non già quel Melampo caprajo, che loro il ſenno ricoverato aveſse; ma un'altro Melampo detto l'indovino: E Polianto ciò ad Eſculapio attribuiſce, ſicome narra Seſto Empirico, ed Eudoilo appo Stefano antichiſſimo Geografo: Ma che che ſia di ciò, non è da dubitare, che Melampo dopo lunghe cerimo nie, e facrifici,e ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio; perciocchè in memoria di ciò vi ſi leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον, Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα, και παρα νύμφαις Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον. Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης. Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa infra gli Scrittori di giudicar di verſamente quella cura: e altri dicono eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma certamenre per quel che per noiavviſar fi poffa, egli ſi pare, ch'amena due i medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo Ovidio:. Clitorio quicumquefitim de fontelevarit; Vina fugit: gaudetquemerisabſtemius undis, Seavis eft in aqua calido contraria vine: Sive, quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen, &herbas Eripuit furijs;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà lavare Aſtolfo ſette volte, E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo, e da le membra folte Lava la brutta ruggine, e la muffa. Ma non ſi contentava già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in terpetrare i ſogni, e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare, e che avendoſi egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών,ε'σης πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων νερατους έθρε. ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ εκατέρω: ma's exca's Txis gaca sesi exclougor. o de avasara moi gerópfu were δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία. και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna arte dunque gianmaiebbe, per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne, e colle frodi, e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3. di vantaggio mi v'affacichi. Non però di meno non laſce? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli cerimonie, ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più ma raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno; perciocchè dubitavano non v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero in colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi guardaſse dal verto contrario: e prima dicavar la formavale con un coltello incorno tre cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta verſo Occiden te: e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le andaſse intorno faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce, e laſcive, come racconta Teofraſto con quette parole. Περιγράφειν δε και τον μανδραγόρgν εις τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω περιορ - χεΐσθαι, και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των περί τξ κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ. Le Quali poida PLINIO nel ſuo volgar cavate non fur così intiera mente rapportate. Cavent, dice egli, effofuri contrariun ventum, & tribus circulis ante gladio circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le gittavan ſopra del ſangue metruo, o dell'urina delles donne, quindi cavandole intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane; il qual poi chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra, e di preſente ne moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε, περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile, che il tralaſciar da parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza d'ingegno ar gomento ſia? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche Galieno? ecco le ſue parole: coloro tutti da giudicar fono, anzi forſennati, che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere, ed apparar da' ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni. Ealtrove il medeſimo autore: è dottrina da tiranno, e piena di confu fioni, e di contefe quella di coloro, che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna; e ſe non altro, va dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi, Giovanni Scoto, ove dice, che tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede, degni giuſtamente ſieno delle fiamme. E ſappiano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di ragione, diqualunquc Serta egli ſi ſia, debba pure con quel gran lume della Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire: non debemus profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes, nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis videre, alienis auribus audire, alienis naribus odorare, aliena ſapere intelligentia: ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia alienisaffertionibus committe remus, nihilque à nobis ipfis diſcutiendum putaremus. E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galieno oltremodo tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico lettore uſato lun, go tempo, ed invecchiato in ſu'libri d’ARISTOTELE, abbatté. doſi per avventura un giorno in una notomia, e veggendo manifeſtamente la vena cava dalle innumerabili fila, ora dici, chę ſon nel fegato la ſua originç trarre, tutto ingom, bro, e pien di maraviglia, Come chi mai avf4 incredibil vide, confeſsò, che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena cava diramar dovelle dal fegato; ma non per ciò egli credédo a' fenfi contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile, il quale tutte le vene nell'huomo aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più agevole allai eſſere, i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande, e fourano ARISTOTELE in errore alcuno giammai eſſere caduto. E più avanti cbbe di male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna, la qua le a ficvol lumicino di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo ARISTOTELE, negante law medeſima coſa, osù pur dire, che quel dalui veduto non era miga graſcio. Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò, che a tal pro poſito anche narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30, Santoro.  mac ro in iſcriteura peripatetica, perchè non veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle, ed altre nuove core dal gran Galilei in Cielo ravviſato, ricusò l'ajuto dell'oc chiale; e ch’un altro più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle picciole rane, che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano, per non eller altresì coſtretto a confeſſare, ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico PROSPERO MARZIANO IN ROMA s'accrebbero? il quale di non volgare dot trina, e di faggio avvedimento fornito, quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re, che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto il vero ſentimento di quelgran vecchio. E ciò anche Pier Castelli narrando dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no Platone i dottilimi ſentimenti: Galenus, vel non intel. kexit, vel intelligere noluit Hippocratem, & Platonem, ut ſua extarent. Quindida'rimproveri, e da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio, ſpezialmente intorno alle c.2 gioni delle febbri, coſtantemente affermando, non ſola mente Ippocrate non avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro, ſe non ſe ove caſo di grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse: il che già prima di lui pienamente CARDANO avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl, che la febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono. E queſte, ed altre buone dottrine il valent:huomo di MARZIANO faggiamente manifcftando, ravvivò con eſle la caduta, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate. Ma non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na, la qual comechè tale, pur merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata. Io dico la Signoras D. Oliva Sabuco: Coſtei gl'ingegnifemminili, egli uſi Tutti Sprezzo fin da l'etade acerba: A’ lavori d'Aracne, a l'ago, a' fufi Inchinar non degnò la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile abbondevolmente fornita, animoſamente fi iniſe col cere vello, e con l'animo ad inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior utile, e prò la mente rivolgendo, acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche concio ne traeſsero, ad un nuovo, ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè maraviglioſamente principio. Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo II d'e terna,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta. Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente losſabios y Chriſtianos Medicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto juyzio de otras facultades, y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di poco appreffo: y el que no la entendiere ni cumprehendie re, dexela para los orros y para los venideros, o crea a law eſperiencia, y no a ella, pues mi pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina de Hippocrates y Galeno dos mil años, y enella han hallado tan poco effecto y fines tan inciertos, comoſe vee claro cada dia, y so vido enelgran catarrotavardete, viruelas, y en peftes paf Sadas, y otras muchas enfermedades donde no tiene effetto alguno, pues de mil no viven tres todo el curso de la vida basta la muerte natural: y todos los demas mueren muerte violenta de enfermedad, fin aprovechar nada su medicina antigua. E nel dialogo della vera medicina: No me podreys negar, señor Doctor, que la medicina escrita que ufays eſta incierta, varia y falta y que ju fin, y efeto fale incierto, falfu y dudoſo, como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines y efetosciertos, y verdaderos fin variacion, ni engažo, comola Aritmetica, Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas, que a quel fin, y bien que prometen, lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers que falta en la medicina,pues eſta tanengañoſa, incierta; yva ria:luego claro eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes, y fundamentos,pues no echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas:lo qual al buen juyzio pondra en duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae, razon, que los antiguos tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento ſoggiunge: No nze podeys negar,Señor Doctor, la incoſtancia, y quantas ve zes fuemudada la medicina, y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma, y que muchos ſabios mo le han dado credito, ni ſe han querido curar con medico por las cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia. Ylos Sarracenos, y los del Reyno de la China, no admiten inedicos, j' ay mas gente que en Eſpaña. Y eſosmiſmos autores antiguos, graves le ponen gran dificultad, diziendo, que la vida esbreve, y el arte es largo, el juyzio difficultoſo, la eſperiencia engañoſa, & c. I dixo Hippocrates: que perfecta yacabada certinidad de la medicina no ſe alcanca, y no me podeys negar, Señor Do Etor que fueron hombres, cimo noſotros: y que ſus dichos, no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella fueffe lo quc ellos dezian, que ella ſe quedo en lo queera, y ſu dicho no la mudo, y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada, como lo podeys veren Plinio, donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante,y mudable, que la medicina: y que cada dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora D. Oliva, i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente raccorre, ed annoverare, che troppo a lungo ne verrei. E baſterammi accennar ſo lamente molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite, inillantando falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle, come intorno all'ordimento, che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il nutriinento, che H cla 58 ellämolto avanti ravvitate appieno, e glorioſamente già paleſate ne'luoi libri l'avea. Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante, e maeſtro in divinità CAMPANELLA. Non miſe egli già le mani all' opere della medicina: ma pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani; e comeage vol fu al ſuo pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare, che nelle ſcuole comunemente inſe gnavafi, così potè ancheordinar con belle dottrine un'al tro trovato dirazional medicina, e quindi ancor ne ſegui rono molti, e varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete, o quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania, Elmonte, che con più alti apparecchi, e colla mente di più nobili arredi fornitas tentò Ia grand'im preſa, onde vie più s'accrebboro i contraſti, e le miſchie. Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di non volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica, intorno allo ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo, e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare. E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis; ne di leggieripuò crederſi, qua to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò, ch'avvisò dovergli farluogo a sì nobil lavoro: e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per fomigliante impreſa, e’l Silvio, celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi ſeguacije'l Gliffonio,e l'El vezio, e'l Meſfonieri; e'l Travaginis, ed altri illuſtri l'ette rati rati dell'età noftra, a molti de'quali, che che ſtata ne forte la cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti. Taccio al preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera, e colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia, e della moderna filoſofia naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro, che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica medicina, ma dall'an tica gran fatto varia, ediſcordante, Ma o quantoperciò più le têzoni de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra, ed avviluppar la medicina tutta, non fa meſtierial preſente narrare, ſe tutto dì co’propj occhj apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo PLINIO vi vo fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur, non già di que’della Grecia ora Icioperata, e incodardita ſotto'l giogo della barbarie; ma di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie, da lui ne’tempi ſuoi barbare giudicate, Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de medici,in tante ſchiere, e tazioni partita, e quaſi ſtraccia ta veggendo la medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon coſtoro que'cutti,che nondi Greco, o DI LATINO, o di Barbaro, o d'altro ſtrano ſcrittone, modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta,ed a gli altrui ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto, e ſciolti gir con iſpedito voloi valtiſſimi Regni della natura fcorré do; quindi cozzando contro i più duri, cd oftinati malori con quell'armi, ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono,nonpreſe, o tolte da gli arſenali altrui, ed alla cic ca adoperate, fanno con glorioſe impreſe render eterni, e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo, ſalvo ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato, tutcoyogliono ſpiare, a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio curioſo eſaminare;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento confannoſi. Ed eſſendo a tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate, e di Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare. E perciocchèlo giudico, che aſſai monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà, debba loro eſa fere permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA EBBO per ſoddisfare all'obbligazion del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti, che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente ſdegnando, voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati campi della Natura. Ma conciosſiecofachè el le fien molte, e molte, e tutte di gran lieva,io non ſo qual prima mi debba dire, quafdopo; ſenzachè a me non fu conceſſa in ſorte larga vena diben parfare, perchè con purgato ſtile ſpianandole (e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe) la for ſaldezza, e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno elle an cora ciòdi vantaggio, che rôzzamente accennatc poffano, e pregio, e commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere. E per venirne omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro parlamen, tando potrebbe imprenderne il filo. Egli non alzò certamente natura con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la fronte; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi, e ſublimi, e liberi ſpiriti abbondantemente fregiandolo, perchè egli poi qual paluſtre mergo, raden do lempre maiil ſuolo, non avelle ardimento di battere generoſamente in alto le penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si varie, e sì ſtrane apparen ze, onde bello ſi rende, ed ammirabile l’Vniverlo; ma acciocchè largamente per tutto ſpaziandoli, il tutto e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il tutto e' pienamente comprenda, non già nelle copie incerte, e ragionevolmente d'error ſo ſpette, manel primo, c vero loro originale. Così quell' Aquila de Greci filosofanti glorioſamente adoperando, con felice., e ſpeditiffimo volo Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum peragravit mente,animoque. E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe, e de gli altri Segnò le mete, e'n troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de l'ingegno umano, facendo sì, che i troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro non badaffero, ch'a leggere, c rileggere, e tutto dì di chio ſe, e di coinenti gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo tutto fantaſtico caricare. Quicfto non volle già,che faceſſe in modo alcuno il giovinetto Lidia, quel gran maeſtro della greca filoſofia Antiltene: quando di nuovo libro, di nuoyo ſtile, ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui voleſſe; e ciò, perchè egli compré deſfe, che le coſe,che per lui, da regiſtrar foſfero, eſfer quelle non doveano, che già da altrui ſcritte in prima, diviſate ſi erano.. Eciò anche molto innanzi ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo Savio, che primadi tutt'altri, Filoſofia chiamò con nome degno, quando a ' luoiſcolari diceva, non doverſi da loro nella, popolare ſtradaconfuſamente co'l volgo ignorante cammi nare. Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più ce lebri, e rinominaci filoſofi comunemente ancor richieſe: c da più illufri medici, e per valor d'ingegno, e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia futta oltre modo abbracciata. La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle il famoſiſſimo medico, e filoſofo Claudio Galieno, ficome in più luoghi ne da pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella, e berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato,i quali a' detti di lui, come agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità, ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno rintuzzato affatto, ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle ſenten ze, cd a'giudicj altrui, non volendo coſa alcuna bilancia re, ne punto a lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega, e ſcongiura i parteggianti tutti a por giù la ſcabbia, e'l furore, e la ſtolta follia delle ſette: 0 quin do adiratamente grida effer dura, e malagevole impreſa a ridur coloro alla ſtradadella verità, i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche ſchiera ſottomeſſi fi fieno. Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne, che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi, ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano ciò, che altri di neceſſità rimira. O quando altrove proteſta, eſſer egli un male da non potere in verű modo guarire,la folle, e ſciocchiffima caponeria di cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a trarre: e che cotali uccellacci non che fappian, giammai nulla di buono, anzi ne men d'appararlo ſi ſtudj no: o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto, coloro, cfer della patria, che della propriafetta traditori, e rubelli. Et o piaceſſe pure al Cielo, che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo: più toſto manifeſtamente uccidere i miſeri infermi, che ſpiccarſi punto daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri. Ma perchè dobbiam mai ſempre noi con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi? for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado, ch'a noi ſpiace voli ora ſono, ed affatto nojofes Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed infante Stimò dolce bevanda, e dolce cibo L'acqua, e le ghiande, ed orl'acqua, ele ghiande Sono cibo, e bevanda d'animali, Or che s'è poſto in ufoilgrano, e l'uva, O forſe alcuna coſa, ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta? Così ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei ſangue, delle vene lattec, edel códotto del Virſungo,e del ſaccolat to, e de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici nuovitrovati,che crollano, c ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono, cd atterrano ogni razional ſi Atema d'antica medicina. O forſe farà egli colpa degli in nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è fallo, e colpa, certamente commiſerla in prima coloro, i quali da' ſentimenti de' loro più antichi maeſtri tralignando, e nuove ſchiere di filoſofia, c di me, dicina anmutinando, ofarono in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di si follo, e temerario ardiinento. Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu moderno; perchè figgiamente il Princi pe CLAUDIO Ceſare apppreſſo TACITO ha a dire: quæ nunc vetuftifſima creduntur nova fuere: inveterafcet feculum no firum, & quod hodie exemplis tuemur, inter exempla erit, (1 ) cd a queita medeſima cagione avendo riguardo un mo derno Poeta contro que', che per eller egli moderno biafi mavano il Paracelſo, in ſomigliante guiſa conchiude, Qui nova damnatis, veteres damnetis oportet; Aut iſta nihil eft in novitate novi Saran dunque acerbamente da vituperar Platone, Antiſte nc, Eſchine, ed altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non cale le vecchic ſcuole, che allora nella Grecia fioriva. no, a quella di Socrate, che nuova era, per imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono? anzi ne furon perciò foin (1 ) Etienne Paſquier.  05 sómamente da cómnendare. E nuove altresi furono le ſcuole di Platone:e pure ARISTOTELE, e Senocrate,e Speuſippo,ed al tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai ardiméto alcuno di biaſimargli. E dalla novella ſcuola nel ginnasio del lizio d'ARISTOTELE in tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo, che uguale, e forſe al inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone, funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la scuola di Zenga ne, e nuova quella d'Ariſtippo, e quella di Fedone, equel. la di Euclide da Mogara. Così anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide, d'Epicuro, di Menedemo, d’Arcuila, e d'al tri molti maeſtri di filoſofia, e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle vecchie, e famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte, riportandone ſempre mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri ſcrittori di que tempi. E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe, ove già i manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi? E forſe ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura, ſe gli antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio Filocle, nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla: e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re? O forſe fu egli troppo ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante, odi Parrafio, o di Polignoto, o di Zeuſi, o d'Aglaufone, o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le om bre, onde poi vive, e perfettiſlime riſaltando,n'aveffero,e gli augelli, e i deſtrieri, ei cani, ei maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare? così anche i noſtri avan zandoſi di mano in mano l'un l'altro a'tempi d’ALIGHIERI, Credette Cimabue ne la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino PETRARCA, ed altri famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to, ed al preſente s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di SANZIO, e di Tiziano, e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del grand'Omero,del grave coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi d'Anacreonte, di Teocrito, e di tant'altri illuſtri, c nobili Poeti; o ROMA de' ſuoi Lucrezj, de’ Virgilj, de’ Catulli, de' Properzj, de' Tibulli, degli Orazj. Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del Garzilaflo. Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo, e del Bert: ſſo. Ne il noſtro più,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma, vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo,di Giovani della Caſa, o la maraviglioſa evidenza dell'ARIOSTO, e dell'ALIGHIERI, o la dolciſſima muſa del PETRARCA, del Bébo,dell’Ala māni, del TRISSINO, del Molza, del Guidiccione, del TASSO Pa dre, del Guarini, di Galeazzo di Tarſia, edi altri,ed altri nobili ſpiriti, che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano,o pur la vincono, ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate, e creſciute non già per coloro, che le comunali, e uſitate ritennero, ma per coloro, che d'ammendarle, e torne via glierrori, e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν γινομένας, και των τεχνών, και των άλλων απάντων, και δια της εμμένονάς τοϊς καθεξώσιν, αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς εχόντων. Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali pare, che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare, e pure non vi ha altra ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia, ed alla medicina permettere? malli mamente, che il campo di eſſe è queſto si vafto, e grandif ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore, ed a moinenti apparir tutto dinuove, e nuove coſe fi veggiono, da te nervi i più ſublimi, e pellegrini ingegni mai ſempre img piegati. Multa dies, variufque labor mutabilis ævi Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è, che'l mondo più ſempre mai col tempo invecchiando,dinuovi, ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di mano in mano i ſecoli arricchiſce. Così noi veramente ſiam da dirci vecchi, e gli antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati, e non que’tali, che nelmo do infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro. Anzi coloro, che per innanzi naſceranno, più di noi ſaran vecchj, ed antichi, e conſeguentemente d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati, e diquant'altri per l'addietro mai furono, auran cagione. Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime parole del gran Baccone da Verolánio: de antiquitate autě(dice egliopinio,quam homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua: Níundi enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major; reſpectu mundi ipfius,nova, minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam, á maturius judicium, ab homine fene expectamus, quam à juvene-propter experientiam, & rerü, quas vidit, & audivit, & cogitavit, varietatem, copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas nuffet, & expe riri, &intendere vellet)majora multo, quam à prifcis tem puribus expectari par eft; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis, & obſervationibus aucta, & cumulata. E in verità, chi ha mai tante, e si diverſe maraviglie in Cielo, e in terra, e nell'acqua, e negli augelli, e ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto, dove turto di attenti, ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filoſofanti viſi aminirano, ſe non ſe la noſtra età, cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto, che ora d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo Auderet, folvenda dies en attulit ultro. Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare, così altii ani mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne conobbero, e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari, c d'altre perſone idiote, e volgari, dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante incredibili bugie. E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò, che Erodo to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in prima l'arbore con iſtorace: iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti (tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori: τον μέν γε λιβανωτον συλλέγεστ, την σύeακα θυμιών της. E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του λιβανωτοφόρ, όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα, Qurárrs01, Trnýber mondo, me ei sér d por exasov. E del Laudano, affer: mò eſſer quello odorifero, e dilettevole a fiutare, e pur na ſcere in luoghi puzzolenti, e ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον, οιται γλοιός από και o'rins. Ma Rufo da Efeſo dice, alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG- επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω. E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E ſimilniente fi pare, che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del Ciſto: Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tenace graffezza, onde poi pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono. Sonyi alcri, che tirando, e sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza, chevi s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως • και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει, και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις, και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc Plinio, ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene peravventura intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe: Sunt qui herbam in Cypro, ex qua id fiat,ledam appellent: etenim illi ledanum vocant: hu jus pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno, quando dice gevers auto del laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ αυ τον αι αίγες, εν τοίς πώγωσι, και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον, και οπώδες πόας αφαιρούνι. Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών, και τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano Diofcoride, e PLINIO, pur troppo groſſi nell'informarſi, e nelcreder leggieri. Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre; e'l ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur ſappiamoeſſer foglia di ben grande, co ſpazioſo albore, non già paludoſo, ma ſalvatico, emon tano. Io non farò menzione delle tante, e tante inyeriſi. mili bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata (piganardi inventarono. Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove diffe, che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di credere, cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in diſtillando da tali alberi fi rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che per gli occhj fuor verſarono le pie, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe, onde poi Fluunt lacryme: ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis: qua lucidus amnis Excipit, du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono, que Ite effer due piante fra eſſe lordifferenti; e vuol egli, che la callia naſca in una palude non guari profonda,per entro, e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza, e vigore; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola ſi cuoprono il volto, e'l corpo tutto,da gli occhi in fuora,di cuoja,e d'altre pelligec colefue parole: επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα, και το πόσωπον, πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν λίμνη φύεται ου βαθέη, σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ. λίζεται κού θηeία ερωτι, της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί. SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα δη απαμυνομένες από των ópfamutów. E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi pare ciò, che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer nervoſi non poffano ſcortecciarſi, ma tagliinſi in pic cioli pezzetti, i quali ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati, perchè i vermicelli, che nel corromperſi del legno s'ingenerano,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia no la corteccia intera, mercè l'amarezza, e l'acrimonia del fuo odore, την δε κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα, και ουκ είναι τριφλοίσα, χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι, από μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι, δια την πικρότητας και δριμύτητα 7ης οσμής, 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò PLINIO con l'uláta eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum, mox præſuunt recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum,ut ijs pu trefcentibus vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine. Ma che direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto. Il Cinnamomo, dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove, e'n qual modo naſca, ſe non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu nutricato, e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo: cglino tagliano in pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono; gli uccelli intanto calan giù, e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi, i quali non valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra, e gli Arabi allora ne fan race colta:όκα με γας γίνει αι, και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ, έκ έχεσι - πών, πλην όπλόγω άκόπ χρεώμενοι, εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς, απο Φοινίκων μαθόνης, κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι, ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι: πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο. μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε. « θαι έκας αυτέων• τας δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di Ro manzi ſarà, ſenza fallo, quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo fatto,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo PLINIO chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi, onde pofcia gl’arabi con faette di piombo lo ſcroſtano, e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον όρνεον είναι οι εκ των το. πων εκείνων, ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς πέοσαρ των τας, τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν, έκ του φουτου το κινναμωμον: elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας τε το κιννάμωμον όρνεον είναι, και αρώμα & φί. ραν, και τους νεοφίας εκ τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων, 7ους δε εγχωρίες μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν, και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας. E non molto diffimile e cio, che ne vien creduto da molti altri antichi appo Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν φάραγξιν, εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας: πεος ούς φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας, καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in animod'annoverare gli errori tut ti, ne'quali caddero gli antichi per eſſer eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia, ed indi aſſai più vaneggiãdo ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni d'affermare, ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe, e pericoloſe navigazioni, ove non giova governo de nocchieri, ne vela, o remi,inafol l'umano ardire, e la for tuna gli regga. Direi come in alcuni antichi Greci comentarj leggaſi, che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto,l'acque bogliéti rin freſchi, e meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti;e che tutti gli animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν, και αφανισικήν των εκ φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio, co medel pepe favoleggiado Dioſcoride ne narri, naſcer quel lo in India da un coral arbuſcello, che produce un frutto lungo, ſicome baccello, il qual chiam ali pepelungo: den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella, ficome gli veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco, e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero,e dilettevole al guſto più che'l bianco; il quale perciocchè a debita maturezza non è pervenuto, non è cotanto perfetto. Πέπερ, δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι, κα. &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και τέλειον πέ. περι. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το λευκόν πε. περι, epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου, φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ. ng IWY, Ma troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad uno tutt'altri lor fallimenti annoverare. Perdoniam pure a gli antichi ogni lor negli genza, ſenulla ſeppero, over nulla curarono del muſchio, dell'ambra grigia,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna, il non aver eſſi avuto contezza niuna della Mecciocana, della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè, del Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa, della China, e d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così manifeſti, e conti, che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno. Mache più: laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole, che peravventura cader potrebbono in penſamento umano: 0 pure avendole da altrui udito, co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute, sì le abbinn per vere, e le rapportino. Laſciam, che creda Anafſagora appo ARISTOTELE, che i Corvi uſin per bocca colle lor semmine, e dea cagione dicantare a colui:. CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che infinſero agli antichi della Catapleba, di cui Plinio, e Solino fan parole, e Sor gona appellafi appo Ateneo, la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo diffonda, che immantinente l'animal rimirato, ſtupido,ed inſenſato divega,e poco ftante fi muo ja; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne l'eſtremo occidente V na fera è ſoave, e queta tanto, Che nulla più. Mapianto E doglia, e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che favoleggiarono Megaſtene, Daimaco, Nearco, Ariſtea, Onoficrito, Te fia, ed altri appo Erodoto, Strabone, Diodoro, PLINIO, e GELLIO degl’uomini, che in Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore: degli huo mini, che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo: de gli altri, ch’appo i Troglodici ſon ſenza capo, e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla:d'altri, che han faccia di cane, e latrano, e di tant'altri di fimil figura, a quei, che la ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva. Non fu veduta mai piùſtrana torma, Più moſtruoſi volti, e peggio fatti. Alcun dal collo in giù d'huomini ban forma, Col viſo altri diſcimie, altri di gatti. Stampa no alcun co’piè caprigni l'orma: E traſandiam Platone, che verace credette quella bugiar da fama de'Poeti, che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello, e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano pe'l gran contento, che prendono del preſto ritorno, cli’al lo ro Apollo a far hanno. E con queſto di Platone,laſciamo impunito anche il fallo d'ARISTOTELE, qualor prende licenza di dir, che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari, che buſamente, e doloroſamente cantavano; eſſendo in verità il lor căto un'imporcuno gridare,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo, da Solino, e da altri, perchè po co, o nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei Poeti, che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome OVIDIO, Id quoquequod ventis Animal nutritur, & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua vefcitur auram Reciprocat Cameleon. O di caffar quegli, che vollero,eſſere it Camelconto della grandezzadelCoccodrillo, ſe pure non fu queſto, crrore di Plinio;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte, dice d'averlo tolto di peſo a Democrito, che un libro in tiero ne fcrife, ρve dicendo και το μέγεθος ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto, che nel Ionico linguaggio, nel qual Democrito favellava,la parola xpowodeina, val quel la Lucertola, che appo gli Atenieſi, e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di tal linguaggio. Elaſciamo ſtare ciò, che gli antichi, a'quali ſi parve, che deffer credenza VARRONE, PLINIO, Solino, COLUMELLA, Marziano CAPELLA, e SERVIO follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento, e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo. Co per vero dir non men fantaſtica del Pegaſeo di Bellero fonte, o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo, e ben degna, che ne freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro ardicainente attentare. E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille, Εάνθαν και Βαλίον,τωάμα ποιηση πελέσθην, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη. E ſimilmente VIRGILIO Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante; leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis, ventogravide, mirabile dicru ! E SILIO Italico delo lociſfimo Peloro no, fa K 2 Nullus erat pater ad Zephyri nova flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il noſtro ammirabil Torquato, Queſti ſu'lTago nacque, ove talora L'avida madre del guerrero armento Quando l'almaſtagion, che n'innamora, Nel cor le inftiga il naturaltalento, Volta l'aperta bocca incontra l'ora, Raccoglie i ſemidel fecondo vento, E de'tepidi fiati(o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe, e figlia. E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei, della Fenice, del Centauro, dell'Aquila, del I.eone, del Coccodrillo, della Salamandra, della Pirau ſta, della Remola, del Cavallo marino, del Baſiliſco,del l'Elefante, de'Satiri, degli Ipogrifi, de'Ciclopi, delle Si rene; e tant'altri errori, ne' quali non pur degli animali, ma de’minerali altresì in trattando incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga ma teria, ſol che a noi ſi conceda picciola,e ben dovuta rin chieſta, il poter da’lor falli ritrarci, uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne loro ſtrane ſentenze, e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in no cale; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto, e mercè la diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi, i portamenti, i coſtumi degli abitatori: ma di che animali qualche ſi ſia paeſe venga fornito, quali piante germogli, quai minerali produca. E non v'ha ge te nel vero sì barbara, e feroce, la quale, o per avventu ra, o da neceſſità coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato, il quale ad al tre più umane, e ben coſtumare nazioninon è occorſo. E ben ciò a pruova ſappiamo; imperocchè ne per lunghe vi gilie, ne per iſparti ſudori di'ſavj greci, o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar la ferocia delle febbri, quanto è quella maravigliofa corteccia,inſe gnatane da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quanto egli ora ammirerebbe per Dio queſta fortunata, e prodigioſa fecondità, e con qual leggiadria, ed altezza di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe, IL SUBLIME POETA FILOSOFANTE LUCREZIO, ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente preſe a cantare: quædam nunc artes expoliuntur: Nunc etiam augeſcunt: nunc addita navigiis funt Multa: modoorganici melicos peperere fonores. Denique natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper, & hanc primus cumprimis ipſe repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito, con tutte l'antiche, e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di tempo, che itati non ſiano per addietro tanti, tanti altri ſecoli paſſati. Si paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi bilancino. Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni? baſta ſolo un ſol filoſofo, l'ingegnoſiſſimo GALILEI, per tacer di Renato, del Gaſſendo, dell’Obbes, del lungio, e di tant’al tri, ad oſcurare, cſommerger affatto la gloria di tutta quanta l'antichità. Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar tanti belliſſi mi, e nuovi trovati dell'età noſtra? ſe de’tempi ſuoi, che pur ne furono affatto ſterili, ed infecondi, così ebbe a di re: Sum ex illis fateor, qui mirer antiquos; non tamen, ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio. Neque enim quafilaxa, & effeta natura elt, ut nihil jam laudabile riat. Ma ſu concedaſı pure ciò, che a niun modo conce der mai certamente ſi dee, cioè a dire, che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene; come mai potrà egli ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj, e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra? Che farà il filoſofo, e'l medico ſenza il microſcopio? Quanto ri pa marrà a ſuper della Terra al Geografo, ſenza le novelle; tavole dell'America? in quaiviluppi, cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti ricevuto? Non s'addofferebbero le ſghignazzate, e le riſa anche del popolo minuto, e de più ſemplicifanciulli, s'eglino mai a negare ardiſſero lo innumerabili ſtelle della via lattea? o faceſſer veduta di non iſcorger in faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno,ch'alcuniorecchj, altri anella, ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee, o lo ſcambiar della faccia di Venere, o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece, o le montuoſità della Luna; o l'aggirarſi di Venere, di Mercurio, di Giove, e di Marte intorno al So le? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli, la sfera del fuoco, e tanti, e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli? E come ardirebbero i medici ſenza i novelli trovati della notomia morta, e della notomia vitale ad impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati? Ed o quanto,e quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico, il cui meſtiere, comechè manchevole, tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede, che la falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira, e biaſimata, che ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe, cavarc. Ma laſciando ciò al preſente, che troppo larga materia da diſcorrer ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di ciaſcuno, o antico, o moderno autorch'egli diafi, appigliare, ne a ' ſentimenti d'alcuno tenacemente ligarli, ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte, fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato, e da' più ſavj filoſofancije da ſacriTeo. 1 logi comunemente leguito, e fommamente da ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e de'Satirici POETI LATINI, checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti dell'Epicurea, c della Stoica filoſofia addolcendo, così ne canta Quod verü,atque decens,curo, di rogo &omnis in hoc să. Condo, &compono,quod mox deprumere poffim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare tuter: Nullius addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas, deferor hofpes; Nunc agilis fio, & verfor civilibusundis; Virtutis vere cuſtos, rigiduſque ſatelles: Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res, non me rebus ſubmittcre conur. Equel, ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando..., Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis, quid nunc effet vetus? aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus? Odafi QUINTILIANO: neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia, quæmagni autoresdixerunt, utique efleperfecta; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam, & labun tur aliquando, & oneri cedunt, & indulgent ingeniorum, fuorum voluptati: nec intendunt animum: Odali il Romano Oratore: non tam autores in diſputando, quam rationis momenta quærenda funt,quin etiam abeft iis qui dicere van lunt, plerumque eorum autoritas, quife docere profitentur: definunt enim fuum judicium adhibere, atque id habent ra tum quod ab eo, quem probant judicatum vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole coſtume de' Pittagorici, a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità fo Jamente del Reverendo lor maeſtro baſtava: conchiude: tantum opinio præjudicata poterat, ut etiam fine ratione va leret authoritas. Odali oltre a' già rapportati autori più fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di Platone, ac comandatone ſpecialmente nel Critone, ove diffe: 10 ſon di sì fatta natura, che a niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che a quella ragione, che più vol te da go Ragionamento Primo te da me diligentemente ſtacciata, e diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima: as iywa õ jóvov vũ, anc ' wy de Tolos 1G-, οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή τώ λόγω, δς αν μοι λογιζα Hér w Gea Tigos Paívntou, Odaſi il famoſo Ariſtotile, ilquale, avendo a trattar certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità d'impugnar le determinazioni de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando, cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ όνπιν φίλων, όστον πτοπμαν την αλήθειαν, e pri ma auea egli detro a pro della verità, far meſtiere, maffi mamente al filoſofo, diſtrugger le ſue proprie credenze; ma odaſi quella maraviglioſa, e divina ſentenza ch'egli medeſimodal Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti coloro, che Ariſtotelici, o Ippocratici, o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno, vien comunemente traſandata,an zi affitto ſpregiata: Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica la verità; la qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del nome di vero filoſofante, foven temente dir ſogliono: eſſi amar meglio di ſcioccheggiar con ARISTOTELE, Ippocrate, e Galieno che con altri laggia mente diſcorrere. E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor ARISTOTELE, ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete, PITTAGORA DI CROTONE, PARMENIDE DI VELIA, Anafſiman dro, Anaſlimene, Meliſſo, Democrito, Anaffagora, cd altri molti, che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia; e ne meno per riverenza talor ſi ritena ne, chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate, e Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima, e riprende; e forſe ſe ſua malavoglienza, ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi ancor credere, che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e carminaſſe, chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri, e farnetici, e ſciocconi, e ſtolti, e ſcimuniti, e non farebbe per avven tura gran ſenno, che ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia, e danon così gravemente mordere. Ma queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol volmente e'ſi puote, in Teofraſto, in Ermia, in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno, in Ipparco, ed in altri molti, i quali ſi vide ro mai ſempre antiporre la verità, ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta, almedeſimolor maeſtro, e duce ARISTOTELE, non che ad altri filoſofanti; e'l ripigliano liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e queſta medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii moderni riformatori della filoſofia, a’quali tanto, e sì fattamente piacque ad ogn'orapreporre la veri tà ad ARISTOTELE, che allora con ſignoria da tiranno in tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile, e veramente filoſofica coſtanza, nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre, e proverbiati, e deriſi,il ripreſero ſoventemente, e lo dimentirono di non, pochi ſuoi falli. Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν, αλα πότερον αληθές λέγεται η ου, Non già chi abbia detta la coſa, ma s’eidica, o non dica il vero,doverſi conſiderare. Ne in ciò punto è da tralaſciare il celebre latino Stoico; il quale al ſuo LUCILIO in una piſtola, così favella: Epicurus, inquis, dixit: quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant, nec quid dicatur æftimant, fed à quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia. Ne meno è da notare as noſtro propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti: qui alium fequitur, nihil inve nit, immonequequerit; e ciò, che altrove ancora: Non ergo fequor priores? faciofed; permitto mihi, bu invenire ali quid, mutare, nec fervio illis fed, aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta: Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri, fed duces funt. Ne è da paſſar ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. cavato nel ſuo volgare dal beato Girolaino con queſte vo ci. Poft Deum,veritatem colendam, quæ fola bomines Deo proximos facit. E ſe tanto può far la verità, dove più riporrem noi l'a nimo, a qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche, ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla verità? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità, e della glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed ultimamente i moderni noſtri filoſófanti, che in tanto pregio,e tanta fama glorioſamente falirono; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe, e Talete, e Anaffimenc, e Senofane, e Anafſimandro, e PITTAGORA DI CROTONE, ed EMPEDOCLE DI GIRGENTI, e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate, e Platone, ed ARISTOTELE, ed Epicuro, e Zenone, e tanti, e tant'altri filoſofi d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente, e lidian yanto i noſtri ſex coli d'aver recati almondo il Cardinal Cusano, e' Copernico, el Patrici, e'l TELESIO, el Ramo, e'l Donio, e Ticone, e'l Cheplero, e'l BRUNI, e'l Gilberti, e'l Montagna, e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l GALILEI, e lo Sti gliola, e'lCAMPANELLA, e'l Verulamio, e Renato, e'l Gassendi, e'l lungio, e'lConte Digbi, e'l Oggelandio, e'l Boile, e’l Borrelli, e'l Maignano, e'l Robervallio, e'l Mal pighi, e'l Redi, e lo Stenone, e'l Ricci,e l'Vliva, e'l Por zio, e ' Bellini, e'l Marchetti, e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci, e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi, che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni della natura, fu perbi,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno, ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono. E viuran ſeipremai pe'l contrario ſenza fama, e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri delle coſc tutticoloro, che toglier non vogliono una sì 1 commendevole, e neceflaria libertà; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio, e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar lungamente potrei, e di sì fatti errori quaſi infinito numero rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia; c fie baſtante il ri duryi amemoria, ſol ciò, che d'un ' oſtinato, e duriſſimo Peripatetico LIZIO narra il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora più che altri già non fe la ſua Grecia. Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico molto „ ſtimato in Vinegia, dove alcuni p loro ſtudio,e altri per » curioſità convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno, non men dotto, che diligen te, e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno, chę ſi andava ritrovando l'origine, e naſcimento de'ner » vi, ſopra di che è famoſa controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici LIZIO; c moſtrando il notomiſta, co » me partendoſi dal cervello, e paſſando per la nuca il gra » diſſimo ceppo de' nervi, s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc, diramandoſi per tutto il corpo: eche ſolo un fil ſottiliflimo, come di refe n'arrivava alcuore: voltofi 5 ad un gentil'huomo, ch'egli conoſceva per filoſofo Perripatetico LIZIO, e per la preſenza del quale egli avea cons iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò, s'egli reſtava ben pago, e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello, e non dal cuore: al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc, riſpoſe: voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta, e ſenſata, the quando il teſto d'ARISTOTELE non foſſe in chiaro, ch'apertamente dice i nervi naſcere dal cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera. Ragione. volmente adunque potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros, famaqueverendos, Errare, & labi contingit, plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt nominis alti Autores, uticonnivent, deducere eajdım, 1. Tantum exemplavalent, adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive dere in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere. Ma vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la libertà, che noi commendiamo, eglino altresì, ed approvino, e lodino. E chi baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra gli Scolaſti ci Teologi Durando? Egli con chiare, ed efficaci ragioni manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui detti acchetare (il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario, e così folle farà,the più toſto a’Pagani, e perfidi gentili fede preftar vorrà, che a’ facri, e piiſcrittori, e Padri di Chieſa Santa da divin lu me illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già, ch'a'ſuoi detti dar s'abbia ferma credenza: ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini, & abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to Ito, e rigetti;indi le parole medeſime di AGOSTINO recate avendo così fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori, che vogliono impor meta alla libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia ſcrittore, e che altro, eſclama egli, è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa? fe non che un chiudere il varco a color,che vanno in traccia della verità?Se non che un far argine a quei, che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza: ſe non cheun'ammorzar violen temente, non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione. Così quel gran Dottor della Chieſa, non men d'ammira bil ſantità, che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo al Gran GIROLAMO, lume maggiore della Criſtiana Religio ne, dopo avergli detto, ch'egli dava intera, e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura, ed agli autori di quella, degli altri in sì fatta guiſa egli favella: Alios autem omnes ita lego, ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant, non ideo verum putem, quia ipfi itas Jenſe is fenferint,fed quia mibi, vel per illos authenticos autores,vel probabili ratione, quod à vero non devient perſuadcre po tuerunt. Ma prima di S. AGOSTINO quel criſtiano Tullio, Lattanzio Firiniano, avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via coloro,che ſenza diſcreto giudicio,i trovati degliantichiapprovano, e a guiſa di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre; per ciocchè: ficome egli ſoggiugne: Hoc eos fallit, quod maa jorum nomine pofito non putant fieripulje, utaut ipſi plus fa piant, quia minores vocantur, aut illi deſipuerint, quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de: Quid ergo impedit, quin ab ipfis fumamus exemplum, at quomodo illi, quifalſa inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos, qui verum invenimus poſteris meliora tradamus. Or dunque, fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi, che talor dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri, ed a’Dottori medelimidi Chieſa Santa, ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in veſtigar la natura delle coſe; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici. Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun paragone; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno, altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro dietro ſenza nocimé to alcuno, che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici per lo contrario, con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare, non di naſconder ſolamente altrui le verità naturali,non di ficcar carote al baſſo vulgo ſolamente ſi ſtudiano, ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima mente veggiamo. E pure i mediciduri, e oſtinati dietro al lor Galieno le veſtigie di lui, nõ già la verità,vā ricercă do; e come ſaggiamente notò l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet qui vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am,. 1 maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono; e mi ricorda a tal propoſito, che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene acquoſe in un cane da lui aperto; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno ) e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato, c adattandoſi gli occhiali al naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra: ne era inai egli per rifi pare, ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente, e in vo ce piena di carità, e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato, ſe non valere ſtar su le difeſe, mu eſſer pienamente pagodi ciò, che gliocchi, e le man pro pie le facevan chiaramente vedere. O ſtrana, o incredi bil pertinacia de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi, e ſordi, e tradir ſe medeſimi, ei malati, che ponen do giù la dura, e pertinace loro oſtinazione ricrederſi de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità, e'lnatural conoſcimento, e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo, Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una, a due, a tre: e l'altrefanno Timidetteatt errandol'occhio, e'l muſo; E ciò che fa la prima, e l'altre fanno, Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete, e lo perchè non ſanno Ma chczben ſo lo, che per la più parte ciò fanno coſto ro, non peraltro, ſe non ſe ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa, e malagevolc briga d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa, ed a’lor m.cítri non cono ſciuta verità; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio, quella, che certamentealtro non è, che dapocaggined'intelletto groſſo, e tondo; e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi d'aſtio, c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per loro ſi poſſa alla gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio, forte lagnádoſi Marziale col ſuo Regolo così canta: Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono, ed Ippocrate, e Diocle, e Plistonico, e Praſlagora, ed Erofilo, e Filotimo, e Cri fippo, ed Eraſiſtrato, ed Aſclepiade, per tacer d'altri, es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l Valentino, c'l Paracelſo, e'l Quercetano,e l'Elmonte, e'l Villis, e'l Silvio, e tant'altri avvedutiffimi medici moderni. Non è giàtale crederemio Galienifti, non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno; (gannatevi pure una volta, e ſe non altrui, credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel, che n’abbiam di ſopra rapportato, egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe medeſimo narra, che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro, i qualidaIppocrate, e da Praffagora, o da chiunque altro fi foſſe predevano il nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore: ήρετο πνα των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες, η όλως από πνος άνδρας, εκ λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο, ίνα μάλιση των πα hasūv in aivoso: ma che? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti, che il maeſtro della ſua fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa? conciosſiecofa chèſecconc una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ. λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα, τα δε κακώς κρίναντα, τα δε αμελί segov ypay ar to,cioè: egli è malagevol molto, o pure impoſſibile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando, e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì Galieno, il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun traſan darſi, o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più, che a tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti, i quali lodovrebbon prontamente ſeguire, ſe non mai per altro, almeno per darne a divedere, ch'elli veramente há bo in quel pregio, ed in quella ſtima, che tutto dì millan tano, il lormaeſtro, il lor principe Galieno; altrimente vero dirà Paganino Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in queſte parole, Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt, atque contemnunt. Tanto dice o Signoriilſaggio, e ben conſigliato rino vatore della vera filoſofia, e medicina, e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior lieva più oltre proce derebbe, s'egli non avviſaffe, che il rimanente ben pote te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo TELESIO ſotto l'effigie della Verità giuſtamente (culſe Móva pod pina, cioè a dire Sola coſtei a me amica; e con quelle parole, che replicar così ſovente il Paracelſo folea: Alterius non fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio, coſa, che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e pur ella è certa: ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani, cioè, che poco men, che tutti i più celebri, e più ſtimati parteggianti di Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi miſentimenti, e quaſi tutti tanto nel filoſofare, quanto al fatto del medicare foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa, e'l contrario tutto con fatti adoperando, di ciò,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono. E percominciar dalle Spagne, acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche ordine ſi proceda, Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire: Eſſer egli da credere, che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri; ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo, perchè dalla verità non venghiamo a dilungarne; e quindi a poco paſſando a di ſaminar le ſue dottrine, il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente egli pregiandoſi, alla fine con chiude: quæ animadverſiones liberum animum oftendunt,com uni veritati vacantem. Nequi rapporterò lo altre ſue parole intorno al mede fimno ſentimento, che troppo lungo ne verrebbe il mio di. ſcorſo; ma non laſcerò lo già di dire, come forte per lui ſi ripigli, l'haver Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì folle opinione, unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta cerò, come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male, contro luiprorompa in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis faceret? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare? cgli avvedutiffimo ne'luoilentimenti, non pure il ſuo maeſtro Galieno, e'l ſuo divino Ippocrate nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona, fi come nelpurgare, e nel cavar ſangue, quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi; ma in un particolar luo libbri M cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe contrarj, e diſcordi, ch’in niun modo, ſecondo lui, difender mai, o riconciar baſtantemente fi poſſono; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati, e per altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato, il Mena, il Segarra, il Peramati, il Pereira, e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe; la qualcoſa così egli faggiamente proteſtā do, dice, che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co ſe, ch'e' rapporta, alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun modo: quàm(ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes,sed rationum momenta conſtet preponderare, indeque, vetus verbum: Amicus Plato, fed magis amica veritas, oy tum babuiſe. E per far motto intorno a sì fatta maniera, ancor de Medici di Valenza, i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar ſogliono ſtrettamente confederati, che anzi a ſommo fallo li recherebbon, che no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine. Pure il Pereda fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli antichi maeſtri, così dicendo; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe ſue chioſc, ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta ſtra da, non ne torce ancor'egli, e non una, o due, ma più, e più fiate? certo, che sì; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio, fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14, ut 1 na, ut multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth. vo. lunt. Or ecco, come da Galieno ribellando il ſuo giura to campione, e lotto le bandiere del barbaro, e miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta, e cerca, di mandare a terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce, cotanto replicata da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala,soy eli cw, ws dignton, φλέβα τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς, αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί σήψ « χυμούς, όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας, ή τα τ δυνά pescos pead montées: Egli è coſa falutevoliſſima, ficome io hogià detto, ilcavarſangue, non folo nelle finoche, ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate, fol, che l'età, o be forzeno'l vietino. E comechè li forzi egli di ceſſare la fellonia, con dir, che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando: queſto però è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della Crusca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo, in modotale, Che non l'avria Demoſtene difeſo; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno, il che affai monta in faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra,che molto fedel ſia di Galieno il Pereda, colà ove dice: Mul ti fequuti Galenum lib.VI.derat. vict. in morb. acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium, d hemorrhoidibus, autalia plethoricaaffectione orto,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum nobis videtur,immo falfum, quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il Pereda, favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno ſpiegato; quem locūzignofcant mihi ejus manes, Galenusnon recte explicuit. Stefano Roderigo da Caſtello, Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma ſcuola di Piſa, nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia d'effer medico, e filoſofante libe ro, dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile, che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare, forte ſgridando co loro, che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno, e farti ſervi d'altrui, così favella: fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit? Proh dolor, ingewa phi lofophia ſervos parit: ed altrove: ego vero quid antiquiores fenferint parü ſollicitus, &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una fiata Galieno negligente, duro, oſtinato, caparbio, protcryo, e catti vo filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel menzionato volume, che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina. Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce, quante volte, e quante all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi, o non bada, o non cura, o talora lc fpregia? Noil dic'egli una volta: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina; ed al tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate, come colui, che non intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle malactie: eccone le ſue parole: Hippocrates elio modo, & forfan clariori caufas debilitatis nobis propo fuit, quamvis Galenus illumfine ullo fundamento repreben dere aggrediatur. Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc, affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del medico della Regal caſa Gaſpar Bravo, valoroſo, e forte cam pione della doctrina diGalieno: e fono le ſeguenti: liens Non eft conformatum à natura, ut fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore, quod Galenus, & reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina in infantis anatomes non potuit circulationem fanguinis, cu motum percipere. E in priina, di Galieno medeſimo avea già detto:fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in pueris, non ftandum ejus doctrine. Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli trovati dà piena credenza, fi come all'aggirarli del ſangue, ed alle vene latree, e ad al tri molci diviſi moderni; perchè ragionando d'Arveo, così manifeſtanente dice: quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat, quod nova, ab illo noviter dicta, quia in naturali busnon tam quis dixit, quam quid dixit examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero filoſofo, degna d'un vero medico, degna d'uns vero, ed avveduto diſcepolo d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola, eco ſtantemente di non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto? Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre, cſeguon tuttavia per ſolo titolo i medeſimi Greci maeſtri; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare dilunghinſi, non ſi può egli bastantemente narrare. Eben'avviſollo una volta il teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce, il qual dopo aver due luoghi delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di, o nc'troppo caldi tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue, avvegnachè grave, e di riſchio ſia la malattia,e l'infermo freſco, e giovine, c ben’atante della perſonas foggiugne inanifeſtamente poi: certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo, &in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit fanguinem? quid mira quod multi interierint, ut dicitGalenus? fed quid mirum fi tantum aberrent multi, ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia? Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu., rca ragionar della Frácia, nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati, e banditi, non fù ella poi così fal dase coſtante, che non abbandonate talvolta, ed aper tamen 94 Ragionamento Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate, e di Galie no; imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro, quanto al fat to delle purgagioni, e del ſegnare, e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto, e si fattamen te fi dipartono, e s'allontanano, che più non farebbero p avventura i medeſimi liberi, o vaghi mcdicanti; il che pienamente ſi può per ciaſcun comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo purtroppo manifeſta la libertà, con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in chiaro quanto il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore, e difenſor della verità,le cuilo di di celebrare, ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca la ſua eloquentiffima penna; oltremodo commendan do altresì Galieno, perciocchè ancor'egli per amor della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando macſtro Ippocrate; eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere diluiabbia rivolte. E oltre a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate, ARISTOTELE, e Galieno faccia contraſto; palesí do ſenza riſpetto, quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno l'altro annulli, ſpezialmente colà, ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà dell'orzo, o dove ragiona filoſofan, do dell'amaro ſapore, e tutt'altri fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con generoſa libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo Fernelio, il quale, comeche foſſe motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro Maſſaria con quelle pungenti parole: fummus cum ratione hic vir ſuo libro titulum inferipfit, Ferneliime dicina; namque fi totam illius inftitutionem, omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus propria, epeculiaria, ut prope fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran lume della riſtorata cloqueaza Ro mila, 1 mana, ma ſovrano pregio dell'arte della medicina eſtimar fi; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria, il vennes anzi a commendare, che nò; imperciocchè, fe ad altro, ch’a ricercar nuove coſe, e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto, e'l penſier rivolto, per certo, che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno imitatore, anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non riguardò punto a quelle parole, le qualiil Fernelio,antiveggendo,che delle ſue novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo volume laſciò ſcritte; la dove egli con sì efficaci, e convincenti ragioni, econ sì maraviglioſa facondia, la fua cauſa difende, che più non farebber per avventura, o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo quell'ultime ſue parole, colle quali maravigliando egli de famoſi trovati dell'età fua, così al tamente favella:nihilvere docto illifeculo debet hæc invi dere. Dicendi ratio, fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ genus omne excolitur:m:ufici, geometra, fabri, pictores, architecti,fculptores,aliiquc artifices innu merificmentis aciem extulerunt, ut artes quique ſuas pre claris, magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit temporum ex curfio, fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã, velingenium, vel induſtria penetraverat. Quindi ſieguo egli a raccontar delle bombarde, delle ſtampe, delle bof fole da navigare, e d'altri maraviglioſi ritrovati de'tempi addietro; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio com menderebbe la noſtra età, fe vedeſſe a' dì noftri di nuove, e più maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli ingegnoſi moderni, o le carrette a vela, o le trombe parlanti, o le lanterne magiche, o i teleſcopj, oimicro ſcopi, o le tante, e tante, e sì maraviglioſeforti d'oriuo J ligo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite telc: o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi gettino le Cittadelle, ultimo rifugio de’vinti, & ultimo ſtento de’vincitori: e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti fortezze, traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare. E come egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti, ed altre fille non mai più vedute Itelle, ed altri, ed aleri movimenti, oltre a quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre, e degli ſtrumenti del vuoto, in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria? Eche de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita? e che del trasfonderli del ſangue e di cotant'altre prlove, che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età noftra. Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe, e con onta pur degli inutili e pecoroni parreggianti: fi omnem laborem pofteri collocaf-, fent, ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent, qua rum fundamenta priores jecerant, nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent. Ma e'l Fernclio, e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui, quanto al filoſofar liberamente poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore nell’Academia di Mompelieri; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de gravioltraggj, che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi ſavi patiti, haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati, e {tra yolri, che s'eglino pur ci ritornaſſero, non più, comopro pi lor parti ravviſur certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. sì loggiugne. Hinc res eò miferia tandem reducta fuit, ut quum maximophilofophurum damno aliorum commentaria periiſſent,in iis nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee Jerit, ea tantum vera eſe ſibi perſuadens, quæ fine contro verſia proponerentur. Quindi egli con animo libero, e fin loſofico, dinon dover ſenza minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli altrui pareri,manifeſtamente proteſta: avve. gnachè ſian quelli pure diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice. Hec dum animadverto,non poffum non illius quo que dicta exactiusperpendere, de pleriſque dubitare: ut diligentiore facta inquifitione veritastandem (abfit invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia libertà, dice egli, da cia ſcun doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità, che ol tremodo ſe ne ritragge, e per l'autorità de'letterati più prodi, ed in iſcienze più valoroſi, che ſempre glorioſamé te l'han ſeguita; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj, e ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża, anzi non pago di ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi. Perchè un diloro ebbe già quell'e legantiſſima orazione, che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente la ſua ragion difeſa, la gran forza ſpiegando della verità, dice, quella ſola la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano alla latina eloquenza: e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione introdotta, e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato ARISTOTELE; e nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato CICERONE. E fu opera anche della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro, e opporſi Agoſtino a Cipriano; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, e ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida, che più le viete anticaglie degli ſtolidi maeſtri, chela nuova, e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano così ſoggiugne. Et paganorum quorundam (cioè a dire d'Ippocrate, e di Galieno ) memoriam ſuperſtitiosè coletis? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis, ut à falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere judicetis? Ma non comporta il tempo, che più avanti lo ne rapporti, comeche per tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno: ed a cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà. Di tanta, e sì valevol forza fur le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri, cioè del Rondelezine del Giuberti, che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri, da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben filoſofare è cam. peggiata. Ne con più ardente, e con più vigoroſo ſtile altra ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della Chimica, e del Quercetano, quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri: da cui ſon ſempre uſci ti, ed eſcon tuttavia valorofi germogli. Che più? egli è táto non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri, macoloro, i quali la liber tà in altrui ſommamente riprendono, come il Silvio, l'Ol Jerio, il Doreto, eiduo Riolani, lor fa meſtieri, ch'a ' giurati maeſtri, o di naſcoſto ſi ſottraggano, o manifeſta mente ribellino. Anzi (chi il crederebbe !) anche colui, ch’a difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi, voi m’intendete o Signori, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo, udite come pur ebbe a dire: Ego enim hactenus is fui,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa prioribus ſeculisincognita, & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in apertam lucem profero. Mala Lamagna, quantunque foſſe ſtata il Teatro,ovej con Paracelſo da prima, e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più oſtinati difenſori degli antichi maeſtri: es quan Del Sig.Lionardodi Capoa. 99 quantunque ſurti vi foſſero, ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio, il Platero, il Cratone, ed altri acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti: nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la, come colui, che in trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi maeſtri, e Taddeo Duni, il quale, tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo ſuo maeſtro Galieno, un libro partitamente compo ſe, ove nel procmio così apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, & illuftris., vene randus: veritas tamen, & antiquior, & illuftrior, dve. neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio,di Felice Plateri, di Corrado Geſncro, di Martin Rollando, e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro,andar Galieno follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia: e che de' ſuoi falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata, ut (per dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras, quain inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam, ipfis è mente eripias. Ma quel che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per fecutori del Paracelſo, eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri, Tomaſo Era fto, Giovan Cratone, Gaſparre Ofmanno, nimico il più im placabile, che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera, intinto biaſimò, e ſquarciò, che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno anche funne ripreſo: l'un de'quali, che fù Daniello Orſtio, così pro verbiando il motteggia: ad Hoffmanni modum, qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim fcurrilitertraducit; e l'al tro, che è Riollano il figlio, ſdegnato oltremodo, di lui N 2 ſcri Tôo ferive: Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat omnes Medicos, utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora Rinieri Solenandri filoſofo, e medico digran pregio, il quale coll' armi, dal medeſimo Galieno un tempo adoperate, coraggioſaméte diféde la ſua ragione; e dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici medicaméti,così con tro di lui, e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio na. Si in his medicina partibus, in quibus plus externi ſon Jus, experientia valet, quam judicium, & ratio, tantū deliquerunt majores noftri, quid credere debemusfactum ef feincæteris omnibus, quæ fola ratio, & ingenii ac umen af Sequi, eperſuadere poteft? E che direbbe ora il Solenan dri, ſe vedeſſe di già fatto palele al mondo, quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto, ſecon do, ch'io mi creda, quel tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto;del quale perciocchè e' fa moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe ad Antonio Guntero ragiona. Semper novum (dice egli) Suſpectum fuit, antiquum vero lauda tum; fed an jure ſemper, dubito; nam, quod nobis antiqui, olim novum fuit: ideoque non tempore, fed rationibus opi niones affirmandæ funt, eæque veriſimehabende, quæ cum natura, qua antiquiſſima eft', confentiunt. E poco avă ti: multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita obſcura ſunt, ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint. Ma non hà egliper mio avviſo animo me no nobile, e generoſo del Sennerti, il famoſo Galienilta Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente, e fecondo ragione,la verità delle coſe, ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra gli altri ſuoi li beri, e memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno, e avviſando in quante beſtemmie, cd empiezze foſſe coluinelle ſue dottrine ſtrabocchevolmente caduto così eſclama: Quid eft abnegare Deum, fi hoc non eft? fi enim iſta non poteſt, ne quidem Deus eſt? alla fine contro i parteggianti di lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo,cui non aſſurrexiſe grandenefas eft? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft? E altra volta così del ſuo mae ftro Galieno ragionando: Galenus (diſſe ) magnus eſt, & fuit, &erit; non tantus tamen, quem patiar libertati med fibulam imponere in iis, qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del Lindeni maa gnanimo, e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe Zaccaria Silvio; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare,ma ſolamente condurre a reverendi ſentimenti del maeſtro, ritroſo, e reſtio, ſovente a quelli ricalcitra;e tra viando dagli antichi ſentieri, per nuove, e non uſate vie s'argomenta talvolta, comechè poco felicemente, d'ag giugnere alla verità. Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū eft.E no guari ap preſſo: Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis inventa, fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur. Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona, non è la medicina, o la filoſofia così ſtretta, così anguſta, e di sì poca ſpazioſità, che di preſente dagli an tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna altrui; ne così manifeſta, e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri alla gloria vincerla ſolamente della mano; veri tas, fù ſentenza di lui, in multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis. Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico, fi loſofante di Ollanda; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze, ſe non che io temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico de'ſuoitempi Giacomo Bacchio; il qual veggens е doſi da' ſentimenti, e dalla ragione perſuaſo,anzicoſtret to, e vinto a confeſſar l'aggiramento del ſangue, niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da' volumi degli antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette, e intanto l'abbracciò, che conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol gerſi, e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe fi riformerebbe la medicina, e in mi glior filo certamente ſi metterebbe. Sic contingit, oſſer vò egli, concefo, ftatutoque ſanguinis circulatorio motu,in numera veteris doctrina fiatuta inverti; unde totus docendi ordo turbatus præpoſtere, & fine certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur, addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim cohærentibus, &certo ordine inſtructis ſia biliri decer. Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il quale, da queldella Francia poco certamente s'allontana? ſe non fe i Tedeſchi aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no; e intanto l'abborriſcono, e ne ſon ritrofi, che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne voli, e ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti, raccorciarne miſerabilmente la vita. No lo mi prenderò quì punto briga in provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi, emedicidabbene, e amatori della verità, no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna; ed egli ſiè ben manifeſto a ciaſcuno, non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere ſtato dimentito, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno. Ma non men libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno, o d'altri antichi medici, ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle ſperienze, e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi dell'antico Ric cardo, o di Giubetto, o di quelGiovanni, che ſopra tutti manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora da lui, ſotto nome di Roſa Anglicana; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a' quali, comeduchi,e maeſtri del filoſofare, e dell'opere di medicina, piacque anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare. E più allor crebbe, e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche, elatine lettere; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno, e avvedimento ſi puotè per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to poi nella famoſa penna del Primeroſio, dell'Igmoro, e d'altri valenti Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina, che ſoverchio ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo ſe ſcuole,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento del ſangue, la qual sì forte, e valo. roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio orgoglio al gonfio, e folle Pariſano, che vergognato, e ontoſool tremodo divenutone, non osò il cattivello per innanzi far ne più motto. Ma chi mai pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo? ilqual ſgombrate da ſe tutte paffioni di Sette, e di nimiſtà, intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe, che nelle ſue glorioſe. opere così par, che ſaggiamente ragioni: Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato di coloro, anzi tal volta hogli preſo a gabbo, i quali follemente s'avviſano aver l'operc d'ARISTOTELE, o di Galieno, o d'altro più cele bre maeſtro cotanta perfezione, e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di vantaggio. Non è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che compiutamente per huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente ſpiarla. Ella ha i fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò, che in alcune coſe confu ſamente, e inviluppatamente n'accenna, altrove poi reſa. ne fedeliſſima interpetre, più diſtintamente, e manifeſta mente n’eſpone. Perchè ſenza dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno all'uſo, o alme ftier delle parti del corpo umano, chiunque in prima non n'abbia ben preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male, e'l ſito diligentemente, e la fabbrica, eicongiunti vaſi, e altri accidenti di quelli, e delle lor parti conoſciu to, e l'uſo loro per pruova ſaputo. Et putabimus, dirolla pure colle ſue propie parole, nihil prorſus commodi ab his auxiliisfcientiarum nobis accedere; verum omnem plane fa pientiam à primis ftatimfeculis abforptam fuiſe? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa eſt. Ma che non di ce egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio a' ſuoi liberi ſentimenti, o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio di Londra, o nel proemio del libro della generazion deglianimali? Pudeat, udite, come all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi, e ne ſpro ni il magnanimo amator della verità: pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo, tam.admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere; incerta indè problemata videre; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas nectere. Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum. Ma dalle nazioni ſtraniere, paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima Italia, pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze; la qual certamente, intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili, e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi, e i Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado, e gli Arduini, e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli, e cento, c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine: hebbe anche Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio, e Gio van Manardi, e Giovan Battiſta Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo, c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri molti, a’quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire. E pur veggiam talvolta effer coſtoro manifeitamente, trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri, e in mol te, emolte coſe, che a grado lor non furono, avvegna chè di non poca conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare. Ne reco Io già al preſente per teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer curiale,ne Ercole di Saſſonia,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri, e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi commendati ne’loro tempi, c pregiati allai. Solamente ricorderò le glorie del famo fiflimo Giovanni Argenterio, e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci, e imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina, ſenza appiccarſi molto tenacemente, ad Ippocrate, o a Galicno,comechè Ippo cratici, e Galieniſti eglino li foſſero. Ma cometutt'altri, e in dottrina, cin chiarezza di fama avanza di gran lun ga queltanto valoroſo, ed eccellente ſcrittore Girolamo Cardano, così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno, ſolamente s'affa. tica, e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue opere, ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno, prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela, e manifeſtamente biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare, e del ſuo ſcrivere, e del porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere; infra le quali non mi par da dover tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri, di lui narra, dicendo eſſere ſtato colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo, e ſtudio logorato v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re. E delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli arzigogoli dello ſpecula re, ſcnza diſcender giammai all'operare, e ſenza far prìo O va delle ſue mal credute dottrine: Caufa errorum in medi cina eft, quod quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus, & c Princeps, & hodie omnes medicine profeſores; ideo (avvertimento ben degno da dover far faldiffima im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum, &dogmatum fcribuntfomnia. Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti, e'nó mipare di dover tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro; per ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità, e la caſtro naggine de' teſtereccj, émalandati parteggianti de' ſuci tempi,infra l'altre, cosi una volta ſtizzoſamente gli pun ge, egli beffeggia. Demiror, dice egli, credulitatem, de mentiam, & impietatem medicorum noftræ ætatis, quorum aliqui eo deveniunt, ut cbliti omnis humanitatis, maline perdere homines, utferviant pertinaciæ, quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero, anzi l'anime loro medeſimc non curando, foventi fiate il diritto delle divi ne leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis, grida egli pictoſamente piagnendo, addicti ſunt, at nec immor talitatis aninorum,nec præceptorum philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat. Machirccherammi amcinoria tutti gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla pertinacia, dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando: Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da tanto, che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci volte si, e tanto operano colle loro trappole, che ne tolgono la voita aʼmedici più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati, che sfregiando colle loro opere il digniffimo nome di Criſtiano, e laſciata affatto la pietà, cla ! e la carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto, tuttiaya: ri, e ambizioſi,ſi veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare, e i poveri, e miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o affatto non curare, o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli. Del quale graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno, da cui eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari. Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano, au tor fuitnofter Galenus, qui nil ubique jactat, niſi proceres, atque Imperatores; quum tam juveniseffet, ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri, i quali a perpetuar la lor tirannia,agl’ingan ni, alle millanterie, alle beffe, all'aſtuzie, aile giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano. E di tanti misfatti, e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone nobili, e d'alto affare, i quali per ciocche delle coſe del mondo, e della natura poco, o nulla ſi conoſcono, non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo, ficome certamente dovrebbono; anzi intanto giugne la lor biaſimevole dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina, buoni coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande, ſcienze alla medi cina appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza delle cure malagevoli, conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente, amor di glo ria, che naſca dal ben operare, diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli, e ardente diſiderio d'apparare; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta, aſpetto grazioſo, viſo piacevole, adulazion di parole, abbondanza d'ammalati illuſtri, e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità. E ben gli parve, che meritevolment, coſtoro ne portaffer poi la debita penitenza, omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem premai ſparuti, c triſtınzuoli, e cagionevoli aſſai dell i perſona: diuturno cruciatu protractorum per longumtempus morborum: per rapportarvi omai alcune altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum, debilitatum,quæ poft fanationem illis relinquuntur; avs vegnachè affatto non ſi vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur eſli,magl’innocentiloro figliuo li, e amici. Ma troppo piacevol coſa è a ſentire ciò, che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra, i quali baldanzoſi, e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto, e abborrando, e malmenando la medicina, co (trignevano alla fine i cattivelli infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano, a pagare a ingordiſino prezzo i rimedj, e talora anche la morte; facendo eglino ancora forſe la lor mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi. Egli comechè fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano, e s'argomentaſſe a ſpada tratta dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto, che ne pur la loro oſtinatiſſima nimiſtà Ha diſciolto colei, ch'il tutto ſolve. Atque ut etiam nunc poſt cineres, dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ chara te; non però di meno, ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia, e di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere, allorcertamente poſto giù lo ſdegno, e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di parteggiare, e far capo oſtinatamente alle ſette. Errata majorum, diſſe generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala, diſi mulanda non funt, ne eo ipfo pofteritati imponamus.E benſi valſe egli del ſuo avviſo, quádo cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano: Tueris, atque profiteris nefandum illud Hippocratis deliramentum, à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà, e ſtizzoſamé 1 te bia. te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato IL REVERENDO ARISTOTELE; come ſe graviſſimo fallo, c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus,dice egli, carpendi longe de meliorem; in quella guiſa appunto, che quel nobile Ga lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva, che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori; della qual coſa, non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri, così rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque aliis omnibus, qui funt ingenio, em judicio aliquo prediti, ut poffint ea reprehendere, quæ ma lè funtdieta, &meliora tradere: foli Argenteriohanc li centiam adimis. Ma prima delCardano, e di Giulio Ceſare della Scala, per ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide, e nelfiloſofare, e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche, e nella filoſofia, e nella medicina aſlai bene fcorto, ed cſercitato; perchè meritonne d'eſſer'altamente pregiato, e onorato da quel generoſo favoreggiatore, e intendente delle buone lette re Lione il Decimo, Sommo Pontefice. E fu coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito, no curante l'altrui autorità in non poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica: coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia: volle in cc minciando un capo diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna, più manifcftamente proteſarlo, portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole, e di gran lie va. Quoniam noſtri antiqui progenitores, dice egli,fcien tiarum inventores, rationibus, experimentis, comperie runt ſcientias; veriphilofophantes ipfos imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo, e pocta de Verona Girolamo FRACASTORO, avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il fuo maeſtro Galieno, e molto a capitale il teneſſe; non però dimeno, reſo talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio, d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo. E oltre a ciò nelmedicare,e nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione, eins altri luoghi; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide, per cui huom certamente crede, lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto, e che tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro. Nel qual poemacontro l'opinion del ſuo Galieno va egli cantando, l'aria ſola di tutte coſe eller principio, così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft, &originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato: Principio quæque in terris, quæque æthere in alto: Atque mari in magno natura educit in auras, Cuncta quidem nec forte una, nec legibus iiſdem Proveniunt, sed enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur: Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve, locifve, quibus violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant tenebris, &opaco carcere noctis, Milletrahuntannos,fpatiofaque ſecula poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum. Quindi con l'uſata ſua eloquenza della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non omnibus una Nafcendi eft ratio, facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus babet, &primordia praſto. Rarius emergunt alii, poft tempore longo Difficiles cauſas, & inextricabile fatum, Et feropotuere altas ſuperare tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galieno, e iſeguaci di lui, prendendola oſtinatamente a favor d'ARISTOTELE, e de'Peripateticiin LIZIO ciò, che da coloro dipartonſ i Galieniſti; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo l'aggiramento del ſangue:tutto, che parer poſla ciò, che moltoprima di lui aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά συγκερασθείσα, το τών ινών γένος, εκ της εαυτών διαφορή τάξεως. αι διεσπάρησαν εις αίμα, να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους, και μήτε δια θερμότη ως υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι, μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον, μόλις axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua: E maf. fimamente quando (la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre,le quali ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo,ficome ogni li quida cofa fcurre perun corporaro, neſia troppo groſo, e difficile a ſcorrere, sì, che appena poipoteſſe andare, eritor nare per le vene. Ma non poco certamente e' ſiparc, che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi in liberamente ſcrivere, non avendo ri guardo a ſetta niuna, per aver eglicol Sarpi, e col Gali Jei un tempo ufato; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj diviſamenti manifeſta re, e ſpezialmente in quel libro cotanto per ciaſcun com mendato, della Staticamedicina, comcchè il più delle vol te male egli apprendendo le commendevoli dottrine di que’valent'huomini, e alle ſue volgari ſconciamente me ſcolandole, fe ne faceſſero le ſcherne gli accorti lettori. Maciò da parte al preſente laſciando, non ſi può egli di leggier narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du ramente foſſero i parteggianti tutti medici, e filoſofi; e quantunque volte gli vien fatto loro l'accocca, rapportão do in ſuo pro varie, E MOLTE AUTORITA D’ARISTOTELE, e di Ga lieno; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco lontani: e molti, e molti errori ne'moder ni, e negli antichi ſcrittori dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice, di pa recchj ſcuole dell'Europa, dice, che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar ſogliaſi a L’ORREVOLE AUTORITA D’ARISTOTELE, d'Ippocrate, o di Galieno, che a' ſentimenti noſtri medefimi; E PUR DICE EGLI ARISTOTELE MEDESIMO, Galieno di comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza, e a' ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta, così alla per fine con chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus, aut majorum meorum avunculus, quod ſciã, neque in Sanctorum catalogo fit collocatus, quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus, non video cur omnes non poffint honorificè, fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli, il qual comeche parzialiſſimo del ſuo Galieno, purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto, dice manifeſtamente, eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato,e ſovente non averne parola inteſo; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non iſtizzo ſamente gridare: videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis fententia,ac hiſtoria aberraſſe, fedetiam à ra tione ipfa, acveritatelongè fane abeffe. E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno,ein molti luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti, c troppo di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente, che ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti del mondo. Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della metodica medicina, avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno, e d'altri R.2 zionali medici; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente carica di bialimi, e di maladicenze ATTALO famoſif troppo affezio fimo Timo medico metodico, dicendo, che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo cinico. Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici il narrato Attalo, ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui data a Galieno;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse, volle nell'opere ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate. E forſe fuella più ancor pugnereccia, e di piggior talento, che egli ne racconta. Eche direm noi del valoroſo Girolamo dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo? Quante fiate ) egli, comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte? Quante,e quante fiate grave mente il proverbia, e riprende di ſciocchezza, ed'igno ranza? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci, ch'Io per brevità tralaſcio, recheronne al preſente uno, che val per cutti, lagnandoſi egli forte del tempo, ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne abbia ſola mente laſciate quelle d'ARISTOTELE, e diGalieno, como ſchiuma de libri, e viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine; eſſendo coloro in molte, e molte coſe ſempre mai fallati; e ſpezialmente taccia Galieno diquella folle ſua opinione intorno alla formazion della viſta. E intanto è vero ciò, che noi raccontiamo, eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza della verità al lor maeſtro Galieno ribellati, che maraviglia è a narrar come Aleſſandro Maſſaria, cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno, pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella diſſenteria, comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno; e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo, pure l'aveſſe fronteggiato, e ripigliato, 12, ove egli ragiona delle cagioni del color glauco degli occhj; ed ove dice, che l'acque de'pozzi non fiano,me appajano fredde l'eſtate più, che in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde, perocchè ſi toccano colle mani food P dc..  1 1 1 de. Ma quel, ch'è più da conſiderare ſi è,ch'egli in un'in? tero libro riprova l'antico, e praticato uſo di medicar le ferite, appigliandoſi ad un nuovo modo da Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto, non che adoperato. Ma troppa gran briga fermamente lo mi prenderei, ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino. Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli, il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente ſdegnato, così proruppe: An omnia novit folus Galenus? an nihilreliquit pofteris inveſtigandum? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli) totam, perfectam, &integram medici nafcientiam,nihil nobis reliquens? e dopò molte graviſſime parole, che egli apporta a queſto propoſito, così alla fine conclude: Patet boc, quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio, ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare in medi cina,ben da molte, e molte fcritture publicate in iftampa, apertamente ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie, ond'è sì abbondevole, ctanto fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte, e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti, ragio nerò ſolamente della nobili: lima noftra Città, delle Sirene, e delle Muſe amenillima ſtanza, che non pur nella gloria delle lettere, ma in ogni altra a niuna delle più celebri, cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda. E laſciā do di favellar del Belli, del Bozzayotra, del Tucca, e d' altri, e d'altri lettori diminor grido oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna: come potrò mai lo pienamente nar rare co quanta maraviglia udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi mentovato Argenterio; al cui ſottile in gegno, ed avveduto giudicio,non miga, come altri per av vétura coftumano,baltādo il copiare, e l'appropiarſi l'al trui viete dottrine; ma volendo egli diſaminare, e far pro va delle coſe della medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e avveduto, e giuſto Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare; il qual non a tutti pienamente dà fede,maaltri approva, al tri traſanda, altri manifeſtamente rifiuta, ficome appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore. Su mus omnes in arte noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in aliorum fententiam ire debe mus, fed ut prudentes Senatores viderequid conveniat; at que ita ingenue proferrede rebus, quod rationi confonum ar bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo, ed eccellente giudicio dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole di lui ravviſarſi. Non tam Servili, dice eglifimus, animo, ut omnia veterumplacita, oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur, vel tam ab jecto, ut pofteris omnem, meliora excogitandi occafionem prareptam, ac præciſam effe arbitremur; quafi vero non idő nuncſit, quod olim Cælum, eadem terra, idēgenerandimo dus: eadem denique, & facilior etiam, quam aliis fueritdin cendi, inveniendique ratio. Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti d'Ippocrate, o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della ribaldaglia del volgo, con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero, facendo ſempremai veduta di abbracciar, e di ri tener tenacemente tutto ciò, che inſegnato viene per Ip pocrate, c per Galieno. Infra'quali Filippo Ingrafiagavi do oltremodo, e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da alcun degli antichi medici ravviſate; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc d'Ippocrate, ne di Galieno punto curando, di purgare cziandio nelvigor delle malattie. Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti Bernardi no Longo, Paolo Monaco, e Giovanni Antonio Piſani: un diſcepolo de'quali (1) in una apologia in difeſa diſe, e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle, che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non folum con P 2 (1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra recentiores medicos, & Philofophos, ſed etiam contra Gao lenum ipfum, &Platonem, alioſque illuſtresfcriptores dice re, fi quando ratio dictaverit. Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon giovanni, e Latino Tancredi, huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte lettere, e di molto giudicio, e gran difenſore della dottrina del Telefio. S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani, e Mario Zuccari, il qual co sì forte, e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè intorno alla malattia d'Erofonte: ed altrove sì ardicamente, che nulla più, e come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani, intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur veduto Giovan Battiſta Ma fulli, Antonio Santorelli, e Girolamo Fortunato, il qual tutto ciò, che nell'opere d'Ippocrate, e di Galien fi riſer ba, sì fattamente per le maniavci, che non v'era forſe parola, di cui improviſo domandarone non gli veniſſe to ito a memoria; e nondimeno tanto, e sì fovente ove gli pareva, cheragione il richiedeſſe, coſtumava egli a rim beccar l'antiche, e comuni opinioni, che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia, e crepacuiore: e ſofina, e cavil Joſo ſempre chiamavanlo. Ma ben comprendelí l'animo fuo libero, dal libro, ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali, ed in quello ancora de ſenſi,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò fuora. E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio del Riccio, huomo veramente per vivezza d'ingegno, e per dabbenagginc d'animo, tenuto fommamente caro dalla Città tutta. Ma perchè addietro laſcio ora Io Paolo Emilio Ferrilli della nuova, e della vecchia medicina parimente inteſo, e di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc?il qual da' fuoi lunghi viaggi, e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla patria riportò, che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli ſpeziali 1 1 * corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio, che aveſſer mai le noſtre ſcuole, il dottiſſimo Marco Aurelio Severino, il qual non ſolo, ſe miglior Chimico, o medico, e ſe più va lorofo in fiſica, o in cirugia, e ' li foſſe. Egli animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro: anzi oltre affai più gittandoſi, in favellando, ed in iſcrivé docon filoſofica libertà ripigliò Galieno, e gli altri anti chi, e nelle noſtre ſcuole tante fiare, e tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di tutti i ſolennillimi falli, che iGreci, egli Arabi, ei Latini lor ſeguaci nel notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli, non avendo huom, che non ſappia, che tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre, e valerſi d'una sóma libertà nel filofofare, colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav. volgendo, ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora, che ſaldi, & interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure, così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi Popinion di Galieno, in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate, cdiGalieno s'allontani, avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi, agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi. Ed Io,per chè di più non mipermette il tempo, daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio. E percominciar con qualche ordinato diviſamento, manifeſta coſa è, che gli argome ti maggiori, de'quali fornir ſi vuole la medicina, s'ella mai di giugner intende al ſuo laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più ſaggiIp pocratici, e Galieniſti,a tre capi quali tutti, principalmen te fi riſtringano, nella Dieta, nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf; Φαρμακευσης. Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti, dicalo ir mia vece quel famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala, (1 ) fuerunt, dice egli,quiprimis tribusfaltem diebus, aut inedia, aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant, pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant,quos Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti d'Ippocrate, e di Galieno; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo, Paolo Tucca avviſato,così nel la ſua pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum, quod longediftat modus dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna, ab eo quem obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio craſſiusfore reficien dum: in ftatu vero, aut nihil offerendum, aut tenuiſine dietandum. Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive, in principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate, e Galicno in cibar gl'infermi ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima difeſa, che ancora va per le mani de’letterati, fatta a pro di Giacomo Bonaventura medico di Clemente VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità, e nel tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano, anzi nel modo ancora, e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono, di tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi, che diquelle, che da’lor venerandi maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora l'acque melate, e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli, e le peſte carnidelle galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment. in problemat. Ariftot. ye Città ſi coſtumano.L'orzata, dice una volta Ippocrate (1) di ragion mi pare, ch’alle vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro, i quali l'antipongono. Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas. Ed altra volta dice, eſſer l'orzata oltremodo valevole ad umettare, e perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è sépremai convene vole ed allo incótro le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco maeſtro Galieno (2) oltremodo berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i Napoletani medici irrorno al nutricar gl'infermi, anzigli ammaeſtramenti di Petronas, che que' d'Ippocrate (3) o di Galieno (4) feguire. Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate, e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere, dove l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa, e mezzanamente umoroſa,ne punto riſtri gnente, perchèqueſta, c non quelle a ' febbricitanti ra gionevolmente dar ſi vuole. Ma che direi noi del vino, che da’Napoletanimedici, non altrimente, che ſe toſſico foffe,a ' febbricitanti ſi victa? e di Galieno fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta, e come egli ne narra, di cal do, e ſecco temperamento; anziegli manifeſtamentene conſiglia, e ne conforta, che inzuppandovi il pane ſi dia, mangiare a'febbricitanti, anche talvolta nel comincia mento delribrezzo. Ne è già mio intendimento al preſente di dar giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre, ch'io qui rap porti; ma ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen, e piano il coſtumedel cibar Napoletano; e che null'altro, che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar fatica l'abbia in pri (1) lppocr. nel lib.i.della dieta (2) nel com. 1. fop. il 2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s. della dieta. (4) nel 1.lib. della facoltà de'med.Jemplo in prima a'neghittoti Cittadiniportato, traſandandoſi co sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate, e di Galieno, che malagevole affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava. Iinpercioc chè, licome il primo de'Greci maeſtri dice, (1 ) e l'altro il conferma (2 ) eragione il richiede, dee il ſaggio,ed avve duto medico in prima ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia,ed in ciò gli argomēti tutti del ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a certamente comprendere, ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato, ciaſcun da per se baſtantemente, ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà ravviſare. E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato, e nelle men brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico, onde poi nel maggior avanzo del male ne venga debole, e ſpoſato, e ſenza poterſi con ar gomenti ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della malattia maggiormen te ſcarſeggiando, poco, o nulla concedergliene. Intorno poi alla Cirugia cgli è duro molto a credere, quanto da ſentimenti d'Ippocrite, e di Galieno, il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te, anzidi tutt'altri medici del ſuo tempo, o più antichi, i quali, ficome narra il Cardano:in febribusnon folebant mit tere fanguinem,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli, ma eziandio a'bambini di latte, e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto il contrario di ce Ippocrate: Τα δ' οξέα πάθεα, φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw. Ma negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male, e l'infermo giovane fia,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti, e molti luoghi Ga (1 ) ippocrate nit lib. 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10. (2 ) Gal.nel Com. * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (1) in un fra glialtri dicendo: si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη θεoρoίημεν, ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του λόγε μόνατα παιδια.. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia, oſe pre Jente quella già,o pure in ſu'l cominciar fia,avědo ben prima le forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena:So lamente da queſto divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive., ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano, dicendo (2 ), che non ſi debba no aprir le vene a' fanciulli, intin, che giungano all anno quattordiceſimo. E altrove (3 ) anche dice, che ſe le forze di colui, che ammalerà di febbre per putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno, toito come coinin cierà ella a farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue: ſolo, che non abbia crudità nello ſtomaco, e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte; perciocchè altrimenti aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma nifeſtamente ſoggiugno: che ſe l'infermo farà bambino, o non giunto ancora all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno; le quali molto al no ſtro propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò, ch’al falaffo richiedefi cosi dice: (4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν, ει ακμάζει καλά την ηλικίαν οκάμνων» ούτε γαρ παίς, ούτε γέ έων, φέρει την φλεβοτομίαν, ουδ ' αν μέγα νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia, che loro dea noja: E tralaſciando di rapportare al triluoghi, ove ſempre il medeſimo, e'grida, e ripete, di rem ſolamente de'tempi, ch'egli giudica al ſalaiſo oppor tuni: mentre che in Napoli, ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo calde ſtagioni avere, cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti, a' troppo.crcduli, e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer (1 ) Gal.della maniera del curare col falafo. (2 ) aelmed.luogo (3 ) nel mes. (4) nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per. 122 RagionamentoSecondo zi fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno, e d'Ippocrate. E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro, e maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole, che oltremodo ſi debba dal medi. co aver riguardo al temperamento dell'aria,ch'ella non ſia eſtremaméte calda, e ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo;e ravviſa egli, che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer fuora del ſangue, irreparabilmente morirono. Così vuol Ga lieno ancora che nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa, che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano. E perciocchè egli ſtima va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione, dopo tan to, e tanto manifeſtarlaci, di nuovo con queſte parole la ci perfuade:(2 ) πτoσθήσω δε ένεκα του μηδεν λείπειν, τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών, όταν η θερμος ικανώς και ξηρος, ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma acciochè nulla vi manchi, aggiugnerò quell'altra coſa, alla quale è di meſtieri averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria, che ne circonda: e guardare s’ella fia sformatamente calda, e fecca, intanto, che molto ne venga a ſvaporare, ed sfalare il corpo; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè graviſſima ſia la malattia, e l'huom per tofa, e robuſto. Ma no meno i Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia fie vole, o vizzi, graffa, o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno, avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente, o molto poco fangue è da trarre; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate. Ma egli è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper Ippocrate, e per Galieno, al ſalaſ ſo richieſte, alle quali o poco, o nulla mai i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente, come ne precedenti abbiam (1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. (2 ) nel com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo manifeſtato, quanto i Napoletani medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate, cda Galieno allontanarſi. Eglino in priina molti, e molti medicamenti coſtumano, che da Ippocrate, e da Galieno ne inen per nome conoſciuti già mai furono; ficome ſenza dubbio veruno son la Callia, i Tamarindi, il Riobarbaro, la Siena, la Scialappa,ilMec ciocano la Gottagomma, la China, la Salſa,ed altri aſſai, che per eſſer ben conoſciuti, e per non recarvi noja al pre fence tralaſcio. Le compoſizioni poi deʼmedicamenti nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più,o dagli Arabi tratte, o da gli Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de medicamenti puganti ſi è, che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte, ed abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do, ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo, in ogni diſpoſizione di ſtagione, in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice, e credula gente, che cosìvoglia Ippocrate, e che così co mandi Galieno; imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare. La qual nuova coſtuma, quanto da Ippocrate, quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò, che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo, cosi parimétedice: jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι, και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται και τα μου απο φθίνει, τα δε λήγα, τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu, weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due iSolſtizi; eſpezialmente quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio; ma quel maggiormente dell' Autunno. E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle ſtelle,mafimamentedella Canicola; quindi altramon. sar dell'Artaro, e delle Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi giudicano: altre morte recan do, ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato facendo paſſag gio. E Galieno in altro luogovuole, che anche a ' tempi troppo caldi, o troppo freddipormente ſi debb.2; che lè'l temperamento della ſtagione, o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è, purgheremo sì bene, ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un, ne l'altro il ci vietaffe. E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il detto d'Ippocrate, che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole, e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti. E parimente in un' altro luogo (2 ) egli dice, che coloro, i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione accolgono abbondanzas di non cotto umore, oche più dell'uſato averanno gonfio, il ventre, e'l corpo tutto ingroſſato, non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole altresì Galieno, che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi, che moleſtan loro lo ſtomaco, non ſi debban ne ſegnare ne purgare: A niun di coſtoro, ſono le ſue propie parole, e' fi fuole trar ſangue giammai, chenon gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione, nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe fenza queſto ſincopizzanti pur fono: (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ ' έτη φλεβοτομίαν, έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε, και καρλς Tobrwv étaipuns ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi, e diſliparſi; eſſendo ella ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia: ma però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole. Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib. del metod. (2 )nelmetod,allib.9.(3) nel met, al lib.12. 1 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel corpo continuo ne s'ingenerano, non è di giovamento alcuno alla gente; anzi le alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia, voleſſeſi avvezza. re a purgarſi una, o due volte il meſe, oltre al manifeſto nocimento, che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole, e peſſima uſanza. Ma ſopratutto, quanto al purgar gli umori nelle malattie, i quali abbian dicocimi to biſogno, da’ſentimenti d'Ippocrate, e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono i noſtri medici; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino. Ne lo prenderom mi troppa briga di dimoſtrar ciò con lunghe, e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi ſolamente le parole d'Ippo crate, edi Galicno rapportare, acciocchè da quelle per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa, quanto nella crudità degli umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte, e nel principio di quellemalattie, che có enfiamento cominciano. Ilmaeſtro di Galieno, e de' Ga lienifti, per quel ch'eglino tutto dì dicano,fipare, che ne ſuoi Aforiſmi, ne’qualibrievemente, quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita egli mai aveſſe riſtringa, una cotal co? a con una general pro poſizionenediffiniſce; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi, anzi quindicome conſeguenza ſi cava; la qual coſa è sì chiara, e manifefta, che di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto, oftinatiſſimo diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque (1) così dice; ab hoc aphoriſmo cæteri omnes, qui huc fpe ctant, tanquam corollaria deducti ſunt: ed oltre a ciò ſog giugne: ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe expreffit: quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù chiamato una volta, cosi (2) Le materie cotte purgare, e muover fi debbono; mas, non (1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib. 1. -non già le crude; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor, che turgidefono,malepiù volte turgide non ſono: Témava Pago μακεύειν, και κινέαν, μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν, ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy: Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi cô. fiderare, che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti, che diſiderar ferventisſimamente, e con impazien za; ed avvegnachè non men dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia, tuttavia più acconciamente agli animali ella conviene, ſecondo il ſentimento di Galieno,il qual forſe da ARISTOTELE (1 ) appreſo l'avea. E diceſi di quegli animali,che tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio, e come diſſe Virgilio In furias, ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma no, i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente, e con impeto, diparte in parte ſi muovono, non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato. Ma noi, avve. gnachè diſcorrimento, o foga più ſaggiamente da dir ſia, o enfiamento, o pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza, o Turgidezza: dal gonfiare, o ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate, e di Galieno traportando,preſero la voce turgere: onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia, ad orecchio latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita: gonfie, e turgide parimente chiamiamo, quelle materic, che a si fatto movimento ſoggiacciono;ed in verità gli umori, che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano, ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer mafi per quell'altro (2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado lepurgative medicine da uſar ſono: e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare: iv Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι, και τούτο πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato, che folamente quegli ammalati da purgar fieno, ne' quali liu mate (1 ) nel lib.o dell'iſtoria degli animali: (2 ) nel 1.degl' Aforiſmi.materia, onde il mal s'ingenera, ben cotta, e digerita ſia, fe pur quella non turge, è che rade volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto ad Ippocrate, ſcar ſo altrove di parole, enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi mo, e riſtretto, oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave precetto avviſar ſi debba, ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e di riſchio fia a travalicare. Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria chioſando poi Galieno,oltremodo ciò ne impone, e ne accomanda: e sempre, che egli di tal biſogna impren de a dire, toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme nor me, che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano. Ed avendo in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto; ne'mali oltremodo acutifon da purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento; concioſiecofachè allora l'indugiare è dannoſo affai(1) Papuaxetes, év toñosning οξέσιν, ήν οργα, αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν, κακον Galieno però vuole, ed eſpreſſamente n'impone, che an che in queſto caſo dell'enfiamento, il che molto di rado 'avvenir fuole, vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare, cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare, che nulla più: ne meno ove fia enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento; perchè aj tal propofito Galieno dife (1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων, τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή τους λυπούνας,μήτε, ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την κάθαρσιν όντG-, αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado, nel prin cipio impiegheremo noi purgative medicine; concioffiecoſachè gli afflittivi umori, nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno, (1 ) nel lib.di que'che convien purgare.fieno, e potrebbe intervenire altresì, che ove eglino fienosi fattamente ſtuzzicati, allor non foſelo infering a fojtener la purgagione adatto. E più addietro, de' medelimi umo. ri favellando avendetto: τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες, τε τέσι τους εν κινήσει, και φορά, και ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν, ούτε φαρμακεύειν, πζίν εφθή. ναι: τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν. Αdunque con venevol coſa è, che cotali umuri ſtando in continuo moto, e diſcorrimento, e fluffo, fi vuotino; ma que', che in qual che luogo del corpo giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no, ne con purgativa medicina damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti; imperocchè allora anche la natura dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale, ficome ne inſegna Galieno, prendeſitalora per lo primo aſfalimento, o quando da prima comincia a chiocciar l'ammalato; altre volte anche inſino a’tre primi giorni; e aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo,nel quale niuno affatto, o troppo debi le, e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare. E'l gravamento, o accreſcimento del male liè, quando manifeſtamente il cociinento, o pur ſegnia ciù contrarj ſi ſcorgono; e dura finattanto, che alla dovuta perfezione il cocimento ridu caſi; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie, e le noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono. Ma il gó fiamento avviene, o toſto, che alcuno ad ammalar comin cia, o non molto indiappreſſo, cioè nel primo, o nel ſeco do giorno, ſicomc par, che in più d'un luogo avviſi Ga licno. Ma ritornando al tempo delle purgagioni: ſo ben’In, non eſſer paruto ſaggio a Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni, anzi de' primi tre giorni: ma ſi ben dopo il quarto, a coloro, che patiſcono ſcorrimento di ventre; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo: Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica menti, ma ficomediceapertamente l'aforiſmo(1) Negli acu. 11 111.1 (7) L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè fe alcun determinerà ſolamente nel principio, o non iſtabilirà alcuna delle parti, rimarràſenza fallo ingan κato. πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς, αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις, και εν αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε, και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη, και πότετην πέψιν αναμείναν. τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς, και μη διορισάμε. ν ©·, εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento d'Ippocrate, c di Galieno, di rado nel cominciamento delle acute malattie da inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai, ma ſolamente,facendo di meſtiere, nello ſce mo del male. E ben ſaggiamente troppo, ſecondo che ad huom paja, in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più, e più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc; imperocchè egli avviſava graviſ ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire. Perchè altrove favellando egli di que', che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che Galieno nel comento vuol, ciic s'intenda anche, di que' tutt'altri mali, chedagli umori procedono:dice, che per coſtoro nulla dal luogo offeſo certamente ſi vuota, non mai cedé do alla forza del medicamento, ciò che ancora è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe, che ſane eſſendo, al inal contraſtano, per chè infievolitone il corpo, agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto: ne potràricoverarſi più mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου, και φλεγ μαίνοντG- έδεν αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG-, τα δε αντί. χον% τω νεσήματα και υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι · οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per buona ventura dell' ammalato pur non R gliene liegue, non per tanto certiſſimi danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro, certamente gliene andrà alla lunga il male, e ſconvolgeraſli il giudi cio, che ſopra quello da dar era; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate,e Galieno (1) pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì, chi non iſcorge allai chiaro, che minorar ſecon do Ippocrate, e Galieno non mai li puote la cruda mate ria, come beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle ininoranti, che lor dicono,medici. ne. Ma comechè in ciò grandiſſima arte, emalizia ado perar ſogliano coloro, che ſon di contrario ſentimento, p coprire, e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri; pur non fanno sì fare, che da ciaſcun non li conoſca, e non ſi ſcopra la ragia, onde ne reſtin poi vergognoſamente dinnentiti, e convinti; così ſciocche ſon le chioſe, eicomenti, co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare, e travolgere gli apportati Aforiſ mi, e con lor ciance far calandrini, non ſolo la volgare, e cieca gente, Cheficrede ogni coſa, che l'è detto: ma col volgo ancora que'letterati, che poco, o nulla a sì filtre coſe,avvegnachè digrandiſſima conliderazione, ſo glion badare. E certamente non poſſo non maravigliarmi forte della lor tracotanza: ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di sìvenerandi maeſtri, ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano. Perciocchè volendo coſto ro, che nella copia grande, nella malizia, e nella ſorti gliezza degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male, o della grandezza delle cagio ni, o del pericolo imminente, o per altre ragioni ſia das purgar l'ammalato, tutto che la materia cruda lia, e non pur nel principio, ma nell'aumento, e nel vigore delma le: o ciechi affatto, e diflennati; e pure ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo, perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto, ſe non (1) nel lib.4. della dies. p.44. di malvagità, di traſcuraggine almeno, i lor maeſtri; poi chè in materia di tanta conſiderazione, ne Ippocrate, nes Galieno di cotalicaſi han fatto menzione alcuna, comes certamente doveano; ma anco, perchè, o non avviſano, o fingono dinon avvederſi, che poco men, che ſempre; o una, o più delle coſe per lor dette, ne'mali acuti ſi trova no. Laonde, ſe tale veramente, qual per loro fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate, e diGalicno, aurebbon elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te, o poco men, che ſempre nel principio degli acuti ma li ſi debba purgare, e che nell'aumento, e nel vigore di ef fi ciò anche ſi debba eſeguire. Ma pure per iſchermirli da cotal colpo s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de, che qucl, ch'elli intendono. Ne dovea in buona veri tà Ippocrate, ſe pure frenetico, e mentecatto egli del tut to non era, in que'luoghi, ove del gonfiaincnto ſolamente fe menzione, non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni, per le qualis’aveſſe parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta. Che ſe non è da dire, lui quivi averle per balordaggine dimenticate, masſimamente negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli logorò, perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe, biſogna di neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui, cioè a dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe, a purgar s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam dire, che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re, ch'egli così traſcurato ſi foſſe, che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria, fe ftato foſſe meſtieri, diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in que'caſi'la pur R 2 gage ga, e quanto ſtrabocchevoldanno, e nocimento, traſan dandola,per ſeguir ne foſſe al malato. Ma certamente no fu tale il ſuo ſentimento, ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti, cosìdel paſſa to, come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino, avvegnachè del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo,dicédo: Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis, cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu. E di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa vella, e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo,così delle purgagioni nel principio delle malattie, ebbe a dire. Et licet Hippocrates dicat buc raro faciendum, nos rationibus adductismoti, crebrius id face re poſſumus, debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro Maſſaria ciò, che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe. Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra non defunt Manardus, &alii,ſidiis placet, Heroes, qui audent affeverare, illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian piano avan zata, che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera, che piacevoli, e deboli, ne più, che una, o pur due volte: ora a gran dovizia grandi,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte,come ſeinplici, da'noſtri Galie niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta, o per tema, che n'abbiano gl'infermi, o per altra cagione, alquan to più lievi, e deboli loro le impongono, nondimeno, o con accreſcerne la quantità, o con meſcolarvi per entro alero in ggior medicamento, o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio degli ammala ti; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo; il qual ficome di ſopra è detto, tante, e tante fiate manifeſtol loci: e Galicno medeſimamente, il quale oltre a ciò av vifa, che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως, αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω σώματι παρά φύσιν, διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών αιτίων η φύσις, απεψία δ ' ες των χυμών, εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον • πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν, 49' εξής κένωσαν την αγαθή γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia, ſe cofa maiavvien, cheppura ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura, ma ciò Farafficontro le diſpoſizioni diquella; imperocchè,'quando la natura vien aggravata dalle cagioni delle malattie, ma fon crudi gli umori, allora impoſſibil coſaè, che alcuna eva cuazionefelicemente rieſca,concioffiecofachèfadi meſtieriche in prima il cucimento, quindi lo fceveramento, e finalmente l'evacuazion ſi faccia, perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru. dità, ſemprealtresi nocevol ſarà, e darnofa l'evacnazione di si fatti umori: ώς τ' εα ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε. ψίας εσιν αι σημάα, μοχθηρα δια παντός έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos: E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge quan to vadano errati, così coloro, che follemente immagina no non aver vietate altrimenti quelle purgative medicine, cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate, ne Galieno nella crudezza degli umori: comequegli altri ancora, che ofano affermare, che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni, che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine, che violenti ſono nell'operare; il che però eſſer molto, e molto dal veroló tano chiaramente ogn’huom vede; imperocchè per tacer del latte rappreſo, dicuicosì ſovente Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è, che gli antichi ebbero contezza della Mercorella (la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino, della Fumaria, dello Goico, del Polipodio, dell'Agarico, il quale per Galicno malamente venne ſti mato radice, comeche fungo egli veramente ſia, e d'al tre, e 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo, medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del cocimento. Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera di Temiſone, leggeriſſima medicina, ſe non che quando la materia ſarà al cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva ſolamen te fia, nondimeno, come la ſperienza, ne inſegna data in quantità grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo, ed alPolipodio, Galien dice chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano (1) E quanto è a me, Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate, e Galieno aveſsero dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere appreſo; e perciò eſſer'avvenuto, che così ſtabilmente poſcia l'avel fer ſempremai conſervato; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran padre della filoſofia, e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella Grecia recate; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito in fuori, che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l ſuperaſse giammai. Ma che Pittagora, foſse di tal ſentimento, egli li par manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo, che della natura dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del commovimento ſuol riuſcir, ma non però ſempre giovevole ad huom, che da grave neceſſità vi ſia tratto; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare, cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono guari pericololi, non ſono da ſtuzzicar con purgagioni; concioffiecoſachè la di ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali: c certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata, che generalmente ha i termini della vita già ſta biliti, e qualunque animale ci naſce, con fatale, e deter mina (1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. minato ſpazio ncmena egli i ſuoi giorni: trattone fuora quelle paffioni, che di neceſſità avvengono; imperocchè i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono, che ſol yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo, oltre al quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita. Lamede ſima diſpoſizione adunque è data alle malattie, e ſe altri colle purgagioni contro al fatal tempo ſconccralla, al lora di piccioli,grandi, e di pochi, molti diverranno; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da correggere, e rintuzzare, per quanto a ciaſcun veriì, ad huopo; ne il durevol male con medicamenti irritar fi dee: Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ αναγκαζο μένω χρήσιμον, άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον, το της φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει κινδύνες, ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων, όσον πνα τη των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον γίγνει χρόνος, του ο γένες ξύμ. παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον έκαςον, τον βίον, φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών, ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις, άμα εκ μικρών μεγάλα, και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ, όσον αν και τα αλή » αλ ' ου φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον, Ma diſcédédo a qualche particolarmalattia,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato, quantunque ben fi pareſſe, che la materia per la ſoccorrenza uſcita, non foſſe ella alla debita purgabaſtá te, o altro vi foffe da dover cacciar fuora nell'ammalato; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone, eſſervi ſtatialcuni, che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi. Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann maeſtramenti di lui affatto traſcurando, a lor talento, e purgano, e ſegnano in ſomiglianti caſi, nulla guardando a’riſchj, che, ſecondo egli avviſa, ſeguir ſovente ne pof ſono. Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della diffenteria)vieta in tutto il falaſſo, e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano. Così anche nel la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole, vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja. Ma cote iti diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente, che vaniſſime fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta ſolamente loro in tali avvenime ti, che col dolor vi ravviſin la febbre, che come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc,e di chiunque ad Ip pocrate crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole, direbbe Proſpero Marziano per avventura. Ma dove laſciato avea lo il purgar le dó ne levate appena del parto, e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare? E dove nelle lunghe malattie, nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno, ne fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i manifefti divieti d'Ippocrate, e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi, o alle ſtagioni dell'anno, e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione, ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono? Troppo largo campo o Signori da valicare aurei, s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia, che in tante coſe, e malli mamente nel purgare, c nel trar ſangue dal loro Ippocra te, e Galieno i noſtri Galieniſti partiti fi fiano: e che ezian dio que' che han riſtorata la lor medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza, pure travalicando i lor diviſi abbia no in ciò manifeſtamente fallato; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli ammalati, e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi veggono; come fe da quelli il lor ſalvamento, e non più toſto la lor morte dependa. Perchè nelle malattie, e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore, e accreſcimento di quelle, ove l'intermo maggiormente languiſca, per non moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno, fi va gliono di cotali medicine, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi coloro contro lorvoglia i me dici menati; perchè altrimenti a color non ſarebbon a grado. E quinci anche è, che alcuno de’moderni intro duttori di nuovi ſiſtemidi medicina,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare: non perchè egli veramente crcda, che ſien valevoli conſigli, da riſtorare ammalati; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa, ed incallita la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò, che detto è compré der ſi puote, che purtroppo grandemente nel medicare, da Ippocrate, e daGalieno i Napoletanimedici ſi diparto no, e s'allontanano; emolto più aſſai di quel, che'l Paracelſo, e l'Elmonte ſteſſo, e altri moderni ſpargirici, o altri, ch'elli fieno, per avventura ſi facciano. Mafi laſci ad altri la briga di ciò conſiderare: baſti a noi il ſapere,co. me ancora da ciaſcun Galieniſta Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò, che con parole da alcuni di loro manifeſtamente ſi biaſima; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed il loro Galieno, ove lor venga in talento: e che tutti igualmente abbandonando l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri, alla ragion ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo a’moderni medi canti, e di mordere, e di lacerar tutto dìla loro lode vole libertà, ne mai più per innanzicon uggia, e crepa mente > S cuore ſi ſtudjno di contradiarla, e di metterla in fondo; poichè, come per addietro ſi è fatto per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è ab bracciata, e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri Accademic, e Scuole dell'Italia, della Lamagna, della Francia, dell'Inghilterra, della Svezia, della D2 nia, della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò pure a'piati,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque fin'ora per me molte narrate ne ſieno, pur molte ancora, e quaſi infinite a raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a baſtanza, e già il ſole comincia a gir ſotto, riſerberolle. alla ſeguente aſſemblea. RA 139 j: Milli Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento quel tranquillo, e feliciſſimo ſecolo, che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno vien detto: tante a biaſi mar la preſente, e miſerevol noſtra età; quaſi di forza ſon tratto. Non pure, perchè a quella la terra dall'aratro non ancor tocca, tutto ciò, che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente produceva; ed ora a romper zolle col Vomere, e col Raſtro, a ſveller pru ni c ſtecchi anza, e ſuda, e talora anche in darno il Bi folco; ne perchè allora, e nuvoli, e nebbie,e tempefte ', c turbini non intorbidavano, ficome or fanno, i lucidi ſereni dell'aria; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor ſignoreggiava il mondo: reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro, e regna l'oro; ne per tant'al tri privilegj, che diquella s'annoverano, de'quali altro che un'intenſo deliderio, ch'il cuore acerbamente ne pun ga a noi non n'è rimaſo; ma ſi bene perciocchè, e liti, e S 2 piati, econtefe, ed armi,eguerre non allignarono. No arruotava le zanne a mordere il cinghiale; non digrigna va i denti il maſtino;non rabbuffava il doſlo il Lionefra; l'erbe, e fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue. Ma che è ciò? l'huomo, l'huomo di tutt'altri animali duca, e ſigno re non fabbricò nave, ch'apportaſſe guerra agli altrui li di, non forbì, non arruotòferro periſvenar l'altrui petto: non aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe, di corni, o di bellicofi tamburi; vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città. Ed a'dinoftri, che più fi tenta, che più fi machina, ove più fi bada, fe non ſe a' nuovi ordigni da guerra, perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica, l'altra eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città, l'altra ſtermini; l'un nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne, ſi combatte nelle Città, s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un, l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de; va in ſomma il mondotutto in conteſe, e benchè tar dis pure è gionto agli antipodi il furore dell'armi. M2 egliè pur vero, chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto fine, ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate sbarrate. Ma quel, che pür troppo è da maravigliare, è ciò, che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto, e debbo nel preſente ſeguire; egli cono le tante, e tanto invilup patecontefe de’medici. Queſte non han mai ſofta, quefte non han inai line; e comeche moltisſime ve n’abbia fin or diviſate, pur altre aflai a narrar ne rimangono; le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente, e darvia diveder, che tutte quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale perchè più chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle ſette de'medici. E perchè fi comprenda, quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non per ſaper, ma per contender chiari. Eper la verità delle loro ſtrane, e ſtravolte opinioni da. to brigando romoreggiano, che poco men fanno per av ventura l'onde torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor, dper surbor (dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant. Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia tiapiati, quiſtioni a quiſtioni, ne preſero anche in preſto dalla brigante filoſofia, altri più inviluppati, e nodofi, da fare ſtancar inutilmente per un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo. Perchè riſtucco, ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives, così (clamando proruppe. Ex fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem, ácopiofifſimă difputandi materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione, & remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient ventilantes fua fomnia; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus, atque occidentibus. Ea res fecunda, e infinita non aliterquam bydra quædam diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus inu tiles, quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio Giraldi huom di rara, e di ſquiſita letteratu ra, così de’diſcordanti pareri,che a danno altruiportano, e mettono in campo i medici, fe vagamente parole. Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq; partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus, ut no ftra etiam hac ætate tanta fit inter medicos diſſimilitudo, ut corumaliqui vena inciſiunem omnino prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente un faggio, eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe, e confuſisſime opinioni ciaſcun di loro ne porti. Dicono alcuni ritrovar fi veramente, e formalmente gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti,ſolamente in virtù, ed in potenza. Vogliono coſtoro, ſecondo ilſentimento del lor maeſtro, effer le qualità formevere degli elementi, e de'milti: co loro tutte le forme eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno, amendue le qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi; altri una in più alto, e altra in più baſſo grado ne allogano; quin di infra coſtoro altra nuova quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie accoppiar ſi ſoglia no. Ma ſe le dette qualità ſien tutte, come dicon poſiti ve, e vere: 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle, lungamente affai ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti, formal mente avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti; altri ſono dicontrario parere. Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le moderneopi nioni? ſenzachè non ſon minorile conteſe, s'egli ſia pur vero, che vi ſia temperamento; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come cmpiamente avviſoſ ſi Galieno, o pure altro, che quella; ſe ſia da porre il ſo ſtanzial temperamento; e ſe quel poſto, del qualitativo in nulla differente egli ſia. Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno, e dell'altro teinperamento ſi ſieno; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle quattro prime qualità riſieda, o pure in altra qualità da quelle riſurtu. Ma troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì fatta materia, le zuffe, e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen, ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra nodati, e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi nella natura? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi, rifiutando altri ciò, che altri ne dice, e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi; an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte, e molte ragioni recate,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis penficum latis,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari, ejetan tum, veleffe debuifle quatuor elementa, ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni. Concluſione indegniſſima nel vero non pur di lui: ma di qualunque più cattivello ſcolaretto, che per filoſofante ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele, c dal ſuo Galicno ſchernito, e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola, e delgocciolone, le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc gno in mano delle ragioni, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo tutt'altre pruove, con ciò manifeſta mente inſegnando, che non miga delle autorità, ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re Iddio voleſſe,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li, i quali ſecondo il ſentimento del Pemplio, non alla migliore, ma alla maggior parte degli ſcrittori voglion gir dietro,pecorum ritu,perdirlo colle parole di Seneca, non qua eundum eft, fed qua itur. Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de letterati,immaginano, che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere, qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di ſtornati, e danneggiati così, come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze: Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada, Che tutto errandopoi convien,che vada. Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo, Argumentum peſſimi turba eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes, interrogati incola non patiuntur errare: at hæc tritiſima quaquevia, &celeberri ma maxime decipis: certamente infomiglianti falli ſcimu. niti, 14 Ragionamento Terzo niti, ch'elli ſono, non fi laſcerebbono traſcinare. Ma egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion parlaffe, ed ironia, ' fe poi ſenza al cun rimordimento, e fenza ſcrupolo averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente di  LE DOTTRINE D’ARISTOTELE e di Galieno famoſtra di non curare. Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono, ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo, al caldo natio, all'umido, che dicon ra dicale, all'eſiſtenza, alla natura, e al numero degli ſpiriti; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che innumerabili quiſtioni della natura, del numero, del luogo, della diſtinzione delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe, onde il chilo, e'l ſangue, e gli altri umori s'ingenerano; o pure in trattar del polſo, dell'arte rie, e del movimento del cuore: ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto celebre, e faniores conteſa, e di tanta conſiderazione in medicina, ſe la bi le, la flemma, ela malinconia ftian di fatto, o pure in po tenza nella maſſa, come dicono,del ſangue? Il che in buo ſentimento viene a dire, fe veramente vi lieno, o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere, ac ciocchè ſi dica,che vi ficno;ficome direbbeſi altresì, che nel ſangue vi ſieno in potenza, e carne, e vermini, e cene to, e mille altre coſe, chequivi ingenerar ſi poſſono. Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe, e ſtrane opinioni, riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar della natura, delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e de'luoghi, ove s'ingenerano; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni maeſtri: e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar dall'intralciato, e confufiffimo labi rinto di tanti, e sì fatti riboboli, e indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina di Galicno s'attenga, Tralaſcio pure le lunghe, ed inviluf pate quiſtioni intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza,alla malinconia, a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre dubbioſe cotro verlie, che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare. E comechè per queſto capo incerta, e confuſa, e inviluppata la medicina de' Galieni fti oltremodo ſi ſcorga, e perciò inucile, e nocevole ad adoperare:non peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta: i fini, e le condi zioni del trar fangue: la natura, la facoltà, gli effettia e'l modo dell'adoperar de’medicamcnti: quando, ed in qua’rempi del male ſien da dar le purgagioni: ed altre, ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho quì bric vemente raccolte, una menomiſſima particella ſi fono, e certamente lo m'avviſo, ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi; anzi forte ſoſpirerano, s ſdegneranſi, veggendo a quante controverſie,a quanti ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare, e la vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo ſterminio, che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di quella, cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora, chenti, e quali elle fiano, e d'onde naſcano, come operino, e muovano il male; quindi intorno a quel. le d'entro combattono, ſe fien verainente qualità: efe tali, naſcoſc più toſto, o manifeſte, o pur ſe da loverchio di putrefazione avvengano, o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta; e corrotta; e oltre a ciò in quali luoghi elle fi covino, diverſamente contraſtano. Così mordendoſi l'un l'altro, e piatcndo, niun l'imbrocca, e tutti a malpartito menano gli ammalati; volendo altri i falaſſi, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta permettendogli, chi ſcar ſamente, cchi fino a trar loro tutto il ſangue, chi dalle venc delle braccia, e chi da quello de piedi, e chi anches da quelle parti, delle quali è bello il cacere, con appic T carvi le mignatte; altri a tutti coſtoro cótraſtando voglió, che dalla buccia ſolamente per coppette fi tragga. Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de boliſſimo ſegnal di cocimento;ed altri, o nel principio pur gar logliono, ove turgide lien le materie, il che di rado. avvenir ſuole, o pure inſino allo ſcemo del male s'indugia no. Molti poi nel purgare, de’violenti medicamenti fer vir ſi fogliono,molti de'mezzani, ç moltide’deboli, e be nigni n'adoperano: e parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi purga una ſol volta, e chi più volte in ogni tempo, e ſtato del mal lo coſtuma. V'ha alcuni, che come il mal comincia, cosi toſto con le purgagioni v'accorrono; ma dopo i trè dì af fatto le victano; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male a' rimedj, che chiaman veſcicanti, gli infermi condannano; altri vuol, che in prima purgati, e ſegnati color fieno; echi in un luogo, e chi in un'altro cô -sì fatti rimedj marchiar gli vogliono, togliendo loro così manifeſtamente le forze, e crucciandogli, e dando loro vigilie, e dolori, e forſe con riſchio di gangrene,di piaghe nelle reni, e nella veſcica, di malagevolezze d'orina,e d'altri malori, che ne foguono. Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici alcuni più rinominati, che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno, cd Ippocrate, o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen zioſo; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele, oleremo do vituperino, e danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento, ma ſolamente a fraſtornarlo, ed indugiarlo, con accreſcer le cagioni ad un'ora, e gli effet tidel male, e con piagar, ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni, e la veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente morire. E v'ha, eziandio di coloro, che non d'altri rimedi, che de ſolian sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora diverſamente piariſcono. E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo infra qualche ſpazio di + tein tempo le lor conteie? e le loro incertezze appianate, fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile, e veriſimile fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a giornate s'accreſcerannoi piati, e le conteſe, e ſempre più confuſo, e incerto, e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle? non le autorità, non le ragioni, non l'eſperienze; imperciocchè, così gli uni, come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra, e pompa; morendo vera mcnte, e guarendo così degli uni, come degli altri, i malati. Per amendue le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci, e quindi ogni conteſa ha ancora i fuoi parziali. Ne v'ha cagionealcuna, per la qual mag giormente attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia, ad Orazio degli Eugenj, che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria,ed a Fabio Paccio, eze Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina, ed egualmente di maggioranza gareg giar îi veggino. Perchènon ebbero certamente il torto, per quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non. polje comprehendi patere ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia; ciim de ifta re, neque inter ſapientia profeſſores, neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina tutta ſoggiaccia, diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura, e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione. Alcuni ſciocca. mente fi perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire, i quali oltremodo d'onor deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo, e naturalmente ancora riottofi, e ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai, e ſimalmenino; cercando a ſpada tratta ciaſcuno, ove a lui venga in concio, altrui travaglia re, e neinichevolmente affitto atterrare. Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e tenzonare, non altrimenti, che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα, και τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα, και αοιδος αοιδώ. Che in lingua noſtra riſuona Al fabbro, è'l fabbro in odia: e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno: arde diſdegno Contro un mendico l'altro: el’un cantore Contro l'altro cantor di rabbia freme. Malo per me fermamente credo, che alcra di ciò ne ſia la cagione: e che non tanto per uggia, e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento dell'arte medeſima così in certa,e intralciata,e dubbioſa no poſſan goder mai, ne pa ce ', ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le, in quante la medicina ſi parte, ſe già non foſſe, che la filoſofia, e tutte quelle ſcienze, c'han colla filoſofia qual che attacco, o dependenza, alle inedeſime tempeſte del la medeſima ſoggiacer ſi veggono; nelle quali malagevol molto, e difficile è lo inveſtigar la verità, licome confeſſa no que'filoſofi, e medici medeſimi, che d'haver preſte loa lor pruove, e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano, Nemailetto di ſelva allor, che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde quante, e quante diverſe, e diſcordevoli fette ha l'anti ca, e la moderna FILOSOFIA; o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente, chi non sa quam to li premano, e li rintuzzino iGreci,egli Arabi, eiLa tini Maeſtri? quorum fudium, dice un di loro, perpetuum,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant. Ed a cui non ſon manifeſte le continue, ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali? E a tanto giunſe la lor riottoſa oſtinazione, che poco fallò, ch'un dì in Parigi venendo alle mani, nó iſve gliaſſero nella Francia una nuova, e fanguinofa guerra ci yile. Ed infra i Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti? ma per noi 3 dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante, e tante diſcordie cagione, ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la verità delle coſe naturali. E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile: ο λόγG- δ'αν ηκρίσης άη, το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία.χαλεπος και δυσθήρατός εσιν όγε αληθής, ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων •ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές, ας τοσούτον ήκον αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι. 11 giudicio, dice egli, fi è la ragion medeſima: poichèper quella le coſe, che da far fono, fon giudicate. E certamente egli è difficil molto, e malagevole, a rinvenire, Io dico il giudicio vero, il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin venir la verità, non ſi ſarebber tanti, e tanti valent'huomi ni, che per imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti. Fin qui l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo, il rinvenir la verità effer certamente molto più malagevole, o piùardua imprefa aſſai di quel', che s'immagini, e dica Galieno. Ad inve Aigar di ciò la ragione convien ridurci amemoria, che noi non men, che gli altri animali, poveri, e mudi affatto di qualunque, comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo; verità così chiara, e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere, e molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a confeſſar fa, avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia opinione, dicendo, che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia, ſe non, che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune, che già noi prima di naſcere ſape vaino; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene, che da noi ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad inveſtigare. L'animanoſtra, alla quale, come a parte più nobile, e più principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe; ondefolea ſaggiamente Epicarmo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe tutte fon forde, e cieche; l'anima noſtra lo dico, comechè in corporca forma, ed inviſibile ella fia, in sì fatta guiſa no dimeno unita, ed avviticchiata, per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di fuora toc co, emoflo ad eſſer mai viene, varj, e varj penſamenti in effa egli è valevole a ingenerare; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano,e muovono le fibre de’ncryi, le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi avvalorate da un diſcorrente, e ſottil licore, gli avvti mo viinenti alla prima loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima, ove quella il comprende, o per me dire ſente. E le fibre poi col venir variamen te premute da quelle parti del corpo, che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col piegarſi in varie, ed in varie maniere sì, e tal mutamento ricevono ne pori, enel ſito delle lor particelle, che da loro, e dalla diverſità de li ſenſibili oggetti di fuora la diverſità del comprendera, o fia de'ſenſi,ncll'animna procede. Quinci ſcorger ſi puore, chei ſenſi ſono quelli, per li quali non altrimenti, che per le fineſtre liz luce, entrano nell'anima le prime contezze delle coſe, e da queſte ella poi altre, ed altre contezze col mezo del diſcorſo tracndo, tratto tratto ſe ne viene ad arricchire; ma come, e dove ſi riſerbino l'acquiſtato notizie, e come l'anima l'abbia più, o meno pronte, quae do valer ſe ne vuole, e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino, è malagevoliſſimo ad inveſtigare; ne queſto propoſito più che tanto appartiene forſe a noi il fa perlo. Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera mente, e confeſſo, che i ſenſi nc ſe medelimi, ne l'anima mentir non poſſono gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai ſempre tali all' anima rappreſentano, quali eſſi appunto le ricevono, fen za curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità, la quale non ſo lo come DE’PERIPATETICI LE SCUOLE COL MAESTRO ARISTOTELE LIZIO abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe nella maniera, la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe, come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante, e poeta latino:.. Vt in fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et libella aliqua fi exparte claudicat hilum: Omniamendose fieri:atque obſtipa neceſ umft: Prava: cubantia: prona: Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i ſenſi mai poteſſero una ſol volta, o ſe, o altri ingão Nare, ſi toglierebbe via certamente dal mondo ogni con tezza, ogni giudicio, ogni fede; e non per altro in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i filoſofanti d'una sì erronica, e ſciocca dottrina: Re cita Ioannis teftimonium, dice Tertulliano, quod audivi. mus; quod vidimus oculis noſtris, quod perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta -tio fi oculorum, aurium, & manuum fenfusnatura mer titur. Ma a chi mai ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo? ad altro forſe? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà ſoſpetto difalſità, e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti: manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità? o ſia una, o ſieno più le perſone, che ne deano teſtimonianza, nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa, ed incerta la fede. O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade, gli errori de'ſenſiconoſcerà la ragione? ma come potrà cio mai eſſa fare, fe per avvederti dell'error d'un ſenſo, ad ammendarlo, dineceſſità le fa meſtieri fervirſi dell'opera d'un'altro ſenſo, e di notizie, e di regole col me. zo de'ſenfi parimente avvte. A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura Ariſtotele, ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo, il quale abbia però più ben fatto, e ſquiſito l'organo; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo dell'anello, il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno, or nell'altro dito della inano appare al ſenſo del tatto non uno, ma due eſſer gli anelli; il quale per error del tatto vien ſecondo lui avvertito, ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto. Ma a chi per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza dell'organo perfetta aſſai, e compiuta ſia, nó ſarà mai valevole ad operare, che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato. E per valermi del medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti, SECONDO CHE PORTA OPINIONE IL MEDESIMO ARISTOTELE, ne'colori dell'Iride, e delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore ſoggiacere, fi ritroverebbe per tale, che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più agevolmente ad errare il ſenſo della viſta, che tutt'al tri ſentimentiincorrere. Ma lo forte mi maraviglio poi, come non avviſaffe ARISTOTELE, che ſoventemente l'errore del ſenſo, che ha più eccellente l'organo, da un'altro fen fo, di cui l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi, e cor reggafi; comeincontrarſuole nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti, ſieno anch'eglino tali, e ſe tali pur ſono, perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà giudicar la ragione appiccata allc lor pruove, c certamen te mal può convincer perſona di falſità quel Giudice, al quale convenga dineceſſità valerſi di teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe ARISTOTELE CON LA SUA USATA POCA FERMEZZA IN ALCUN LUOGO DICE, i sensi non potere in modo alcuno errare, cche ſia debolezza d'intelletto i sensi per la ragione lasciare. Ma quantunque non poſſano iſenſi, ne ſe, ne altri in gannare, non però di meno poſſono molto bene allo in telletto, cui propianente il giudicar s'appartiene, effer 1 cagione d'errore, e d'abbagliamento; ecomechè poffafig avventura l'inganno, o l'errore ſchivare col non precipi tar coſto,e inconſiderataméte il giudicio, ma ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti, tanto, e tanto celebrata per Epicuro: tutta fia ta,perciocchè ne in tutticorpi,ne in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza, e per altro impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi, e di profondarſi conceduto, e quando ben loro ciò venga permeſſo, ne men altro egli no certamente comprender ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono, pchè no già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer manifefta; ma la ragion poiè quella chedal le varie, e varie operazioni de'corpi, varie, e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti s'avviſano, varie, e diverſe eſſer poſſono le cagioni, e nel trarne argomento vezzoſa talora, e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza, e larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente,da tale cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene; e come già cantò l'Ennio noftro Ita liano: Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar falſa matera Per le vere cagion, che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che l'oriuolo collo ſtelo, e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi l'ore del giore no, vero per avventura egli direbbe; ma non mai potreb be certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare. Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile ſolamente ef ſer può, non già dimoſtrativo, ſe pur toglier non nevo gliamo alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono, i quali d'una ſola, e certa cagione poſſono avveni re; ſicome per avventura farebbe il dire, dover eſſer ne V ceſke ceſſariamente corpo ciò, che gli organi de'ſentimenti ne muove; concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier, che tocchi; e'l toccamento, ſalvo che da corpo,non ſi può incontrare: perchè SAGGIAMENTE LUCREZIO: “Tangere, vel tangi, niſi corpus, nullapoteſt res.” Così ancora, che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate eſſer diviſo. Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di divario,ſalvo, che nella grandezza, nella figura, nel moviinento, nel l'eſſer diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario il ſito, e l'ordine tra di eflo loro;co ciofliecoſachè altro di queſto non poffa, ne al corpo, ne al le parti, nelle qualiil corpo ſia diviſo, avvenire. E però è da dire, la diverſità, che così grande eſſer noi veggia mone'corpi dell'univerſo, altronde certamente non pro cedere, che dalle coſe già dette, che'l calore, la freddez za, la ſaldezza, il diſcorrimento, icolori, ei ſapori tutti, cd altre ſomigliantiqualità, le quali a noi parc, che nc corpi dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno, ſe non ſe,o l'accennate coſe: ſe veramente elleno ne'corpi ſono: e ſe ſono in noi, cffetti di quelle, o per me' dire de' corpi per quellemodificati. Maqueiti,e ſomiglianti argomenti ſon così pochi, e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle particolari cagioni pervenire, ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il pregio tutto è ripoſto. E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci filoſofanti Demo crito, ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de GALILEI, che tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che al parer del dottiſſimo Obbes: Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam: pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro, che qualche particella di filo fofia ſi ſappiano, e Iddio ſolamente ſaperla tutta, eche quanto più in perfezione monterà la filoſofia, tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica ſcuola, avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta, pur tanta forza ha la verità, che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca, e far apertamente confer fare, eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura, qual'occhio di notturno augello a'rai delSole; e 'altrove, che diquelle coſe, che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato penſar dob biamo, quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente, come eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo, c poeta fa, che ſecondo il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica, e facciagli a ſapere. dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali. E innanzi parimente avcagli colei detto: Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo non differra. Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano, o pure il naſcoſero, E ALIGHIERI ED ARISTOTELE le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate, e che noicolsé ſo non già le coſe, ma ciò, che in noi le coſe operino ſo lamente comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj, che diſſero appo Aulo Gellio: (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis, cioè a dire, come egli ſpiega: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet, ncc quod habeat vim propriam naturam; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a che più da filoſofi,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta, la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re Salamo V 2 (1 ) lib.iLcap.i. ne: 0 m  !ne: Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum, ut occuparentur in ea. Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole, & quanto plus laboraverit ad quærendum tantò minus inveniet. Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe,non poterit reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no, ove s'intralcia, e s'inviluppa maggiormente LA FILOSOFIA? Ne in ciò la medicina, dalla filoſofia è differente, re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion ſolamente, o ſemplice diſcorſo s'acche ta: e queſta ha per ſuo fine, e berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia, la medicina ancora di pochili me coſe naturali conoſcer douraſi, e quelle forſe poco, o nulla al medicar ſaranno acconce: intanto, che non ſap piendole non è gran fatto per huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi pof fa una tal verità manifeſta: non vi par’egli, o Signori, che alla medicina ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco, degli inteſtini, del fegato, della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone, del cuore, delle glandule, le quali ſparte per tutto il corpo poco men che innumerabili fono, ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del micro fcopio non ſi poſſon raffigurare, per tacer d'altre, e d'al tre parti; e quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la notomia, che nulla più: nientedimeno non ſi è egli potuto, ne men ſi potrà giam mai camminar ſicuro, ne determinare, ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero, licome avvenir noi parimen te veggiamo, in tutt'altre partidella filoſofia, e della me dicina dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tanti ſparti ſudori per cotanti valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente in verità an dar le coſe di quel, che s'avviſavano, e davano a noia divedere gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati poco men che lincei fie divenuti, eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali, per l'addietro inſuperabili; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle menomiſfime particelle pe netrare, le quali ſe non vengono ben ſottilmente avviſa te, e ad unaad una diligentemente conſiderate, Io non ſo in qual modo ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono. Perchè egli avvien ſovente,dover noi in sì fatte bifogne camminare al bujo, attenendone ſola mente a troppo deboli, e incerte conghietture, e per cal. laje inviluppate andando. La inalagevolezza inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni dieſſe parti; e quel configlio, che porger ne puote in sì fatte traverſie il vital notomiſta, fia pur detto con pacedel Valentino, del Paracelſo, c dell'Elmonte, quantunque grande, ofere ognicredere egli ſi paja, e che torno d'ogni briga magnificamente ne prometta, fovente ſuole, per la malagevolezza eſtremadella coſt, ſcarſo, e debole molto riuſcire, e talvolta anche in tutto inutile; il che da non altro certamente naſce, ſe non ſe dalla troppo fquiſita, e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali. Ma della fabbrica del cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa, Dio buono, che han potuto giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre? non è ſta ta egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana, facendovi ma la pruova la loro induſtria, e’l loro ſtudio? Egli ſono le fi bre, che'lcervello compongono, così minute, e ſpeſſe, e ſottili, e sì la for teſſitura, e reticulazione è dilicata, e la lor ſoſtanza molle, che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle, o di perderle, inalagevole anzi impoſſibile: ogni impreſa rieſce. E sì, e tanto egli è ſpinoſa, ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche egli tutto inviluppato, e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato. Ma ſe tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute, che farà cgli da dir poi delle picciole, inolte, e inolte delle quali ha forſe la natura a nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate? eci ha alcune di eſſe parti cotanto menome, e ſottili, che non ha mano cosìſcaltra, ed avveduta, che poſſa ſperar di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino, eſottile microſcopio ravvi fare; E di queſte ancora vi ſono altreminori, e quaſime nomillime linee, nelle quali inutile ſi prova ogni arte, vano ogni ſtrumento per ravviſarle. Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena mente ad intendere, le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia vincono? Chiquelle del ſugo nutritivo, della linfa, del licor pancreatico, dell'orina,del fiele,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal Paracel. ſo finovia, e d'altre, e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa, ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia. E chi finalmente aggiugnerà a capire, ſe non ſe per in certe, e fallabili conghietture, o la grandezza, o la figu ra, o'l lito, o'l movimento di quegli inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde, e delle liquide parti del corpo dell'animale compongovo? E ſe ciò all'u mano ingegno è naſcoſo, come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e l'operazioni, e tute'altre biſogne, che di neceſſità all'economia degli animali s'ap. partengono. E come ravviſar mai potrafli, da chi, ed in qual manie ra s'ingencri il Chilo, e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue, e coine il ſangue ad ogni ora in tante, e tante maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale, e come ſi faccia il ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le malattie e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti da riſanarle? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli antivedimenti de'medici, ſe non ſi fa, ne può ſaperſi giammai coſa, che certa, e ſicura ſia dell'orina, e de polli,chi può indovinarmai, per Dio, non che ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni, per le quali eglino, malimamente ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno? che direm poi de gli altri ſegnali della medicina, onde argomentar parimé. te ſogliono imedici le malattie, e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e dell'orina, anzi aſſai più di queſti talora incerti, e fallaci? Certamente non mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore, e la cagione argomé tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere, per tacer d'altre ſue opere, in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe; che lo per me credo, che quelle, che a forec loro ne riuſcirono, certamēte colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare. De'cibi, e de’medicainenti, e delle loro facoltà, e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re. E comechè i Chimici più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento giuſtamente vantar potrebbono; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che rimarrebbea fapere è poco, anzi nulla. E ſon di vantag gio tutte le pruove non altro, che probabili, e poco ſalde conghietture; perciocchè, non ſolamente imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an cora, e'l fuoco, e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti, che vi s'a doperano, ragionevolmente d'errore, e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più diligente, e accorta notomia, ſe me 1 con ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi, che ſi dividono qualche lor particella, che magagni, emuti la lor compleſſione i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono; i quali dalla terra, e anche altronde melli fuora, e infra quelle monome particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi, agevolmente le potranno in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle particelle, licvi, e ſottili, che rubate ad altri corpi ſuol con leco ſempreportare; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle delcor po del quale ſi fa notomia, e maſsimamente le più nobili, ele più operative, che in eſſo dimorano: comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come dicono, ermeticainente turata; o purcolla ſua forza nel digeſtire, e nel formentare, e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo, del qual li fa notomia, diſponendo altramente quelle, e altramente meſcolandole, e dando lor movimento, per nulla dirdel. la grandezza, e della figura loro per eſſo diverſamente cambiate. Perchè fe tante, e tante cagioni poſſono alla fotomia delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi argomenti vantuti dipienamente, conoſcerle: Anzi tanto egli ne ſaprà meno, quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora, e infruttuoſigli avviſi, e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente, e ſottil notomia delle coſe a ſpogliar dalle dubbietà, e dalle incertezze la noſtra Medicina: Io per mè non ſaprei qual conſiglio prender mi dovessi a dichiarirla dalle sue nubi. Ne è da tralasciare a questo proposito quanto agio s’a veſler presso i filosofi dall’incertezze sull’uomo a ragionar sovente, e piatir nelle scuole or d’una or d’altra parte, più per vaghezza d’ingegno che per amor della verità, difendendo tutte opinioni, ed ove lor concio viene, giudicando non altrimenti che quel sottilissimo filosofante Pittagora face a veder della filosofia de omni re pervalermi delle parole di Seneca “sin utramque partem disputari pole ex aquo”. Perchè non è da maravigliare, se DICANILIO EGEO, prendendo a difender cento contrarie opinioni in altrettanti capi partite, da a diveder manifestamente l'incertezza di cotal arte. 1. Egualmente dal padre e dalla madre si inandi fuora il seme a ingenerar gl’animali. 2. Non d’ambedue si mandi. 3. Il seme si mandi da TUTTO’L CORPO. 4. I testicoli solamente v’hanno parte. 5. Il cibo nello stomaco per opera del calor si smaltisca. 6 no. 7 iò sia per lo suo sfacimento e stritolamento. 8 no. Il capo V che sia dal nativo spirital calore. Il capo VB, che no. Il capo VI che per lo corrompimento del cibo sia. Il capo VIB, che no. Il capo VII che avvegna per propietà de' ſughi. Il capo VIIB, che no. Il capo VIII che il calor natio a qualità s'appartegna. Il capo VIIIB che no. Il capo IX che per lo calore avvegna la digestione de'cibi. Il capo IXB, che no. Il capo X che la diſtribuzion de'cibi lia per attraimento di calore. Il XB che no. Il capo XI: dagli spiriti la digestion si fa. Il XIB che no. Il XII: per opera dell'arterie si digestisca XIIB: no. XIII: ciò sia per mancamento a vuoto accompagnato. XIIIB: non per ogni mancamento eglilia. XIV: il glauco degl’occhi per mancanza d'alimento al condotto visivo s’ingeneri. XIVB: no. XV: quel nasca per discorrimento di sangue nelcondotto visivo. XVB: no. XVI: dalla graſſezza degl’umori e dalla esalazione si faccian gli’occhi glauchi. XVIB: no. XVII: La frenesia dal distendimento delle membrane del cerebro e dal corrompimento del sangue si cagioni. XVIIB: no. XVIII: Per soverchianza di calore ella non avvegna. XVIIIB: no. XIX: Per infiammagione ella sia. XIXB: no. XX: da infiammagione si cagioni il lecargo. XXB: no. XXI: Per distendimento e per corruzione egli sia. XXIB: Non già per soverchianza, ma per la qualità dell'esalazione avvegna. XXII: La fames e la feresia di tutto il corpo. XXIIB: Dallo stomaco solamente provenga. XXIIC: sia sol nel pensiero e nell'immaginazione. XXIII: La sete per disseccamento s’accenda. XXIIB: no. XIII: Nello stomaco due diverse operazioni si facciano. XXIIIB: no. XXIV: dalla pellicella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi. XXIVB: Lo traggan da quella di fuora.e parganti medicine operino XXV: per lo corpo spargendosi. XXVB: Colloro scorrimento solamente, senza spargerſi vuotino. XXVI: usarsieno purganti medica nienti. XXVIB: no. XXVIC: Da ſegnar sia. XXVIC: no. XXVD: sia da dare a febbricoli il vino. XXVE: no. XXVI: Ad operar debbano il bagno. XXVIB: no. XXVII: Nell' accrescimento de’nrali sia da far il cristeo agl'infermi. XXVIIB: no. XXVII: In su’l principio delle malattie fan da usar le unzioni. XXVIIB: no. XXVIII: Nella testa possano ad operarsi i cataplasmi. XXVIIIB: no; ma solamente vi li debbano porre cose odorifere. XXIX: Esser giovevoli quelle cose che muovono a vomito. XXIXB: no. XXX: Dal cuor si dirami al corpo il sangue. XXXB: no. XXXI: Gli spiriti dal cuor si mandiitos ne dall'arterie sien tratti. XXXIB: no. XXXII: Da per se il cuor si muova. XXXIII: no. XXXIVA: L’arterie per lor natura sieno stanza del sangue. XXXVB: no. XXXVI: tutti i vali che soprastano, e gonfiano, sono semplici. XXXVIB: i ricettacoli sieno in voglie in tessure. XXXVII: Per mezzo de’ nervi facciali il sentimiento, el moto. XXXVIIB: no. XXXVIII: Il cuor e principio delle vene. XXXVIIIB: no. XXXVIIIC: E il fegato. XXXVIIID: no. E: il ventricolo. F: no. XXXIX Tutti i ricetacoli si diramino dalle pellicelle che vestono il cerebro. XXXIXB: no. 90: Il pulmore e principio dell'arterie. 91: no. 92: L’arteria, la quale sta presso alla spina, sia di tutt'altre arterie capo. 93: no. 94: dal cuor nasceno tutte l’arterie. 95: no. 96: dalla membrana del cerebro traggano i nervi origine, non già dal cuore. 97: no. 98: non nel cuore, ma nella testa la potenza ittellettuale dimori. 99: nel cuore. 100: nel ventricino del cerebro ella sia. Ma di cotante rivolture e mutamenti d'opinioni e di sentimenti certamente Dicanilio Egeo non è da maravigliare, se tanto forse ancor fa Galieno medesimo, ove in concio gli fosse venuto. E di ciò Galieno stesso ne’ suoi libri si va millantando sommamente di poter improvviso ci alcuna serta de’ medici de' suoi tempi a buona ragion difendere. Perchè se dir non vogliamo, esser egli stato Galieno un riottoso giuntatore, o berlingatore sofista, che co’ suoi fisicoſi aggiramenti per diritto, e a torto il tutto a difender togliendo, uccellar n'avesse voluto, convien di necessità affermare, ciascuna setta de’ suoi tempi anche secondo il sentimento di lui essere stata igualmente ragionevole; e conseguentemente a niuna certezza esser la filosofia appoggiata. Eccme chè Galieno ciò dimenticando vanti sovente di poter far pruova de’ suoi detti, avendo sé pre in lor concio nuove dimostrazioni. Non però di meno X 2 (il ci ta, 7 il dirò pur con buonapace di lui) le sue millanterie row vente fogliono in vanissimo vento riuscire. Anzi Galieno medesimo dimentendosi talvolta, e in più luoghi contastan dosi, ne fà della sua bessaggine, e della sua poca fermezza avvedere. Quid enim, dice di lui stizzosamente gridando il Giuberti, quid enim in Galeni scriptis frequentiusoc currit, quam ipsum plerumque videre, quod alibi multis rationibus fuerai demolitus, id constantssime afferere? ERi nieri de' Solenandriz non men del Giuberti della dottrina di Galieno intendentissimo, così parimente avvisollo. Galenus, quiuberrimo ingenio fuit, ca oratione liberali ferè prodigus, innumeros propem conscripsit libros: in quibus rerum et dogmatum multitudine plurima sunt discrepantia, nec fo bi ipsis consentientia; quasi quis attentem cum judicio legit, fi quis diligenter in unum colligit, ingens chaos agnoscit. Ma lo dirò di vantaggio (il che non mi sarebbe per avventura peralcun creduto, se con l'autorità del medeſimo Galieno io non gliene facelli certa, e ben falda pruova) che se ancor la filosofia fosse dattanto, che a saper dicer to molte, e molte di quelle cose aggiugnesse, le quali per addietro dicemmo esser di quelle, che in quistion cadono tutto'l giorno, e più altre assai: ne meno alla sicura nell’operar sarebbe; abbisognado a tale effetto, secondo Galieno, che molto bene in prima la propria natura, e complexione di colui si conoscesse, il quale sarebbe da filosofare. il che ſecondo, che egli medesimo apertamente confessa, non si può per partito alcuno bastevolmente giammairav viſare, Ma se sì poco da noi in filosofia per la sua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non però dimeno e'non creda alcuno, che sicura ne fia la sperienza. Anzi per maggiormente incerta, e dubbiosa più avanti per noi sarà mo Itrata. Perchè seguiranne poi sicuramente, che non purla sagione dalla sperienza accompagnata, valevol sia a render certa, elicura la medicina; concioffieco fachè verisimile a verisimile accozzando; e no certo a non certo, e per lunghi argomentise pruove che vi si aggiugono, non potrà mai, che I certa, e incontratabil fia, ſicuramente riſorgerne. Magià ſi è per queſte, e per altre coſe addietro diviſa te veduto a baſtanza, e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette della medicina, e le diverſe; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare, e la varieră dell'opinioni, che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in sù, non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire; egli forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della medicina come già proponemmo, ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare; quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la medicina breveme te abbiam fitto, riguardare, non farebbe forſe meſtieri più diſtintamente diviſargliene, potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere, ſe giammai un'arte così dubbiola, in coſtante, ed incerta poſſa avere in ſe dottrina, o principi tali, che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to, e ſicuro. Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica, chiamata imperfetta, è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare; infanto, che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai tante ſtelle alcuna notte, Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe ebbe maicampo,nepiaggia. Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui, ſe più coſtoro ſi foſſero, o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota profanus, Iudæus.... hiſtrio, rafor, anns. E ben diſſe il Carlectone: Medicos ſe fingunt quoque Rizo tomi, Seplaſarii, fordidi Balneatores, triobolares Phleboto matores,fpurcidici Lenones, indo&tiparochiaram Sacrificuli, favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghileſe, de'quali fa parole altresì, e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes, audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes, veteratores Fatidici, lj bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa, ingratifimaque impoſtorum gens, Pharmacopo le; qui ſuntin Rep. agrorum pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides. Che più, fe toccar quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da Ferrara il motteggevol Gonnella, allor, che nel novero di coloro, oltre allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole; ed egli era così celebre, e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti, e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne. Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io, che barbagianni funo Ridicoli, ineſperti, ed ignoranti: Che non ftudiar d10 anni, fur a ſuono Digran campana alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono: Che ne ARISTOTELE mailejer,ne Plato, Ne Avicenna, o Galien, ma due ricette, E le regole appena del Donato. Ma ciò permio avviſo, non altronde certamentewviene, che da una tal naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente abbiamo, e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi medeſimi, e per gli amici, e per tutt'altre perſone del mondo. E perciocchè ad interamente apprenderla, e ado perarla, qual veramente fi conviene, di grandiflima fiti ca, e di ſudore non ordinarione fa meſtiere, ciaſcuno, co me il meglio puote malmenandola, ed abborrandola, in pochi giorni l'appara, e ſenza troppo diſagio la mette iz opera. E in vero cotalforte di medicina è molto agevole a imprendere, e ſovente dinon poco pregio, eguadagno Suol eller cagione; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dietro a feminine diinondo, o nelle follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle, ſtenchi alla fine,eigannati ri courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no. Ed ora mi ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato, il quale avédo perduti có la grazia del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina, e ſpacciarles a prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja. Ma non fa meſtier, che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri; che purtroppo chiaramente per ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino, ed ari fchio, ed a ventura; non ſappiendo talora ne men groſsa mente, econfuſamente i ſegnali delle inalacrie, non che la natura di quelle; perchè convien poi loro nel diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone, con af pettarne, timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio della perfetta Einpirica; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare, nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione,puofſi in certo inodło covenevolmente Razionale Empirica chiamare; conciolliecoſachè la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue fondamenta, che è la fperienza, non folamente per la baſ. fa gente, ma per gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata, e a capital tenuta: che apertamente talora, e in ifcritto, e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla fogliono; eſſendo l'altra, fecondo lor ſentimenti la ragio ne. Anzi huomini chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici nemica (tra’quali fur ERACLIDE DA TARANTO medico e filosofo di sì gran sapere, e così nell'arte eſercitato, che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto le ragioni alla fola sperienza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi rifuggirono;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de’ razionali, pur ma niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la sperienza alla ragione; e dicono, che ove d'una parte la ragione, e d'altra la ſperienza il contrario ne perſuadono, che allora il medico laſciar debba affatto la ragione, e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filosofi di grido ARISTOTELE apertamente confeffa, all'arti tutte aſſai più di con cio, e d’utile la sperienza recare, che la ragione, e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far pruova continuo degl’ammalati, che con beccarſi tutto giorno il cervello ne’libri. E quel scrittore, che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così addentro innoltrare ne gli affari del mondo, avvisa, la medicina non eller altro, che sperienza fatta dagl’antichi medici, fopra la quale fosi dano i medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano, medicina ex observatione salubrium, atq; his contrariorum reperta est, & ut quibufdam placet,tota co hat experimentis; nondimeno l'Empirica medicina, non che abbia giammai nulla di certo, anzi ſoventi volte in graviffimi errori traſcorrer ſuole, laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente guidare; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa, ſovente è fallace,e vana. E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali più d'una volta ſtate ſono oſſervate, chi oſerà mai certamente affermare, che ciò che più volte av venne, debba poi altre, cd altre volte ſomigliantemente avvenire? Certamente niuno, ſe non colui ſolamente, che inveſtigatane la cagione, onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni, ſe le medeſime ſaranno, certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti, ma ſe peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze, che l'accompagnano, non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre, ina diver ſi, ſecondo la diverſità delle perſone, de'luoghi, c d'altre coſe, che vi concorrono, Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare, così non è da traſcurar punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate, noul ſempre i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire: non ſempre congiurar le medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie: e finalmente non ſempre que, mali, che i medefimi eſſer ſembrano, effer veramente ta li, quali ſi pajano; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno, facendo veduta d'eſſer manifeſtamented un male, il qual poi tutt'altro ſarà di quel, che noi alla prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza, ſe ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo; imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato, o del male ſuole ava venire; ed altri pur follemente immaginerà, eſſere dal ſuo medicamento ſolamente ſeguito. E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando all'ammalato più d'un rimedio ſi porge; perciocchè allora non può age. volmente imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura all'inferno approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò, che di leggier forſe po trebbeſi ſchivare, comealtresì è da tacer della credenza, la qual ſenza manifeſto riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare: coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno. Ne meno faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio, che da parte a parte far fogliono gli Empirici, e dal la ben compoſta analogia di male in male; che ben ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e inviluppata ſia la lor dottrina, e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena. Manon fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza un graviſſimo autore, e più, che altri per avventura in quella eſercitato ne manifeſta dicendo,eſſer la ſperienza in man del medico, non altrimenti, che il cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato. Verità anchemolto ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo, e faviſſimo ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno. Ma volete voi, ch'lo brievemente vidia a diyedere quanto vana, e fallace ſia nella medicina la ſperienza? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare, che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate. Ma riguardando i maeſtri, e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica: e d'altra parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri: vollero ſolamente a certe poche coſe veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono: uno de'quali diſcorrente, e l'altro ſtretto chiamano. Naſce il diſcorrente allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati, e fatti maggiori aſſai di quelli, che in prima erano; o quando altri nuovamen te accreſciuti glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette infra loro, e congiunte lì ſo no, perchètalora, o più abbondevolmente, o più di ra do li vuota il corpo. Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò, che far li dee argomentar fogliono: una di ſtrignere, ed una di allargare: e queſte chiaman comu nità curative, e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag gio le comunità temporali, cioè a dire il principio, l'avā zamento, il vigore, e lo ſcemo della malattia. E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime comunità con polto effer ſoglia, cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto: vo gliono allora i metodici, doverſi la cura alla maggiore, e più ragguardevol parte ſolamente indirizzare. E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato; chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno, e Proſpero Alpini, il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli avanzi dell'antica Metodica medicina, e di difender quella con cutta forza oſtinata medite i senza troppa mente ſi ſtudia; ma non puote però per fatica, che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a' curioſi l'apprenderne intera la dottrina; concioſie coſachè alcune coſe, poco forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur tentone, ed alla cieca. Ma lo quanto è a me, voglio al preſente più di Galie no medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici, e conce der loro di vantaggio molte, emolte di quelle coſe, che fatica durare, agevolmente negar loro po trei. Sien pure, com'eglino s'avviſano, le comunità cut te manifeſte, e piane, e a quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per prender aº mali conſiglio, ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza; adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando alla ventura, e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti, manifeſtamente talora inceſpando traripa no. Ma ciò traſandando,ſia pur da curar malattia di ſtret tezza, come di poftema, o d'altro ſomigliante malore, che di allargamento abbia biſogno: manifeſta coſa è,che la materia ingozzata, e rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni; ed acciocchè poſſa li beramente far punta, ed uſcir fuora, conviene in primas, che la durezza liſciolga, ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare valevoli, & opportuni. Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in prima, di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il ſuo vero, ed acconcio rimedio trovare, ed adato tar viſi poſſa: O forſe ciò, che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote? anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit, bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a terra l'evidenza de Metodici; ecco, che pur convien loro entro i confini de? 1 1 Y 2 Razionali medici alla fine ricoverare. Ne più intorno alla lor dottrina impiegherovvial preſente parola. Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie, che non v'ha luogo alcuno di diviſarne, non che d'abburattarle, o per avventura riprovarle; anzi ne men ſaper certamente por ſiamo, chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci, cui foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina, e ciò chealtrove andato ſe n'è per noi ricercando, non li è potuto ancora così rinvenire, che foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà. Ma non è egli però da porre in for ſe, ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua origine; e forſe forſe ella è sì antica, che non pur ne convien dire, ch'af fai prima della volgare Empirica ella naſceffe, ma chel Empirica volgare ſia della Razionale, anzi, che no giove nil parto, e creatura;la qual coſa in sì fatta guiſa leggier mente noitoccheremo. Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono talora da' corpi le malattie, e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien dineceſſità, che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda (non avendo altri ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente, da alquante poche in fuora ſi alla medicina non fanno, le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre; ma può tali medicamenti l'huomo ap prendere, o a caſo in effi abbattendoſi; o col diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo ritrovar ſi poſſano; nc ſembri veriſimil punto, che le tante erbe, e radici, onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite, ma gl'interni malori altresì medicavan ſi, veniſſero a ſorte lor conoſciute; rimane adunque, che per la più parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti. Ma come que'primi rozzi huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen ti, non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui voglia pormente a'bruti, e andar mi > che nulla qua nutamente ſpiando come tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie. I brutistutto che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi, ſi trova no di tutto ciò, che a lor fa meſtiere a comprendere le; coſe neceſſarie al proprio mantenimento, baſtantemente provveduti,anziabbondevolmente dalla larga, e prodi ga mano della natura arricchiti. Vengono talora agli animali le medicine dal caſo di moſtre, comedel Dittamo, erba crinita, e di purpureo fiore, avvenir ſuole, eſca oltremnodo gradita, e foave al palato delle capre; onde ſoventi fiate ſavoroſamente la paſcono; e ravviſando elleno, che ſe mai ferite vengano da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta,dalla fe. rita, allora Volontario per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue, e ractamente ſe ne fugge il dolore: ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe ſe ne corrono; e per queſta da noi menzionata ſtrada, e non già per quella del ſognato, e favoloſo iſtin > to,. maſtra natura alle montane Capre ne inſegna la virtù celata Qualor vengon percole, e lor rimane Nel fianco affilala faetta alata; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo, allora, che infermi fi ritrovavano, giovevoli aſsai ſperimentarongli: E ſomi gliantemente altresì La teſtuggine allor, che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide, e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute,, e vita Dall'Origano cerca, e non indarno. Opera ſomigliantemente del caſo, e' certamente ſema bra,ſe per qualche male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono di ci barſi. Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti; comene'lupi,ne'gatti, e ne' cani, per tacer d'al tri, manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora, che ſenten doſi eſſi aggravare, e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto, e corrotto cibo, ed avviſando, che alcune erbe, le quali talora forſe loro punſero il muſo, poſſano, ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op portunamente ſi vagliono. Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza, e ſollecitudinc ricercando, ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato, e perſpicace, valevole più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente regolare; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole, diritta mente non gliſcorge, elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè veggiam tut to dì le capre, le pecore, le vacche, i cavalli, ed altri ani mali infermar gravemente; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e velenoſe; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a divedere, non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo, ed inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro, che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare, che nella prima ſola corteccia delle coſe. Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto, che poſſan talora con qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare, o pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina; come non aurà potuto l'huomo, ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico non avrà potuto ſino a’ primi tempi, e col naſcente mondo, col diſcorſo i medicamenti ricercare, e ritrovare? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo, ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta, o d'ani male, o di vegetabile alcuno, prender in duce, e in iſcor ta la ragione; imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe, che grande a maraviglia aver-, fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo, o liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente, che a'primi maeſtri della medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica menti. E percominciar da’ Cineſi: Popoli ſenza fallo di tutt'altri più antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo,il quale ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c che quivi prin cipe de' medici, e inventore della medicina vien comune mentetenuto, ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte, emolte radici, e piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare lemalattie; ech'egli ne compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora li ſon valuti, e fi vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or dinaria nel medicare. Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo pormano a quel la tal pianta, o radice per farne la pruova? Ma è veriſimil molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione; altrimenti non ne ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò,e rinvenne ben ſeſſanta ve lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere illoro veleno;e contale, e tanto avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più aſſai di que' del lupo ccrviero acuti, c penetranti. E più chiaro molto rio ciò che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura, ſe colui che ſi diè cura, e impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina. Ma più certo ſi rende, che que'primi Cineſi medici, da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad inveſtigare i medicamenti,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono, i quali altresì della chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri: non riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione, conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo; tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca;della Scitia lo dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo, dal quale, ebbe il ſuo primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla ſoverchiaza degli odori ſoavi. Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato,o lia Filalete, appo Euſebio ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia, nõ meno in filoſofia, che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel,che dica Plinio, il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia, da qualche ragione moſli furono Chirone, Eſculapio, Ercole, Melampo, ed Achille a valerli primieramente della Centaurea, dell'Aſclepio, dell'Eraclio, dell’Achillea, piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno, in cibo uſate. E ſe mai eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven. ne sì factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici, malimamente, che alcune di loro convien che con zappe, o marre dalla terra a viva forza li ſuellano; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea. Fu dunque l'eſperienza dalla ragion; preceduta; ed ebbe il corto Quintiliano affermando il contrario colà ove difle:Vulnusdeligavitaliquis, ante quam hèc ars effet, & febrem quiete, eo abftinentia, non quia rationem videbat:fed quia id valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile, che Melampo, il quale parve, che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali,rinveniſſe a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità. Ma ſe razionali furono avvegnachè roz zi, ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri, ed invento. ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra.' che qualche coſa anche di loro da dir ſia. E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio. Coa me, e quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo, e gli altri primi medici della Cina, Io porto per me ferma opinione, che penetrar non ſi pof ſa per huom giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine dell'Imperado re Cino, il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe mura, e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle, rendea gli animi ſnervati, ed imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure Z de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono, è tanto, comeſe ſmarriti anch'e glino, ed abbruciati fi foſſero. Ma da qualche veſtigio, che tuttavia ne rimane, ſi ſcorge apertamente, che i Ci neſi nella geometria, nella filoſofia, e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati, e ſi valſero della Chimica, e conobbero,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo, legno, acqua, fuoco, e terra; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici. Ma ſi par certamente, che Cinnungo non molto nella filoſofia, e nella medicina avanzaffeli; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa, c di tanta lievas in un tratto naſcere, e ricevere l'ultimo ſuo compimen to; masſimamente alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione, e di eccellenza pervenga. Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien favoloſe, ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano, che egli faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli, e rift orative, e che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata, tante ne provaſse, e ne ripro vaffc; il che fa chiaramente conoſcere, quanto la medici na, ſe acquiſtar vuole eſtimazione, in tutti i tempi, cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in opera le men zogne, ele millanterie. Quáto poi valeſſero gli antichi medici Cineſi nella Chi mica, chi potrà mai indovinare fi la ſolo, che eglino s' ingegnarono di trovar medicine, non ſolo acconce agua rir le malattie: ma anche valevoli negli huomioi ad eter nar la vita; e comediRaimondo, d'Arnaldo da Villanova millantano i frati della Roſea Croce, che vivi anche oggi ſien o, che vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! sì fingono,e danno ora ad intenderei moderni Cineli Chi mici, eſser molti, e molti di quegli antichiſapienti, che, fattafi colla gran medicina immortali, dimorino nelle cia me degli altisſiini monti, e quindi vadano, anzi volino dove lor più ſia a grado, ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più, che tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro, di cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui vce ta eravi una conca parimente di bronzo, formara a guiſe d'unamano, nella quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove macerar pofcia fi dovea no le perle, ed altre peregrine, e rare coſe, delle quali compor li doveva quel prezioſo, e divino medicamento, che facea l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo. Ed anche a’giorni noftri ſi veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia, andar ad ogn'ora vagabon deggiando, in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati più e più ſecoli addietro, vendon altrui la medicina, che fà gli huomini immortali, e tra per le loro trappole, e per lo deſiderio, che è in ciaſcheduno di conſeguir l'immortalità, ritrovano, e più tra’letterati che tra gli altri, chilorpreſta credenza. Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare, ſi ſcorge quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi, dalle maraviglioſe cure, che con eſli tuttavia fanno i moderni medici. Solamente potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da; imperocchè col ber caldo ſi ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra, alle podagre, e ad altre atrociffime malattie, che così frequenti, ed abbondevoli ſono fra z 2 noi. E quanto al non trar ſangue, oltre al novero de’gre ei, e de’noftri medicanti, che ſeguono il medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli, ne? quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le malattie, non gli rende degni, non dico di ſcuſa, ma d'altiſſima loda? eda ciò vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a' medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti, che gli antichi già fi faceſſero, de’ſemi, delle frondi, delle corteccie d'alcune piante ſi vagliono, e d'alcune pictre al tresì, e ſerban libri, ove ſon figurate l'immagini di tali piante, e pietre, e le loro virtù narrate ne’precetti, e nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani. Preſcrivono a’loro infermi sì rigoroſe diete, che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà fenza dar loro altro cibo, che certo ſugo dipere, tre, o quattro fiate il giorno, e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno, che tal dieta non potrebbe fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci, e l'eſſere i Cineſi di noi più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la ſogliono apparare • Di. cono tutti, che i Cineſi medici ſono séza alcun paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio; ed eſſendo eglino intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai, s'interrégono fin’a mez ' ora, fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni in toccandogli, e danno a diveder dapoi, che con una tal diligenza eſſi aggiungano a ſapere d'ogni varia, e più oc culta interna diſpoſizione, e diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura, e la vera cagione. Ma è per mio avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter talora porre utile cos penſo alle più gravi malattie. Vlano frequentemente la prezioſa radice, detta da loro Ginſen, dalla quale ſové te ſi veggon guarir gl'infermi, eziandio morienti, e però una libra di eſa, non val meno di tre libre d'argento. Nil la io dico dell'erba Te, percioccliè ella ſi adopera tutto dì anche ora appo noi: comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici effetti, che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola tile Alcali, e con eſſo inſieme poco men, che tutta la ſui virtù, o qualunque altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione, che di tal erba portavano,dicendo, ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi; non però dimeno noi ben ſappiamo per pruova, cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato, che alcuno avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia, certamente non vi ha avu to ella parte niuna. Egli è vero però, che talerba ſoglia apportar qualche moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia, e di ſoverchio acetofo: il che adoperar ſuole altresì il Cafè, ela Cicolata; alla, qual coſa riparare ottimo rimedio è il digiuno. Ma io no voglio laſciar di dire con queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre a'malati qualch'er ba noftrale, cos lor giovamento non ordinario:e che gli Ollandeſi portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e per una libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi. Ma avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati, comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio,c ſtima. E quinci avvien poi, che tutti coloro, i quali ſien d'alto in gegno, e di ſaggio avvedimento dalla natura forniti,nul. la badandoviaila, moral filoſofia ſtudioſamente ſi volga no, onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 1 1 ! doti, gioni, per la quale de'buoni libri dell'antica medicina, e della natural filoſofia pochi rottami ſi trovino, e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia ri,erinominati al inondo, ſe'n viſſero già lungamente per fama, quegli avveduti, e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente, e ſtabilirono il Egitto: altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza, e della fragiltà della gloria monda na; perciocchè eziandio di coloro, iquali ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il vero nome pervenir potuto. Caſtigo ben douuto all'invidia,cd alla tracotanza di quei Principi, e Sacer, i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare, e l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla, e invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono. Perchè io giudico, che po co, o nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla inacemati ca, e colla filoſofia naturale, e altre buone arti nell'Egit to pellegrinarono; ed in quel tempo appunto per lor di (grazia vi giunſero, che caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta divenuta, comun nemcnte da' medici ſcimuniti, e balordi ſi malmenava; ed i ſacerdoti l'antiche note più non intendeano, o ſe pu re qualche coſa ne penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine, tenevanſi d'inſegnarle altrui, e masſima mente a' foreſtieri; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano, quan do e' diſſe, che i Greci niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato. Eλήνες δε ούτε παρ' Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav. Senzachè, ſe a Greci al trôde venuta foſse la medicina,certamente ella non ſareb be tanto indugiaca ad allignarvi, e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di gloria, a quanto ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta;pur potrebbeſi ragionevolmente argomentare, eſſere ſtata quella a grandiflima altezza da' Re, e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta, da ciò, che ne ragiona Omero colà ove narra, che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to celebrata Nepente ad Elena. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα, Αυίκ' άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον απάντων. ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη, Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και δάκρυ παρειών, ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε, πα ής τε, Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων, όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα. Τοϊα Διός θυγάτης έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς. Onde a la bella, e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove, allbor nuovopenſiero Venne ne l'alma, che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo, alme Liquur, che toſto ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa, e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce, e graziojo oblio Di tutti i mali; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per le guance l'onde Del pianto; o d'attriftarſi;ancorchè morti Davanti aveſſe i cari madre, e padre; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro l'infelici membra, Del frate amato, o del fuo dolce figlio. Cosifatti i liquori erano, e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno; Cb'erano utili, e buoni, a lei dati Polidanna gli avea di ToneSpoſa. Il qual medicamento, qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare; ne comporta il mio ſcarſo ragionamento, che lungamente lo ne favelli, ne che fra sì varie, e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri, mentre altri vogliono, non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino; altri allo incontro medicina artificioſamente preparata, chi dice d'uno, echi di più ſemplici compoſtage lavorata. Io giu dico, ne forſe da' limiti della ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana, chela Nepente opera foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato, al tro cercaméte non ſembra chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe. E fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima; pcrciocchè Vulcano figliuol di Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò, e diè principio egli altresì all'arti tutte, che del fuoco ſi ſervono; il cheoltre a Zezze moderno, e ſti mato da alcuni poco veritiere ſcrittore, il qual dice. Πύρ, και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano; 'e Vulcano altresì, ſecondo ARISTOTELE, e Sozione appresso Diogene Laerzio, inveſtigò da prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na ragione affermare, aver lui per dover più acconciamé te farc, e rinvenir ne'corpi diſciolti, eminuzzati, i primi lor componenti, adoperato da prima il fuoco, e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio. E quin ci nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano a gli altri Dii paleſato; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato, e dalui poſcia a’Re,ea Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tutto ciò, che dietro a tal fatto potrebbeſi più profon damente eſaminare. lo dico, che non ha dubbio veruno avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran, pro dalla Chimica; imperocchè ella venne a tale, cheti to altamente ne puotè favellare il dolciſſimo Iſocrate con queſte parole: gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella, che ſi valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra, che potendoſi colla medeſima ſicurtà adoperare, che gli ordinarj cibi d'ogni giorno; recar ſuole poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo: Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν, και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην: αλα τοιέτοις, α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν: τας δε ωφελείας τηλικαύτας, ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos. Magran pezza avanti Iſo crate, e nel tempo appunto, che in Egitto fioriva la ve ra medicina, avea detto Omero, dell'Egitto favellando, Ιητςος δε έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων. cioè, ficome volgarizza il Baccelli: Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio. Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per Diodoro, quand'e'dice: gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in uſo, fe non fe criſtci folamente, purgative medicine, c digiuni, e vo mitivi: τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα. τα κλυσμοϊς, και ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes.e'debbeſi ſolaincnte di quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re, c da' Sacerdoti, in mano della più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita, eſſendo già caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta; ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate, che il mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne foſſe lecito porger a’malati al; A a cun medicamentoprima del quarto giorno, ſe non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico. Al che forſe po nendo mente il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire, la medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale. Ma ſe perciò dal Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato, egli fareb be certamente aſſai più da biaſimar Galieno, il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima de Greci avefler contezza de'medicamenti, pure osò dire eſſere ſtato il lo ro conoſcimento affai groſſo, e rozzo, e che con l'agio di aprire i cadaveri p imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti. Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe da’Perſianiſoggiogato venne, e domato in guerra, che i ſuoimedicipiù celebri, e più valorofi, quali effer do veano ſenza fallo que", che medicavano il Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi, enovizi nell'arte. Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro, l'Egi ziaca medicina, ruinà anch'ella, e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino ALLA CADURA DEL ROMANO IMPERIO in Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato, edorrevole durarono; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina, che a Galieno, come egli me delimo ne da teſtimonianza,non increbbe d'andarvi per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto,che di Galien medeſimo era ſtaro maeſtro; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta grandezza, e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto, che, come narra Ammiano Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto. Narrali per Damaſcio nella vita d'Iſidoro, i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino, per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e ſpezial mente in Atene. Coſtui quarant'anni continui logorò facendo eſperienze, e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina, ed inſegnandola al figlio, che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro vò quivi medici, che poco, o nulla di medicina ſappien. do, non con la ſperienza, come doveano, ma congli al trui detti medicavano a ritroſo, anzi (conciamente mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E quanto al fatto della Cirugia, oglino ſolean molto di rado porre in opera il ferro, e'l fuoco; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro amendue farebbero da ri putar degni di molta loda, ſe non foſſero ſtati ſuperſtizio fi, e idolatri, come par,che dica Fozio, comechè un an rico autore appo Suida affermi, Giacomo eſſere ſtato Criſtiano; maavviſa il dottiflimo Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo, moſſo ſolamente da coloro, che'l credeano mago,per le maraviglioſe cure, ch'ei facea. Dice di più Damaſcio, che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto, il qual di muſico, ch'egli era in prima,li fè medico, e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli, che in molte coſc, emolte, ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro. Fu coſtui gran matematico, c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi, comeche di coranto intendimento non foſſe, che poteſse i miſteri d'Orfco, e de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in pregio Giacomo ſuo Mae ftro, e degli antichi, Ippocrate, Sorano, Cilice, e Mal leoco. Perchè ſembra, ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici; e quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini, che in niun pregio avcano Ga lieno. Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco, già lungo tempo traſandato, e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo, ponendoſi al naſo, e alla bocca la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente, che racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria, onde egli agevolmente reſpirar do veſse; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò, che di vantaggio di lui narra Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio. Tanto vo dire,che de' medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama riſponder dovea il loro valore. Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo buon nome lungo tempo durò; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli, finche tolto al ROMANO IMPERIO per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi, e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire, di Metodica mcdicina aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata, e ſtabilita, le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni, cvidenti principi, fondamenta di quella, c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto. Egli ha ora in Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri, i quali per pochi bajocchi ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali, over princi pe de'medici, deſtinato, ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo, o che ſappia egli, o non ſappia di me dicina,medicano, una o più fortidi malattie, comc più lo ro in concio viene; c giudicano eglino, due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil caldo, e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto, immaginano qui vi follemnente, che tutte le malattie, o procedan dal cal do, o fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate; perchè giudicando, che l’un contrario ſi ſpegna per Taltro, ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci, ſecondo la loro opinione, e valevoli a rinfreſcare. Perchè traggon · largamente ſangue in tutte le empleſſioni, in tutte l'età, in tutte le ſtagioni dell'anno, ed a tutti infermi, e dan be re acqua agghiacciata; il che «i ! anto fuor d'ogni ragione la fascia, non ha cercamente huomo di sì mezzano intendimento, che di leggieri avviſar no'l poſsa; ſenzachè i cauterj, e le ſcarificazioni, che crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo gliono adoperare, tolgono affitto loro ogni buon nome; intanto, che affatto contrarj a quegli antichi mediciſein brano, i quali avean piacevoli argomenti folamente il uſo. Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi, certamente lo non ſo, come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo, nel quale que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della medicina; il că po della quale è così vaſto, e così malagevole, cheappe na, che più, e più persone colle lunghe eſperienze, e col le ragioui una menoma parte oggi coltivar ne poſsano. Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia, corrotta, e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio Firmico: Nekepfo egli dice, Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de bonus, per ipfos Decanos omnia vitia, valetudineſques collegit, oftendens quam valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur, quia Deum frequenter alius Deus vincit, ex contrariis ideonaturis, contrariiſque pote ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit. Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum, ac per duodecim fignorum numeri ifte Deorum numerus, ideft decanurum dividitur. Se poi dagli antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza, che nel tempo d'Erodoto, nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer bavali, clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per conſervarli fani ſi purgavano col vomito, e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης τοιώδε διαχρέωνται: συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg, εμέτοισι θηρώμενοι την υγίειην, και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι. loper me non credo,come si poſſa generalmere favellando, comeche rieſca calor peravventura giovevole, tal coſtume in tutto lodare; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito, ei medicamenti, lo ſtomaco, e gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono, e fi ſconvolgono notabilmente, e alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi umori le mucilagini, che veſtono, e difendono le loro membrane, ed altre, ed altre ſoſtanze non ſolo utili, ma ſommamente ancora all'economia, all' operazioni, ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non rimane a dire dell'Egiziaca medi cina, ſe non chenon coſtumò ella ne meno allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato, per quel, che ſe ne ſap pia, di trarre mai ſangue: comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo, o ſia cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora, oco. me Ammian Marcellino, fra'canneci delle rive di quel 1o. Ma Prometeo, o pure Magog, onde ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua opera primieramente ritrovata, dinoli, e molti nobili, cgiovevoli medicaméri, co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo, ch'egli medicava me [ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie, con guarir tutti coloro, che così malamente ſi ritrovavano ridotti, che non ſi cran pocuti per niun riine dio in prima riſanare, e che prima, che a lui veniſse fatto di ritrovarle, e di porle in opera, non vi avea rimedio al cuno per le malattie To pelice régason, & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν, και δε πιςον, αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος, Ma di lui ancor ragionevolmente dottar ſi potrebbe, nó egli aveffe dato alla ſua medicina principio con iſcioglie re i corpi più duri, quali ſono i mecalli, per opera dei fuo co: mentre è coſtante fama appo l'ancichità, ch'egli pri ma di tutti da varie, e varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere, Χαλκόν, σίδηρον, άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού. E conciofoffe coſa, che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar ſottilmente ancora al fuoco, e in diverſi gradi partirlo, e perciocchèegli peravventura, del calor del Sole ſervisſi: finſero, ch'egli affole il fuoco imbofaco aveſle. Ma tafciam di ciò, a' Chimici il penſie ro, come anche di fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento diGiove; il che cicga remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to, ed è nel noſtro tale il ſenſo, Gia fiam giunti,o Vulcan, ne'vaflicamping E nelle folitadini deferte Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti adempir delGenitore; Equeſto audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil didiamante Legar fra i duri faffi. Eito fplendore Del foco onnipotente, onde tu altero N'andavigià, furotti, damortali Dono nefeo: dritroi, che d'un sal fallo Pagbiagli Dei la meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e l'huomo almeno amare apprenda. lo perme immagino, che Promeceo, o che'l caſo il por: taile, o da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del ſole, e che da queſto traerſe origine la fa voka accennata. Mache che fia di ciò, li diede Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli au gurj: Teórus di nous isoleradio il che fa vedere, che in fin al ſuo primo cominciamento la f media medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio: ſe, e vane. Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero, Io non ne ſaprei dir altro, ſalvo, cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni, e della dieta nel cu rare le malattie, come appo Plutarco riferiſce Talete την δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και αφθόνως, και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia:ebbe ella ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento, e ſopratütro aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo, si fattamente, che prima di ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari (fabbricando ad ogni ora nuove Città, e popolandole di gente douunque capitavano ) a lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa, e d’Aſia, e d'Europa, perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il mare: onde diſſe Tibullo. * Prima ratem ventis credere docta Tyros. Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina, e che però ella nella Fenicii, fe condochè la natura d'un talc affare comporta, alcolmo della perfezioneaggiugneſſe. E di vero convennc, cho gni ſua parte arricchita, ed illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino, come colui, che dopo diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute, come canta Nonno nel poema dc'fatti dfBacco, edificò cento Città. •... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας πολέων εκατονταδα, δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva. Quindi egli ſpogliando dell'antica rozzezza, c pe coraggine la grecia, le diedeinſieme con tante, e tante doctrine molti vocaboli, e le lettere ancora, e l'umanità. Il chei medeſimi Greci apertainente confeſſano, dicendo Erodoto >, per tacer di Filoſtrato, d'Ateneo, e di Diogene Laerzio, chei Fenici, che vennero con Cadmo, con molte altre dottrine, le lettere, che prima non vi erano, in Grecia introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι, εσήγαγαν διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη, και γράμματα ουκ toy a aliv eranos. Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò, che nella Fenicia la vera natural filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone,e Poſſidonio appo Seſto Empiri co raccontano, da Moſco Fenice, Leucippo da prima apparò. Ma più che altro, l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere, l'aver ella pe netrar ſaputo, come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle malattic; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro abbiſognava, eun'avvedimento non. miga ordinario, e volgare; eſſendo loro neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono, qual veramen te ella lia, ſe l'aria, o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi, e le figure, e la grandezza delle parti celle, che la compongono; e come la lingua, che forma il canto per via di miſure, e di convenenza, or fortemen te, or pianamente, or velocemente, or tardamente la muova; e coine sì fatto movimento or s’uniſca, or fi di funiſca, or creſca, or manchi, or fi rifletta, or s’attuti; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza, o penetri i poridel timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto, e della chiocciola aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico, o pure le ſue particelle dieno il lor movinento al timpano, e'l timpano le com munichialle particelle dell'aria, qual falfamente inn.itu chiamaſi, e queſte poi alla membrana, che veſte la chioc ciola il compartano. Ma ſopratutto inveſtigar loro cer tamente ancora conveniva, come le fibre de nervi dell'u dito, rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali elleno tocche, e percofie furo no, facciano sì, ch'ella la sì varia, e táta diverſità deluo ni ne venga ad imprendere; e come l'anima poi da una ſorte di ſuono noja, e da un'altra diletto tragga; e come da ciò s'ingenerino in eſſa amore, odio, ira, timore, ed Bb altre, ed altre paſſioni; e come queſte finalinente, o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue, e dell'altre diſcorrenti ſoſtanze del corpo, o allargando, o riſtrignen do, o chiudendo i pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li, come d'ingenerare, così anco di menomare, c di eſtin guere parecchie malattie. Mache che ſia del filoſofar, ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo; a ' qu ali per lo ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente comprendano, s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono, e ſi ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo colla muſica, ecol ſuono eſtingucſse. Mapoimaggiore senza filo ſi prova la virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole,come quelle, che ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono. Onde non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro, che la muſica dagli Egiziachi, non ſolo inutile, ma nocevole anzi che no venille ſtiinata, Tu'vuge σακην νομίζεσιν, ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio dice: la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini: ettes, ¿ ' atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις. Perché non eeglia mio cre dere affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto, e raffrenar le menti offuſcate, ed alterate dall'ebbrezza. E ciò, che narrafi di Terpandro, e d'A rione, ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano; e di Pittagora ciò, che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto infiammato d'a moroſo foco, l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate, ad un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio arreſtato; e di Timoteo, che con furioſo canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a prender l'ar: me; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di bel nuovo; e di Aſclepiade, che le impazzate men ti, e da furor turbate, aveſſe con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte; e del medeſimo, che a ſuon di tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito. Ma non così di leggieri pe I ) ſembra,che preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella, il quale afferma,eſſere ſtate guarite le piaghe perla muſi ca; ed à ciò, che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore, e le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate. Ma che Talere poi colla ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz, coſa ſembra affatto lontana dalla verità. · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni, e l'armonie framettere; come quelle, che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado; e talora incoraggiargli a più pericoloſe impreſe. E sìi Geti uſa rono le Cetere, e le Siringhe: i Creteſi ', le Lire: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali pria di comin ciare la miſchia, di cantare un melos qucſti eran uſi, che Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza dell'aria,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano; e l'eſſer ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato; onde diffe Polibio, che fin dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni, i quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei della Patria; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente diviſando; e ne fa anco parola Atenco.. Vennero, ma non guari feliceméte i Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati, i quali le maraviglioſe pruove, che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo, e non ſap piendone la cagione, ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giammai penetrar potendola, li fecero a credere, che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse; anzi vi ebbe di van taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò, non ſo lamente ſopra gli animali, maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare, e fin ſopra i Cieli, e nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono, che colà giuſo nell abiſso calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i latrati, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori: raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te, aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio, ne le membra a Siſifo dal grayoſo ſaſso sfra cellare; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute poma arrabbiaſse Tantalo. E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì poteſse fa re, e tanto, che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara Euridice otteneſse di riportare; il che vagamen. te deſcriſse l'ingegnoſo latino poeta. T alia dicentem, nervofque ad verba moventem, Exangues flebant animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam: ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas: nec regia conjux Suſtinet oranti, nec qui regit ima, negare: E per tal cagione altresì,ad imitazione di Teocrito, Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina, vel Calo poſuntdeducere lunam. Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis: Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro Poeta puo tè far dire alla Ninfa, dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal Giella Luna al mio cantar difcende, S'agghiaccia il foco, e l'aria fifa dura, Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra, ed ho fermato il ſole. Ma cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori de'Fenici, che non ſolamente nel canto, manelle parole ſole ancora una tanta virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono, e di quelle in medicando fer vivanſi: onde fi legge in Omero,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν Εχεθος: cioè, Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe, e prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue, che già fuor n'uſcia Conparole d'incanto entro le vene. Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti, per cacer de’latini, ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero, infra' quali il Taſso padre finge, che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito, cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti, Gli fanò in breve tempo ogni ferita. E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in tutt'altre malattie: infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab occultis tribuens miracula verbis: e priina di lui Quinto Sereno: Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle Vana fuperftitio credit, tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo, attenendoſi a cotali fraiche, e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe, maancora quei, che tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa mofiflimo Peripatetico, per tacer d'altri di minor liéva, con vaniſſimi ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag gioancor giudicano, che le parole eziandio ſcritte, e ad doffo portate, non ſolo a guarire i mali, e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade, e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti, co me di Ferraù narra l'Arioſto: Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato, Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del ſuo valorofifſimo Orlando: Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato, furrche in una parte: Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni ſtudio sed arte. Duro era il reſto lor,come diamante (Sela famadal ver nonſi diparte ) E l'uno, e l'altro andòpiùper ornato, Che per biſogno a le battaglie armato. Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo, e l'Arioſto, la novella d'Orillo, il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone, ed Aquilante ſu le ſponde del Ni lo, non mai da que’prodi campioni potea trarſi di vita: imperocchè per virtù diparole,e d'incanto, egli era sì fattamente ciurmato, che dopo eſſere ſminuzzato, e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da per ſe acozzandoſi, -ri tornava, ſicomeprima a vivere, e a combattere; onde cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo, il petto,e l'anca Piùminuto il tritaſi, che'l panico, 6 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti torna vivo. Famoſa ſenza fallo, e chiara al mondo fe la medicina de Traci il valencillimo medico, e filoſofante Orfeo, come colui, che per teltimonianza di Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai; e fu il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia, dell'erbé ſcriſfe: primus, dice Plinio, omnium, quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit. Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito delle fibre, e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli antidoti, e molti, e molte altri libri di coſe naturali; ſenzachè non ſi può egli di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la dolciſſimaarmo nia del ſuo canto, e per altre ſue rare dottrine, maſlima mente della politica, di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania, fù egli un gran maeſtro, molte, e molte di di quelle coſe inſegnando, le quali alla vita, e al regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto, e tenuto a capitale per le molte, e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo, che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo affatto, e vano fia ciò, che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol canto riſuſcitata: non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori, che Orfeo la riſa naſſe, preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo.Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò, dottar non ſi potrebbe, che egli non foſſe ſtato della Chimica molto, e molto avviſato, mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi richiede per lo gran magiſte ro, che deſcritto era, come ſi finge nel libro, che Orfeo con gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo racconto del Vello dell'o ro:, il quale, come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio,e Suida, e Varino Favorino, altro veramente ei non era, che una pelle, nella quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti, e ſpezialmente la muſica,e la poeſia; nelle quali dilettavali aſſai Orteo, e l'eſſer egli ſtato, CO me Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco, e no per altro, che per iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti, che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano, mi dan per avventura giuſta cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da mé, che altri credevalo;ne tāta loda meritar dovel ſe, quanta in prima guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici, enon eſperti antichi, iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe, nonnes venivano troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi foſſe delle doctrine di lui apparare, e diſcerner ſuoi librilegittimi da non veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no, il quale di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi tagora, e di Platone concordevoli argomentolli. E più avanti è da dottar della ſua dottrina, e valoria; percioc chè non è egli vero ciò, che il ſemplice vulgo parimento di lui credeva, efſer le ſue azioni, ed andamenti tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità di vita ſempremai ſtati accompagnati; conciofoſſe coſa, che egli dimoltes malvage uſanze, c cattive vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe: Sacra Liberi Patris, dice Lattanzio, pri mus Orpheusinduxit in Greciam, primufque celebravit in monte Bootie Thebis, ubi Liber natus eft. E di vantaggio ſcrive di lui Ovidio: Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores In teneros vertiſe mares: Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio, che valoroſo lor Principe, da alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo, e diſcepolo di Pittagora. Ma della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco che appo Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta,ne la teſta ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser la ra gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci, a’quali non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la medicina, cioè al tutto, il qua le non iſtando bene, è imposſibile, che qualunque ſuas parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ', ciaſcun noftro bene, o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo, e da quello conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca; e però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc; acciocchè bé poi ne ſteſſc la teſta, e tutto il corpo.Mal'anima egli volc va, appo Platone,che da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni, e indirizzamenti, i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro, e ſigno reggiante l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli; e quindi 1.2 ſanità al capo, e a tutto il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº itu'sa's Guo ας, τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι,ής εγγενομένης, και παρέσης ράδιον ήδη είναι την υγίειαν, και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων, Ma non facea meſtieri certamente di molto ftudio, e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja sì fatti di viſamenti, che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più idiote perlone. Nevero egli ſi ritrova, che le malattie tutte del corpo, dall'anima dependano, o ſem - prc, chepatiſce una parte, debba neceſsariamente patir il tutto, o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del corpo, ſano, & una, o altra parte ſolamente magagnata. È ciò avvenir tutto dì live de,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte offeſa ſola, ſenza badar ad altro, quella feli cemente ſi riſana; e ciò conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto, dicolui, che portar non potendo il troppo acerbo dolore, che per la podagra pativa in un de Сс diti del ſuo piè, venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo, ne più mai in altro luogo poi venne gli la podagra. Macon gran prontezza venne abbracciata, e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di medicare da'Greci medici razionali; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri medici ancora, tra per far pompa di quel ſape. re, ch'effi non hanno, ed ancora per menar la cura alla lunga; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al male; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono, le quali al la malattia punto non s'appartengono; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle opportunamente: acciocchè prima il tutto, e le parti principali medicate ſieno; e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo; e immaginando follemente ancora, che ciò far conaltro argomento non ſi poffa, i lor ſalalli, e le ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza, mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada, fino a far infralir gli ſpiriti, e preffo, che amorte giugner i malati; ma ben ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella, o altro menomo Empirico ', cui il vero rimedio ſia conoſciuto, di sì fatte lor cianceri mangan beffati, e ricreduti. Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere. Fabbricò egli un belliſſimo palagio (co me narra Erodoto, comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale convitava a mangiare la gente più principale, e lor perfuadeva, che ne eſſo, ne alcun di co loro, che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita, eterna beatitudine goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni; nel qual tempo con pieto fi ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi ciò, in vita ritornato; e queſto, ed altro egli ebbe agio di fa. re, perch'era in grandiſſima gloria ſalito, tra per la medi cina, e tra per eller qnci popoli groſſi, e materiali ſoprá modo; intanto, chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya: ma ancora dopo mortc in cotanta, maraviglia fu tenuto, che venne da loro per Dio adora to; ed a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto, che giunti ad un ſoli tario, ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal, ch'eglive niſo a cader giù loura tre lance a tal effetto acconce; il quale fe immantenente ſe ne moriva, eran ſicuri, che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande; ma ſe per avventura morto non foſſe, n'era accagionato, coine indegno dell'ambaſceria, e reo, e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera fare eleg gevano, al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli, che valevoli foſ ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de' popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare, avendo in pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia, e la Libia, e l'Oriente tutto, e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano, e fin l'ultime regioni della terra penetrate, e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina, che non già monarca, e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato. E nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe, che per tacer de Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al nipote, huom di loro nazione propiamente Сс 2 inveſtirle; ma ſi ben non ſeppero con loro novelle la coſa comporre, che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede. re ciaſcun, che de'tempi di coloro faceſſe ragione; per ciocchè egli è coſa manifeſta, che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci foſse Bacco vivuto, ſecondamente che s'avviſa in Euripide, introdu cente nella Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co, fol perchè egli antico fi foſse: Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα, χρόνων Κεκτήμεθ', έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed Ateneo,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco nella lapida del ſepolcro di Nino, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima de'tépi di Cad mo; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani, eſſer Bacco, non dalla Grecia, comealtri crede, ma dall’Affiria nelle loro contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra ſenzafallo il ritrovamento del vino. E ciò fù per av ventura, che adoperando cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e diciò avvedutofi egli, a bello ſtudio poi la colaj provaſse, eriprovaſse, finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo, e giovevole al genere umano l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar gamente il concedeſse. Ma forſe egli, ſecondochè lo immagino, per via della Chimica ritrovollo; la qual, ficome in Egitto, così anche doveva allora in quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col digeſtimento, e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano. E potrebbe eſser’anche, che Bacco apparato l'aveſse in ciò, che lo frutte, da ſe medeſimeforinentar fi ſogliono, el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino acquiſtare; avvenen. do ciò per opera de'movevoli ſommamente, & acuti cor picciuoli, i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajutati da cotali atometti di quelli, onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco,e che in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima foſtanza, ch'anima del vino può dirſi, e da' Chimici, che colla diſtillazione ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre Noè; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri trovato,per travalicamento di tempo, ſmarrito: cche Bacco poi da capo il rinveniſſe. lo fo, che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a divedere,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè, e Bacco; ma ciò trala fcio, per non effer egli in modo alcuno da credere; per ciocchè per quel, che comprender ſi poſſa dalle ſagre car te, non guerreggiò giammai Noè, ne altra impreſa fece, che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca. E molto meno è da preſtar credenza al Voſſio padre, il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato, giudica, non altri eſſere ſtato Bacco, che'l ſanto Moisè; perciocchè Moisè non fu mai in India a guerreggiare, non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al noſtro propoſito dico, che ciò, che ſifacefle in inedicando Bacco, e quali altrimedi camienti egli adoperaſle, e come co'l vino guariſse i mala ti, e coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe, non; ne abbiamo al preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna. E avvegnachè valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita chiamato, non però di meno eſſendo egli avido di loda, e vanaglorioſo aflai, pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale, vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure, con far veduta, che qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse; perchè ſerviſſi delle divinazioni e de facrifici, i quali tra per queſto, e per la ſperanza di veni re anch'egli dopo mortequal Dio dagli huomini celebra. to, nell'Alliria, e ne'paeſi dalui ſoggiogati, in primaj introduſſe.  1 Ante tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber, & in gelidis berba reperta focis. Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi. Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti, Deque triumphato viſceratoſta bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi, ſe rozza veramente, e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe,o ſe talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò, che da Agatorchide per teſtimonianza di Strabone, e di Diodoro, che da lui tolfer di peſo ciò, chc ſcriſſer delle coſe degli Arabi, narrato ne viene. Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro piante, diffolvendoſi, e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni, e malattie. Soggiugne egli poi, che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi, e del bitume davan riparo: da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε, και μη τικής δυνάμεως, και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ την.Ρcrche fembra ad alcuni, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican ti da quel volgar ſentimento, che l’un contrario, per l'al tro curarſi debba. Ma che che ſia della verità di ciò,tan to, e tanto oggi meſſa in dubbio da’moderni medici: di co, che ſe rimedio pur quellera, certamente era cgli più acconcio a conſervare, e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani, che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio giudica, esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina; perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di ſoverchio turati, o ſpalancati i pori degli animali, e oltre al convencvole ſtemperati. Maccrtamē te è da dire, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie l'Arabia, quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi quivisì fatte malattie, fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di que'tcmpi; o alti vode,che dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò della tram { curaggine di Strabonc, e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi, e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina, Io quanto a me confeſſo affatto non ſapere; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di quel, che comunemente ſi giudi ca, quivi eſſere ſtata quella ritrovata: e ben priina aſſai, che Cadmo le priine lettere vi recaffe; perciocchè per le gravi, e crudeli malattie, che continuo quella infeltava no, ſommaméte allora faceva la medicina alla Grecia me ſtieri. Il che fu anche cagione, perchè con tanto ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e non fu egli al mondo,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare, nazione alcuna, che cotanto vis'inviluppal ſe, quanto la Greca. Perchè ſembrami egli certamente imposſibile, che nelle tenebre di tanti, e tanti paſsati ſe coli, e da poche, e non ordinate memorie, che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe; ſenzachè fon le loro ſtories tutte ſofperte di falſità, e millantatrici, ccon l'uſate lor favole, e novelle ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto i Greci ſcrit ture pubbliche, nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe. memorie delle coſe avvenute, oguiſcrittore poteva,come più gliera a grado narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e convinto di bugia. Arro ge, che i Greci, come afferma Dione, erano così avvez zi al piacere, che ſtimavan vere tutte le coſe, che narrate foffero con eleganza di ſtile; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi deſsero, chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere, fenza durar fatica nell'inveſtigar la verità de' fatti; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano, meſco. lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie, di fare altrui delle loro ſtrabocchevoli impreſe maravigliare; e altri fi adoperavano in ben comporre, e inviluppar le coſe per coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò, che di ma. gnifico, e di pregiato andaſſe attorno. Così il comun der Greci le glorioſe geſte in medicina d'Oſiri Egizio, perta cer d'altre ſue impreſe, che non fanno al preſente a noſtro propoſito, al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro, e illuſtre co' fat ri di Bacco Afirio. Così ancora quanto di grande, e di glorioſo in medicina operaſle Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente attri buì; laſciando così in tanti volumi, e confuſioni il pren. derſi cura gli ſcrittori di rapportare il tempo, in cui par citamente quegli antichi medici Greci viſſero, de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche contezze,che malagevole, anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene. Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo, faronne una breve, comechè confuſa accolta, eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà, ter rò ragionamento di ciaſcuno. E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte del medicare, che ragionevolmente giudicarono, aver lui meritato d'eſſer medico diGiove, e cotanto lafsù pregiato, e tenuto a capitale, che più dicia fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero. Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων, e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea detto, i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di Peone: Tlainavos dirigevédans. Il che ci può far credere, che Peone foſſe Egizio, e non Greco di nazione, ma inſieme con gli altri, che teſtè dicemmo agli Egizi da'Greci rubbato; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone, che ciaſcun medico dopo di lui giudicava, ſe eſser ſommamentelti mato, e commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie; e peonie parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina; perchè cantò il Poeta Et fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis, cioè a dire, come avviſa Servio, à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le mani d'Er cole grayemente ferito: Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων, Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone appreſso gli antichi in maggior pregio aſs:ri del medeſimo Apollo: comechè alcuni vanamente giudichi no, la modelima perſona eſſer Peonc, ed Apollo. Ma ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce, che Omero nel ſuo maggior poema, di Peone, e d'Apollo, come di due diverſe perſone ſeinpremai farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo, ch'Eſculapio; nel quale crrore cadde poſcia Artemidoro,quando diſse: Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces: imperciocchè nc' tempi d' Omicro, Eſculapio non era ancora deificato; trattando Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice, in favellando di Macaone, che egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico: Φώτ' Α ' σκληπιά υον αμύμον G- ιητήρG-, Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro poſito della medicina, dico, che di Peone non s'hà ine moria, ch'Iomiſappia, niuna, fuor ſolamente della Peo nia: Vetuftifima,narra Plinio, inventio paoniæ eft, no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui una fola ferita ſaldaca. Perchèè cgli a buona ragion da crede re, che Peone per dovere a cotanta gloria, quanta egli acquiſtonne, condurſi, tutti i buoni, c malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca, e fem, D d plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic. E per av ventura egli ſi fu il primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia: dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje veduto,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando, e volan do accorron coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle; ſen zachè dicono correr colui manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini, ſe digiorno la coglie. Novella ſecondochè giudica Plinio, a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar maggiormente ammirazione alla coſa. Ma non che ciò ſia vero, anzi le virtù tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate, e da Peone forſe da prima a quella attribuite, ora in verità tutto vane, e falſe ſperimentate fi ſono: ne ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono. Perchè colſer cagionc alcunidi dubitare, non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe, che quella cotanto tenuta in pregio dagli antichi, e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri giudicano effer veramente quella; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono, che ſia in certi tem pi ſolamente, e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre. Ne è da tacere in queſto propoſito, quanto arditamente uccellar ne voglia Galieno, il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato, che la radice della Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta, non ſolaine se glidifenda dal mal caduco, ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc, e trapaſſando a dir d' Apollo, creduto comunemente Dio della medicina: egli è da ſapere, che molti Apelli già furono in Grecia, e cctante, e sì diverſe, e dal vero lótane ſono quelle coſe, che per gli ſcrittoridilor ſi narrano, che ſarebbe certa mente un logorar fuor di propoſito il tempo, il venirle qui ad una ad una a raccontare. Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche, e confuſe memorie alla ſua me dicina pertinenti, che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono. E in prima, quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina, quale è quella percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo hanc berbam,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe; inper tanto non è perciò egli da eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina, ficome dal vula go, or follemente ſi giudica; perciocchè in quel medeſi mo tempo, ch'e'fioriva, molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone; il qual certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore, ch'egli inedefino conoſcendolo tale, volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne la medicinaapparaſſe, come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai. Senzachè narra Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli occhj, non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo, Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες: έκ δε νυ Φοίβε, Iyisod dedeany, ardermoor Java Toio: ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della gente volgare, non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò, comeſi voglia: lo quanto a me immagi gino, che Apollo, o avendo egli col ſuo ſtudio, e colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole, o pur da qualche vegliarda appreſa aven dola, a quella adoperare con ogni ſuo ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire, nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo, e dappoco in medicina, e'l ſaper ſuo manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal foſſe ſtato anch'egli Apol lo, in ciò certamente ravviſar fi potrebbe, ch'egli poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo, quella parte della medicina a imprender ſi dic de, la quale intorno agli antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 poco in quella ancor profittando,peraltre ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi, apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita, cingannevo le del vaticinare. Quindi andato in Delfo, la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la ſerpe ingannevol mento ucciſi, la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu dell'oracolo, ingombrollo di preſente, e cominciovvi in un tratto maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole: Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός, του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών, το μανλείον παραλαμβάνει. E queſto vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo, che abbia ſaputo la coſi. Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato nell'arte de' vaticinj da Pane, che diede le leggi agli Arcadi, ſe n'an daffela dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di quel luogo chiamato Pitone, ribaldo, e terribile huomo,che per la ſua grandearroganza dicevali se zw,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’ vaticinj, ſe ne impadroniſſe, e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli. Coſtuma poi ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi, c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri, i quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro, vezzatamente davanj le riſpoſte inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto, chequalunque caſo poi n'incontraſſe, ſipotea ben dire, eller quello verainente ſecondo il lor divino predicimen to ſeguito. Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo, c con duplicità, delle lor malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe. E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò Apollo, che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 perare, che di più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante, e poco del meſtier della medicina confa pevole reputato. Ne per pruova altro che talcertamen te potevano giudicarlo, riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua ſorell.2 (la qual medica ancor ella, ritrovò, e diede ilnomeall'Artemiſia) morirſi a centina. ja i miſeri malati, ſenza mai guarirfene niuno. Infra’qua li furono i figli della ſventurata Niobe; di chic eila cotan to dolor preſe, che mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti, ſenza alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò; perchè poi preſer cagione i Poetidi favo leggiare, ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe. E quinci nac que poi, ch'eziandio dopo che furono Apollo, e Diana nel numero degli Dei allogati,credevaſi comuneméte, che tutti quegli infermi, che capitavan niale delle lor malat tie, ſe femmine follero, perman di Diana, e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro; perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ κατέκτεινε. E’l medeſimo poeta finge, ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel campo greco; ne per altro, al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle mani d'Apollo, é ne ven ne giudicato Dio infernale. Qual ſi foſſe egli poi ne'co ftumi, il taccio; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie, e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto, per fua mano, e a Lino. Tanto mipar, chedebba lo ac cennare ciò, che alnoſtro propofito ſi conviene, cioè, ch ' cgli avvili da prima, e profanò il ſanto meſtier della me dicina, inſegnandola ad Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità, e l'onore; perchè ella co sì preſso Ovidio fi vanta, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille med fpolium virginitatis habet; Id quoqueiaétando: rupi tamen ante capillos, Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas, aurumque popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt. IR. L:Ipfe ratas dignam medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus. Quècunque herba potens ad opem,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe,mea ef. Ma trapaſsando a Melampo: grande nel vero, e non ordinario fu il pregio, che guadagnoſli oglicolla me dicina, mentre oltre alle figlie di Preto, egli guarà an cora della ſterilità, per quel, che nc narri Euſtazio, Ifi cle, colla ruggine del ferro; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici, maſſimamente di que' tempi, per più ragguardevole render l'opera, facefle egli veduta,do po aver ſacrificato un bue agli uccelli, con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua parte, ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe, che la ſpada, colla quale Iflaco té tò d'uccider lficle, e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio, l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano intendimento fornito, e che egli for ſe il primo, che cominciato aveſſe a medicar nella Grecia co’minerali. Perchè agevolmente porraſſi argomentare ', l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo: comc che per loro poca uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente diprima lieva, detto fia, che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe. Ma come ciò avvenir poſla, che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la ſterilità dall' huomo, e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare, egli non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi: alla quale ammendare fa certamente gra diſſimo proil ferro, e maſſimamente la ſua ruggine; la quale oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare, che la limatura diquello talvolta apporta, el la preparata dagli aliti acetoli del nitro, e del fal ma rino, che continuo per l'aria diſcorrono, i qual eſsendo più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno, più cfficace, e profitcevole ſi rende di quella ruggine, che per ! man de'Chimici maeſtri li lavoraziinperciocchè è più accô. ia a meſcolarſi colle ſottiliflime, e acute particelle, che travagliano le viſcere. E di ciò fenne più volte pruova quel celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio. Ma ſoſpettar p avvétura alcú potrebbe,che o nell'Egit to, o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle; percioc chè, focondamente chenarra Erodoto, egli dell'Egitto alla Grecia, inlieincco'ſacrifici di Bacco, molte, e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes oφoν, μαντικήντα έωυτή συσή σαι, και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά απηγήσασθαι Ε΄ληση, και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά. Tanto, e tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone, che non ſolo all'indebolite parti del corpo, come Maſſimo Tirio racconta, con efficaci ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi ancora utiliſime medicine appreſtava. Ne ſolo fu cgli (per quel, che n'avviſi Stafilo ) eccellente in filoſofia, e in aſtronomia; ma valſe ancora affai nella mu fica, e in modo, che ſeppe, come il medeſimo Stafilo, e Boezio narrano, parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di ſpiare i ſegreti del la medicina, che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan doffene aid abitar nelle ſelve, per poter ivi a più bell'agio la natura, e le complellioni dell'erbe inveſtigare; nel che s'adoperò egli si bene, che inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri inventor di tutta quanta la micdicina fu detto; e in cotanta fama, e grido crebbe, che non iſdegnarono (come narran Filo ftrato, e Zezze) per appararnela medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio,oye egli ſtanziava, Telamone, Peleo, ed Achille, e Giaſone, ed Ariſteo, ed Ercole, c Teleo, ed altri: huomini di gran pro, eva lore; i quali, coine laſciò ſcritto Maffino Tirio, egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando, e nelle cacce, e nel corſo, facendo loro giacer nella nuda terra, e per burrari, e per aſpre vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli; e doppia utiliti da tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini; per. ciocchè non pure il modo di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano. Neè da tacere, che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze, media car ſoleva anche i bruti animali; anzi cgli li fu il primo a ciò fare; e imperò venne Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia, comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli, coine narra Apollodoro, relicuita la viſta a Fenice, il qual fu poi un de ' compagni d'Achille nella guerra Trojana: cù. το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος. Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις, βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora par, che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato;poichèdeſiderava,ch'egli tornaiſe in vita, acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone, perciocchè egli pativa del mal della pietra, co me dice un'antico Scoliaſte di Pindaro, o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας, et Κρεαν του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες, ζώειν τον απικόμδυον, Io vorrei ch'il Filliride. Chirone, (Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ Χείρων, και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν, ατήρα του κέν μιν πίθον, και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών, Or ſe ne l'antro fuo foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato, Saria mia voglia inteſa A dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali, ch'induce Eſtremo caldo, bai didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia, che'l antiche ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic, o perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone, come vogliono Euſtazio, e Paulo da Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo, che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate, com'eſtima Galieno. Ma io, ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di leggierimilaſcio trarre, a cona feſſar il vero, aſſai dappoco, e rozzo parmi, chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia; perciocchè egli l'uſo del ta ſto, e le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva. Perchè ragionevolmente immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire, perchè Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle; e sì fattamente, che vano riuſcì tutto il ſuo ſtudio, e ſapere, nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il dolore acerbiſsimo, che quel le gli cagionavano; intanto che a morte poi ne divenne; comeche alcuni dicano, ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille. Ma vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa, enegli antichiſecoli celebrata. Tiene Eſculapio, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più orrevol grado in medicina, che inedico giammai aveſſe; intanto che meritonne quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe, e di gran lieva ſi narrano, le quali traſandando lo, alcune diquelle, che alla medicina s'ap partengono ſol brievemente dironne.Già dicevam di lui, eſſer fama, che primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole poi all'eſperien za, e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di sfenne affatto, el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte, cancellate in tutto, ed annullate Еe avrebbe, ſe di ciò tare gli foſse avanzato tempo. Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente inteſo alla Cirugia, ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso.Ma ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il libro detto in troduzione, overo, il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse; perciocchè quivi leggeſi, ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i non ſolasiente i feriti, ma i febbricitanti ancora, c que ch'entro d'altre malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες, και πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι, ή χερμάδι τηλεβόλω, À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas, και Xepewo, aurons amor, áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς αμφίπων, τους δε προσανία πί νοντας, ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και τους δε τοματς έπασιν ορθούς. Quindi veniano a lui le ſchierea volo De’languenti infeliciegri mortali, O traejjero in fen fiftola,o piaga, O dapietre, odaferro aſpra ferita, O pur nafceffeil duolo, Da'diſcordi fra lor femivitali, Ogni dolor, ogni tormento appaga: Porge con molli incanti a queſti aita, Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna, Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia, Drie 1 1 1 Del Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra, e fero duol travia, E prima l'aveva chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων. Ffculapio s'appella, Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson caccia, e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò, che dice P12 tone, ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina, la quale ſuole il cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare; perciocchè nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi. chevoli, e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e raccheti le contele, e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando; e queſte diſcordá ti coſe vuol egli, che ficno il freddo, e'l caldo: l’amaro, e'l dolce: il fecco, e l'umido, e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in medicina Eſculapio, certamente è da dir, che troppo ftrabocchevoli le lodi immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto; -e ben ne potrebbe egli a buon concio eſſercontento di meno; imperocchè, non che egli l'intero compimento aveſſe giammai dato alla medicina, come Erodoto immagina, anzine men la pri mabozza, per que, che fi ſappia, certamente le dicde.' E che mai potrà il medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare, o che queſte nel cor po umano ſi trovino, ſe poi più avanti non ſappia minuta mente, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo, onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga, in che la lor natura conſiſta, con quali argomenti poſſan porſi d'accordo, come vuotarli, qualo ra lien di foverchio rigoglioſe, e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora piggiorino,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora infievoliſcano; che per altro quel, che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio, ad ogni huom di contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto. Affai rozza dunque, e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina, ne sì grandi, e rag. guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice; e ſc cgli oltre all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci, ei bruti molte, e molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto, oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava, o per trar fuora i denti dalla bocca, che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria, co mechè Cicerone ad un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice. Aeſculapiorum primus Apollinis, quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe dicitur. SecundusſecundiMercurii frater: is fulmin percujus dicitur humatus effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe:qui primus purgationem alui, dentiſque evulfio nem, ut ferunt, invenit. Ne ſembra punto vero quel,che Diodoro dice d'Eſculapio,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse; onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i morti; imperocchè Strabone, graviſſimo autore, e degno ſenza fallo, che gli ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono, le cure tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe dire, ſe non fe, cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei, perchè l'arte della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua groſſezza forbita: quoniam adhuc rudem, a vulgarem, dic'egli, parlando d’Eſculapio, banc fcientiam paulòfubtilius excoluit, in Deorum numero rece ptuseſt. Convenne adunque certamente, ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse; imperciocchè cgli,come Pindaro dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con giunterie, ed altri rei artifici andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo (il che mol to ajutar ſuole i medici, ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo liberamente a ciaſcun, che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che giugneva prometten do le maraviglie. Così egli vanagloriando per tutto, ſe non huono mortale, ma celeſtiale Dio eſser diceva, e millantaya temerariainente il ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti. Le quali arti, e giunterie, acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli, che l'iſpida, e folta barba nudrendo, e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole trovato crcdito. E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili, che ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso. Il che diede forſe cagione a Luciano di far dire da Momo ad Apollo, ch'egli non operaſse come fanciullo, ma favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio, il qual così grande, e lunga, e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας, αλα λέγε θαρρών ήδη τα δοκάνα, μη αιδε. σθεις, αγένειο» ών δημηγορήτις, και αυ% βαθυπώγωνα, και ευγέ ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole, ch’Eſculapio a quella guiſa appunto, che a'noſtriciurm.dori veggiam fare, portaſse ſecole ſerpi: e che per riſparmio camminaſse a piedi: e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe, e'l baſtone; ſopra le quali coſe poi ſognate ſi ſono tante, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori, chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare. Ma vie più dopo inorte crebbe in fama, edono re Eſculapio, tanto era folle, e cieca allor la gentilità: perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia ricchiffimi tépj, co maraviglioſe,e belle ſtatue dimarino, d'avorio, d'argento, e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie; e sì, e tanta era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte; i quali # di notte, edi giorno quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto, dove del ruffiano dice Fedromo a Pa linuro: Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano; e così ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi, fcaltriti, facendo veduta dinulla ſaper dimedicina, o del male, che coloro avevano; quindi appreffati all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno additaſse il rimedio;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio, c per li lunghi ragionamenti, che dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti, i quali avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver inteſo quel rimedio fterfo da'incdici,o da’altri. Ma pur v'aveva fra' Gentili huomini di ſcalcrito intendimento, chea ciò niuna credé za preſtavano, come Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio,che s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred do, egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo, c che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato, le medicar avelli voluto un bue? E ſe mai interveniva, che alcuno (o che'l rimedio, o ch'altro ca gioné ne foſſe ) guariſſe, oltra’doni, che coluiagli altari offeriva, toſto alle mura un'effigiata tavoletta, a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a gloria d'E ſculapio; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj rimedj; c delle dette già tavolette, anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni; delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra, in cui fu regiſtrato, che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta, che veniffe, e da tro altari piglialle pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo liberato colui, lefe le grazie alla prefenza di tutto il popolo, αίμα αναφέροντα Ιαλιανώ, απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών, καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ. φας, και εσώθη, και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina, foſſe così ſtato valoroſo Ne l'ardue impreſe del ſanguigno Marte, non avrebbe certamente ripieno il mondo delle ſue mara viglioſe prodezze, ne ſtancate di tanti, e tanti ſcrittori le penne per celebrarle. Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire, o a poco intendimento, ch'egli avuto avef ſe; perciocchè logorò egli gran tempo, egran fatica ad imprender la medicina; e fu sì profondo, ed acuto il ſuo intendiinento, ch'ei ſi fu il primiero a comprendere, che per ta fimilitudine, la quale i Chimici chiaman ſegiratu, ra, ravviſar ſi poteſſe la complesſion delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal l'Idra, ricorſe per guarire alla Dragontea, la quale coll? Idra ha alquanta ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo, o per più ragguardevol renderli appreſso la gente, o per altra cagion, che ſi fofse, infin. geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato: il qua le l'aveſse impoſto, ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole; perciocchè quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra,colla quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto medicare, eguarire. Io non ſo, ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto avanti portato, che foſse giunto a penetrar, che la Dragontea col ſuo fab volatile acuciſſiino, del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di ammendare l'acetoſità, in che co filte il guarir delle piaghe; ma la medicina non era allora tanto oltre paſsata, che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze ſcoprire. E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC, per la quale Ercole non potè nella medicina sì eccel lente divenire, e che guarir non poteſse egli le piaghe al fuo maeſtro Chirone, comechè gli veniſse fatto di guarir la moglied'Achille preſso a morte ridotta; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte, averla lui da morte riſucitata: E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti, iquali così di lui confuſamente ſcrivono, che nulla più; dicendo Varrone, eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici, altri tre, altri due, e Ci cerone ſei;ed evvi ancora, chi porta opinione, non eſser mai ſtato sì fatto huomo al mondo. Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo, o pur di Giove, come altri giudica, non ne vengono ſcritte, per quanto lo ſappia, ſe non certe poche, e confuſe memorie; ſolamente ſap piamo da Cicerone, e dallo Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio, il miele, e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ. φίον εξεύρεν, ώσπερ, και το μέλλG-. Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino col miele, per quel che dica Plinio: Ari Seusprimus omnium in eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte provenientis: e non fi dee tacere ciò, che d'Ariſteo dice Giuſtino: Arifteum in Arcadia lase regnaffe, eamque primum, apum, á mellis ufum, &lactis, &coagulihominibus tradidiffe, folftitia. leſque ortus, do federum primum inveniſe. Ma quantun que il filfio, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù, e la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero, abbiano recato gran giovamento al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo, non sò locome ei ſi poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto avvedimento fornito, che ſeppe con l'uſate giunterie,e menzogne riparare alle diffalte del ſuo poco ſapere; e raccontaſi di lui da Teofraſto, da Apollo nio, da Cicerone, da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo furor della canicola gravemés te percoffa, sì che feccavan le biade, e gli huomini mi ſeramenre morivano, eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo domandato, come ſi poteſſe a tanta calamità ri parare, n'aveſſe rilpoita,che proccuraffè egli prima di pure garcon vittime, e ſacrificj l’Ilola, la qual era così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario; e quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto, ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente compenſo; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito,ſpiraſſero i promeſli venti, e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w?quell'Iſola cagionati; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço, ed Apollo Agreo chiamato, e frale ſtelle in Cie: { o collocato. Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo, ſappiendo di certo, che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono, cd accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi, che l'invincibil fortezza d'un tanto Eroe; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le ſanguinoſe battaglie, ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior ragione, quanto più generoſo, e più magnifico ſenza fallo è il dare, che'l torre altrui la vita. E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés deſſe, che però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la medicina ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata. Quin etiam ſuccos,atque auxiliantia morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos, quid hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues, que caderes herbis Edocuit. Ff Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente ferito, volle effer ſolamente da Pa troclo medicato, perchè eglifoſse compagno d'Achille, c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato; Νίζ υδαπ λιαρώ, επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα, τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι. Ma ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella peſtilenza, che allor travagliava ſommamente il campo greco; e per aver anco ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri molto giovevole alle ferite, e ad altri parecchj malili ſperimenta; e ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva: Eft, rubigo ipfa, ſcrivePlinio, in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles, five id area, fiveferrea cufpide feo cit; ed in un'altro luogo il medeſimo Plinio dice: arugi nem inveniſe, utiliſimam emplaftris, ideoque pingitur ex cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi; avvegna chè altri vogliano averlo egli con l'Achillea guarito,ed al tri, con l'Achillea, ccon la ruggine del ferro. Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo, cheſi fappia infra'greci me dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura alcun ſoſpettare, e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo, non già alla feri ta di lui; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re, che l'atta d'Achille modelima faceva, e riſanava le feri te. Il che ſe vero foſſe, non moderno ritrovato, ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura, che chiaman ſimpa tica nclle ferite. Dice Plutarco, che Achille intendente foſſe del modo di guarir colla dieta, e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano, e li ripoſano, toſto triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono; e però dice che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per l'intermeſſo eſercizio, l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di Plutarco, Io non ſo, che gran coſa queſta fi ſia; ne per eſſa, ne per l'altre di lui narrate coſe ſi può dire in verità, che Achille gran medi co ſtato e’ſi foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti, e tanti valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente negando; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione; ma, ne queſti, ne quelli avviſano, chele ferite tal volta,eziandio più gravicpericoloſe ſenza rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor guarigione a pro della ſimpatica medicina. Io non ſaprei ridire ſe Palamede inventore di cotante; coſe, ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a filoſofare; in tanto, che ne venne appellato noivoo PG, cioè a dire il ſavio di tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda; quantunque Omero non faccia di Palamede menzione alcuna, o per invidia, che gli aveſſe, perchèegli era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone, ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà; impertanto li ſcorge manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero, eſſere veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza non puntominor d'Achille. Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato; il quale l'introduce una volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte, faccia meſtierimangiar po co, e affaticarſi molto, e che così egli avvezzati aveſſe a viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città dell’Elleſponto, ed in Troja appiccata, aw ni un de’greci noja mai diede; comechè eglino fi foſſero in Ef 2 peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto cotali avver. timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia non ha guari pienamente ſperimentato; e però di più dirne al preſente mirimarrò. La medicina di Patroclo compagno d'Achillo, e di Po dalirio, e Macaone figliuoli d'Eſculapio, che ſerbaraſſi eterna, ed immortale nella memoria degli huomini mercè del ſovrano poeta greco, che ſi diè cura di cele brarla: ſembra ad alcuno, che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe; e veramente a riparar i dannidellapeſtilenza, che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi leg. ge in Omero, che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai s'adoperaſſero: avvegnachè la cura de’ga voccioli, e d'altre enfiature, che ſuolo cotal morbo cagio nare, alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual coſa vien raffermata ancheda Celſo, allor che facendo men zione di Podalirio, e di Macaone, dice: Homerus non in peftilentia, neque in variis generibusmorborum aliquid at tuliſe auxilii, fed vulneribus tantummodo ferro, & medi camentis mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro buon nome in medicar quel morbo, cui non v'ha rimedio alcuno, e che l'antichità credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe; ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio, non ſolamente curò diverſe infermità: ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina. Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone, e per Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente comprendere. Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle labbra il ſangue delle ferite; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ' εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα. Sem.,per Sembrare egli potrebbe per avventura ad alcımno il ciò fa re vano, ed inutile, anzi per l'umidità della ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare, ſenzachè è ſtomachevol coſa, e pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io, comeil primo Baron dell'oſte greca, e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi poteſse ad una sì vile, e vituperevole opera. Non ſolo permet teyan poi coſtoroa'feriti mollidi fudore, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra, ed al frelco ventilar de’zefiri per riſtorar dolcemente la ſtanchezza; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch? egli fu ferito ciò fece: οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino molli di ſudore fiano,non che a’feritija? quali feoza fallo per lo minor danno inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia. Ponevano altresi medica do alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude, e ſem plici fenza eller punto confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti intorno al regolainento del vitto degl'infermi; eglino cibavangli di groſse cipolle, e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone; bem veraggio il qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di, e poderoſi vini delle Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ. E queſte fono le care, e falucevoli vivande, e beverage gj, che la belliſſima Ecamede concubina dell'antico Nem ftore dava loro; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo Macaone,ſenza conſiderare, ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che agevolméte ſeguir ne poteva Ma ben ſo lo, che di fomiglianticoſe, ed in pro, ed in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino ſomigliantiguiſe di sì reo, eſconcio medicar praticafsero; ma che Omero a ſuo talento le finga, poco eſsendo della verità informato; che ſe ciò vero foſse, lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro,affai ben conoſciuto; nihil unquam. ceciniſe, dice Pier Laſena, quod nun prudenter excogita tum,ex induſtria diſpoſitum, &in alicujus rei utile dixeris documentnm. Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole, a ſtagnar il ſangue delle ferite, o pure a ſciorlo, ove egli fia rappreſo, e corrotto; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag. gio a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire, che per lo lorotale aguto, oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che difender le ferite dall'accroſità, da cui certamente la febbre, e'l dolore, e lamarcia,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene. E ſe pure coloro uſava no con ſemplici radici, e crude, medicar le ferite, ciò era, perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli, e vigoroſe, quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto confarle, e ma cerarle, e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire, eſsere ſtate di tanta virtù, e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma raviglioſamente ſaldavano; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento alcuno di mangiare, o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa,che a' tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti, poco, o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe, mangiando in brigata; ſenzachè Platon dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel mangia re, e pel bere, non avevan poi gl'infermi biſogno, che regola alcuna intorno a ciò la preſcrivelſe; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere fuor di ragione; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua ftamento del ſangue, traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale dall'acetofità, per cui elleno marci ſcono; perchè cotal medicamento a'di noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser giovevole a'feriti, e utile aſsai; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani: da’quali per avventura Podalirio, e Macaone, oi loro più antichimacſtri ildovettero da prie ma appararc; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare?Maper me non cre do, che si facce difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse, deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o dal la famaerano rapportate, maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago, c più inır.zviglioſo il ſuo poem 1,0 per altra cagione; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo, imperoc che, ſe pur è vera la ſtoria, il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e valevoli a guarir le ferite, che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in quanto al Ciceone; egli è una bevanda in verità sì ſconcia, e mal fatta, che ſenza fallo non può ella altro inai, che nocuinentu agli huomini ſani, non che agl'infer mi apportare, che che ſi credan Plutarco, ed Ateneo, i qualinon avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne, che'l cacio, il vino, e la farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere. Vltimamente, le radici, e l'erbe non preparate, maffimamente l'Achillea, e l’Ariſtologia, colle quali molti antichi ſcrittori ſi credono, che Podali rio, Macaone, e Patroclo medicaſsero, abbondevoli ſo no d'umore acquoſo, e non ben digeſto, il quale oltre che infievoliſce il ſolfo, e l'alcaliloro volatile, in cui law virtù conſiſte, per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole.... In quanto poi al lavar, come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite, non è vero'ciò, che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero, appo il quale ſi ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni; ina di ce eglichiaramente, che l'acqua, colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge, che'l ſuo Mezenzio ſi lavaſſe le piaghe. Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat lymphis, corpuſque levabat. Nove, aphyſice, dice ſu queſto il chioſatore Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua, Oratio vera eft,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di favellare: ma un tal modo di mcdicar le ferite, con l'acqua lavandole, tut to che ricevuto,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci, onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento;laonde con più lag gio avviſo da’moderni medicanti leferite col vino, o col l'acquarzente, ovc,lor huopo ciò lor faccia, vengon lä vate. Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio, e Macaone, venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti, che furonodi ſtatuc, di té pj, e facrificionorati. Quelle coſe poi, che di Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino, elle fon tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi; ciò Zono,degli avendo rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al pericolo da un'avvenente paftore,e lu’l lido corteſemente accol to; e che poi; il Re di quel paeſe avendone coutezza avu ta, per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta; cui egli facendo crar ſangue da amendue le braccia, e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità rimeſſa; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del Cherſoneſo dotatala, data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città, una col nome della moglie Cirene, e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo, avellimo molto addietro fatto parole di Teſco, di Giaſone, di Pe. lco, di Telamone, e del ſuo figliuolo Teucro, e d'Erobo te: ora concioſliecoſachè ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli; e perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco, c Gor gaſo figlidiMacaone, e d'Anticlea, i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro Avolo materno, e come nar ra Paufania, lolevano gl'infermi corteſemente curare, e maſſimamente le dislogate oſla, o membra in buon concio rimettere; onde per grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati. Ne meno terrò lo ragiona mcnto diSoſtrato,di Dardano, di Cleomitide, di Teo doro, di Criſime, dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a' più baſſi, e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema, del quale Ippocrate fa parole nel libro della vecchia medicina;ritrovato,comepar ch'ca. gli porti opinione, da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero,che ne il caldo,ne il fred do, ne l'umido, nc'l fecco, ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino, o l'ecceſso, che vogliam dire, il qual per Gg ſoverchio di vigore, non poſſa eſſer dalla natura ſoprava zato, ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via; il quale ecceſſo dicevan' eſſi avvenire, qualora l'amaro, amariſſimo: il dolce, dolciſſimo: l'acetofo, acetofilimo divenga;mentre portavano opinione, l'Amaro, il Dolce; il Salſo, l'Acetoſo, il Diſcorrente, l’Acerbo, e altre infi nite coſe di varie, e molte virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente, che fteano frá eſlo lor meſcolate, e confuſe, e l'una temperata dall'altra; che foj mai avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi, così ſceveratamente ſe ne ſtca, allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi con mole ftia ſentire, e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli, eglino ſomigliantemé te diſcorrevano:dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe, e ſa pori acconciamente temperato, e che quegli, onde alcun danno riceve, abbiſogni ch'una delle già dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi, che il caldo, e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi; cd ove rimeſcolici inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano; ma quantunque volte ſi leparino,e che o riprezzo, o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro contrario imman tinente accorrendovi, e la furia del tiranneggiante nimico affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi. Il che ſe pur non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre gravi malattie avvenire, dicevan'eglino, che in sì fatti cali non già dal folo caldo, ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la febbre veniffe generata. Finalmente tutto ciò, ch'Ippocrate dietro a tal materia fiegne a narrare, e come egli prenda a ripigliar coloro che dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido, al ſecco, al freddo, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo, e forſe di poco momen to, lo to, lo tralaſcio diriferire. Ma quanto al fatto del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo Ippocrate, che Apollo, o Chirone, o Eſculapio, i quali è fama d'aver primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad Eſculapio, comechè contuſamente ne faccia parole Platone, e a guiſa d'huom, che di dubbia, coſa favelli, par che dir voglia, ch'egli in tal modo fi loſofaſſe, ed è veriſimil molto, che dal ſuo maeſtro Chi, rone, o dialcun'altro egli appreſo l'aveſſe: e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico: eche poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d ' Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando,e a quelter mine condotto, ſicome egli il riferiſce; ma egli è nondi meno per mio avviſo, aſſai manchevole, e ſcempiato, ne Ippocrate interamente, e qualli converrebbe il rapporta; si che ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi capiſſe. Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti, e medici inſie me, o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e confuſa notizia, che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge, che non mai dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi, che di quattro corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati, tutto l'Vniverſo com pongali, i quali diquelle, che prime qualità le ſcuole, appellano forinati, con altre, che ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2 che quaſi infinite particelle di figura diverſe,in varie gui le ora accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro; o per me'dire, e più ſecondo la loro opinione, da tale accozzamento, o ſceveramento tutte le coſe ſi faceffcro in varie guiſe ſenſibili; e che, ne generazione, ne corrompi mento v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il medeſimo Ippocrate; ma che ogni coſa, che dinuovo ſimanifeſta, pureravi innázi. Il qual modo di filoſofare, ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora, certamente da quello non è guari di verſo. G g La maniera del medicare di quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema, viene apertamente accennata da Ippocrate quando dice, ch'eglino davano.opera a tor via dall'huomo tutto ciò, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole, e no'l potendoella vincere, offefa ne rim.z. ne; come l'amariſfimo, il dolciſſimo, e altre ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino, che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare, cioè allor,che per eſſer elleno al dovuto cocimento perve nute, era ceffato il lor impeto, e mitigato il furore; d'on de fi cava, che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le; e chiaramente dice ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate, che allor, che nell'huomo ſomınamente creſce la collera, in tutto quel tempo, ch'ella ſi trova ſtemperara; cruday e ſincera per arte niuna ſi poſsono, ne il dolore, ne la febbre, che da leicagionanſi mitigare, non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino cercato aveſsero di cuocere, e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare, per quanto raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole, che reftè abbiam noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi. Ritrovò a'noftri vicini tempi un sì facro fiftema, oltre al Paralcelſo, al Severino, ed al Quercetano altri, eal. tri doctisſimi ricevitori; i quali colle tante, e rante cu rioſe, e ſottili dottrine, che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono, e lo fecero altro in verità parere da quel lo, che così rozzamente defcritto nel libro della vecchia medicina ſcorgeſi; ma non poterono nientedimeno que' valentisſimi huomini, per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia, ritrovar argomento giammai, che effi cacemente provar poteſſe, che nell'huomo, ed in altri corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe; laonde degni certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa,fe ne meno eglino non le vennero in quelli a dimoſtrare; ed in verità lo per me crcdo, che ne me no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai; imperoc chè ſe ſono, come esſi vogliono, in minutisſime particel le diviſe, e l'une coll'altre meſcolate, e confuſe, necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere, ne effetti poſſono produrre, da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo, ed in altri corpi, e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe vi erano in primanaſcoſe, o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia? Ed oltre a ciò fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la natura dell' acerbo, delPacecoſo, e d'altre ſimili coſe, qual contezza de’loro effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic, e della virtù deʼmedicamenti, e del modo d'ufar gli. E forte aggiroffi Ippocrate, ſofifti tutti que' fapien tìſliini filoſofi, emedici nominando,i quali volevan,che il medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato, e intefo minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali, e quanto al ſuo mirabiłmagiſtero concorra. E parvc al buon huono, che il conoſcimento di ciò antaa più alla pittura, che alla medicina s'apparteneſſe; e ba it are al medico ſol tanto, ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare, e al bere, che gli convicne. Ma quefto medelimo chi non vede, che non mai poſſa fa perfi, fe la natura dell'huomo in prima, e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ maiimmagino,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire eglino, o eſſer mol altra opera, greca, molto, e molto agevolea ritrovare il rimedio, ſe le malac tie dalcaldo, o dal freddo ſolo avveniſſero, avendo noi pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare, o raffreddarne poſſono; o pure, che il loverchievol caldo, in perdendo le particelle, che fanno il moto, les quali sfumano velocemente, ove non v'abbia coſa, che vaglia a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir potevano delfreddo fover chievole,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più antico ſiſtema della medicina, ficome a noi ne giova credere, al preſente aver detto; onde come d'abbondevole, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono: chenon pur la grecia tuttav, ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa Ippocrate mézione; il quale dell'u mido, del ſecco, del caldo, del freddo nel filoſofare ſi valſe; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to, di coloro, i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo d'inveſtigare li ſtudiavano; ed altri, ed altri Siſtemi ancor covenne,che a que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte, e varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità, e per vaghezza di ſpiarei ſegretidella natura; ed altri per intendere oltre al filoſofare, anches all'opera della medicina, fino a’tempi d'Erodico, oveda prima ad alcun ſembra che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina; le pure alai molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne, e ben’ Ippocrate nel libro della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta menzione, formati da que'medici,che volevano, o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma elfer formato l'huomo, Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro; más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo: ed lo tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo, che già omai è l'umid'ombra della not te ſopravenuta, egli fie convenevole, che ad un'altra ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP) RA: 240 All E quelle gravi, ed acerbe quercle, che veggiam tutto di metterſi fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate, perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi dirittamente guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco ragionevoli, cmenche giuſte doglianze; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri della greca medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti, fideu certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita, ne da do Ierſene gran fatto, anzi da non mettere in conto; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano, e più vera, e fotril doctrina contenenti, bcn'a torto, s'io pur non vado erra to, oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni, o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā misfatto accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a depre.larc,ed a ſignoreg giare la Grecia tutta; c quãdo ultimaméte il Turcheſco fu rore ſurſe ſtruggédola, ed ingiuſtaméte uſurpádola, cd occupandola inleme colla Città, ſede, e capo dell'Orientale, Imperio, allora preſſo che tuttii libri, che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani huo mini nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a' di noſtri ſi godo no. La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non purdella medicina, ma delle più nobili arti, e delle più ſovrane ſcienze,non già alla furia dell'armi, o delle fiamme nemiche: non già alla rabbia del tempo di tutte l'umane coſe fiera divoratrice; ma recheſi ad altrettanto più cruda, quanto men furioſa, e mentemuta cagione.Diec tracollo, chi'l crederebbe ! dier tracollo dal lor primo ſplendore le lettere, non per altro, ſe non ſe per manca mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno, e riſtoro, quindi ſterminio elleno ebbe ro, c ſtruggimento; conciofoſse coſa,che, ficome talora in bello, e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene, logli, ed erbe ſterili, e dannoſo, e ſoffocarlo, cosìſur ſero tratto tratto nella Grecia fra quell'anime grandi, es valenti, che del vero ſapere eran ſolamente paghe, alqua ti huomini di ſtolido, ed ottuſo intendimento, i quali da vaghezza tratti divano onore, e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera; e tutti intelero a certe vane ombre di dortrine; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di riſerbare, e di tramandare a' po fteri que’libri, che con pompa, cd arringo di belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco, o niente in lor v'era di pregio; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte, la troppo credula, anzi cieca, pofterità, come prezioſi teſori gli ha ricevuti, e ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai ſcorgerci da miglior lume la verità: mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora per la più Hh parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti ſcrittori va buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di Erodico,la quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte nobilitata,ere ſa immortale, per fatica, che vi ſi duri, Io non ſo vede re, come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare; impertanto a volerne dir ciò che per noi fi può, rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e ſtropicciarle, ed ugnerle, e regolatamente prendere il ci bo, chedi giovevoli, ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo Platone affai Íconciamente vituperato; dicendo, ch'egliin sì fatta gui fa non diſtruggeva altrimenti le malattie, ma le complcf fioni ſolo a poter quelle lungamente foſtenere ajutava; ond' egli paſsò ad affermare la medicina d'Erodico eſſer arte da Pedagogo;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini, così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe meritevolmente pagata; imperoc chè della ſua inutil medicina, penofa, e cagionevolvita traſſe continuo, e ad una lunga, e ftentata morte ſempre diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo, egli per trovarqualche argomento da ſoftenerla, tutto nello fludio della medicina s’involſe, traſandando tutt'altre biſogne, e ſolo a ciò di forza intendendo, altro non gliene avvenne, ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente, e regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare, e più che prima cagionevo le diveniva; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo inutile, e grave peſo, viſſe infino all'ultima vecchiczza; ove di que favita rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone motteggiandolo conchiude, che una eccellente, e ragguardevol palma e' riportaſſe dall'arte ſua, e talc, qual veramente gliſi conveniva, come a colui, il qual non ſapeva, ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta: ma ſi bene perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o. pera ſua convcncvole aſſegnata, alla qual fornire doven do intendere, mal potevagli ozio lungo avanzare, du potere a ſtéto da una tal medicina attender prò, o riſtoro; coſa, la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la mai negli arteficiconfiderata. Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo, il quale ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia, egli toſto inan dando per lo medico, da lui richiede, che diviſandoglial cuna purgativa, o pur vomichevole medicina, o col fer ro proccuri toſto di torgli ogni inale, e ogni ſeccagin da doſſo;ma ſe allora il medico ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi, certamente, che colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per l'aja, e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta; e così datogli dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe; e ſemai avveniſſe per forte, ch'egli guariffe, ſi viverebbe per innanzi felice; ma ſe il corpo no potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da tante noje ſviluppato. E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal medicina caccia via dalla ſua repubblica, come dannoſa, e tale, che i ſuoi cittadini non meno alle lor private biſogne, ch'a quelle del comune verrebbe a fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni, con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole uzi che no; infra l'altre coſe dicendo, la vita ſo bria non poterſi appellar ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente, che coll’inferinità, ch'è il ſuo contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto; perchè ſe nella vita ſobria non può effer inferinità, non può eſſer (anità vera; c ſe tinto, e non più fi mangia, quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 batteremo, ne cămineremo,ne falteremo giámai, ne potre mo ciò fare, perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente per vivere, il che ſarebbe un gran difetto nell huomo. Oltre a ciò e' dice, che come la mano ſtorpiata, non è mano, perchè no può come mano operare,così la ſo bria vita no è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to, e come dee l'huomo operare.Dice parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa di morte, che poſſa fare l'huomo:perchè queſto è inorir di fame; della qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce infinitamente: ed elegge più coſto lo an negarſi, che'lmorir di fame į ne peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con te Vgolino,benchè foſſe traditore della Patria. Con chiude egli alla fine, che chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe: peſare il vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri vere, il leggere', e ſimili cofe, che impediſcono la dige ſtione: numerare i palli, e le parole, che ajutano la dige ſtione: non dormir ſe non tante ore il dì, e tante la notte. Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro, a cui era in dirizzata la lettera; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto ciò vano, e fuor di ragion fia: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano, c vigorofo, e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne, e viſſe oltr'a cent'annipronto ſempremai, e col ſenno, e colla mano alle biſogne tutte della ſua patria;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza, ca molti, e graviſſimimali ſoggetto; intanto, che comunemente da'medici dopo varj, e diverſi argomenti indarno adoperativi, diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe. Ma quanto vane,quanto deboli, e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi co,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio, e de figliuoli di lui egli di ſcuſare s'ingegni: Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo, potendo ciaſcũ 1da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo. Macome non ſi può in modo niuno negare, che quel me dico, il quale aveſse per le mani ſicura,ed efficacemedici na, che ſenza indugio poteſse un grave male di prefence guarire, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi; nondimeno non ſo lo fe Eſculapio, cotanto da Platone commendato, aveſse pronta ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia, ma ſola mente alle ferire; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti, e radiſsimi coloro, che alcun certamente ne ſappiano; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa almeno tantoſto indugiar la fua morte, tem poreggiando, e ſcherinendolo a ſuo potere. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co, il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe, che ſe non ſono ditroppo vaglia, s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte dellamedicina. Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno da’malati, e poca, e niuna fatica. s'imprende a porle in opera. MadalPaverle Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne meriti, Galieno mede. fimo il confeſsa; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip pocrate attribuiſce. Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone, e recatone nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare, che Platone in ciò ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor gli Atleti ad eſser valo roſi, ed abili a loro eſercizj. E certamente ſe quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse, ciafcun farga mente le ſciocchezze di Galieno crederebbefi. E come voleva Platone biaſimar la ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi, s'egli nella ſua Città ordina, che s'edifichiil ginnaſio, e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i per quello, e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti, così per derivarla in uſo de' caldi bagni, coine per irrigare il terreno, e render vago, eadorno il luogo; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope re di celebrare il ginnaſio, e quegli eſercizi, che ivi fico ftumavano di fare: come ſommamente utilia conſervar la ſanità; e fra l'altre egli ebbe a dire una volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata; cioè della muſica, che all'animo, e della gin naſtica, che al corpo appartiene. Ma laſciando ciò da par te ſtare, egli va grandemente per mio avviſo errato Pla tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il regolaricibi a'malati, e che ciò eglino faceſse ro, non peraltro, ſe non perchè non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi, i qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo diregola alcuna di medico; concioffiecofachè le tante, e tante förti di malattie, che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano, faccian’aperta, e fedele teſtimonia za del contrario. Ma quantunque vero foſſe ciò,che Pla tone immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini, pure altri cibi a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico, il quale cibaſse l'infermo come fano, e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno, ed all l'altro nocerebbe. Egli poi non ha dubbio alcuno, che'l regolar i cibi foſse la prima coſa certamente, che s'ado peraſse in medicina; anzi da ciò venne ſuſo primieramé ce la medicina; e prima, che foſsero i medici, i medelimi infermi da per ſe il ritrovarono; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il quale ci giova quì tutto rec.le re, comemolto al noſtro propoſito faccente: Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant, alios propter aviditatem primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe, alius propter faſti dium ahſtinuile, levatumque magis eorum morbum effe, qui abſtinuerant: itemquealios inipfa febre aliquid ediſ Te, alios paulò ante eam, alios poft remiffionem ejus, optime deinde his ceflife, quipoft finem febris id fecerint. Eadeque ratione alios inter principia protinus ufos effe cibo ple viore, alios exiguo, graviureſque eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent, diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent,dein deægrotantibusea præcipere cæpiſſe:fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute,aliorum interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati, certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima d'Ippocratemol. te coſe, e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere nel libro della vecchia medicina, ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo, onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò far yolle il buo Ippocrate autore. Ma, che che ſia di tali faccende, terri bile allai ſembrami nel vero la cenſura, con la quale Ip pocrate, non avendo veruno riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico, fconciamente il riprende,e vitu pera; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li febbricitanti, ch'e' medicava colle fatiche, e co' fummi. caldi, che loro imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti, eifomenti oltreinodo contrari.Aggiugne Galieno a ciò che dice lppocrate, che Erodico in ciò fa re, ne anche alla ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe,non volendo niuna ragion delmondo, che'l male col male, la fatica colla fatica, il ſimile col liinile da medicar ſia; an zi e'dice, che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri, valevoli più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore, che a toglierlo. Ma certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in rimboccare Ippocrate, e Galieno,dicendo,che Erodico, come buon medico razionale non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava, avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di tempo; ma poi ſenza fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne; ſenza chè ben potrebbono di vantaggio aggiugnere, il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate, e da Galieno: i quali con fregamenti, e con dare a {piluzzico, e a riguardo il cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti. Ne qui deb befi tacere, ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare in altri, come manche voli, e malfatte anchequelle coſe, che eglino medeſimi in ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare, che ello ancora alcune febbri linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia; perchè egli vien forte ripigliato dal Tralliano, il quale rintuzza lo, c percuotelo, e con maggior ragione per avventura, con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia, coloro ſe'l veggano, i quali comeche con parole il biaſimino, purcon fatti talvolta il ſogliono ado. perare: ſolamente lo avviſo, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla,e che col limile il ſimile ſi cura. Quinci ſcorger ſi puote, chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare, valerſi di quelle coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera; e percið Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando gl'infermi, e d'altre opere, ch'erano in uſo nel ginnaſio, di cui egli aveva avuto la cu ra; così veggiam que',che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono medici, non preſcriver rimedio alcuno, che non ſe ne fian colle ſtelle, eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno, che'l maeſtro, o preferto del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare, o d’ugnere que' ch'eran deſtinati alle lutte, al corſo, e agli altri gilochi, che ſi fa cevano nel Gimnaſio; ma il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio, e conliſteva nella ſupreina autorità di quello p li vile li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe, che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri; edun taluficio era in sì grá pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili, o ben’agiati huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente,che i medeſimi Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to, infra i titoli, egli onori degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto, o maeſtro del Ginnaſio. Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio, e venerazion l’arte ginnaſtica, la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne de ſagaciflimiſcrit tori, che nulla più; d'alcun de'quali con ſomma lode fa menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio,che non ſolamente eglino contendevano co’più chiari, ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi, chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate,che egli temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte, dicui cgli era affatto ignorante, e digiuno. Ma ritornando ad Erodico, chc che ſi dica di lui Platone, non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina, ma ſi valſe d'altri, e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui parimente fi valſero: come ſi può vedere in Ce lio Aureliano, il quale in facendo parole della ſciatica, delle medicine d'Erodico così dicc: Herodicus igitur, ut Aſclepiades memorat, ventrisadhibet purgationem, atque pofl cenam vomitus, quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis aceti decocti exhalatione con fectis utitur, vel aqua marina, admifta thalsa herba,atq; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari jubet, e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido, il quale,come riferiſce Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia, dalle poche memorie, che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera egli medicaffe, ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe; e delle ſentenze Gnidie, dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate, il qua le fi diè cura di eſaminarle, ch' Io per me non ho che di viſarne. Egli vien rapportato da Ippocrate, che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed a ſpiluzzico avel ſer raccolto, e diviſato tutte quelle coſe, che avvenir ſo gliono agl'infermi in ogni lor malattia; ma non è per ſuo avviſo da far gran fatto ſtiina della coſtoro induſtria, come quella, ch'aſſai leggiera, ed agevole impreſa è a chiunque neprenda cura, quantúque niente informato di medicina egli ſia: baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo,có buona pace d'Ippocrate, ſono in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici, e fieno ſom mamente da commendare, qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le ſcritture de’me dici. Ma che è ciò, che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli fia queſto un peſo da tutte braccia, ne v'abbiſogni in tendimento di medicina? E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole, ed anfanie, che talor foglion narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi ! e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo, foffe offeſo il cervello, che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli l'infermo? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico, lo giudico, che ſe altri vi ponetle mano, chemedi co non foffe,peraltro riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe; iinpcroccliè nurrerebbe egli ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo, ove da ' medici mercè dell'ufire loro aliuzie, tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 alera cagione,cofa,che ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai. Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe, delle quali dee aver contezza ilmedi co per propia fua induſtria, oltr'a quelle, che poſſon ſa perſi dalla bocca dello infermo, molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie, che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do, col quale curar fi dee ciaſcuna malattia, non s'app.2 ga affatto di ciò, che color ne dicono; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi foſſe, e che, ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit to affai bene in medicina: nientedimeno, per quel che Ip pocrate parimenteriferiſca, chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte, come que' della ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina; imperocchè nel medi car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro veramente a que’mali, a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la biſogna. Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni medici, i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi, travagliandogli ad ogn'ora con importuniffimi rimedj, la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario operare; concioſliecofachè il ma de, il quale qualche ſpazio di tempo dur.2,renda aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio; il che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote, i quali per ſe ſteſſi, o bene, o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di que'tanci rimedi, che gli furono dal medico preſcritti: non avviſando, che celeres, ! I i 2 & acu 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur, &nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila; e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno contento, ed appagato li tiene, inmaginando, che egli non abbia laſciata coſa p riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede, perciocchè, ficome avviſa il medeſimo Ce lio, neque natura, neque fortuna folvuntur, ſi portò pelli maméte, per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici, che furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte, Io non ſo, s'egli, o pure alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente, come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in prima vi li legge vano, come chioſa Galieno, affatto togliendo, e parte in altro cambiando; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato,che provenir ſogliono dall'incertezza della medicina; e queſto è quanto laſciò ſcritto Ippocra te della medicina d’Eurifonte. Si valſe cgli, come Ce Jio Aureliano dice, di qualche medicamento d'Erodico, e ſcriſſe per quel che narri Galieno, di notonia,e di quel le inedicine,che ſi poſſono in luogo d'altre, che mancal ſero porre in opera. Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei ſentimenti; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure a teinpo dell'an tico ſcrittore, che ne racconta la vita, dar fermo, e ſicu ro giudicio ſe ne poteva. Ma che unque diciò ſia,manife ſta coſa è, che parecchi dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi, ed altre manchcvoli in parte, tronche li riinaſero; ed in altre ancora molto, e molto co ſe, o da ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno che, coll'efler perdute l l'opere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel gran nome,che da alcun medico greco in prima, e poi da altri anchenon medici ſenza troppo ben'eſaminar la coſa,egli n'ha ripor tato; ne lo ſo permevedere, come ſi poteſſer mai, nu Platone, ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto quanto nella filoſofia naturale, come Galieno, e altri medici ſo gliono ad ogn'ora millancare. Ma chi per Dio paſſerà sé. za riſa la beſtaggine di Macrobio, il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto, e nõ avédo forſe mai letti i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo, gli attribuiſce ciò che a Dio ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius. Nulla poi dico diGalieno,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare Ippocrate, con dire una fiata infra l'altre,che le ſentenze dilui tutte ve riffime fieno, Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole: imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana; anzi tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode, for te il proverbia, e'l biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo. Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli antichi ſcrit tori, quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero Ippocrate: come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte. Ma noi non badando a'cicalecci di niuno, diciamo primicramente, ch'egli ſi pare certamente, che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi anninello ſtudio, e nell'eſercizio di ella continuamente involto; e comechè non ben intelo scorgeli ſovente delle coſe, ſembra pure, ch'egli ciò che ſi conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto, & veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere affai più manifeſte le fondamenta delle varie, e diverſe ſette della medicina, di quel, che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe, d'avere i principj tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti; perchè fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare, e deter minare ciò chepiù vero gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente ſtacciata, ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non eſſer più da appiccarſi ad uno, che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la loro egual dubbietà;e quinci egli poi di varj, e tra effo loro contrarj ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic; e per tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina, ed'un altro nel libro della vecchia medicina, e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta, comechè qucftie'confonda con gli altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi, e ſpezialmente con quello della vecchia medicina; il quale ultimo ad alcuno ſembra, che intorno a tal materia.e ' compoſto aveſſe; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate, ma di Democrito; ma certamente fuor d'ogni ragione; perciocchè in altra più nobile, e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe. Ma che che di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze, e tcmpellante: Ippocrate, par che talvolta alla ſperienza, ed alla ragione il tutto raſſegni; ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga; e da ciò moſſi negli antichitempi alcuni, come narra Ga ļieno, ed alcuni altri della noſtra età, infra'quali è il Mon tano, preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate in medicina da parte empirica, o da parte razionalc veramente tenuto haveſſe; ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e della molta dubbierà di quella. Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di quell'intendimento, che a gran filoſofante, emedico, qual vien' egli comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto, che cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò, che la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata, ma unamenoma ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire; egli nondimeno, ne molto, ne poco vi s'affutico; anzi andò dietro ad altri, ed altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco, che séza guida alcuna vada caſtoni, ed attenědoſi a ciò che, incontra, or per una, or per altra ſtradì errando, ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului me.Iclimo conoſciuta, e finceramente paleſata nella piſtola (ſe alori ſecondo i ſuoi ſentimenti in nom:) fuo, pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito; over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte, che diviſato ſi aveva, avvegnachè negli an ni molto, e molto avanzato, e nell'uſo del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe. Map far pienamérc vedere,e toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra loro diſcordanci ſiſtemi di medicina; coinechè ciò per avventura ſoverchio giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali, e tante ſono le dippocaggini di lui, e le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti, che tolto per qualunque mez zano intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono; il che egli ancor conoſcendo, e reſtandovi alla fine inviluppato, e contuſo, in njun di quelli riſtr fermame te fi volle, dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente detto ſia', cominceremo al preſenteda quello, che nel libro della dieta con lungo, e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento, ch'egli altrove rifiutato avea dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente, egli con venga in primain prima aver piena,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe: e oltre a ciò ſpiar minutamente, e com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino. Sentimento quanto ſaldo, evero, e che non ha di pruova alcunabiſogno, altrettanto volgare, e agevole a penſare; perchè eglimoſtra,che Ippocrate non abbia per quello, ſe pure è ſuo, cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare; non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto,ne vuol far pruo va, ſo giugnendo, che ciò non fi ſappiendo, mal ſi po trebbe cibo,che profittevole abbia ad eſſere, ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi, e vivande, che noi uſiano eſſer conoſciuta;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe della natura, in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor facultà, all'uſo nondimeno ſon concordevoli, e acconci; ciò ſono l'acqua, e'l fuoco; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe, che l'uno all'altro ſcambicvolmente ba fano; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo, ne ad altra coſa del mondo non baſta; e la virtù, e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia, c in qualunque luogo dimori: e per l'acqua convenevolmente ella ſi nutrica, e creſce. Ma in conti nui piati, e battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no, e ſi vincono; non però sì fattamente, ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto, eſpoſſato ne rimanga, che niente più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto, toſto il debito nutrimento gli manca; perchè egli volgeli colà, ove nutricar ſi poſſa; e l'acqua d'altra parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento, e nulla vale; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata. E imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo verchiar l'altro, che affatto l'uccida; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di cieca paſſionc ingombro, che non iſcorga pienamente quanto vani, e ridevoli ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj. Vn ſol principio, dice egli,non baſta; ma baſterà egli, che sì il dica? anzi vi ſarà chi vi replichi, uno eſſer ſufficientiſfi mo, ove le parti, che il compongono di diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato, e infra loro compoſte, e ſi muovano: perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano; ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli, che ſieno il fuoco, e l'acqua, perchè egli non ne ſpiega lor natura? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il fuoco valevole a dare il movimento; perciocchè ben do veva egli più avanti ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco, e ricercarminutamente diche egliſia compoſto, e chedifferente il faccia dall'acqua: e queſte coſe ritrovate riporle poi per principj delle coſe, come quelle, onde tuce'altre vengono ingenerate: e non già il fuoco, e l'acqua, che non ſon primieri nell'ingenerare. Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna briga ſi prende, certamente dall'acqua, e dal fuoco in quella guiſa, ch'e' ne favella, nc huomo, ne altro animal K k niu i  1 niuno coinpiuto, ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre giammai; econtraſtino pure, e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua, e'l fuoco tra cſſo loro, che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno: licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi, fuor ſolamente, che due fillabe: conie da A, ed L: di cui altro, che LA, ed AL non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto, eammaſlarla le particelle dell'acqua, che formar ſe ne poſſano, ecar ne, e oſſa, e nervi, e cotant'altre fulde, e dure parti d'a nimali, e d'altre coſe del inondo? Ne ciò può adoperarli punto dal fuoco; perciocchè egli nell'acqua altro far non può, che le particelle diquella col ſuo movimento, che chiaman dilatante, ſempre partire, e ſceverare, licome noicontinuo incontrar veggiamo: perchè l'acqua vie più liquida, c diſcorrente, e rada ne diviene, non che s'am maſſi, e fi riſtrigna in coſe falde, e dure. E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma, e faccil diventa, che ſe non, d'aria, d'un corpo all'aria ſomigliante, certamente ella prende forma; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre il fuoco, e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le venga ſom miniſtrato. Ma che'l fuoco,come s'avviſa Ippocrate, dall' acqua nutrito fia, e perchè l'un l'altro vincer non poſla, ſciocco troppo lo mi terrei, ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo. Vuole oltre a ciò Ippocrate, che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco: e che'l fuoco riceva dall'ac qua l'umidità, e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante, e tanto varie forme, e generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre: e cotanto diverſe infra loro, che ne quanto all'apparenza, ne quanto alla lor virtù hā nulla di ſomigliante; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua, e'l fuoco nello ſtato medeſimo: e ſempreinai cam biandoli, e diſcorrendo, forza è, che le coſe, che da lor 1: fi ſeparano, eli producono,diſſimiglianti oltremodo rie? fciano. E certamente, com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore, nc ſi fa quel che in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe: come chè giudichi alcuno, che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi crii: e altro incontrario,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno, che fia più toſto da preſtar fede agli occhi, ch’alle opinioni, o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la pruova, dicendo animali ef ſer queſtie, quelli, e non eſſer miga poſſibile, ch'uno ani mal ſi conſumi, non con tutti: conciolliecoſachè chi po tri mai diſtruggerlo? ne può ingenerarli giammai quel che non è, non avendovicofa alcuna,che non ſia, onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo, che lo ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia, che'l meſcolamento, e lo ſcevera mento. Ma più avanti facendoſi dice, che lo ingenerarſi, e'lcorromperli la medeſima coſa ſieno: e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento, e lo ſceveramento: e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia: el corrom perſi, e'l menomare altro non fit, che lo fceveramento: e che ciaſcınıa coſa ſia la medeſima, che l'altra: e tutte lien uno; e in queſte sì fatte coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura; ma ſpartamente ciaſcuna cofa, o ſia di vina, o umana,ſufo, e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte, più, o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno avvicinamento; il Sole l'hà lunghiſſimo, e breviſſimo; di nuovo queſti, e noi qucfti; la luce a Giove, le tenebre a Pluto: la lu ce a Pluto, e le tenebre a Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano quello coſe di queſte,e queſte di quelle; ne fi lanno quel che el leno medeſime fi facciano, comeche faccian veduta di fa. perlo:ne ciò, che veggono,conoſcono, ma in tutto ciò Kk 2 ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel le coſe, che vogliono, comein quelle, che non voglio no, perciocchè accozzandoſi, e partendofi quelle quà,e queſte là, fra eſſo loro avviluppate, e confuſe, ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione accięcato, e imbard.ato, che manifeftamente non ravviſi in ciò, che rapportato nº abbiamo, effer egli una ſtrania cervelliera, e poco men, che ſpiritata colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò,che meno intende? e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine, e ignoranza; ma anche farne cotanti Calan drini:e tenendo lo ſciocco vulgo in parole, il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma nifeſto, darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura oltremodo conoſciuto ſia. Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali letterati ſtimanſi,há creduto, o moſtrato di credere, che in queſti riboboli, cd enimmi d'Ippocrate, e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina, edell'alimento, ch'egli tutti i più naſcoſi, e pregiati miſteri della medicina, e della filoſo fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un valentiſſimo chimi co. Ma ritornando a ciò, che diciavamo, lo m'avviſo, che Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare:e che poco cgli incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati, in quella guiſa,che fileggono; e tanto più, chemoſtra,ch'egli confonda in ſieme, e meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj; da che egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe, che non baſtavano, parla poi non altrimenti, che ſtabilito aveſſe in prima, che ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia, nella maniera appunto, che ſi accennò nella cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci s'ingenera di nuovo, ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto, mà ſparpagliandoſi, e dividendo ſi vien meno. Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò, ch'aveva egli in prima detto; perciocchè ſe l'acqua, e'l fuoco i principj ſono dell'huomo, meſcolan doſi queſti, e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne potrà certamente altro naſcondere, che l'acqua, e'l fuo co medeſimo,prendendo ſembianza delle parti dell’huo mo, com'e' dice; ma non già le parti dell'huomo, ciò ſo no carne, offa, nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima, comechè appiattate, e naſcoſe, nel meſcola mento dell'acqua, e del fuoco ci ſi laſcino poi di preſen te vedere; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne,ne l'ol fo così menoma, e tritolata, che non ſi parrà; ma tutta la carne, e tutto l'oſſo diverrà acqua, e fuoco: e queſti che in prima non apparivano, manifeitamente nelloro.ſcioglimento poi ſi vedranno. Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le particelle, chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan per huom ravviſare: le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co, compongano, e guaſtino le coſe. Ma ſe pur queſto cgli volle intendere, comepotrà mai il fuoco le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è dilatativo, come dicono, e ſempremai ſcioglie, e parte? Convenivaadunque, che Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe, le quali ciò poteſſer operare. Ma concedaſi ciò pure a lui: non perciò l'acqua,c’lfuoco, ma le par ticelle ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò,che poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua, eal fuoco: e in favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco,che empio, e miſcredentc,dice quella ancora, come tutt'altre coſe, eſfer d'acqua, e difuoco compoſta. E tante, e tali sono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta, che lungo ſarebbe ad una ad una narrarle. Ma trapaſſando all'altre ſueopere, contende il Vale riola, e con luianche ſi conforma il Cardano, non eſſer d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär, overo degli ſpia riti groiſi, o vizioſi: peralcuneſciocche, e falſe dottri ne, che in quello s'avviſano, e altre ancora contrarie a quelle, che in altri ſuoi volumi egli divisò, Ma fe tale oppofizione aveſſe luogo, converrebbe certamente con dannar come non ſue l'opere tutte, che ſotto il fuo nome fi leggono; perchè è da dire, che poco ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma Galieno, comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate, il reca ſovente in concio di qualche ſuo ſentimento. Sembra certamente il libro miglior per avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto l'autore; imperciocchè ha egli ordi ne, e qualche forte di chiarezza: e moſtra fovente, che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica. Vuole egli in eſſo darne a divedere, che tutti mali, che n'avvenge:10, da una ſola cagione ſi dirivino; comeche per li diverſi luo ghidelcorpo, ove n'aggravano, diſſomiglianti affai ne ſembrino. Tutti corpi, eglidice, così dell'Iruomo,come d'altri animali,del cibo,dello fpirito, edel bere ſi loſten tano. Gli ſpiriti, che ſono entro il corpo, vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po aveõua cioè: a dire, aria. L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le coſe, che accaſcano alcorpo: ed è donna, e lignora del tutto. Indi egli lungamente fopra quella ragionando, dice delle fue gran virtù, ed opere, Itabilendo in prima qualche ſentenza; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore, c fommamente comincndevoli of fervazioni de’noftri moderni. Dice egli, che tutto ciò she fra’l Cielo, ela terra s'interponeſia, da ſpirito ingôn bro: e che lo ſpirito cagioni il verno, e la ſtate: e che'l corso della Luna, e delle Stelle per lo īpirito facciali: e che lo ſpirito alimenti ilfuoco, intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco più vivere: c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo del Sole. E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico; perciocchè ſe quelnon vi foſſe, dice egli, che i pe ſci non potrebbono in niun modo vivere; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua traen dolo. Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella: e quella ſolamente eſſer cagione a noi della vita, e diciaſcuna malattia, che n'avviene; intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore; perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo, o beveraggio alcuno viver qualche giorno: ma non già ſenza ſpirito; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre operazioni, comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc. E quinci egli vuol trar conſe guenza, eſſer molto ragionevole, che ficome la morte, così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano, e che quello calor compreſo, e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo n'offenda. Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando, ficome ciaſcun ma le dallo ſpirito ſi formi: e tutti minutamente gli anno vera. Ma un sì fatto liſteina, perchè ingegnoſo fia, e conte gna in se qualche coſa di ragionevole, non però di meno, generalmente ragionando, falſo affatto, e inveriſimiles eſſer fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno, chedell'aria abbiamo, non è perciò quel a ſo la, che ne mantiene, e ne nutrica: ma l'acqua ancora al noſtro vivere è neceſſaria, e altre molte coſe, così den tro, come fuora del corpo; le quali, o mancando, oſo verchiando, o alterandoſi, non men dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie. Nemeno al preſente è da tacere, come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti, i quali non cheda Ippocrate foſſer provati, anzi dalvero talora manifeſta mente appajon lontani. E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero; non però di meno fon da lui con parole non propie, e ambigue a bello ſtu dio inviluppati, e adombrati; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica a ritrovarne il coltrutto, da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani, com poſtida lui per uccellarne maggiormente. Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così liberamen te afferma, è colui, che ſignoreggia, e governa ciaſcuna coſa del mondo, e che la vita, e la morte ne porge: per chènon iſpiega egli poi, ficome certamente fargli con veniva, come, e con quali artificj tante maraviglie quel lo adoperi? e perchènon ragiona della natura di quello, e diquell'altre ſoſtanze, che, come e' dice, imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a noinocevole, e peſti lenzioſo il rendono? E per avventura gran ſenno egli fe a non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire, che ciò egli non ſappiendo, non potrà certamente mai la natura, e la generazion delle malattie per sì fatta ſtrada incoglie re; e ſeguentemente gli argomenti ancora, come a quel le da proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi, che ne men di que’mali, cheper compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona, la quale, com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte: ſenza dubbio non giugnerà egli giam mai a penetrare gli effetti tutti, che da quelle diverſame te provengono, e le varie maniere, colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica,o altri ſomiglianti mali, come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare: o donde trarrà egli gli argomenti da porvi ragionevol conſiglio? Ma ſe le ſoſtanze, che collo ſpirito -meſcolanſi, ſon ca gion di cotante malattie, come potralli eglia buona ragić dire, che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino? perchè è da dire, che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco, e vi ſia infe liceinente fdrucciolato, dicendo eſſer l'aria cagion del. le noſtre malattie, e non più toſto le varie, e diverſe for ſtanze, che per quella diſcorrono, e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi, e animaletti, chę ſovente fi ravviſano, così nelſangue, come nell'altre parti liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi talora o nel cuore, o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e molte manie re le moleſtano; ſenzachè ſon nell'aria varie, e varieme nomiſſime altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate: alcune delle quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono, fannofi anoi per opera dell'odorato ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente, es quali ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al merlo d'un'alta torre; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò egli eſſer ancora nell'aria molte, e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare. Ora in queſte,e in ſomigliati oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc che prender vi dovelle convenevol riparo: e non fare il pancacciere con lunghe dicerie, e vane, e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò, che cgli della febbre và diviſando. Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266:: noi grandi ventolit, le quali non potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo, ruggiando per ic bu della diſcorrono all'altre parti del corpo, maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi il langue, e sì l'infreddano, e'l fanno intriſire. Or come domine potrà mai dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere? ma egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle. vene, il qual per l'aria di fuora divicn freddo. Ma che che ſia di ciò, davcva ben egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle vene l'aria, in che di verno crudo, e rabbruzzata dalle nevi, comeche continuo ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in dicendo, che'l ſangue dall'orrore, e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi rifugga alle parti più calde del corpo: ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il corpo, e'l faccia febbricoſo. E certaméte in ciò egli ragio nando, molto ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa, il caldo tutto al corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte del corpo rimaner calda; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio, come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il riprezzo De la quartana, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando il rezzo. Ma, ſicome egli s'avviſa, rimangano pur calde l'altre parti del corpo, nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no; non mai tanto però faran vive, e affocate, che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre. Ma troppo nojolo lo nc verrei, ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema; perchè rimanendomi al preſente di più ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1 eenuto in pregio, e commendaco dal luo chiòfator Galie no, che nulla più: di cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando, e in iſcrivendo ſi ſon valuti, e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo, e indicibil fallo il mu* farvi contro, non che manifeſtamente abburattarlo. E queſto ſi è il diviſamento, ch'e'fa nel libro della natura umana; il qual libro non può recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia, in ciò che, come faggiamente avviſa, e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi più volte Platonc; e ben può per quello chiun que n’abbia talento agevolmentecomprendere,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco, ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala tre coſe alla medicina pertinenti; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore, e inventore d'un sì fatto ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento ciò eſſer fa ſo s'avviſa; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della vecchia medicina manifeſtamente na ragiona, come di dottrina da altri già prima di lui ricrova ta, einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112 agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere, che Ip pocratc,non come di ſuo propio diviſamento ne ragionin. Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar noi al pre ſente, darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio, e inagnifico, che nulla più; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne imprender con ingordigia tutto ciò, ch'e defidera: giudicando, ch'un si valentemedico, e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi, verainente trattata l'aveſic, licomealla propo fta materia ſi conveniva: cche,comegià Marco Tullio del divino Democrito, il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro ſcritto aveir, b.ec loquarde univerſis, ebbe a dire nit excipit de quo non profiteatur, così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI 2 folier  [ chernixo, e beffato rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra tolto una così ma lagevole, e così vaſta matcria; e ciò, che è affatto impor tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli, egli è il libro più ricco aſſai di parole, che dicoſe; anzi di poco falla, che tutto parole egli non ſia: e quelle pochiſſime coſe, che vi ſono, così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto, opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo aggira mento di ciarlc, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una coſa; ma, che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello, di cui favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando; concioſlīccofachè quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe, che ci ſono eſſer una, e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi oltremodo inſieme in dando a quella nome; perciocchè altri dicevano eſſer aria, altri fuoco, altri acqua, e altri terra. Soggiugne egli poi, che ciafcun di coſtoro recava teſtimonianze, e ſe gni, ma di niuna lieva, in concio del fuo ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione, e contradiandoſi nel le parole, davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la coſa; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor continuo piacire, che tratto tratto facevano, non mai per tre fiare continové riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore, ſecondamente che ben parlante egliera, edat popolo tenuto in pregio. Conchiude alla fine Ippocrate, chuom, che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa role, ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe; o che ſembra a lui, che coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi, che per altro; perciocchè tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo. Ma Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi maraviglia, una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di que'filoſofanti, i qua live Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma ftiaſene pur con pace Galieno: non ſembra per Dio, che con sì fatto cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della materias ch'egli imprender a ragionare, e quale appunto quella richiede? mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente uccellare, laſciandone affatto digiu ni della mate ria, ne inſegnandone coſa alcuna di lieva. Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate: qual ſi foſſe veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz niuna d'inveſtigare; tanto accennerò, che eglino tutti una medeſima coſa dicevano: e cheniun di loro giu dicava, che o l'acqua, o la terra, o l'arir, o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo:ne di ciò mai fu conteſa infra loro, comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno; ma ſolainente eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da prima, allor,che fu fatto ilmondo,ſe d’acqua, o di fuoco, o d'aria, o di terra. Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate recata; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel piatir de? letterati huomini, maſſimamente appreſſo il vulgo, non mai vincer foglia colui ', che ſa ben la coſa, e che dice vero: ma colui, che meglio con vaghe', e ben ordinate dicerie Ja fa colorare: eche il più delle volte nelle conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante, e'l ſofiſta,come ilme deſimo Ippocrate ancor rafferma? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer d'accordo colla ſentēza di Me liffo, il qualnon diterminò mai il principio delle coſe nx turali, fe eglino, comc Ippocrate racconta, il ditermina vino Ma che che ſia di ciò, Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la ſentenza di Meliſſo, come Ip pocrate dice'; ma ſe ciò era, a torto certamente da lui fur biaſimati: dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il principio delle coſc qualli foſſe, con chiamarlo o arias, o acqua,o fuoco, o terra; ſe pure non vogliam dire, che Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che que’valent huomini fi diceſfero, it che fe ben li conſidera, il fue vellare, che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole. Fin qui e' fi pare, cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato: ora ſe'n viene egli a’ medici, e dice, che alcuni diloro affermavano non alira cola, che ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera: ed altri ſolamente flemına; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima raccon tati, tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra, o diflemma, o di ſangue, e che quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante, ed in virtù, e di venga, e amaro, e dolce, e bianco e nera, cd ogn'altra.com fa. Soggiugne indiappreſſo Ippocrate, che molti, emol ti così dicevano, e che altri, ed altri dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia ramente chenei,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le conteſe; perchèmoſtra veramente, che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia, ch'un fertiliffi mo campo, che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca. Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu ammirato, e celebrato, che nulla più: ſe una coſa fola, dice egli, l'huomo ſi foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde venir gli potefíe il dolore, per eſſer ogni coſa una ſola coſa; e fe pure l'huom mai li doleffe, convera rebbe ſenza fallo, che uno ſi forre il rimedio, coʻl quale egli guarir doveſſe; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della vanità di sì fatto argn mento, pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani prima ſe contro coloro, a'quali par propiamente indiriz zato, coſa alcuna egli conchiuda. lo permeavviſo, che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di sì tutte ciuffole, ed anfanie, imperciocchè eglino tenevano, che 1 1 1 o'l fangue, o la collera, o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da quell'altro pri mo principio, del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente dalle parole, chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice, che eſi volevano, che o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro, e'l dolce, e tutte altre coſe, che nell'huomo li ravviſano; or comenon può agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe, ayer cagione di dolore dall'a. maro, dal falſo, dall'acetoſo je da altre, e altre coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate?ora a que. fte tante cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari: e ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è, ſalvo che o ſolo ſangue, o ſo la flemma, o ſola collera: potrannocertamente rondime no nelle vene ſteſſe, o dal fangue ſolo, o pur dalla flem ma; o dalla collera., ed oltre a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura,contrarie; e moleſte all'huomoingenerarfi, che potranno ſenza fallo elfer cagioni di dolori, e di varie; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con altrettante medicine di fcacciar ſi convengono. Egli doveva adunque provar Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue, o dalla ſola flemma, o dalla collera, fola,nientealtro,che o ſangue, o flemma, o collera inge: nerar fi poffa; il chein niun modo fa egli, e ne men fare veramente il potea: concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon potuto dire que'medici, il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici, ma compoſte coſe di que'quattro corpi, che Ip pocrate vuole, che ſiano i primi principj; e come tali ben poter eglino in varie, e varie forme cambiarſi; ed in vero fe le varie, e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica, come dovetter fenza fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo: no di ſangue formate, e d'eſſe nondimeno s'ingenera il sangue, convien neceffariamente dire, che varie, e varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue, fi pof fan dal ſangue parimente ingenerare; e cosi ſomigliante mente della collcra, e dellaflemma aurebbon potuto co loro filoſofare, Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare, chel'aria ſola col riſtrignerſi, e coll'allargarſi, e con altri, e altri movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare, e ſangue, e carne, e oſſa, e nervi, c altre, e altre parti cosìſalde, come diſcorrenti dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori, e di malattie, alle quali faccian, meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso, e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono, che non ſolo veramente uno ſia il principio.di tutte coſe, cioè il corpo: ma che ſe uno il principio non foſſe, non ci ſarebbe ne dolore, ne malattia, ne rimedio alcuno giammai, e che a fare diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer quell'uno corpo di verſamente ſtritolato, e partito: lecui ſottiliflime particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif feriſcano. Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno, il qualnon s'avvede,ciò che impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo; ma ciò che nedee recar vcra mente più maraviglia, ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte dice,checo lui ilquale porta opinione, che l'buomo ſia ſolo ſangue, debba mo& rar, che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie, e varie maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno, o qualche età dell' huomo, nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli degli altri. Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato diviſamento nel favellare, avendolo egli ſempremai per coſtume: Io l'addimando in prima, perchè ſecondo lui la collera, il ſangue, e la flemma, e la malinconia nel comporre varie, e varie parti dell'huomo, poterono sì be no cambiar natura: e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente? e s'egli riſpondeſſe, che non già col cambiar natura, macol ſolo meſcolamento quelle parti formarono, lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta, c tanta varietà dicoſe; e addurrei per eſemplo, che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare. Ma ſe que’mcdici diceſſe ro eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate, come potrebbe mai Ippocrate quelli impu gnare? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar vedere, che quelle coſe, delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre nell'huomo medeſimo: Io per me non ſo, co me ſarà egli ciò mai per moſtrare? Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi pio; recando perragione, che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi. Ma chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio, il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura, per grandezza, e per movimento, con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe. Per far pruova poi maggiormente della ſua ragione ſog giugne Ippocrate: ſe ne meno il caldo, il freddo,e l'umi do, e'l ſecco,fe temperati eglino non ſono,non baſtano a far la generazione, come aurà mai vigor di farla un ſol principio: Io per me non ſo, che ſorte d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate; doveva certamente egli, il che mai no adempie, provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il tutto s’ingencri; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio, che a lui avreb M m bon riſpoſto quei filoſofi, che clleno, comeche ten perate ſi fingano, non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene valevol' eſsere: ficomenes terra,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza, e tanti, e tanti iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re: imperocchè il ferro ſolo è quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non altrimenti il corpo, il quale in particelle, o ſia già diviſo, o divider ſi poſsa, le quali ricever poſsano parimente varie, e varie grandezze, fito,figure, eordine, può ogni coſa produrre, ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che egli va filoſofando, potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape giammai ingcnerare. Ma non altrimenti, che s'egliavuta già aveſse la vitto ria, faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e dando a lor la ſentenzia finale co tro, determina temerariamente la quiſtione con dire, che eſſendo la natura dell'huomo, e dell'altre coſe chente, e quale egli ha diviſato, non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe, che lo ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato. Magodaſi pure Ippocrate della ſua vittoria, e ne riceva l'applauſo da Galieno, il quale non per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima, ſe non ſe per acquiſtar fede alle ſue opinioni; qual coſtu maegli parimente negli altri autori tener ſempremai ſcor geſi, delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a ſuo pro fi vale commendagli, che nulla più; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue opinioni contraria, non ha villania, che ſi diceſſe mai a triſto huomo, che lornon dica. Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo, vuol egli intendere certamente per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore, la fredezza, la ſiccità, e l'umidità nel corpo per loro ingenerato. Ma cotante altre, che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono? Dirà egli dall' accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi, come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver voluto mai volger 1. ſiad fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro qualità; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal. Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo: e dall'aver ciò traſandato Ippocrate, avvien, ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il leggiero, e diſcorré te caldo quelle coſe operare,che a ſpiritual ſoſtanza ſola mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance, che in diſtruggendo fi l'umancompoſto, tutti e quattro i già detti corpi ſce verandoſi, alla lor primiera natura ritornino; e ciò vuoľ anch'egli,chenel disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna. Ma le egli ficomea caſo, in fretta, e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole, lo porto opinione, che in cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere; perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri, che quelle ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non, miga ſemplici, ficomee'vuole, ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue, la Flemma, la Collera gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to, che ſi convenga, l’huom viva in ſanità:mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali. S'affatica egli con lunghe dice ric di moſtrar, come poffan que' quattro umori tutte le malattie ingenerare:maciò fa egli troppo groſſamente, e generalmente ne'dubbj maggiori tacitamente paſſandoſe ne; e dopo queſto torna di bel nuovo alla canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li, di natura, e di nome fra effo lor differenti; la qual di verſità immagina egli di ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e dalla diffomiglian za del tatto, che ſecondo lui vi s'avviſa. Ma s'aveſſc egli mai poſto mente a cotante coſe; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi diverſiſſime, e al contrario ad al tre, ch'avendo una medeſima natura han colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi, ſicome le Fraghe, le Ciriegie, le Azzaruole, le Corniuole, eľVve, e i Fichi, certamente, del ſuo ab baglio ſi ſarebbe avveduto. E più avanti dovea fomiglia temente avviſare, che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell' Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to, che i vari colori non ſian buoni, e fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe. Ne la ragione il con trario ne addita; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo che dal variamento del ſito, o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente ad Ippocrate allor che diſſe, che dalla varietà del toccamento, poſſano iva rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa avviſarfi, ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano, tutti egualmente nelle vene, e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più par te e'li rapprendono, e in una maſſa s’uniſcono, nella quale, poco, oniun divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore, dell'umidità, della ſiccità, no aurem di forza a confeffar, ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle prime, e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha ficcità, come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi? e ſe l'umidor del corpo altro non è, ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia Tanamente fi loſofure, egli dourà concederſi, che tutti gli umori del corpo umano egualmente fian umidi, dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo tangente, e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo, tutti ſono egualmente caldi, e fuor di quello tutti fimilmente dalla circonſtante aria raffreddati vengono, o riſcaldati. Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo umano ſognati da Ippocrate, ſicome e vuole veramente ſi foſſero, e alcun di elli, o calorc,o freddo eccitaffe, impertanto no potrebbe dirſi effer cotale umore,o freddo, o caldo: imperocchè ſe o ſpina, o chiodo, o altra pugnente, o doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella ſuol poco ſtante, e freddi riprezzi, e ardenti febbri ecci tare; e pur la ſpina, il chiodonon per tanto, o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano. Finalmente ſi sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma, dice egli, ad huom da raſli giammai, certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo: veggiam noi per ogni ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo, o d'eſtate, o d'inver no, o digiorno, o di notte; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad Ippocrate, come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti, e più celebri fra gli antichi medici,non avervi medicina, che vaglia a vuotar determinato umore, che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine; che ſe mai di quello ſi foſſe alquan to inteſo, forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche, e novelluzze; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza buglio di sì diverfi umori compoſto: c pur egli non giunſe mai la mente di que'valent’huomini ſanamente a compren dere, come chiaro dal medeſimo ſuo diviſamento ſi fior ge. Credettero, dice Ippocrate, coloro uno effer l'huo mo; perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un ſolo umore; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo, che quel folo umore; ed altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non esser altro l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il ſangue l'anima umana. Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate, e immagina di gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni, dicendo non mai alcuno eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere inſiemcmente ſcappati fuora; e vuol che quantunque volte huom prendendo medicina purgante la collera ſe ne muoja, vomiti primicramente la collera, ap preſſo la flemma, indi la malinconia, e finalmente il ſan gue di forza ancordalla purgazione ſia tratto fuori, e ſo migliante avvenga nell'altre purganti medicine. Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe altrui uccellare, o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero, fenza prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione, cioè, che il medicamento entrato in corpo vada da prima movendo, e cacciando fuora quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra. Aggiugne per iſpianar la materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli; dalla terra per lor nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli; c ſomigliantemente po tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma coll'ordinamento, che teſtè accenna vamo: cioè, che la medicina purgante la flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori, e finalmen te il ſangue, e cosìſimilmente tutt'altre; ma dagli ſcan naci prima il ſangue, poi la flemma, e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia, e ravviluppa; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere, o mani, e ſenza poter dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra, o altro, che lor bi fogni; elleno ſi nutriſcono della terra, macon altro ma giſtero di quel che troppo groſſamente immaginò il buon Ippocrate. Evvi nelle piante una fotcililina, e volantes sostanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali, la quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici; or tra per lo movimento d'eſſa, e per quello, checontinuo dal Sol ri ceve la terra, e damolt'altri minuti corpi, che perla lor focofa, e attiva natura, a guiſa di tanti ſpiritelli l'agitano,e la commuovono, molte parti d'eſſa in ſu vengon fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare, e fic candofi elleno in così farti buchi vengonoa cambiar figu ra, e da'formenti digeſtivi delle medeſime piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad accreſcere, in lei traſmutandofi;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi; pongaſi mente alle me lagrane, che a volerle aſſaggiare ritroveralli, che le ſue fibre portano a' granelli un amarisſimoſugo, il quale, o dolce, o alquanto agro divien nella carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido, e ſcipito; e ſimilmente avviſeremo altresì in quelle frutta, che colte da propj alberi, e ripo ſte ſoglion venire a inaturezza: alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi dolci, e ſaporofi, ficome ſono le ſorba, le neſpole, e le melegrane medeſime. Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante, acciocchè fi nutrichino; il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura, comechè di ciò alcuna pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro, cheſimpa tia, la quale altro noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il tale,o'l tal determinato umore; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò offer vato: ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano, formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra; e quinci avvien,che ciò che ſi vuota appaja di diver fi colori, e prenda una puzza ſimile a'cadaveri sper, eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe, che aprono ledelicate boccuzze de'vaſi facendo, da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto, e corrompendolo; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali, chein eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi; e quinci avvien, che le fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono, e diſcorrenti. Finalmente lo immagino, che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno,e che ſe pur cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari, aveſse avuti gli occhi di glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé glicle cóſento,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli, e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc, ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò, che altrove più d'una fiata racconta, altri ſughi aver egli oſſervato recere, c per ſotto altrui cacciar fuori certi altri umori, i quali eglinondimeno vuol, che nelle vene non abbian luogo; sì cheanche ſecondo lui, non è fano diſcorſo, ne concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene, perchè ſi vuotano colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo indarno, ſtillarli sì fattamente il cervello, e porger cagione a' poſteri di ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare? Ecco come una ri cevuta opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri della verità. Orlo, direi ad Ip pocrate, e a tutti quanti i ſeguaci di lui, traggaſi ad huom fano il ſangue, cd aſsaggiſi, chee' non ritroveralli ne af ſai ne poco amaro; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo, oveè la malinconia? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì fatti umori fraſtorni tal diſcerniméto al palato; ma ſe a giuſta porzion di ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli, e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga,e fi confonda,noi proverem nel ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima, novi do vevan eſſere. Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo,in su'l quale vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero; ma s'egli ciò vero foffe, abbiſognerebbe, che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc;il che no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà una materias rappreſa, la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do; ma non miga egli è vero, ficome per coloro ſi eſtima che quella, ch'è in fondo del vaſo ſia la malinconia, 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa, ma del ſapor medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata, la roffa parte in nera, e la nera ſcambieraſli in rof. fa; il che avvien dall'aria, la qual movendo le particello; della fuperficie del ſangue, le fa così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette coſe, due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una dellequalicſſendo diſcorre te, e bianca, ne fa chiaro veder, ch'ella fia chilo, in fan gue non ancor traſınutato: l'altra gaglioſa,e tenace, di cui ne fa purmenzione Ippocrate; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va col ſieroſo migliantemente miſchiato; e agevolmente la coinprenderà chiunque ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo unore agiatamente eſalare. Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare, che in quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non, mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore, nepur quella parte, che vi va a nuoto; ne in quell'altre, che per Nn avviſo di lui dalla malinconia provengono, il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo; ne men quella parte d'ello che, nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate, ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a coſtoro egli non ne traeva, in altre opportunità potea farne eſperimento. E più di lui era debito di Galieno tal fatto, nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate. Ma Io non poflo non ammirar quì quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate, perchè elle dicano, effer flemma l'huomo; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere, di quella effer formato l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata, di quella il latte, diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad Ippocrate ritornando: tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più nobil parte del ſan gue, dico della parte ſpiritofa; quantunque altrove oſeu ramente ne faccia motto, e ſenza penetrare, o diſaminar tanto che bafti la ſua natura; e moftra, che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide, licome è l'aere,e non già fra le umide, com'è l'aqua: il cui ſembiante più coſto par, che ritiga lo ſpirito del fangue;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze dell'huomo, e diſaminar così di effe, come delle parti ſolide, la natura, gli uficj,e le ope razioni; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na tura di quello, la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne meno manchevole, e ſcempio ftabi fire di razional medicina. Ma il buono Ippocratc, come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto, e come ſe quanto avea diviſato foffes incontraſtabile, e fermo, paſſa più avanti nel fuo libro a narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la qual coſa egli vuol ritrarre non altronde, che dal toccamento; ed afferma coſtante mente, cha la fiemma,del ſangue, e della collera ſempre ha'l tocco più freddo; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli, che l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia ne veg giam per le bocche, per le narici degli animali uſcir fuori; e per l'enfiature, e altri mali dalla flemma cagionati, che ſovente in quella ſtagione afcir ſogliono agli huomini. Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına Ippocrate più che mai le viſcere, ele interiora ſon riſcaldate, non ſo lo come poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma, poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò, che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici, e ch'ella produceſſe que'mali, che freddi s'appellano. Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua cſperienza contraſto, e ſcorgeſi, che l'eſtate, ſe avviene ad huom qualche catarro, qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici, e per la bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro inca po, ne in corpo, ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente diſcorrere, dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori della' noſtra pelle: il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah bondantemente quella ſoſtanza, che in ſottile alito,altro tempo ſvaporar ne ſuole, vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade ſivuota. La Primavera vuol, che ancor ſian copioſe le flemme; ma collo ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil ſanguigno umor vada creſcendo. Ma feper opinion di lui anche la primavera le vilcere lon cal:liffim, chefanno in corpo le fléme, e chi loro da luo go? Ma la ragio, che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 : la Primavera dic'egliè calda, ed umida,e caldo, ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga, anziche no, ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli Idropici, in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui, dic'egli, fogliono avvenir diffenterie, e vacuazion di ſangue per le narici, ed è il ſangue più caldo, e roſſo, che mai? Certamente come altre fiate abbiam detto; im perocchè la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti d'Ippocrate è umor piacevole, e dolce anzi che no; e più toſto la malinconia, e la collera dovreb bon eſserne accagionate, le quali eſsendo aſpre, e ſtimo Joſe avrebbon a rodere le inteſtina, e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo, e groſſezza fi trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho curato d'oſservare. E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato, perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare dietro le biſogne della medicina; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero, ne mai imbroccato aveſse al legno. Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia: imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica in contrarioGalieno; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole, e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito; ma che chc ſia di ciò, non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori, tutto il ſiſtema deila ſun ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier foffio, e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene, e particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida, che loro non già inortal coſa, ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti, che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto. E per lo meno cre de altri, che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta; c anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo, ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe raccolti; c altri, ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio d'Eſculapio. E certamente ſe mai vero foſſe, che Ippocrate, come An drea antichillimo autor riferifce, miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre libreria di Gnido, egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche, ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend' egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì malamente compilare le aveſſe; e quinci ſia altresì avvenuto, che tante varie, e diſcordan ti dottrine, e opinioni per entro vi ſi ritrovino; e perciò ſia indarno gettata la fatica di coloro, che di accordarle tanto lungamente ſi ſtudiano; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco Ottomanno: Vercor ne ple rumque in iis, qui confultò inter fe diffentiunt conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò, lo per me ſon ſicuro, che agevolmente accorgerafli, cui caglia di chiarirſene, non effer degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate, quante d’uma cieca, e comun fama ne han ri cevuti; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro Petrarca,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel di Coo, che fe vie miglior l'opra, Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra i Greci ebbero inaggiore ſtıma,e rinomea;i quali non men, che di tutte altre opere d'Ippocrate, tenner pochiſſi mo, o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero,e ſmar rite tutte loro ſcritture; ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc, dalle reliquie, chene' libri di Galieno, e di Celio Aureliano, a ' dinoſtriſe ne riſerba no; e per quelle poche memorie, ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo, e medico, quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno. Ma ſe ancor foſsero in piè que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero almen rimaſe le chioſe, che ſu d'er ſi fe Lico, il quale ſi diede cura d'andargli un per uno mi nutamente, e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente, e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro, comechè io non mi dalli briga di favellarne; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano così generali, che per la medicina poco, o niun pro trar ſe ne poſla; e di leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con pochisſimo ſtorciméto alla politica, alla milizia, e ad altre arti, e diſcipline; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie, che ad ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute; altri, come avviſa il Santoro, non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno, e ſenza l'indirizzamento delle regole dell'arte;di fetto, ſenza fallo,gravisſimo ad autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole, e leggi in qualunque arte, emaſlima mente in medicina; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove, fur da lui tralaſciati ſenza alcuna ragione; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta qualche argomento, ritroveral fi eſſer poco ſaldo, o inefficace; anzi loventi fiate ridevo le, e frivolo; altri ſe ne ritrovano,la cui dottrina, o aper tamente, o per poco che ſi vada diſaminando, falſa, e fal lace ſi ſcorge. Altri finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi, e oſcuri,e impigliati, ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri trarrà coſa, che monti un frullo. Ma l'oſcurità è vizio si ordinario d'Ippocrate, che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì, che non ne faceſſe motto, a non ne lo proverbiaſſe, e ſcherniffe più fiate. Ma fe è vizio, ed error grave l'oſcurità in qualunque materia, egli è ſenza fallo graviſſimo, ove ſi tratti dimc. dicina; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa, e in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni, e nocumenti cagione; if perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe, che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion farſi per alcuni, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le ſue opere, e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe ro ſenza riſerbo; ma quafi ſotto bel velo ricoverti, e aſco ſi; imperocchè lo primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta, ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco vrirla; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a interpretrarla, quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di divenir dovizioſi d'oro, e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano. Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi riſapeſſe, potea con un più bello, e fottil modo ben farlo, cioè rimanendoſene in pace, ſenza ſehiccherarle carte, o por tanticervelli a partito per intender la ſua mé te, con si grave riſchio de' poveri ammalati. Or veggafi di vantaggio quanto egli foffe dabbene, equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti,co’quali dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe gnare; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri, e particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato, e in quella sì confuſa maniera, que' catti velli l'olio, e la fpeſa indarno vi dovettero logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi, e regole di ciò, che fi dce nell'arte eſe guire, è tanto biafimevole, e ſconcia, che nulla più; e ſe Principe mai, o Repubblica in dettando leggi, e ftatuti ſi valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre, in quai garbugli, in quali intrighi, in quantipiati, o conteſe ſe ne viverebbe quella malnata Città, quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant animidociles, teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli, a quel,che poco avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto: Decipimurſpecie recti: brevis effe laboro Obfcurusfio: Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate, per tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre, sì chenon aveſſe arditamente a dire d'Ariſtotele, ed' Ippocrate, e de'loro eſpoſitori favellando: ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint. E quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo: Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis: cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam, & immenfam artem contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh unoquoque plura præcepta recondere, quàm quæ verbis deſignarentur: &fingulos Aphoriſmos prêter id, quod exprefsè docent, proponere, ut figna, du notas, quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto, o ad accagionarli Ippocrate; imperoc chè qualbiſogna, o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut to, e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti, e sì diſgiunti ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe, c di niun rilievo? E qual lode è mai d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa, e laſciarnu cento, e mille, cuiabbiſognerebbe, che dall'intendiinen to del diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe medeſimo, a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo diſtento. Ma ſe pur po telle teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità, che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta, degli umori, degli alimenti, in cui ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo chioſatore, Hippocrates anigmaticè, dw obfcurè adeo loquitur, ut divi nandum magis quandoque, quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo. Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare, che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo, e oſcuro conoſcinicnto, ch'ebbe di quelle coſe, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure, c affai brevi parole cerchi toſto sbrigarſene, come fan coloro, che di future, e loro ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode, e commendazione dalla voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono, comes cofa maggior de’loro ingegni vie più commendano; e per ciò è avvenuto, che sì folta turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno: imperocchè a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente iinboccar poſſono; eſſendomanifeſto, che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli intenda,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti, e iſtorie di malattie, o fa parole di qualche parte di notomia, ch'egli avea oſſervata, non torbido, e confuſo ſtile;ma cõchiaro,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per entro a tai ragionamenti qualche antica, e vieta, e poco inteſa parola: impertanto non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la ſua mente non fi com- ' prenda. Egli è adunque oſcuro, ove di ciò che non inten de, imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali, c diſcender omaia qualche particolarità: lo dico, che il primo, ove procura di ſcorgerne la medicina, come poſta lu la vet Oo t21 1 ta d'un erta, e lunga, e ſtraripevol roccia,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita,ei molti, e gravi peri coli, che vi s’incontrano per huom pervenire; e tale,e tan to, che vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante malagevolezze ha la medicina per fe medelima, ei, che dovea far altro, fe non ſe a tutto sforzo. agevolarne il ſentiero? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì fattamente impruna, che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate, chela brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica, al lettore altrettanto ne aggiugne. E nel vero chi potrebbe confide rar quanto ftento dovettero durar tutti coloro, che prima di Galieno ſi dieder briga d'interpetrar l'opere d'Ippocra te; e pur nientedimeno non uſciron dal laberinto, come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il filo da poterlo ſpiar tutto, e ritornare in ſalvamé to; quantunque v'há chi non gliele vuol credere, e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo avvolpacchiato,co me tutt'aleri; e ne ci reca la ragion dicendo, che ſe vera mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate, cotante quiſtioni, e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti, per indovinar, che diavol d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po, che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina, opportunamente impiegato? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è a cuore la brevità, a che perder parole per dire,che, acciocchè il medico adempier poffa felicemente il ſuo uficio, abbiſogni che vi concorrano l'opere dello in fermo, de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian preſte? O utiliſſimo, o raro, e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta, e Monna Nonna ſomigliantemente non l'averebbe ſaputo? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più coſto con aringo d'ornate ciance, che con faldezze di dottrina, cerca difar riparo Galieno a petto degli argo menti, che incontro gli avventa Giuliano: non contien al tro certamente, ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa, ch’un Maeſtro Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina, maſſimamente ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione; ella è tales: le vacuazioni, che per vomito, o di ſotto ſpotaneamente avvengono, ſe fian tali, quali eſſer denno, giovano, e age volmente ſi collerano; e ſe ilvuotamento de’vaſi tal lia,qual çiler dee, giova, e ſi tollera. Orlaſciando da parte ftare, che con chiarezza, e brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per avventura dicendo, cheſe l'arte, o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo, fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro, ove ſia l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe, e dell'inventore, come Galien lo dice, della razio nal medicina Ippocrate; adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi: A che dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina, sì lungamente, eintan ti libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli uinori, e dell'altre cagioni delle malattie, e delle altre coſe confacenti alla medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo,egli abbiſogna, ch'a ſuomal grado,alla fallace empirica abbia ricorſo. Ma più oltre: onde fe meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo, che molto bene non ſappia, che al lor, chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap profitta, che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente, &aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate, che quantunque non ne tragga alcun diſagio l'infer mo, e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca, avvenir può talora, che l'umor vuotato non ſia tale, quale vacuar ſi dec;imperciocchè ben potrebbe egli di leggieri avvenire, che dopo la vacuazione di qualche materia, la quale niente aveſſe che fare colmale, riſtoraſleli l'infermo Oo 2 per qualche vacuazione inſenſibile di ciò, che cagiona il male,fattanel medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia, ſe talora ne’più gravi, e pericolofi malori, quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la cagioni, che l'adoperano; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera di quelmovimento,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli, e nell'ufcir fuora, e nel mutar faccia, fito, o movi mento que corpicciuoli, onde il mal ſi cagiona: a pruova conoſcendoſi, che huom ſuda, vomita, e manda fuori per altre parti quantità d'umori, e ſi ſgrava immantinente dal male; che ſe non uſciſſe allora o pietra, o altro, che'l ca gionaſſe, ogn’un di certo giudicherebbe, che per la vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò che lo dico, in quci, che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo preſi gli antidoti vacuarſi per vomito, e per ſudore gran copia dimaterie nel tempo medeſiino, che guariſcono; e pure quelle non han coſa del mondo che fare col veleno della vipera, il quale in altro non conſiſte, che in una piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza, la quale rappigliandone il ſangue nelle ve ne toſto n’uccide. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e nelle ferite, ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non pertinenti,c guarire, ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii medici con falaſli, e purgagioni, ed Jorinojoſi, cimportuni rimedj i loro infermi crudelmente ſogliono malmenare; giudican do così imitar l'opere della natura; e per aver talvolta av viſto, che qualche febbre, o altro male ſi ſia diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue: comandan poi, che nelle febbri ſi tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio, nell'accreſcimento,e nel vigo re delle malattic, ſe non ſe dall'aver eglino veduto, come chè radillime volte, che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato, e riſanato qualche infer mo; e queſto è quello, s'io non vado errato, che dovca norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quelle materie ſi vuotano, quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo; concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la delicatezza della parte, per la quale ſi vuotano, e per altre cagioni ancora recar ſogliono noja grande agl'infer mi; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo dimenticando al trove avviſa; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia, e ripiglia Ippocrate dicendo, ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come vera una propoſizione non miga per lui provata, ne dimoſtrata in prima, cioè, che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente, o dal cambiamento degli umori in altra qualità di quella, che in prima aveano, la qualvien da'medici, corrottela, chiama ta; ch'egli però giudica,che ove non ſi ſcorga legno di cor rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione. Coſa, la quale foggiugne Giuliano, in modo veruno in tender noir fi puote, ne è vera: imperocchè fe ciò foſſe, eglinon ha dubbio, che tutte in fermità agevolmente gua rir potrebbonſi: ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia: e una ſola la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe; imperocchè ciaſcun potrebbe agevolmente qualo ra a grado gli foſse, effendo ciò in ſua mano, comeilmal l'affale, così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro, falvo che fa ſola vacuazione, la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col ſegnare, ſe'l male ſarà cagio. nato dal ſangue, e fe dalla flemma, e dalla collera,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di Giuliano con dire, che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde del corpo qualche vizio; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel inale,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli; il che certamente non avviene; anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze, coſtantemeure altrove il niega. Ma come allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali,quando le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da eſſe, le vacuazioni riefcono nocevoli, non che infruttuoſe: e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te afferma Galieno, elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo, quando non può eſſere, che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate le partiſalde, le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate, e ſconce ne vennero? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo; e allor, che li veggono dopo la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente, che Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina; imperocchè avviſa egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al paeſe, alla ſtagione, e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione. Ma per tacer della ſtagione, dell'età, e del paeſe, onde niuna certezza trar ſi puote, con qual argo mento in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai rin venire il inedico fe fia, e qualſia quella parte diſcorrente, che cagioni l'infermità? Credeſi la collera cagionar la ter zana: la malinconia, la quartana: e pure queſte alla va cuazione, che penſan fare i medici di tali umori, non ce dono:'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù, e con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione, che egli lo tra sformò sì, che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare, e interpetrare i detti degli auto ri, egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo; imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien, che vada al peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli. Primicramente la ragion d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar canto, e d'aggirarſi fra vani argomenti al Forli alSermoneta, e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza nel vero., e materiale, e più li ſten de aſſai di ciò, che Ippocrate s'avviſa; imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo, sìfatte perſone dovrebbono andaralpeggio; il che falſo ſi ſperimenta; e ben ſi conoſcerebbe apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate, s'egli come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata, comepofcia fecero i ſuoi chioſatori, dicendo, che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente, nepofare: perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in loro il chilo, e'l fangue, c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del corpo, ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato. Ma non poſer mente coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti, e ſalde del. le loro foſtanze, checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p. la continua formentazione di quello, che in aliti lotciliſi-. mi mai ſempre gli va ſciogliendo; e quanto più abbonde vole, e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo, e valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni; e quindi ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo: e comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al dovere per qualche cagione di fuora a muo-, verfi, e a rarificarſi ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono: 0 pure quello diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo, cdivi fermatofi, or una, or un'altra ſorte di mali, e talvolta con impedir affar to la circolazione del ſangue repétina morte alcresì cagio na; e ciò è quanto dovea il noſtro buon Ippocrate avvi fare. Appreffo fålla egli gravemente, ſenza dubbio, in tacendo come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle vacuazioni, o pur colla dicta; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi fa colla die. ta, comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur certamente egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta, e quando altrimenti e in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco,e vani farebbono ſta i per avventura i ſu: i avvertimenti. Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi; e come chè in lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato del favellare, confonde quelle materie, che meſtier fenza fallo gli facea illuſtrare; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe più neceſſarie a ſapere in medicina; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole, alle quali fa meſtieri d ' eccezione, le dovea egli almeno accennare; ed era aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò, che le tant' altre bazzicatu re, in cui inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia, come quello, che agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è, che non ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina, che ne'mali lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo, ma un poco più largamente x Chiè, che non conoſca, che nell'acceſſioni della febbre, non ſi debba a niun modo cibare il malato? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar, ch'alcuna fata anche ciò far colz venga. Nel duodecimo aforiſmo fi da briga, e ragionevolme te nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie; ma in materia di sì gran lieva, e onde, com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro, e intral Lito favella, e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine; tralaſciando non per ſuo mal talento, ma per ſuo poco ſapere di far motto de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli, egli è molto ſcarſo: recandone un ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo nel cominciamento di quella lo ſputo, il male abbia poco a durare. Va errato parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori, alle fecce, e ſpezial mente all'orina; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal ſangue;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada tragittaſi alle reni; e ro, comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate, dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi, che appena tranghiot titi, di preſente ſi orinano: e agli ſparagi, al Terebinto, e ad altre coſe, che ſenza toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina. Nel tredecimo aforiſmo dice Ippocrate, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno; e quindi paſſa a far paro le dell'altre età. Ma queſto è un'errormaſchio; imperoc chè dal continuo ſperimento ne fi fa chiaro, ch'a’vecchi tra per la lor debolczza,e perchè poco nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi. E verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo: inediam facillimè fuftinet media etates, minus juvenes, minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici, cioè, che coloro, i quali cre ſcono, abbiano in copia grandeil caldo innato, e che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo, alorimenti il cor po ſi conſumi. Ma non avviſano coſtoro, che alcuni peſci creſcono oltremodo, e non che eglino caldi fieno, anzi só freddi si fattamente, che lc loro interiora agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono: come avviſa de’luccj del la nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani: ho aperto (dic' egli) il luccio ancor vivo, e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro. Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella, per la cui opera ben,' digeſtendoſiicibi, e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a quella in prima dovea por mente Ippocra te, e poi diterminare; ma eglia ciò non badando, indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino, che di verno, o di primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime, ei louni lunghiſſini; e perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba;concioliecofachè l'innato calore allor creſca, cui maggior cibo certamente abbiſogna, e che di tal coſa nes fan pruova l'età, egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì breve ſen tenza: ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile; ma ab biz Рp biaſi pur ciò per niente, egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio, che quantunquevero in tutti huomini, per tacer d'altri animali, ciò che diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno, e di primavera affai meglio fmaltiſcanſi i cibi: la ragione nondimeno, che di ciò e' ne reca è falſa; concior fiecofachè falfo apertamente ſia, che nelle menzionatcſta gioni caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle, nemen nulla montcrebbe: non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome ne ſiamo omai tanto accertati, chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni fanciulleſched'Ariſtotele, che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il caldo, come ſenſo egliavel fe, e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe, alle più naſco fe interiora ſi rifugga; e certamentecotal ſciocca filoſofia, che i luoghi ſotterra caldi ſiano di verno, e freddi di ſtate, per lo Termofcopio falſa apertamente ravvifaſi, comeché tali pajano a noi, che di ſtate caldi, e di verno freddi v’en triamo dentro. Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir potrebbeſi, che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener quella ſoſtanza, che di ſtate eſce fuori, la quale da al ſan gue col movimento il calore: non però di meno, come fiè accennato, manifcſtamente in noi ſtesſi ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte, non altrimenti, che quelle di fuora, effer più affai calde di ſtato, che diverno; ne per altro nella detta ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo; ne Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare; il quale dice altrove, che di verno s' ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore, eche avvengano lunghe, e cagionate da tardi, lenti, e freddi umori le malattie. Ma Galieno volendo le parti del ſuo maeſtro difendere, immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con dire, che di ftate ſian calde, maggiormentc che diverno le viſcere, di quel caldo, ch'egli avveniticcio, e foreſtiere chiama,ma non già miga deicaldo innato. Chiama egli caldo innato una i 1 1 remo. una aerea acquoſa ſoſtanza d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata, e avveniticcio allo incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato; e di queſto egli di ce nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che abbondevoli fiano maggiormente i giova ni, e di quello i fanciulli. Ma quanto ciò poco, anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal ſangue; perclié folea dire l'Arveo, altro non eſſere il caldo innato, che'l ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum, ſeu primo natus calor ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium, præfertim pulli in ovo luculenter conftat: utentia, multiplicare fit fupervacuum. Argomento manifeſtiſimo è di ciò, ch'io dico lo ſcorgere, ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale, immantenente ogni calor viene ella a perdere: e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue, ben toſto dal cuore, dalle vene, dall'arterie, da altre parti falde tutto il calor fi diparte. Vano, e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi ſuo le, il cuore effer fonte del calore: ne ſo lo vedere, come in sì fatta opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte; imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo, che l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue (e ciò avviſa infra gli al tri il noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo, convien! inveſtigare, onde il calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie, e nelle vene quello mantieneſi. Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue ſi riſcaldi, e caldo continuamente ſi mantenga, perlo movimento, che dal cuore, o dall'arterie egli conti nuo riceve; ma non baſta certamente un si debile movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore; anzi prima che'l cuore, e che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo, caldo vi ſi ſperimenta il ſangue; ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro; ma chiunque P p 2 pon mente alla materia, onde ingeneraſi il ſangue, più age? volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe, e di frutta, e di carni, che altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte, e ingenerate; or sì fatte vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la divengon calde sì factamente, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la forinentazione, dura parimente in loro più, o meno il calore; cofa,la quale nel mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora ravviſar eglifi puote; ma d'altra affai più nobile, e più maraviglioſa maniera certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue, la quale in parte è ſomiglian te a quella, che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze minerali; onde avviene che lo ſpirito,che per chimica ma no dal ſangue li trae, ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi formientati vegetabili trar fi ſuole. Ma come veramente una tanta opera nel ſangue fi faccia, e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a conghietturare; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella, la quale diliberando nel fan, gue i ſemi del fuoco da que'ritegni, per li quali non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco, v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno, o molto pochi, o in sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia agevolınéte ſvi luppare. Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per manevole negli animali il calore, il quale, or naturale, or non naturale porrà dirſi, fecondochè convenevole, o non convencvole e farà alla natura di quelli. Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo, intanto,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio, certamente convien dire ch'appena ne'fanciullinon inolto guari dopo i loro naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno, ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa della doctrina d'Ippocrate, portati per Ga licno. Ma per ritornare al noſtro propoſito: di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante, la qual continuamente dagli huomi niper la reſpirazione li bee, e per le ſoſtanze del volante. ſalc, che'n quella, più, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano, sformatamente la formentazione del ſangue, e in eſſo in prima, e poi nelle viſcere divien più grande,e pa riinente ilcalore; allo incontro poi il verno, mancando all' aria que'ſali, e tra per queſto, e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore; ne per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue, e le viſcere, maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente, che per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono; ne pare dalla verità lontano ciò che de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero: Dicono che agli kuominidi Lucu morie: coſa mirabile, e incredibile, e che ha più della favo la, che del verifimile: fuole intervenire, chequelli per ciaſ cun'anno, cioè a' ventiſette del meſedi Novembre, nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio, muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino. Ma che che faſi di quelli: lo dico, che ſe Ippocrate, e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare, avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione, per la quale di verno, e di primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco, e fa la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa, e fi dilegua; cf fendo ella, comechè accender non fi poffa, vie più dello {pirito delvino volante, e ſottile; e per mancamento d'u pa co  na cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene, che gli huomini, co mechèpiù caldi, men gagliardi ſi ſentano, e atanti della perſona. Ma nc.men ſe ſi concedeſſe a Galieno, che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali, ſarebbe ciò pun-, to per giovare ad Ippocrate; concioſliecoſachè, o innato, o avveniticcio che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi.nell'animale, conſumerà ſenza fallo il corpo diquello; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel precedente aforiſmo recata, converrà certamente dire, ch'a' giovani più ch'a' fanciulli, e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere; ma ciò Ippocrate, e Galieno fe'l vedano, che per altro poiifanciulli più largamente eſ ſer denno cibati; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per creſcere, sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di ſtate abbian più biſogno di riſtoro, e dicibo gli animali, nondimeno non molto bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione, convien che parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi, che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in cui certamente il caldo avveniticcio, è quel che ſovrabbonda; tralaſcio ciò che dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore, non ainmalino co sì, come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il calor de'febbricoſi, ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato, ſalvo che per gradi. Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc; imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente, ſuppone le due ſorti di caldo; perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire. Nell'aforiſmo ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color, che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli(purie, i qua per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco, e l'altres viſcere ripiened'acquoſe, ed unnidiſſime ſoſtanze, lo per me li me non sò, comegli umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più de'cibi, fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative; foggiugnendo nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe, le quali o figiu dicano, o giudicate interamente già ſono, non ſi debbano muovere, e ne con medicine, ne con altro irritare, ma lila fcin così ſtare; ſentenza, la quale con altre de' libri degli aforiſmi volle Ippocrate, che ſi leggeſſe nel libro degli umori, ed in altre ſue opere, e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento;mapotea certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga, cotanto ella è chia ra, e manifeſta coſa; e nel vero chi ignorar mai potrebbe, avvegnachè non inai ſtudiato abbia in medicina, che ad huom perfettamente guarito della malattia, non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi namento del corpo, ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere? Ma forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che li facciano og. gidì que' de’noftri, o poco, o nalla vi badavano; e ciò per mioavviſo avviene, perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far coli, chepaja al vulgo grande; come è il vuotar con ſalafli, e con purgative medicine; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli no fare;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo ingenerarle? ma chi ben riguarda la coſa, apertainente ſcorge, che non ſolamente in ciò,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate; e queſta certamente è la cagione, per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò, dovea annoverar Ippocrate minutamen te i ſegni, per li quali ravviſar poſſa il medico, che'l male interamente lia andato via; c que'ch'egli altrove, e Galić nelle chioſe brievemére produce in mezzo,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer puote. Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane do po le malattic; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna, chenon ſia a tutti ben noto. Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che ciò che vuotar fi dee,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo. Qui il gran macſtro delle più aſcoſe materie dell'ar te, non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume, imprende ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente regiſtrare; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti, e per le mordacità de’lughi, o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare di quel,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi recaro, che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto, e molto ne ceffario a ſaperſi dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie; ma da’ſeguaci d'Ippocrate, e diGa licno, come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto. Mów la colpa, s'Io pur non vado errato, in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire, ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito, e poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze; anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo:nel cominciamento de’mali, ſe pu re ti pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli inſegnato. Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne, egli è certamente un'avviſo così fuor di ragione, che giuſtamente da più avveduri medicanti, comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato; cioè che vuotar fi deb ba fin’allo sfinimento, ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno, che Ippocrate dato c'non abbia il cervello a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta, che poco addietro corali vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma più v'è di male, che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo glia; ſe di quel, che per li ſalaſli, come ſpiega Filoteo, o pure diquel, che per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò, che in prima egli ha detto; o diquel che fafli, e per gli uni, e per l'altre,comevuol Galieno, il quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata, dottrina dell'Aforiſmo, Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate, e vero foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in opera sì, che o giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita;séza chè p cercana (periéza abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto vuoti, e groſſo calice d'ama riſſimo, e violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè 'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto;perchè trop po pericoloſo nel vero riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate, ponendoci a troppo ſtretto riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo. Ma poſto, che ciò che inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo ardimento d'imnitar Ippocrate, e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento, l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente immagi nando,nel far grandemente vuotare, tutto il ſapere, e'l va lore del medico, e l'eccellenza dellamedicina confiftere; e RI pure il medeſimo lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano a ſtimare le pur gagioni, ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello, giàvenne detto in prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede, che Ippocrate follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore, le conſuma poi, ove non fa meſtieri; ma non una, o due fiate egli in ciò ſi vede fallare; e ſimigliantemente ciò, che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel ſecondo;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano, e ſoverchio da Galieno,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori:onde non è da farne più motto. Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi, che lo immagino, che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in queſta, ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej recar maraviglia ſiè, che ne reca alcuniegli ſovente, che colla materia, la qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal ſuo poco intendimento, e dal non diſaminar lui bene le coſe; perchè fi verifica in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele, che coloro, che a poche coſe riguardano agevolmea te diterminano; e quindi avviene, ch'egli tratto tratto diſguiſato, econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna, a guiſa de’noſtri Romanzatori, i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra, rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano, e d'alcro imprendono a ragionare. Malafciam Bradamante, e non v'increfca V dir, che così reſti in quell'incanto, Che quandoſarà il tempo, ch'ella n'eſca La farò ufcire, c Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca, Così mipar, che la mia iſtoria quanto Or quà; or là più variata ſia, Mero a chi l'udirà nojoſafia. Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle purgagioni,nelſecodo libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo: il ſonno ove in alcuna malattia fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera; ma ſe ſarà egli giovevole,ne fa avviſati non eſſer mortale. Egli l'ha indovinato certamente alla prima; e non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti, che tempo del male piacevol ſonno agiatamente ſopiva: e allo incontro rimaner in vita altri, che nelle loro malattie da funcſtif limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis Or non avvien quaſi ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie, che gli infermi più moleſtia in ſonno, ch'in veg. ghiando patiſcono? e purnondimeno eſli per la più parte riſanano; oltr’a ciò le terzane, e tutt'altre febbri intermit centi fogliono il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am, malati sformatamente annojare: e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e quantunque,per parere diGalieno, Ippocrate non intenda, di favellar de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi meno era il diritto ch'egli l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla diſcrezion de'chioſatori, o de' lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma Ippocrate, che ſe'l ſon no la farnetichezza raccheta, vada ben la biſogna. Ma che è ciò per Dio, ch'egli dice; Io vo conceder, che talor vaglia, ne vi ha chi il nieghi, ch'un placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante farnetichezza ad attutare: eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona, maottima; ma ſe un sì fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no, domine ſe ſarebbe male? e ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir nell' Aforiſmo: buona coſa è, che i farnetici dal lor farneticare riſanino; e five drebbe ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti, la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno, E queſt'era cagion,che non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate, e quanto Q92 con avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre, e a dimoſtrarne di quanto riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante utilità,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare: fomnus Jant um arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim, abfit difto error, an, & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, & repentinumfit auxilium, adeoque corpori, acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies rerum,placidifſime fomne Deorum, Paxanimi, quem cura fugit,tu pectora duris, Feſa minifteriis mulces, reparaſque labori. Canta Ovidio; e Seneca Tuque à domitor Somne malorum, requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno, o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio, o de’mortali Egri conforto, oblio dolce de'mali Si gravi, ond'è la vita aſpra, e nojosa E'lTallo Padre Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo, e rio, Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore; ne altro rimedio ritrovò Erminia (appo il maggiore deno Itri Poeti ).a? ſuoi dolori,che'l ſonno Cibo non prendegià, che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha fete; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet thing Son. DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori, e l'ali Diffefe fuura lerplacide, e chete. Ma comechè ciò fia vero, pocomontava a noi certame te il faperlo, fe non fappiamo inſieme chenti, e quali ſiano irimedj daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli argomenti, onde a’malati ſi può chiamare il ſonno; e comechèoſtinato ingannarlo: e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado errato; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre, e fe, che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi: conciofoffe co fa, che chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo: nova ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis, per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur. Econ queſte magnifiche pro. meſſe venendo egli poi al poſtro Aforiſmo, dice per fenté za d'Ippocrate: ad praxim revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis fomnus concilietur. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo d'avvi ſarlo, il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe: Som nifera quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt; fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum pretioforum. Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum,rectè applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff. Non igitur folum defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur,fed oportet ut euminrelligatis, fcut medicum ex pertum, qui ex fpiritu medicina locutus eft, non ut Humori Ba, qui ignorat quid fit fomniferum,fed ut artifex. Mache mivo Io più nel farnerico degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo, i quali di sì picciola levatura ſono, quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo tranquillo, e ripofato, e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro, e'sì gli giudichi cutti, e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia diquelli, che fin quì diviſati abbiamo:eche malamē: te allogata abbian l'opera in affibbiarvi tante chioſe, eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il narrato Signor della Sciambre, il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni, e a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire, e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una sì magui. fica impreſa. Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il Signor della Sciábre diviſa, e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto, gran coſa pur cgli non fa rebbe, come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole. Ma incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente, perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto, o quell'altro aver Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo, ficome quando p ſoftenerche'l, ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate, vuol farne a credere colui aver avu to in animo, che ancora fuori del gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano; error,che in verità non mai gli porè cadere a niun modo in penſiero. Or ſe la potente faſcinazione dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori, eglino ſiſarebbono, fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco, 0 niun valore del volume degli Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente falfi vi s'avviſano; intanto, che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno, e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere. Ma comechè cotanto imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento, c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual dice, che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro, ove inten de Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte, dicendo; ſe conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia, innanzich'ella vada a coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre, di certo, che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe l'aforiſmo è falſo, abbiſogna anche dir, che in vano ſi becchiil cervello Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal operazione; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte s'avvide, che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal beveraggio; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai l'aſſaggiarono, o gravide, o non, gravide, che ſiano elleno, foglia talora la mulla dolori di ventre cagionare: il che avviene ancora dalla mulla com, poſta coll'acqua piovana, della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato. Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo, che mortale ſia a donna gravida ogni acuta malattia. L'Aforiſmo, di cui meritevolmente dice il Santoro: ne, mofana mentis defenderet hunc aphoriſmum: cioè, che co loro, de'quali l'orina è fabbionoſa abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica, egli è così apertamente falfo, che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta, e ripiglia fortemente alcuni antichi medici, che ciò dicevano · Galieno ancora avvifa la ſua falſità, e dice eſſer errore d'Ippocrate, o dc'copiſti, e che l'Aforiſmo do vea dire, o nella veſcica, o nelle reni; ma con cutta que fta aggiunta di Galieno, falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto l'orina ſabbionoſa, ſen za aver avuta mai menoma pietra, o nelle reni, o nella ve fcica. Soggiugne oltre a ciò, che di dieci perſone appena che una additar ſe ne poſſa, che non abbia l'orine ſabbjo noſe: e pure rari fon coloro, che han pietre nelle reni, e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica. E oltre a ciò egli racconta, che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa, e nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra. Ma non menofalſo è quello altro aforiſmo,che'n bocca de’medici tutto di eſſer veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina, qua le è quella de giumenti, o hanno attualmente, o auranno di preſente dolor nel capo. E quell'altro, che a coloro, a ’ quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore, ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro, di cui Giulio Ceſare della Scala, così a Girolamo Cardano ragiona: nequemés ægrotat, ut falfo voluit Hippocrates, cum dolorem, quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi trovi la ragione, checolui poi ne recà ſoggiugnendo:fed quoniam dolentem ad locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non mai vegna loro la po dagra. Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche volmcntc in udendo quell'aforiſmo, che i malchi per lo più s'ingenerino nella parte deſtra della donna, e le fem mine nella ſiniſtra? E di quell'altro, che ſe la donna aura conceputo maſchio, ſi vedrà ben colorita in volto; mares avrà conceputa femmina, farà pallida; e di quell'altro: ſe una donna non ſarà gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà,co prila bene con panni, e di ſotto adopera ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca, e alle nari, ſappi, che per ſe ella non è ſterile. Taccio altri, altri aforiſini intorno alla medicinal materia, che fan vede re, che Ippocrate poco avea che fare certamente quando fcriveva un tal libro, ſe vi pone sì fatte fraſche, che ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina; ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto ria delle parti del corpo umano, e degli ufici di quel lc, e del modo, col quale adoperano, come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri, che non fa meſtieri, ch’lo ne faccia parola. Solamente narrerò, come per ſaggio dell' altre coſe, ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata, di cendo, che quelle parti, che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca, com'è la veſcica, il capo, e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen re, 1 1 1. te tras 1 i ; te traggono, e ſon pieni degli attratti umori; ene reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae, e che fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra, e adata tandovi una fiſtola,ſi trae agevolmente ciò che ſi vuole, e che le ventoſe, le quali ſogliono appiccarſi per attrar re dalla carne, ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo la bocca; ccco le fue parole: Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη εκ τέ άλε σώματG-, πότερον τα κοίλα π, και εκπτ. παμύα, ή του στρεά της και τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές. συνη μία, δύναιτ' αν μάλιστα, οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε, και ευρίG-' καζ μανθάνειν δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς, υγρόν δεν αναστάσεις προσμελήναςδε, και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον ποθέ. μυς, ρηιδίως αναστάσεις αν ό, τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται, προς το έλκαν από της σαρκος, και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης, χήμα τοιούτον• κυρίς τε, και κεφαλή, και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici. Non occorre, che Io mi dia briga in diſaminar si fatte fanfáluche, potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori, che parole. Egli vuole, che la veſcica tragga l’o. rina; il che tanto è, quanto s’un diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote del ca po, e della matrice. Ben ſi pare poi, ch'egli ignorimolte di quelle ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli pur ſi cõcedeſſe, ch’elleno adoperaffero per traimento, ficome fin ' a' dìno ſtri han follemente creduto, e inſegnato le ſcuole; ma qual maraviglia, che ciò Ippocrate aveſſe affermato, s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo, e ſe ne nutrichi: Távce δε, σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι, ποιέει οι οδον αυτ έωυτώ, και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής, αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quanto gli faceva luogo per la medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa,che molte, e molte coſe di notomia, che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale,igno te affatto gli foſſero; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie, le itrade del chilo, l'aggira mento del ſangue, la fabbrica, e gli ufici delle giandole, e altre, e altre molte coſe, delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai; nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina ignoraffe Ippocrate, non ſi può negare, cheegli molto nous'avanzaffe ſopra tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel, che noi fappiamo, il che da altro certamente non nacque, che dal talento natu Tale, che egli ebbe adatto aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli, e accrebbe ſommamente in coltivan do oltremodo quella parte alla medicina, molto neceſ faria, qual è ſenza fallo l'offervazione; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore; perchè ebbe a dire di lui Ga lieno, ch'egli affai più coſe colla ſperienza, che colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe; e ſenza ad altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria intorno agl'infermi da lui medicati; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti felicità nell’ofſervazioni Ippocrate, che, o per poca dili genza, o per alcro, che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel, ch'è peggio, anche talora in coſe agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra, ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado. Ma in quella parte poi della medicina, ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne meriterebbe una grandiſſima loda, ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente conoſcere, ch'egli ſtato foſſe molto manchevole, e difettoſo in quel, che più propio, e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte, ed è riporta l'eccellenza, anzi l'cf fere tutto del medico; cioè nella concezza de'inedicamen ti: maſſimamente di quelli, che tali veramente ſono, e che da’moderni, ſpecifici chiamanſi; i quali ſenza cagionar ne vacuazione, ne movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male, e riſtorar l'infermo; ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe, rade volte adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare gran quantità d'umori, le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore. Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj, ne'quali ſi veggon le malattie ne'terminiloro fatali, o in bene,o in male eſſere oftinatamente terminate; c alcu. na fin’al centeſimo giorno eſſer durata. Si ſcorge ancora ciò nelle medicine, le quali egli adopera, come quelle che pericoloſe ſono, e poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio, comea tutti conoſciute, le cantarelle, di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia,e in altri ma li dando cinque di effe, e togliendone ſcioccamente il ca po, i piedi, e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno; e racconta Galicno, ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo; ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate, che con peffimo conſiglio e' vuol, che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla de’malvagi umori; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli, è una ſpezie d'orpimen to velenoſo corroſivo, cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine; il che volendo ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata iinitare, riduſſea, pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin allo sfinimento; c quel che ſi è il peg gio, e Galieno malagevolmente il comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori ſi ſtea da il dolore, ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma chi voleſſe annoverar le mal preparate, violcntise veler noſe oltremodo, c ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate, elle ſon tali, chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo. Ne per al tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta, per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele, o aceto con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap preſſo,che nel quinto, e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto,acciocchèil ſettimo giorno menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire: και έτι τή αίματη, και την έκτη ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι, ως την εβδόμην δια jnásoe spegno dydyn. Ma da queſto,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio, ch'egli da al medico:che non avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde; e ſe co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba coll'aſciugare; ma ſe'l male non ne ſcemerà, e ne di verri piti graveil citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων,ών μη επί 5ηταί τις, φάρμακον είσαι μη ισχυρό,. ήν δε ράων γένηται, δίδεικται «δος, εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε μη ραων ή, άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila. Dalle quali parole, e da quel che indi appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere, che il medico,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative medicine; e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di -Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo, intorno a ciò certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che il medico no conoſcêdo ilma Ic, altro farnon debba, ſalvo che preſcrivere all'infermo una rigoroſa dieta, e intáto ſtar cauto, cariguardo per po, ter quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare. Ma della fuadebolezza ben avvedutofi Ippocrate, per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume degli alori medici, cheabbiamonarraci, coll'arti, e colle giun, 1 terie Del Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla, perchè diede opera grande agli arr tivedimenti, e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual ſembraverainente fatta per huon, che lo gnando færnetichi; perchè mi maraviglio forte della follia di Giulio Ceſare della Scala, che ſi diè briga d ' appiccar gli sù un comento. Divulgò altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel celebre ſuo ridevole giuramento, in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua ſciépiezza, o law fua malizia. Quelle cofe, ch'e' giura Io non le reco; ma ben può ſcorger ciaſcuno,che elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio, e divoro, non altrimenti, che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma nientedi meno non furono baſtevolitanti se sivarj artificj, ch'egli non cadeſſe dalſuo buon nome, e che, come egli mede fimo confefſiz, più biaſimo affai,che gloria dal mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av viſo, dal non aver lui avuto niuna contezza di nobili, e va loroſe medicine, per le quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe, qualora in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal coprendere aſſai bene Ippocratc, ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni, i viluppi, e l'incertezze della ſua arte, e qua to poco ſia il frutto, o'l giovamento, che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre; perchè egli ſcarſo anzi che no mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi da'Greci; temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe; ne coſtumava egli, come ab biam veduto, trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando ſcorgevale da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate: ne purgar coſtumava, ſe non ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti; perchè n'era talora ol tremodo biaſimato dalle genti minute, le quali giudica vano, comechè grave foffe, e di riſchio il male, eſſerne nondimeno piggiorato l'infermo, ſolamente per la tra. ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non ci avel ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fatto riparo; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i quali in ſomiglianti malattie mol ti, e varj medicamenti,ficome egli narra, adoperavano, non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men, che tutti i Ga lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato, o proverbiato maiſempre Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti, erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo, per eſſer lui nelle febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo; e indi a poco acerba mente cffer proverbiato Diego Raguſi, perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava, ne mo riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine, e traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo, grave crrore, e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi ſuole, 1 1 RA 319 1, des S É ſtanco, c anſante pellegrino, cui lunga, e faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando, al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di piacevole uſi gnuolo s’arreſta,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno, e di vaghi fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede, in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante, e tante Iſole, acciocchè quando a'Soli più tiepidi s'accolgono,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più, che vie più ſghembo, e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato, orci ſi fa innanzi; imperocchè ab } biano, ficome avere potutofin'ora comprendere, piena mentediinoſtro,ſe'l mio avviſo non m'inganna, a quanto mal riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando;avvegnachèa trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri; imperoc chè di loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba, e quelle poche, e intralciate memorie, che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine; imperciocchè quel buon huomo, tra perchè non l'intendeva, e anche, perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare, e porre a fondo ogni lor fama, e gride, cosìſconce,o travolte le ci narra talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre, Ma comunque ſia la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando, ſeguitar la coſtuma del noſtro im preſo diviſamento. E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio,di Diſippo, e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj, e diverſi ſentieri avviandoſi, a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire, ſe non che alcuni di loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato: darem comincia mento dal famoſo Diocle. Dico adunque, ch'e' fi puòbé ammirare, e commendare la ſua grandiflima corteſia, o umanità veramente ſingulare, colla quale, come teſtimo nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi; ma tion già la ſua dottrina, eſſendo molto rare quelle notizie, che a noiper venute ne ſono; ſi legge nientedimeno ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità, dove permio av viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe, al quale ella è fcrit ta; vi ſi ſcorge tuttavia, che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia, e che ben poco egli gradiva le compoſte medicine, e che non moito gli erano a cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno, egli ha Dio cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo, e'l freddo, e'l fecco, e l'umido; de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol, che fieno. Dottrine, che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo fatto ſermone, non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle d'altiſimo intendimento, e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe, non però di meno, o per manca mento di maeſtro, o di guida, ch'al diritto fentiero l'avel fe fcorto, o per altro, che ciò operato aveſfe;ſconciamente laſciandoſi trarre a’hiſicofi impigli della dialettica, sì, e tal mente bambo, e ſcempiato ne divenne, ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere, non eſſer altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer molto probabili fue ragioni, nondimeno da colui, come troppo durauna talopinione, e come ripugnante, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte bialimata, e rifill tata. Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli s'avanzaffe Diocle, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando favella della malattia ipocondria ca, di cui un libro ben'intero e compofe, il quale ſcëpia to, emancheyolc ftimnafi per Galieno; ma che che nedica colui, degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro; imperocchè ci fa vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della medicina, da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con ghietturando le cagioni delle maraviglioſe, e ſtrane appa senze di quel male. Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro, che ſon travagliati da’mali ipocondria ci, non quelle venc, che ricevono l'alimento dal ventrico lo, abbian aſſai più calore del convenevole, e'l ſangue in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto; concioliecoſachè cerca coſa ſia le menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi dall'alimento, ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce, e nel ventricolo, indigeſto ri Sf inane;mane; quando davanti per li meati ſi ricevea,e per la mag gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre, come dal vomito poi manifeſtamente s'avviſa, quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece, per non eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo; mache'l calore in sì fatti infermi fiz più del na turale ſoverchievole, agevolmente fi ravviſi, così dall'in focamento, che a loro avviene, come da quelle coſe,che anche lor li danno; imperocchè giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente rintuzzare, e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες, υπολαμ. βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων, τα δε πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς, και της ποσ φοράς • φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων, και μαραίνουν σωθεν. Soggiugnc indi appreſſo Diocle, che affermino al cuni eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto. maco, la qual s'uniſce con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar, che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno, e ſtabilito; perchè dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti, e'l calore, e l'altre coſe tur te, che menzionate per lui in prismafi fono: Λέγεσι δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί ΥΑν, δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι, και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα, πλείονα χρόνο του δέον- έντή γατε μένονά, τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα πποειρημένα, Egli vien Diocle ripigliato da Galieno, perchè infra le tante coſe, ch'egli in mezzo produce, del timore, c della triſtezza, che propie ſono delmale ipocondriico, e'punto non favelli, ma Galien medeſimo diciò poi lo ſcuſa, fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto, impertanto Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò;maſolamente forte fi maravi glia, dicendo eſſer una quiſtione degna da fare, perchè non abbia Diocle recata la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere; imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di produrre in mezzo coſa,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno, il quale così ſcon ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato Diocle; cõciof ficcofachè in priina, per tacer d'altro,non continuo ſi avviſi ſmoderato calore nello ſtomaco, o nelle parti vicine, ma talora fredde ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro, che pa ciſcono sì fatto male; perchè convicn certamente giudica re, che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile della bocca del Pi loro. Gli argomenti poi, che reca Diocle per far pruova della ſua opinione quanto deboli fieno, e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica; concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò, che da cibi, chefreddi egli appella,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione. Chi poi ben riguarda alla fabbrica, call'ufi cio delle vene, le quali picciole nelle loro boccucce ſi van tratto tratto allargando, perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più agevolmenteil ſangue, s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la ſentenza di Diocle,co tanto cómendara, e tenuta in pregio dal vulgo de medici, SI 2 che le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare. Ma fievolej molto certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate, perchè l'alimento al corpo in lor non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare, che non diſtria buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar potrebbe, e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire; falſo adunque ſi è ciò chè di loro va filoſofando Diocle; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga. Mavi dovea altresì por mente, e inveſtigar Diocle, onde avve gna, che'l cibo nello ſtomaco degli ipocondriaci,indigeſto rimanendo,non n’eſca fuori nel tempo uſato; ma certamé te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione; e tanto più, che pur egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica, e ſtitica acetoſità, la quale non permettendo, che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa,e ſtrigne la bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto calari cibi agl'intcftini. Ma laſcia do di ciò più favellare: non ineno e' ſi ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice: appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala, noi Prey Movad,sy 6x6õves, cioè: le cose, le quali a noi manifeſtamēte fi fă vedere,additano le nafcofe: poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi; dal che certamente egli vuol cavare Diocle, che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le menzionate coſe, ficno entro al corpo elleno, o altro fimile, che colla febbre parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges,na es' Del Sig.Lionardo diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG. και παρά το άγονον είναι το σπέρμα, ή καλα παράλυσιν των μορίον, κατα λοξότη του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui, contro quel, che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia, d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole; al che cgli poi aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa quella ſia: arquatum morbum, ſono parole di Celſo, Hippocrates ait, fi poft feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus tantummodoprecordiis fübftantibus; Diocles ex toto, fi poft febrem oritur,etiam pro defe, fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta. Coltivò egli poigrandemente la notomia, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava, poco felicemente nel vero; non però di meno cgli in ciò è da commendare;m2 séza fallo poi a ſommo onore attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con un libro partia colare al mondo le coſe, ch'egli avviſate avea nel far no tomia degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to, c in pregio tenuto da Galieno, il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina eccellentiſſimo, e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle coſe naturali. Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo da quel, che di Diocle noi teltè fas; cemmo; poichè iinitando in ciò Diocle, portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità appellate dirivar tutte l'operazioni della natura; e con queſta credenza camminando avanti, di neceilità dovette, da uno in altro crror tratto inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai ſempre in biltento il lettore. Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima, per la grandifinna incertezza di quel la; onde imaeſtri più accorti, e malizioſi, per non farſi torre in fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel fimo eſemplo agli altri Razionali medici, che dopo lui furono, e particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare di render poſſibile l'impoſſi bile, cioè certa, l'incertezza della razional medicina. Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno, ch'aven do egli in prima detto, che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie, cerchi nondimeno egli poi d'in ſegnare, e minutamente additando vada, come per opera del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli, che nell' arterie ſi naſcondono; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe altrimenti Pralſago 11, come dice Galieno, ma ch'aveſse egliportato opinio che allor, che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie, che ſangue, ma che infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano; ne potea egli in verità altrimenti di rc, s'egli pur non era affatto di ſenno fuori. Che ſia vero quanto lo dico,apertamente ſi ſcorge in ciò, che il mede fimo Galieno di lui riferiſce, cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma errò certamente, e in iſconcia guiſa Praſsagora, in portando opinione l'arterie cambiarli finalmente in nervi; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole al lor Ariſtotele, il Cefalpino, il Reuſnero, e'l Marziano; ma di non poco biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano, e crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare, e dopo il vomito gli li tragga il ſangue, emol to forte gli ſi premano collc mani, il ventre, e gliinteſtini, cal nes e alla per fine poi col ferro ſi taglino; ond'ebbe a dire ra gionevolmente Celio Aureliano: quo probatur magnificam mortem Praxagoram magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi d'Ippocrate: Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet, ut Hippocrates. Item libris de caufis, atquepaſſio nibus,& curationibus vinum dulce dari jubet, d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia peccata. Macon qual eccellenza di dottrina, e con qual artificio pervenir aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico, chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì ſcarſe memo rie, che di lui ne ſon rimaſe? Io permeſolamente, e ap pena ne lo quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi jarra egli, ne fa apertamente vedere, quíto troppo grofa ſolanaméte foffe căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra, che qualche ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor, chej porta opinione, che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi; il che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui, che non avea contezza niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta natura, fe non vi concorre l'opera d'una pronta, c velociffima filoſofica putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti, macom'egliin ciò li portafle al cri.per meve'ldica. Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe, e gli poſſon ceder ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio, cii cia tutta fiorirono. E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e tanto minutamente, che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni, delle diftinzio ni,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo, e riveriya. Ma il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon picciol damnaggio; e quinci forſe avvenne, che molti, o sfidando d'intender pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio, comevani, e inutili arzigogoli avendole, ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la ſua dottrina ritro vò inolti, e gravi ſeguaci, e fù aflai commendara; anzi narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola della dottrina d'Erofilo. Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo, nondimeno fembramifarfallon da Ro. manzo quel del Falloppio: Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt contradicere Evangelio.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe, a tutti gli antichi, non la perdonando ne meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora. Fuegli molto prati co nella materia demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo, come ſe nc debbano imedici valere; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare, ch'e'non merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute, niuna utilità del mondo abbian potu to recarci. Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene fartee;ma egli traſcurato, sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo, e l'uſo; ma di cotal negligenza è fomigliantemente da accagionar Ga lieno, e tutti quegli altri notomiſti, chedopolui anche ſe ne rimarono. Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal pettorale, non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion fcionne il penſiero al Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe grandi, e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta; avvegnachè tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio, e a far conoſcere al niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del le divine, e delle umane leggitraſandando, oltre palli law crudeltà d'ogni più fiero tiranno; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre Tertulliano: He rophilus ille medicus, aut lanius, quifeptingentos exſecuit, ut naturam ſcrutaretur, qui homines odit, ut noſlet. Man prima di lui Cornelio Cello, dopo aver detto,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta: crudele vivorum hominum alvum, atque præcordia incidi, & falutishumanæ præfidem artem, nonfolumpeftem alicui, fed hanc etiam atrociffimam inferre. Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare; ma tanto, e tanto egli vi ebbe a ſofiſtica re, che meritevolmente forſe perGalieno,e per altri ne venne più d'una volta ripreſo, e proverbiato;mad'altra parte per altriſommamente commendato, come ſi può ve. dere in Plinio. Arteriarü pulfus in cacumine maxime merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates, fta bilis, aut citatus, aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte. E queſto accrebbe in modo la ſua fama, e buon nome, che nulla più; promettendoſi cgli, e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli, com' ab biamo con Galieno accennato, poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere; come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc, colle quali fa Tt cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati, e de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia, e altrove ne rimane. Mache / a'tempi noſtri in va rie.guiſe noipur veggiamo da qualche medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare; perciocchè il mondo gode in tal guila d'effer ſemprcmai uccellato; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande ſtima, chevien fatta della Srologia, e della Gabbala, e d'altre arti vane, e ſu perſtizioſe; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila gloria d'Erofilo, che di baſſo, e rintuzza to intendimento', e come della ſua dottrina incapaci venis van giudicati coloro, che ſi dipartivano dalla ſua ſcuola; perchè diſſe Plinio di lui favellando: nimiam propter ſubti bitatem defertus: e della ſua ſetta facendo parole: deſerta hac Secta eft, quoniam neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo, come Galien riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe; e dir ſolea, non haver così gra ve, e pericoloſa malattia,che non ſi poteſſe coll’erbe curare; ma non però di meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto, e alcune di loro gran virtù avere ', le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano: inde plerofque, fono parole. di Plinio, ita video exiſtimare, nihil non herbarum vi effici poffe, fed plurimarum vires effeincognitas, quorum innume 70 fuitHerophilus claras medicina, à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro; il quale, come altrove vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo Capitano; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe,foffe poi il primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat; concitatis enim intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca, o niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine, le quali ſenza recar moleftia, e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe, e feroci ma lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo, per lo quale la fciandogli intera la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elleboro la velenofa; ſenzachè non è miga vero ciò ch'e. gli trancaméteafferma, che l'Elleboro fia il primo ad uſci re; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco, e dall altre viſcere allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima quanto di cattivo, e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in medicina il valor d'Erofilo così grande, quale il ci narra millantan do la fama, Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico uſo di Apollo, e d'Eſculapio, facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio venne da me tralaſciato, per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia affaticato, niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui, ch'egli ſcriſſe, per quel,che ne narri Galieno, un libro de'medicamenti, de quali egli molti da ſe ſteſſo trovò, Fu egli Meneçrate così ſuperbo, ambizioſo, e vano, che non volle egli giammai denajo, o altro premio dagſinfer mi di mal caduco, che guarivano per le ſue mani; folo ri. chicdea, che eglino ſuoi ſervi fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare, e come Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro, traveſtiti, chi da Ercole, chi da Apollo, chi da Eſcula pio, chi da altro Dio minore, a guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta, colla veſte di porpora, e collo ſcettro in mano farſi in pubblico vedere, 1.a qual si ſciocca traco tanza imitar volle Ottaviano Ceſare, quando, come rac conra Suetonio, con gli abiti d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij, e Dec, e'feder yolle in un ſono tuofo convito; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum, $exque Deus vidit Mallia, exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum cænat adultera: Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos luppiter ipfe thronos, Tt 2 1 Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea Menecran te con Filippo Rè diMacedonia, comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli riſpoſe: dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ. Vna volta anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in altra tavolas allegramente ciurmavanſi, e facevan gozzoviglia. Mene crate nel principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè, come å un Dio; ma poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere, ch'egli era huono, comegli altri, fi parcì dolendofi, e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè. Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino, i quali comechè ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno, è da dir nondimeno, che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina, c che molto poco altresì valeſſero in notomia; ficome da qualche lor ſentimento rapportato dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc. Maintra le ſette più chiare, e più famoſe, che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della razional medicina (ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger d'anni, oper girar di luftri) che nelle Città, e nelle Provincie più nobili s ove la greca fapienza era in pregio, glorioſamente fiorirono: o le pur fi mira all'onore, alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna certamente, s'Io pur non vado errato egliſembra, che agguagliar fi poffa, non che antiporre a quella, che da Crilippo in prima ritrovata, indi per opera di Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato ſommamente accreſciuta ne vennc, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente conghietturare ché te, e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento, law ſperienza, e l'induſtria d'Erafiltrato, che di Criſippo,d'A riſtogene, e di Medio nulla v’abbiam che dire; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da quelle pochiſſiine coſes comechè tronche, e ſmozzicate, Che fan col duro tempo afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere, e più che in altre, in quelle de ſuoi einuli tuttavia ſi leggono; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto, e quanto oltre condotto fi foffe per le più dure, c ſpinoſe malagevolezze dell'arte; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta della medicina; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni valent'huominicreduto, ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro nonch’altri, Apollo, Eſculapio,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano Aleſsandrino,venne appellato meetóvuje @u,c Galieno parimé: e con orreuoli, e riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate; chiamando egli l'uno, e l'altro: iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure alcuna fiara moſſo, o dal zelo della verità, o dall'invidia, o dall'emulazione, o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui, ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni; nientedimeno in tanto pregio, e in sì gran, yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro, ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere: e di lui favella più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole; e mi ricorda, ch'una volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella: Si compiac cia di grazia Eraſiſtrato, che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui, e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate, ela doctrina di quello. Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco, ch'egli, comenarra Galieno, ſi foſſe ſtato il primo autore, e introduttore della vera arte ginnaſtica, e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in piede ſi ri metteſſe; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea. Ma 1 opere, colla ! Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe, e quai foſſero i ſuoi ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili, malagevole molto egli è ad avviſare; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente, ch’Eraſiſtraço era affai libero nel filoſofare, e oltremodo ſchiyo, anzi nimico di far pompa appo il vulgo di mentito, e apparente ſapere; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta, e praticata, delle facoltà, e d'altre fimili vanillime novelle, e ciance, le quali non altro in verità, che Nomije fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli, e inviluppate tenzoni della filoſofia, e della medicina; nella qualcoſa,comechè ne doveſſe Era fiftrato con ogni ragione, s'Io pur diritto eſtimo, ſomma lode ritrarre, malignamente troppo in verità, e a gran for to funne ripreſo, e vituperato da Galieno; il quale oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo, e a biafi marlo, perchè ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re, duro, e implacabile avverſario dell'opinioni d'Ariſtote le, nulla curando, che ſuo avolo ſtato e' fi foſse; col qua le, e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto, e poſto in opera.. Ma non rammentò Galieno, che Ariſtotele, ed Erafi Atrato convengono bene inſieme anche nel dire, che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna; ma della milza. prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα, πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal opinione da Rufo da Efeſo, il quale dif ſe,che la milza foſse anánt, ni avevéeyn,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato, come que’, che diſsero, che la milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue, tör το σπλάγχνον περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar, Ma benchè Erafiltrato sì grande, e sì valent'huomo ſi foſſe, e che tanto dalla natura foſſe favo. reggiato, e di rari doni, ç maraviglioſi arricchito, c per ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natura, e che colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale: e coll'e ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua razional medicina ſommamente perfecto, e compiuto; nientedimeno più d'una fiata dal diritto ſentier della verità inolto, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato talora e' ne vegna da Galieno', e in alcun con aſſai fievoli, evane ragioni riprovato; il che ravviſa no talvolta, e ſono coſtretti a confeſſare i medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue, ma ſolo ſpirito vitale, ſecondo lui:e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro; coſa', della qua le, così evidentemente ne appare il contrario, che forte mimaraviglio, comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio, e di ciance aveſse potuto darſi briga di compilare un libro intero per impugnarlo. Ma, o Quanto è'l poter d'una preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi inavveduramente traſcorre. I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo, neper evidenza de'ſenſi, che loro apertamente additaffe il contrario, abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non altrime ti, che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno ſolevan eglino ammirare', e venerare; avendo per vero, e ſaldo, e indubitato ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia; egli è da creder, che dall'o pinion, che reſtè abbiā noi rapportata, prendeſse cagione d'inſegnar poi Eraſiſtrato, altro non eſser la febbre, che un movimento inuſitato del ſangue, che dalle vene, dove naturalmente riſiede, all'arterie tragittiſi: e cheſicome al lor, che non ſoffiano i venti, pofa abbonacciato, E nelſuo letto il marfenz'onda giace; ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia, ed eſce fuori impetuoſo, e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda, ed allaga le piagge tuttc, c le campagne vici ne; così anche, fe non v'ha coſa, che l'agiti, o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza gonfio, o per altra cagione ſoſpinto, e agita to mai venga, sboccando ſubito dalle vene, ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito, che in eſso dimora ſia altrove riſpinto, vada a fermarſi, e ſtagni in quelle cic che ſtrade, dove terminano l'arterie; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà l'infiainmagione; e la feb. bre; ecco le ſue parole rapportate da Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης, αν μηδέν αυτήν κινη ήρες μί, ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν, τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω σώματι, όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων, πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα. Αrtifciofotis trovato nel vero, ma che appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far, cheda ſe ſteſso non crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina. alcuno, ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato, e chemal'inteſi, e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più, che come Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni; e che perlo ſpirito egli abbia? intender voluto un ſangue ſottiliſſiino,e di quelle particel le, onde ſi forman l'etere, e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto, certamente ſi deecgli credere, ch? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso: imperocchè ravviso, e conob be, che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue; il che diede poſcia ca gione a Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene. Qui riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, comechè la ſua gran virtù molto bene il valeſſe, merce che non già alla Grecia, ina alla noſtra Italia era la glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue. Oltre a ciò ſi pare,che ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10, perchè al ſuo grande avvedimento, e induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi nando, che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi, ſe è vero ciò che ne narra Galieno. Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir non ne ſeppe l'uſo; s'accorſe egli anche, ed è egli non picciolo ſuo vanto, che'l reſpirare non diedes già a noi natura, comeimmaginò con Ippocrate, Diocle, e Ariſtotele, Perchè'l caldo delcor temprato fia. Ma non potè penetrar egli nientedimenoil vero,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni animali fieno ſtati formati sì, che debbano reſpirare; imperocchè contendes Erafiltraco, che la reſpirazione ad altro non vaglia, fe non fe a poterempier d'aere Parterie; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana,cheimutilmente colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer cópofto, pur contenga molte, e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere, e della refpi razione neglianimali; imperocchè avviene, che nel ſepa rarli dalſangue la parte più ſottile, e per così dire, ſpirito ſa, ſi faccia anche neceſſariamente ſeparazione di varie al tre parti groſſe;come nella formentazione del moſto, e d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi; queſte groffe porzioni, forza è, che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no, o nell'acre, o in altro corpo ſimile, il quale contenga pori acconci a riceverle, e che ricevutele, ſia valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto, che al ráno s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo, quancunque aſſai menomo, non fao V u ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti, tra le quali viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti, come quelle non incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni; e ſe vi ſi aggiugnerà qualche altra circonſtanza, onde, e l'uno, e l'altro movimento, e di formentazione, e dicalore rieſca grande, e notabilmée te impetuoſo, allora cgli grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione: per lo che non baſtando. dilatare, il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che inceſſantemente negli animali per li pori trapela, abbiſo gna, che altra aria mediante la reſpirazione fi beva; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe Eraſiſtrato, che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione, maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante non ſarà molto grande, ne verrà da notabile, calore accompagnato, allor l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno, e baſteragliquello, che, o colla ſola traſpi sazione, o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione ſuccerà;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja, vi ſono impertanto parecchi, e parecchj aliti, i quali cosìdalla terra, come altronde gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci, adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che, o nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito, rimangono i peſci poco ftanto privi di vita. Nell'uovo poi, e nell'utero eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi, e maſſimamente fra queſti il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise li; e pieghevoli, e poroſi i ſuoi vali, può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe mai dal freddo, o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria, ceſſa nell'uovo, e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore l'animale; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo,ilpicciolo,e rimeſso eſteriore caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace, o dal fime gli vié comum nicato; e come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti, anzi duri, e fi accreſca nc'liquori la formen tazione. Aggiugneſi, che mal ſi può render volante quel la nobiliſſima ſoſtanza, la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione. Ma laſciando queſto ſtare al preſente, forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco; e altra peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato, la quale a dir il vero vien portata in sì fatta maniera da Galieno, che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe inteſa, o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione,per la quale ſe ne muojan gli ani mali nelle mofete. Vuole Eraſiſtrato, per quel che ne nar ri Galieno, che ſe ne muojan gli animali nelle mofete, e nelle ſtanze chiuſe, einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni, per ritrovarli in sì fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto, chene fi riceva dall'arterie, ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja neceſſariamente l'animales. Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno, e dice, che do vea dire più toſto Eraſiſtrato,che ficome nel pane, ne’logu mi, e in altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria, così ancora una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna, e amica agli ſpiriti, e un'altra maligna, es nimica. Vu 2 M2  1 !. Ma nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento; onde vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione; ma che che ſia di Galieno, lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato, e'l ſuo modo non guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale, quale la s'im magina, o la fi dipigne Galieno; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo in ciòse materiale,anzi che no, facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto fermiſlina opinione,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre, come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe egliin tendervoluto, che picciolo, o poco: imperocchè la p.2 rola asfilos, della quale e' li valſe, ſecondochè dice Galie no ſteſſo, non ſolamente ſuol eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo foteile, e che da' Jatini ſi dice tenuis;ma ancora per dinotare,come ſi può ve derein Ariſtotele, e in qualch'altro autore di que' tempi, quel, che i latini chiamano, cxiguus, e noi picciolo, o po co diciamo. Or chidomine non fa, che la dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate; imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal veramente, qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato, ch'egli ſia, cioè troppo ſottile:con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles art erie; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte, qu anto più ſottili ſono, tanto più convenga, che compo he, e formate licno di minutiffime penetrevoli particelle; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip offa volentieri alle arterie; ma entrarvi poi allo incontro malagevolmente vi potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe, e groſſe fo ſtanze accompagnato. Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato infra tante ciuffole, e anfanie Erafiltrato, ro con diligenza degna d'un sì grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete; perchè agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione, per liza quale in quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me deſima appunto,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme, e congiunti, che que' dell'acqua nelle fon tane fi facciano; e non altrimenti che l'acqua incontrando declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta. Errò pari mente Eraſı trato la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue rappigliatose raſſodato, da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c mi nute fibre; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime glandolette, che ſparſe perentro, e ſeminate vifo no; c quantunque la carne del fegato, e della milza paja, nella prima viſta una mafſa di ſangue, pur nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia, che ſe ne ſepari quel ſangue, che vi ftà meſcolato; che allora manifeſtamente delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro, che in Erafiſtrato lo ho ritro vato; egli mi ſembra, che ſi foſſe in qualche ſembian za di verità incontrato in diviſando delle febbri, in quella guiſa, che s'è da noiaccennata; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre, ſe non ſe in un tal certo movimento non ordinario, e non naturale del ſangue; ma non prende egli a ſpiegar mai poſcia, anzine men cura, per quelche fappiamo per bocca di Galieno, d'andar inveſti gando, come a razionalmedico fa meſtieri, le cagioni,on de ciò poſſa avvenire; il che avrebbe potuto fareegli age volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia; ne gli mancò, al mio credere, ingegno, ne animo ad una tanc'impreſa acconcio; ma gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo, non potè celarſi all'acutezza del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal calore; ma inveſtigar nondimeno, e rinvenis non ſeppe egli mai que' ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide, e li rompe in minutiſſime parti nello ſto maco; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il ſangue non eſſer da ſecaldo, non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde, e come il ſangue caldo diveniffe, e fi conſer vaſſe negli animali. Maper far qualche parola dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere: egli maneggiò l'arte Eraſiſtrato così magnificamente, che niun'altro tanto mai più,ne pri ma, ne poi, per quello, che noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non ha però dubbio niuno,che col profondo ſapere, colla gran fua diligenza, e induſtria gli s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al maggior huopo nonmancò di favoreggiarlo, avendo egli dalla vicina morte ſottratto, e penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia del regal giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa, vella appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico gentil, che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio, che apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna. E non potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato, e in vece dell'oro, delle dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale, ch'e'guadagnonne, obbrobrio, e vituperio eterno riportarne? Ma in ciò imitar lo volle anzi emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino; c comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato rato il medeſimo Erafiftrato, ſe pur tale appunto andò law biſogna, qual egli la narra, non però di meno per eſſere fata colei viliſſimadonnicciuola, non ne riportò Galieno, ſe non quella gloria, ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce, in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente. Ma per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da Erafiltrato,fi pare,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece, ne troppo ſi valſe delle purgagioni: delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri; e dar ſolamente le ſolea in altre malattie, che'lrichiedeario; ſi portava egli sì fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno recare, e ſenza porgerne loro cagione, fol con iſtrettamente cibargli, felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe già adoperato, ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità innocentee, inerme la greca me dicina; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali s'erano a po co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti; per chè ſi vede chente, e quale e' fi foſſe il valore, e quanto grande l'animo di Criſippo, e d'Eraliſtrato, i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta uſanza nella medicina. Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato: la quale ſiè, che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di tempo l'infermo; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro, il qual dice, che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente, ma all'imminente male anco ra; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo dee portar la famc gran tempo, non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne, che per sì fatta maniera adoperan doni doſi nel medicare Crilippo, n'acquiitaſſe lode, e gloria immortale. Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato, Io no'l ſaprei diterminare; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a Galieno; cercando egli, come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci, a diritto, e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria, e la famad'Erafi ſtrato; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia (trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato; ma da Galieno me. delino per avventura fognate. Maegli ſi dee fermamen te credere, che non poteano mai, ne Criſippo, ne Erafi. ſtrato, ne Medio, ne Ariftogene bandire, introdurre, mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era comunemente in uſo, ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità, e non da vaghezza alcuna; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri avvenimenti delle malattie; e forſe Criſippo, o pure Erafiltrato qualche libro particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice chiaramente una volta, che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi, e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza. Ma quando primieramente cominciato foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro, o col morſo di velenoſi vermini le vene, e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a' preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la vita, egli è coſa malagevolen aſſai nel certo,anzi per avventura impoſſibile a diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare,che'l crar ſaugue,nemolto nepoco, ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci in uſo niuno noirera; ne Ome ro, il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza, e magnificenza convenevole all'eroico poeta, livi de giammai far mézione alcuna del ſegnare nella cura del le ferite di Marte, diMenelao, d'Euripilo, e di Macaone; perchè, per tacer d'Achille, e di Patroclo, ne Podalirio ne Macaone, eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio Rodigino, ne Chironę lor maeſtro, ne Eſculapio lor padre, ne Apollo lor avolo, ne Peone medico di Giove conobbero, e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero, o pur da altri popoli l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap parare, i quali per teſtimonianza di Socrate,da noi altro ve apportata,non ſi valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro, come avviſa Dio doro, altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo, fuoriſo Jamente, che criſtei, digiuni, purgative medicinc,e vomi tive. E ſi pare, che dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide mai, comedicemmonoi già, trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti in quell' eſtremo tratto della terra, che bagnata viene dall'Oceano orientale; e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali, che ne i Saraceni, allora quando i Tartari occupa rono quell' imperio, neinoſtrive l'han mai potuti intro durre.? Ma che che ſia di queſto, chi poſe in uſo primiero il trar ſangue, Io immagino, che fi movcffe, e ſpinto vi. foffe, non già come immaginò Plinio (ſeguito in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume; non eſſendo miga vero ciò, che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico avvisò; ma dallo ſcor gere forſe, che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o dalle narici, o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia, checonvenne, che Ippocrate, c.prima gli altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo, sfidando per It' ! d ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del noſtro propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni, colle quali po trebbeſijs’Io pur non vado errato, sì fatta opinione difen dere. La vita degli animali (dico ora vita, largamente parlando x quello, ſenza cui al corpo, comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi, o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra, che in altro ve ramente non confifta, che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente, che in alcuni animali in vece di quello (i mira. Coſa, la quale non può punto dottarſi da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche manifeſtamente la vita; perchè ſe non per forte diſtretta, e neceſſità quello non li convience vuotar negli animali. Ma delle due maniere, colle quali il ſangue menomac puoſli, ciòſono, ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi, che'l contengono, o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo; il trarlo certamente è quello, il qual reca nocimento, e danno maggiore, e più gli animam li affraliſce; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue, con quello inſiemene ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali, e del chilo s'ingenera il ſangue, cin, priina de'cibi s'ingenera il chilo; ne può il ſangue mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro; il che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare, non fa luogo, ch'Io ne faccia parole. Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa il medeſimo Ga lieno, che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente coldigiuno menomare il ſangue, non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia;imperocchè quelle nobiliflime foſtāze,che detro abbiamo effer nelſangue, ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano affai al mantenimento di quel li, cafar laro ricoverar la ſalute; perchè quanto più gra voſe, e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamente è il erar fangue, e men fi eonviene. Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi Galieno intorno al dovere fcemareil fangue, onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci di continuo aggirarli infra vane, e inutili contefe: certa coſa è, che'l ſangue può eſſer nocevo le agli animali, o per ſoverchio di rigoglio, e d'abbondan za, per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia, o perchè egli è sì, e talmente piggiorato in tutto, in parte, che traligni dalla ſua natura, e non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio, e ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti, etre queſti caſi certiſſima coſa è, che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue, chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere. E apertamente avviſafi, che coloro, che fom mamente in ſangue abbondano, ſon più d'aleri forci, e be atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze, comechè buona coſa quanto a ſe, pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue, avvegna chè buona, e laudevole fia,può talora nuocere, ſeconda mente che per noi ſopra il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató. Orrel foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare, che ragionevolmente ne debba temere il medico, poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar col fa Jaffo: potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente fornire. E ſe'l male è già fufficientemente appiccato, ne di quello il ſangue punto più s'inframerre; che monterà egli attutar la canapa, acciocchè la girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la ſpada, perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a tener mano al male, oglirecas qualche impedimento alla cura di quello, può bene il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1: { so laſſo, con imporre all'infermo, che più o meno fi riman ga da' cibi: o più, o'meno, ſicomcli conviene, menomar lo. Nein ciò è da riguardare a ciò che in contrario ſi dice Galieno, cioè, ch'alcuni corpi v’abbia, i quali non così agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in compleſſione,e come e' dice, collerici; '. concioſliecofachè, per tacere, che ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e buo no, qual G ſuppone: e che la collcra non s'inframetta pun. to nelle vene, nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo effo Galieno dalla col lera avvengono, nelle vene ſi trova: e che in sì fatti corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento, che continuo di quello falli: può bene il medico co medicine, che attutino la collera, e con beveraggi, che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue, acconciamente a ciò dar riparo; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do abbondan di collera,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate, e Avicenna,ſon pericoloſi iſalasſi; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene, impoſibil certamente egli ſarebbe, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco: nel qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan. guc agli infermi, per qualunque gran male cglino aver ſero, Ma ſe'lſangue è malvagio, o cgli è per ſe ſteſſo tale, o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien comunicata, non che giovi mai il falaſſo, anzi egli è ſommamente nocevole; imperciocchè, non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne monterà egli maggiormente, c più fiero, e rigoglioſo diverranne, ufcé do inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze, che di cemmo: le quali poſſono, e nel ſangue, e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne l'impero:e ſcio gliendo, e aminendandocacciar via dal corpo per cieche, o per ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue. Echi voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene, farebbe come colui che con trarre acqua da un lago, in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora della terra,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire. Ma ſe'l ſangue per ſe ſteſſo è cattivo, con trarne parte, non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto, o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al quáti maſtelli; ſenzachè l'infermo, perdendo anchequel le menzionate fpiritualı ſoſtanze, le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare, il nuovo ſangue, cheper quelle s'ingenera, e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori. E quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare, quando il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme, e viziofo ritrovali. Ma per farci più addentro nella preſente quiſtione: l'al terazione, o'l cambiamento del ſangue, o egli è in tut to effo, o pure in qualche una, o più delle ſue parti, ość. fibili, o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova; oveche ſi covi il difetto,certaméte inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo; concioffiecoſachè il l'angue in guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione, e confuſo ne vali ſi ritrova,, che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile, e infiebolita rimaſa, meno certamente potrà rin tuzzare, e ammendare l'avanzo della cattiva. Ma potrebbe per avventura alcun dire, incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva, o dentro a’ vaſi in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono, renda quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare; ne per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora, o affatto li ſpegno no per uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona. Io certamente, ſe ciò foſſe vero, a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi: e non che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici, anzi a ciò ſommamente confortar gli devrei; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la vizioſa foſtáza s'ingeneri, o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue,e per quel della formentazio ne, convien, che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con quello, che è buono, che ſe di tutti, e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi, certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me in tutt'altri vuotamenti avviene, anche in quelli, chej per più larga bocca ſi fanno, certana coſa è, che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2 gio; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la cattiva ſoſtanza, che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi ſpiccar ſi potrebbe. Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue, e per lo cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova: certamente il caſo ſolo operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena, trattadalla foga del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe. Ma certamente il co trario tutto di avvenir veggiamo, maſſimamente nel velen della vipera: il qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre giammai, ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte; perciocchè allora non penetrato ancor molto addentro il veleno, inſieme col fan gue fe n'elce fuora. Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co' ſuoi argomenti in ogni coſa la natura; concioſ fiecorachè non può egli ſapere comc, quando, e perchè quella opcri. Avvien talora, che s’alleggj, o affatto ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea coſa che fare col sāgue, come altrove è detto, ſi è tolta via. Talora la cagion del malce nel ſangue: ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto, o poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello mandata; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è partita: e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le ſtimola,leapre, e inſieme col fangue n'eſce fuora. Or fe poteſſe il medico mai per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle, impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo vin cer le malattie. Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo, ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to, e'l danno è ſicuro, e'l giovamento molto incerto, che ne poffa all'infermo ſeguire; e maggiormente che rariſſi me fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte, che felicemente per opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion, che parimente dall'arte ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to il movimento in giro, o quel della formentazione, allora ccrcamente, non che rieſca giovevole, ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo; imperciocchè per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti, diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti, comechè fembri, che per ſegnare debban ceflare, fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la perſona, onde effi' movimenti procedono: non però di meno rimanendo in piede la cagione non naturale, per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione nelſangue accreſciuto ſi era, nonſolamentevano ſarà il falaſſo, ma altresì ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le ſoſtanze ſpirituali, le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere, sformatamente accre fciuti ſi erano; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati, ſi fà grandiſſima perdita di Sangue: e poco, o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo pericolo della vita. Ma ſe'l ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come veggiamonelle infiammagioni avvenire, allora non è da ſcemare il ſangue co'ſalaſli: ma sì ſi dee prender guar dia, che ſi toglian via le cagioni, onde quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò non ſolamente, perchè il ſangue allor dalla febbre, che s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi, e perchè poco, o nulla ſidee l'infer mo cibare: ma ancora, perchè quantunque ſe ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più,quáto ſarà facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali della gola, e della pleureli avvenire; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che ſpina, o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne, che con quantun que ſangue trarre, non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione: evi ſi ripara ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa, ne viene av montaremaggiormente il male. Neha luogo niuno certa mente quì, o la derivazione, o la rivulſione, che chia mano i medici, percui eglino tutto dì ſono a zuffc, eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate, e di Galieno: i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga, ſempre ne liegue il medeſiino: c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo ſangue dall'altra vi diſcorre: ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano: E mentr’ei vien,se, che ritorna, affronta, E comechè i moderni per no li dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier pruove; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze tutte recate dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto; e queſta fi fu una delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse.; el principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il Riolano, il Primero fio, il Pariſano,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo: ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti affetteimpellatur. Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento,chegiunſea conoſcer ja vanità della revulſionc,,.e della dirivizionc,allor che iit facendo paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus, &artificialibus: que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem: do hecconſequutive èvena azygos cruorem extrahat; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem æqualiter in venas reftitui: adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari (quodnunquam ) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum. Vnde manifeſtum fit vanas efle revulfionis, deri vationis nanias: quippe quibus conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi, Perchè ad alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza, riguardando per avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia, i quali prima d'Ippocrate fiorirono, ma in quel tempo, che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto, furono così ritroſi, e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede nc’libride'luoghi dell' huomo, e in altre ſue opere, fegnò giammai nelle febbri, ſe non folamente in quelle, che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te, che da ſegnar ſia con tal convegna, che non vi ſia feb bre; e avviſa egli oltre a ciò una fiata, che dopo lungo uſci Y y nicht mento di ſangue dalla matrice d'una donna, le ſopraven ne la febbre: coſa,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire. Ne è punto vero ciò che dice Galicno, che Ippocrate porti opinione, che in tutte acute, egrandi malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato, in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi, egli nel vero non di tutti mali acuti vuol che s'intenda, ma di que'ſolamente, de'quali egli quivi ragio na, sì veramente, che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che i Latini dicono fed, o pure verùm, e noi diciamo ma: della qual particella Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna, e artaramente la tace per poter quello recare a ſuo concio; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l tacciano, dicendo, ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate. Ne è da tacere quanto Galien ſi maravigli, perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto, che ne'mali grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco: che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue, non fola mente in quelle, ch'egli chiama finoche, ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon cagionate. E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve renda autorità del lor maeſtro, e ſtar guardinghi, e ritroſi di cavar ſangue in tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana, e nella terzana ſemplice di ſegnar ſi guar dano,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero affatto i ſa laſli, o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro; concioliecolachè nelle febbri maſſimamente acute, e più in quelle, che ſino che chiama Galieno, per la ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato egli liſce ma, e s'affraliſce, e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo ancora, e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli, e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma avvegnapure, che con ſegnare rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe non fe di rado, eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore; non però,dimeno aſſai ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar graveme te la perſona, e manifeſtamente porla a riſchio dimorte; perciocchèſovepti volteincontra, che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione,onde nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto, laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali aju tare? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate, e Galieno, perchè eglino diſideravan, che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro, maſſimamente.ne' mali della gola, e della punta? perciocchè in quelli, fico me il inedeſimo Galieno inſegna, ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire, eziandio nel di.chino del male, non avendo in lor virtù, perla fiebolezza, da poter il puzzo già cotto, e digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo anno per qualunque graviſſimo male elli abbiano, non per altro certamente, ſe non ſe per la grandiſſima inſenſibil vacuazione, che continuo coloro fanno: perchè farà eglida trar ſangue nelle febbri, malli anamente sipoche, e in quelle dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione, che fasſi negli infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli? Ma per avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i ſuoi Galieriſti; e forſe più per oggia, e diſpecto, ch'egli aveva nella nimica ſerta di Y y a d'Eraliftrato, cotanto egli commendò i ſalali, che per ra. gion, che veramente ve'l traeſſe; perchè con tante leggi, ' e convegne, e riguardi egli ne riſtrigne l'uſo, che certa mente delle diecivolte, che i noſtri Galieniſti ſegnano, ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate; e rariſſiine volte certamente quelle ſarebbono, che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno; ma eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie, con porre ayanti un sì gran rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro. E comechè Galieno, come teſtè diciavano, n'aveſſe una volta inſegnato, che ottimo ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le febbri, quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori; e nella cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella, tempellando nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto, e la paura di non offender con sì fatto medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto, forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo, ficome e' dicu, quàmin particulari exequatur. Ma non che Galieno die fcendendo al particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi conformi; anzi cotanto fciocco, ebalordo egli è nelle ſue regole, come già diviſa to abbiamo, che in preſcrivendole in univerfale, fache ſo vente l'una all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano. Così nel libro del modo di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice: lo dimos ftrerò in queſto libro, che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo, anziche ne men coloro, ch'abbondan oltre fiodo ia langue, fian da ſegnare, ſe prima manifeſtamente non fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del lor fan gue: e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo, e la ſtagione, e la complesſion dell'aria ſia: e chenti, e quali fegniabbia egli patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare, che molti ſenza graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano. Ecco le ſue parole: Εγω επιδείξω κατατον εξής λόγον, και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας, αλ' εδέ τες πληθωρικές αυτούς, εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG-, οποίον πτην φύσιν εα διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte, xai megy, noi xwegen wij, satíscos, @osc te thonyera, sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ τούτωνεπιδείξω πολ. λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν. Ωltre acio avendo Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato, e altrove inſegnato, che del ſoverchio ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento; nel quarto libro poi del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo verchio ſangue indizio del ſalaffo; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in ſangue abbonda, non è egli si toſto da ſegrare: ma sì fi dee con purgagioni, e con menomargli il cibo, c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo, che nella febbre ſinoca no debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre: acciocchè il debito alimento alles parti rimanga, ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare; non però di meno egli medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato. Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia; conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto, o'l decimo giorno, o altro giorno critico: e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno. Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne, che ſe peravventura da altri medici, o dagli asli ſtenti, o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato, allor tu: debbj imporgli beveraggi d'acquafredda,e agghiacciata potendoli ciò ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure ſicuramente adoperarnon ſi puote, allor comanda,che il medico ſi debba ad altri ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda: la qual ſe.condo lui ſmaga la perſona, affieboliſce le membra, e ren de crudi gli umori, e ſveglia tremori, e dibattimenti nel corpo, e cagiona nonpocamalagevolezza nel reſpirare. E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici; i qualicosì ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in. fermi vino,o acqua, o altro rinfreſcamento della loro ſete; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani a’ſoldati comā dino, o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno, ſc avelle creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico conligliato,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo medeſimo, di quello ſi rimaneſſe; maſe più a capital ſenza fallo auuto l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi? maſſimamétein quelli bro, quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato, e riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole, neceſſario a'malari il ſegnare;allora nel maggior caldo del la pugna, quali ſchivando la propoſta, che cotanto in pri ma avea preſa per la punta, li rivolge contro coloro,i qua li giovani, e mal pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo; e sì cutta la colpa riverſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto, che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa,e più toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano. Mamol to aftuto, e malizioſo ch'egli è, ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito, n'accagiona la tracotanza, e la befraggine de'giovani e mal praticime dici: come ciò colpa foſſe dell'età di coforo, e non più to fto del medeſimo medicamento; perciocchè egli dice', e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono, che, di coloro, a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli conchiude, che gran danno, e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente ammaeſtrar ne puote: e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono ſenza argomento alcunori ſtate; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar poſſo no di riparar veramente alle malattie, e cacciarle fuora dalla perſona per lor virtù, e giovamento; ficome nelle terzana, e nella quartana avviſar puoſli: le quali non cede do a’ſalalli; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del Perù só vinte, e fignoreggiate; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio loro,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono,che giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola difangue nella perſona,pur. dura, e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai, ne rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita. Anno 1641 Noven bris diſſectum fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard. Toletani, qui 89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum. Etenim fublatis cordes bepate, cu pulmone, adeoque difettis venis,arteriis, vix cochlear cruoris in cavuum thoracis confiuxit; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor verò inſtar crumena flaccidum: biduo enim ante mortem plus ediffet,fi ipfi conceffum fuiffet, Fuit enim per venæ feitiones, purgationes, hirudineſque ità exhauftus, ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove punto ciò, che ſi porta per Galieno, ſe pur cgliè vero, di quelmalato difebbre ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì; concioffiecoſachè veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza verſargoccia di ſangue; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro,come teſtimonia il medeſimo Galieno, i qua li fino allo sfinimento ſegnati G morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero: e coloro, i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno,co loro grandiſſimo riſchio,dopo ſegnati fino allo sfinimento, affieboliti, e raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze, comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare; con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino, e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona, che per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la cagione della lor malattia: e sì rimangono liberi, e lani di preſente co non poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira, o per timore, o per altra grave, e ſubitana paffione le gotte, e le quartane, e altre dure, e pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi comprende, ſciocchi oltremo do, e ſcimuniti eſſer coloro, i quali per picciol ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò, chè Galieno con largamen te trar ſangue fino allo sfinimento aggiugner fi crede va; perciocchè coſtoro per non porſi a riſchio d'ammazzare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta; ma si mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento le parti falde', e di fcorrenti del corpo, onde taloramaraviglioſamente,come chê con non poco riſchio della perſona, ſi riftanno le ma. lartie; perchè da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può, che certisſimo danno, e nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati. E fenza fallo gran ſenno fanno coloro, che ne più, ne meno ſegnano, pereſſer i ſa lasfi ne'malati, o gravemente dannofi, e di riſchio, o affat to inutili. E a ciò riguardando i più pratici, e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo, e guardinghi ſo 110 nel fegnare: ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-, ma lor vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai; ſe non molto di rado, e con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici, comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati, e ricreduti, pure per non metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi, e si laſciare anche in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno, così ſcarſamente, e a biſtento ſegnano, ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre, coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in nome, e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue, quando in verità non ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato, egli fem bra, per quel che nemoftriGalieno, che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben conoſciuto; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato: perciocchè pellegrinando egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco, ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte erano;eGalien pari mente di luiracconta, che trovandoſi cgli medeſimo un giorno infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo del Rovo; c ſoggiugne Galieno, chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010 re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione, e Menodoto, dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile, non avendolomiglianza niuna tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza, la qual egli avea della facoltà de'ſemplici; per la cui' mea deſima ſcorta,ad emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento, che'l fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato attribuita Galieno, ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto mai eglino rinvenire. Ma ne Eraſiſtrato, ne Galieno ſeppero mai', che nel ſugo del Rovo, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di quelle materie, onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni. E quinci ſi ſcorge apertamente, chevada errata in ciò la medicina razionale antica, la qual ſi crede, uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in fiammagioni, porre in opera coſe, che di ripercuotere, o di riſtrignere ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito: bé potea anche effer agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina, Serapione, e Menodoto, che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare; e in verità tra'l Rovo, e la Galla,per tacer del vitriolo, onde vien formato il paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato, ma huom di mezzano intendimento di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza. Maquanto sì fatta ſo miglianza poſſa ingannare, non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere; e ſe, come pare a Galicno, Eraſiſtra to avea una general contezza de’medicamenti per quella acquiſtata, certamente egli l'avea per iſperienza, o da fe, o da altri fatra, la quale agevolmente può eſſer fallace: 0 pure per via di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'errori, e d'inganno.; perchè in un punto cosi principale manchevole, difettoſo, e incerto il fiftemadella razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri: Io non ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe, opur razionale quel famoſo medicante Petronas, il quale dopo Ippocrate, maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un iſtrano, e non più veduto, o intero modo di medicar le febbri. Solea coprir egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare, ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua, il ſudore aſpettandone; il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava ch'eglino vomitaſſero; riſtata poi la febbre, gli cibava di carne di porco arroſta, econcedea loro liberamente il vino; maſe la febbre non ſi partiva, facea bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare; e comechè in alcune fortidi febbri, e in qualche huomo gagliardo, e ben atante della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con altro che.colle purgagioni, e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion dimalattic rilanare. E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara; i quali nel cominciamento di quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al vino ippocra tico, e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio; che in tal guiſa egli credette, che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po potrebbel'ammalato guarire: fæpe igitur, egli ſcrive, et aquafrigida, cui oleam foc adječium, corpus ejus pertractan-, dumeft; quoniam interdum fic evenit, ut horror oriatur, ds. fiat initium quoddam novi motus, exque eo, quum magis corpus incaluit,fequatur etiam remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui deſcritta accadere, ed agli ammalati alcun pro avvenire; pur non dimeno ſenza manifeſto riſchio non va la biſogna; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà, n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver fi gloriava la febbre finoca Galieno, confar uſcire il ſangue dalle vene per via del falaſſo, fino allo sfi nimento dello infermo; da chefacendoſi gran movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo, e'l vomito anche talora, come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire; per li quali, e per le quali o ſperano, che debba mancare affatto,oin parte la febbre. Ma in vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere il numero, che la quantità de’la laffi; cioè più cofto in più volte il ſangue, che tutto inſie metrarlo fuori, Ma per più d'una pruova avviſando il grand'Atenco, fra quante traverſe, fra quanti viluppi, fra quante incertezze vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie, e tra effo loro diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di medici na; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe in opera; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute, e approvate; e per tutto quel tempo, che le lettere fiorirono nella Grecia, e nel Romano impe. rio, celebre fi manterne la ſua Setta, e in buon nome, las qua le ſpirituale venne chiamata; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava; la qual per tutti i 1 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non meno il grande, che'l picciol mondo regger doveſſe; é dove ella non foſſe primjeramente offeſa,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento, male alcuno ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir gilio in prima dicendo. Principio cælum, duterram,campofque liquentes, Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit:totamque infufa per artus Mens agitat molem, & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo Ele menzogue antiche Di chifiloſofando, e menie, e Spirto Dieda queſta mondana, ed ampia mole? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira; Com'a lor parve, e'l Cielo, e l'ima terra, E laſpera delſollucente, e vaga, E’l globo de la Luna, e l'auree ſtelle, E de l'aria, e del mare i larghi campi Nutre, e miſto al gran corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra? Ebbe la ſetta fpirituale oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi, e alMagno, ad Agatino, ad Erodoto, altri, e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute a grado,ſommamente la nobilitarono, e l'illuſtra rono; e fra gli altri Archigene:il quale, tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece, e per li tanti doctiſ ſimilibri, ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa, ne grande, ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina, non ha che cedere a niuno, ch'abbia o prima, o dopo lui ſcritto, e medicato infra'Greci; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica, onde a gran ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no: e per valerſieglino della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien conti, difettoſo, e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio nale. Oltre re, Oltre a queſto e'miſembra, che riprovino eglino me deſimi il loro ſiſtema; imperocchè in medicando le malat tie, poco, anzinulla a sì fatto Spirito badar fogliono; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro ſpirito, ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare, chente,equal li fia la ſua nas tura, cioè qual figura qual, grandezza, equal movimento abbiano le particelle, che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo umano, e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna; e in qual guiſa dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo.. Poco men che crucciato ſi maraviglia Plinio, in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade;huomo com'e'dice, quan to al naſcimento, di condizionemolto vile, e di maſtro di ritorica ch'egli era in prima, perciocchè aſſai poco gli fruttava, in un tratto medico divenuto. E sì, e tanto egli adoperò, che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo alla medicina, a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte, e poco men, che affatto op preſe, e abbattute; ed egli folo vincitore,e trionfante de gli altri medici, a guiſa di perpetuo dittatore nella Città donna,e capo del mondo, ne ordinò a ſuo talento, e ne diſpoſe le leggi: ſupremo, e aſſoluto arbitro, della vi ta, e della morte diquelpopolo, nelle cui mani ſtava la morte, cla vita d'ogn’uno ripoſta. Ma fermamente egli fi dee credere, che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de, non tanto com’alcuno immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe, quanto che colſenno, e col valor no punto ordinario viſi portaffe, comechè la fortuna anch'el la vi concorreſſe con qualche gran fatto; quale appunto di fu quello, che vien narrato dallo ſteſſo Plinio; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in un miſerello, che per morto era portato alla ſepoltura, facendolo egli a caſa rie tornare, con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe. Eben 1 túrós, E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo', e la ſingolar fua prudenza: allor, che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate, generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte. Malale tezza del ſuo acutifſimo intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante, e tante ſue opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe; nelle quali ſi vede apertainéa te, che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima buccia delle coſe, s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade, che non già per caſo, ma di neceſſità, e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna nell'Vniverſo: e che fa natura altro ve ramente non ſia, che'l corpo medeſino, o'l ſuo moto: per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli, veloci, e ratti, e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi, e con vicendevoli percoffe, l'un coll'al tro cozzando, e forte battendoſi, fi vengano a ſminuzza rc, e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge; le quali con diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra, e inſiemeaccoppiandoſi, e congiugnendoſi, prive d'ogni qualità, col moro, col numero, colla grandezza, collow figura, e coll'ordine le coſe, e l'apparenze tutte ſenſibili producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne,che ſien privi diqualità i corpicciuoli; concioſliecoſachè altro dal tutto, altro dalle parti ne ſegua; l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura; il corno ènegro, mala ſua polvere è bianca; ma dovetre dir egli ancora, che le qualità altro non fieno, o per me'dire altro non le faccia apparire, che'l concorrimento, la figura, e’l fito, e la grandezza, e l'or dine, e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli, o ſperali, o piramida li, e con dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no, a formar ne vengono quel ſentimento, che dicalore ſi chiaina. Dice oltre a ciò Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle, o ſchegge ſuddette nel formar le membra degli animali, vi laſciano molti, e molti ſpazj vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi, varj di grandezza, e di figura; i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano, callo incon tro, ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli,a far li vê gono ſecondo la varietà delle parti, e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie; ma non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade, avvengono per la dimora de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente, come la freneſia, il lecargo, le puinte, e lefebbri grandi; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento: e s'ingenerano per la curbazione de ſughi, e degli ſpiriti, per la quale ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina, e nella fover, chia magrezza ſi vede: 0 nuovi ſpazj a viva forza in non, convenevoli luoghi ſi aprono, come nell'Idropiſia acca de, Vuole oltre a ciò Aſclepiade, che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte; ma nel vero al tro quelle non eſſerç, ſe non ſe le cagioni antecedenti. Si ride egli di quel grande ſchiamazzio, che fanno i medici in. torno a'giorni critici; portando opinione, che d'ogni tem po, com'egli avea avviſato, poſſano creſcere, e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie. Ma per accénar qualche coſa intorno all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men, ch'c'potea; avendo ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role, che vengon per Cornelio Cello rapportate: tutè,citò, jucundè;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti, che così ſovente, e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re, care qualche giovamento agl'infermi; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo, e pronto il danno, ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi, medita zion della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huomo, e di sì fatte coſe aſſai intendente, quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della medicina, e dalla fiebo lezza de'ſemplici, o compoſti medicamenti, che in que' tempi erano in uſo, nel ſapere ben regolar la vita col ci bo, coll'eſercitar le mébra,e altresì fatte piacevoli cole, poco men che tutto il sómo del ben medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli, come huom crede, da neceſſità alcuno ſtretto,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto, che ſicoine Galien dice, egregiamente cgli ne ſcriſſe: e molti, e molti medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò, e poſe primiera mente in uſo, e ne compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai tacciati, anzida’ine deſimi ſuoi emuli, e avverſarj commendatioltremodo, e fovente adoperatifurono; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto ſecolo in trodotto di medicar le ferite. Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le purgagioni; ma fivalſe de criſtei. Danrò ancora, come racconta Plutarco, ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo: quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito; del quale, com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di Samotracia. Ne ſi dee qui tacere, che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe ad aver contezza dell'elatere dell'aria, come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti parole di Plutarco, avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν, αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν, τε και φέρεσθαι παχυμε. ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370 Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι, μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω θώρακι λελομερές dei begyiQ (šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει. · Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo Iddio, come riferite vengono; e per la più parte da chi punto non l'intendea; e talor anche da al cuni per vggia, e mal talento a ſtudio guaſte, e travolte. Il che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina; pur lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento. E primjeramente parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando egli opinione con Ariſtotele, ed Eraſiſtrato, che le reni non abbiano al cuna operazione: echeciò, che ſi bee, ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove poſcia li ftipi in orina; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno; comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato, perchè c' non fi vaglia della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo, perchè egli non ſi metta a filoſofare con ciance, e anfanie. Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade, dicendo, che contro l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe,le qualiognun vede, che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte,veramente vi vadano;che certamente non potea egli sì milenſo, e ſciocco eſſere un tanto huomo, Negò ben'egli la facoltà attrattiva, e co'buoni filoſofan ti ſtimò eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai, ne facoltà, ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro corpo ſenza toccarlo, o per ſe ſteſſo, o per altro corpo da ſe parimente tocco, e moſſo; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino, o fune, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma non poſſo lo laſciar di forte non ridire, quantunque volte rammento quella ragione, colla quale Galieno con tro Aſclepiade,ed Eraſiſtrato, e altri buoni filoſofantiſen za vederne altro,fermanente credette, ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata; dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte dipeſo;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima, ſe'l grano non aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna, che in ciò punto l'appagaſſe. Quinci ſi pare,che meritevolinen te il Veſſalio avendo anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile, prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga licno:profeito ſiGaleni libri de demöftratione, cjufmodi crebris Scatent demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens, ac poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt, non eſt ut eos libros tantopere expecte mus. Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa vellare, certamente venner conoſciute molte, e molte coſe di notomia per Aſclepiade, che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro, e ragguardevole oltremodo il ſuo ſite ma: comechè paruto fo fe, ch'egli aveſſe portata opinio ne, che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino, che co'nunemente per ciaſcun ſi credea; impertanto immaginò egli, di ſottiliſſimo vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo; ma non diſse perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene, e dalle arterie miſeraiche tratto veniſse. Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito, Ariſtotele, ed Eralitrato aveſser detto, che in guiſa della ruggiada il chilo, e l'alimento per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe, nelle quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è ben 1 cerco, che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere, chenti, equali, e dove veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la figurą, e'l fito, e l'ordine, e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o affatto, o in parte turandogli, o più del convenevole dilatandogli, o altri nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i mali negli huomini; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli, onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte; e ciò non ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc, alcun ſicuro, e certo rimedio per ragion ritrovare. Dove poicgli dice farſi la freneſia, il letargo, la punta, ele febbri da'corpicelli, chenegli ſpazj inframelli dimora no, perchè egli non ſoggiugne (o forſe no'l ſappiam noi s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi? e avvegna pure,ch'egli accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz de'piccioli, e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta; anzi pajon'elle molto leggieri: e ſono queſte, che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano; e più agevolméte gli ſgõbrino,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo intendi. mento fornire; ma di ſaper anche il movimento, la figura, el ſito di quelli farebbe a lui meſtieri, ficome poco 'addie tro noi dicevamo; e ſe impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per intelletto umano co durre a capo, yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno, che di ſtabilir ſetta veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade, come detto abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che, comeperGalieno ſi narra, egli ſolo, e Dioſcoride d'ogni ſorta dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta,de' ſughi, de' liquori, e d'altre, e altre coſc fof ſero pienamente informati: nientedimeno, ſe le pruover che intorno alla loro natura, e al loro operare egli nellas ſua opera recò, ancora di leggeſſero, ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato, ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni;e meſtier certamente farebbe ad Aſcle piade, alla fola ſperienza, non men che altro più vile Em. pirico ricorrere. Ma ben ciò conobbe egli, ne'l diffimulò punto, e confeſsò apertamente, altro la medicina non ef fere, ch'una cotal ſemplice conghiettura; onde ebbe a dire Plinio, ch'egli: medicinam ad caufas reuocando conjectur.i fecit: o come legge Giacopo Dalecampj: conjecturalem fecit. Nel curar le febbri terzane,e quartane egli ſembra,che non molco bene (comechè'l contrario dica Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo medico, ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare aglinfermi il vino, e bagnar loro con acqua calda la teſta; ove in inolte altre coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare. Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi tragga mai ſangue, fuor ſolamente ne'dolori; e ciò perchè facendof queſti da’ grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti, ſe condo il ſuo ſentimento, gli pare, che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo ciſſimicorpicelli,che formano il fuoco, cagionar ſoglio no il dolore: come anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina; il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina, i corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti ſalde conſiſtono: e le liquide, benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi, non ne ſono cagioni vere, e preſenti, ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò, egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 } che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e ſolo ardì a ſpiar tutto, e a ſcriver tutto, ciaſcun maeſtro più valoroſo ", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai meſtieri dire, che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla medicina, calla filoſofia ſeguito, Quinci ſi vede, che ſcarſemolto, per non dir altro, ſem bran le lodi,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi Prufienfi, condita nova feéta,fpretis legatis, doo pollicitationibus Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine, ofervato,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna, ne medicus crederetur fi unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe, & victor fuprema in ſenecta lapſu ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to, e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno immaginare, non che diviſare; e fe'l favore, e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri eſſere, ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro, fifoffe fatto di qualche nuova forte di metodica medicina inventore. Veggiam di lui ſolamente alcune forme, o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari, e di molta poca co ſiderazione, dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui tenuta nel medicare Ottavio,tutta travolta da quella di Cimolio; perciocchè Ottavio, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta; ma per avventura a ciò fare da qualche apparente ra gione egli fu moſſo. Neciò è nuovo, che i razionali ſiva gliano di tal regola; poichè il fece Ippocrate ancora; co mechè egli poi moſtri, ch'aveſſe altro in animo, con inſegnare una fiata il contrario, la ove diſſe,che chiunque ope ra con ragione, avvegnachè ſenza profitto, e infelicemen te fi faccia, dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da: návraisatakóyov meséori,xai pen'govojévwv * xara'dégor,designer swßaives, i inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente, che a mal fine rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo volgono i loro intendimenti, con graviffimo dan no de' cattivelli. E mi ricorda in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un ſuo ſcolare, che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto, che'l ſegnare in alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano, conduceva a ficura morte gl'infermi: impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto giovamento di quelli: egli replicogli una gran vit lania, chiainandolo ſciocco empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo, non altrimenti, che ſe colui aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor naſſe al falaſſo di prima, nulla curando, che gl'intermi per ciò fare certamente fe ne moriſfero; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina d'Ippocrate; non avviſando,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate, nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la ragione, allor che non le riſponde l'uſcimento. E chi ſa poi tra le tante incertezze dell'arte, qual ſia la vera, e legittima ragione? ma come ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia, ne opera d'huom di poca dottrina il ciò poter ben avviſare. Egli li fu Antonio Muſa, per quel che s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te; ne per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ' εκτάνετε ταν πάνσοφον, μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν. Maqual fi foſſe veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio. Cuivenus ante alios Divi, Divumqueforores Cuneta,nequeindigno Mufa dedere bona. Caneta quibus gaudetPhabus,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se in terrisloquitur jucundior uno, Clejo nam certè candida non loquitur. Sivalſe Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali maraviglioſamente con incredibil velocità, ſe'l ver dice Plinio, ne guariyano. Io yo meco diviſando,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico,celebrato;dicui narra Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo, cui in iſtrana guiſa dall of Ia la pelle ſpiccavaſı, fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα, των σαρκών απόφασιν λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν, ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη, και βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons. Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda; e egli, e'l ſuo fratel do Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata. Mail Muſa folea ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo, aprir loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare; quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla, ſe in Salerno, e in Velia foſſe così fredda l'aria,che dimorandovi egli poteſſegli giovare a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa, freddiſſima gliele richies deva per dover prendervi i bagni freddi. Aua Quæ fit hyems Velie,quodCalum Vala Salerni, Quorum hominum regio, &qualis via.(nam mihiBajas Mufa fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum: gelida cumperluur unda Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere morbum Sulfura contemni, vicus gemit, invidus ægris: Quicaput, & ftomachum fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma certamente ebbegran ventura il Muſa, che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta guiſa Ottavio, guariſi d'una gra villima inalattia; comechè dica Plinio, che ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro il parere di Cimolio; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora; indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe, che per averle anche fuor di teinpo, riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne, e in cotanto credito, cheoltre alle ricchezze, agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo, ma per tutti altresì i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno d'Eſculapio, come ne da teſtimonianza Suèronio: Medico Antonio Mufa, cujus opera ex ancipiti morbo convaluerunt, ſtatuam, çre collaro juxta fignum Eſculapii ftatuerunt. E fe'l mio avviſo non m'inganna, d'oro gliele avrebbe certa mente rizzata, ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene allora ſtabilita ancora la tirannide, n'avreb be per avventura la libertà egli ricupcrata; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani, non ſa. rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto, ne Caffio, ne Seſto Pompeo, ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare, e per terra non avean potuto adoperare. E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare del Muſa, quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio, ſe ne morì Marcello; perchè di preſente e'per denne !, gloria, che guadagnata s’avea; non ſi dee imper 1.2. P; CXLV2Livi, come o telo 378 Ragionamento Quinto poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo faceſſe a bello ſtudio morire; anzi morilli Mar. cello in Baja, come teſtimonia Properzio, il quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in undas Errat, in veftro fpiritusille lacu. Neſembramiveriſimile ciò, che ne va conghietturando quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra no maeſtro Giuſeppe della Scala, facendoſi egli a credere, che Properzio cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia, e fargliene ſervigio; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe tenuto mano;vo luit, ſono ſue parole, gratificari ei, que de ejus morte ſu Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non ha dubbio alcuno, che per machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja Marcello,che in quelle di Stabia, la dove alriferir di Servio egli moriſli; e ficome immagina il mede Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe di quella fonte, che a tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me, nelle fredde il poneſſe, e che alla fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la vita; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi puote: Marcellum in aquis Bajanis fulz merſum interije: coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per quell’acque,colle quali,eſsédo egli si tiſicuzzo, e triſtanzuolo, e col Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche interno tumore, il ſoffogallero: o di ſover chio creſcendo il moviméto del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime particelle, dalle quali depéde.la vita negli animali, onde repétemente egli mādafle fuori l'anima;coli, la quale eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte fi puote sõmerge re niuno in que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi; onde maggiormente avrebbe dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe per opera di Livia avvenuto; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato. Ma paſſiam oltre a dir di Clinia da Marſiglia. Fu la guiſa del coſtui medica. re nel vero ſtranamolco,e ſuperſtizioſa: imperocchè infi gnevaſi egli di non darmaia malato niuno,o cibo, o medi cina, fuor ſolamente, che in certi puntiaſtrologici di fito, o dicongiunzioni della luna, o d'altri corpi celefti: e bert gli approdarono sì fatte malizie; poichè montò in sì buon nome, e fama appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne;delle quali ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la propia patria, e parte alla medeſima ne fe dono, acciocchèpoter Le riſtorar quelle, quando huopo ciò lor foſſe. Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il fiſterna del la ſua medicina, non avendene niuna certa, e ſicura con tezza; ma mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in medicãdo ado perata, ch'un ſottile, e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc ciance, e promeſſe le troppo credule perſone. Ma forſe, come i Romani ſi ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea: ne folean giámai darcominciamé to all'impreſe, ne trar fuora gli cſerciti, ne far giornate, nc alcuna coſa di confiderazione, o civile, o militare ado perare, ne mai ſarebbon andati a gucreggiare, ſe prima non perſuadevano a l'ofte, che gli augurj avean promeſſo loro la vittoria, affinchè i Coldati maggiormente incorag. giati prédeſſero ſperanza divincere: dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la vittoria: così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero piena fede alle medicine loro preſcritte; e forſe ſe ne valſe altresì egli per iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina, la quale da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata;ma dalla minuta gente giovevole, e neceſſaria giudicata; valevaſi dico della ſtrologia appunto a quella guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano dal coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover per loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo, Bbb 2 che cono. 1 che foſſe non meno fciocco,che ſtrano, come quello, che poſti in non cale, e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per venire allamedicina di Galieno, vana per avvé tura, eſoverchia giudicherà alcuno la mia fatica in abbu rattarla; imperciocchè chiunque avvedutamente v'affiſe rà lo ſguardo, ben toſto ſcorgerà i mancamenti, e i difetti di quella: i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina, quanto dal ſiniſtro modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono;. il quale avvedutiſſimo in fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina, ch'e'medefimoconfeſſa, e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie: a bello ſtudio par, che riltando in s l'ali, o dando lunghe, e inutili aggiratc, a quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano. Così con le medeſime ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i ſuoi nimici;e dicendo, ch'egli inneſta in ſu'lſecco, or dinando falſamente il ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina, niegano conſtantemente gli eleincnti', e gli minori, e l'altre coſe cutre '; ove egli coil poco ſode, ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando, renderommi lecito di brevemente accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero, e fiſio comodo come naſcano, o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità,ma ſolamente le ponga già nate; ne men, quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser conſi ita; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare, ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda, ne pur gli effetti che per lc, o per accidente da lor fortiſcono. Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar potea, ſe la > natura della materia, dalla quale quelle dirivano ed in cui, coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non cura; il che quanto monti, agevolmente da ciò potrà comprenderli, che traſandato il conoſcimento delle qualità l'economia degli animali, ne la natura delle malattie, ne le cagioni diquelle, ne i medicamenti mede fimi non ſi potranno in modo veruno comprendere. Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi in qualità di ſover chio rigoglioſe, o manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza ammendandole riporle; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà, in che conſiſta la árminatío, o nimiſti, che tra loro eſser fi dice; perchè anche ne fiegue, che non ſi ſappiano, ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre qualità ſpie gare, che ſeconde chiamanli,e che egli pocoriguardando a ciò che gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar rano, giudica, che cheno non pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per eſemplo,avve gnachè freddo, o caldo, o temperato, pur nelle ferite meſ lo, dolore, e infiammagione apporti;e che non altrimenti, che dal caldo, dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il fiſtema della medicinapiantato; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò, che nella naturä vedeſi. Perchèi più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe della natura, fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza, o pur alla forina eſsenziale, all'amiſtà, o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra le coſc, e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle qua li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote. Quindi: per racer del Fernelio, e del Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe ca gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, elementarii medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis, nec de caufa prima. Mala vero funt princi. pia artis ea, qua inexplicatam tādem relinquüt quæſtionem. Talia verofuntelementa Galenicorum: ex quibus non potes demonſtrare rationem facti offis, carnis, fuccini,magnetis, & cetera ſecundum formam eſsentialem. E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque pluribus eçdē affectiones, & qualitates infunt, per commune quoddams principum infint neceſse eſt;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram, calida propter ignem. At colores,odores, Sapores efse progosov, fimilia alia, mineralibus, metallis, gema mis, lapidibus,plantis, animalibus infunt. Ergo per com mune aliquod principium, & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non funt elementa: nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam. Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto bene avviſando molti degli antichi, e poco men, che tutti imo derni Galieniſti, ſe maicoſa alcuna malagevole, ed oſcura intorno all'economia degli animali a ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura,e la cagione di qualche ſtra na, c non conoſciuta malattia, allora abbandonato affac to il lor maeſtro Galjeno, e poſta in non cale ogni ſua dot trina, ed ogni diviſamento della ſua razionale, e vana mie dicina, a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto s’appi gliano, E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno; e rimirando alla manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più, e più fiate diſegnato, le facoltà non có fiftere in altro, che nel temperamento, o meſchianza delle quattro primnequalità, avviſando alla perfine mal poterli con quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare, così ſcagionandoſi apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice, la chiama facoltà, o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di palpitare; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza d'adoperar quelle coſe, chcin eſse ſi fanno. Con cheGalicno apertamente confeſſa cgli me defimo, le facoltà, che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa pere; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono, quelle fiate, che per Galien ſi ricorre ad una cagione, la qual eglimedeſimo, non ardiſce, o corporca, o incorporea determinare; e che egli ignorando, che coſa ſia veramente, inſieme col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla. E ridevole veramente ſi è la maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar,come le partide gli animalifacciano le loro operazioni;dice egli, che ſico me al comandamento di Vulcano, ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più, o neno il fiato; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano; cosinel corpo degli animali niuna coſa eſſer immobile, ed ozioſa; imperocchè dal ſupremo facitore alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli, sì che le vene non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono: ma l'attraggono, e lo preparano al fegato; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo, gli da l'ultima perfezione di ſangue: müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι δημιουργήμα, και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων, εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας: τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα μηδέν αρ. γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας μόνον την τξοφήν εκ της γασφος, ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι τον ομοιόταν εκείνων τόπον, ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας, και την πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva. Ed è anche manchevole la medicina di Ga lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti del corpo; perchè malamente l'economia degli animali, ed ondenaſcan le malattie, ei luoghi, e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella, non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te, j 384 ' Ragionamento Quinto baſtantemente la coſtruttura, e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe, o nelle vene lattee, o in alą tre, cd altre infinite coie da’moderni deſcritte. Ne ſeppe cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore, e dei fingue: ritrovato, del quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, & utilius in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali due coſe ſole di tanto pregio, e di tanta conſiderazione parve l'o al nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo, che meritc volméte egli chiamarle ſoleai due poli della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro conferma maggiormen te, craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva, quindi fperando, che'la medicina, quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche coſa diſaldo a pro degli huomini; malli. mamente in quella parte, in cui dall'economia degli ani maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità; almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le qualità, ed in aggiugner ciance a ciance, eglicēto niun non facea: Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar con maggior agio, e tempo in un'intero volume, laſcerolla al preſente, riſtrignendomi ſolamente in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi tira. · La maggiore, c principal parte, e pił d'altra alcuna nel meltier della medicina neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè, che alla materia de'cibi, e de'medicamenti s'appar: tiene; or queſta nella medicina di Galieno è certamente tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli errori, e falli ſottopoſta, che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto, e sì factamente negli Impiri ci dannano, erimordono. Ed è ciò dicanta conſiderazio ne, e rilievo, che in utili a baſtanza, c infruttuofe, e vane le contezze cutte della medicina, ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote: le qualitutte ad altro non fono indirizzate, che a diviſare, & proporre agli ammalati i cibi, siinçlicamen:1, 3? fu conced.fipreselierelli 13,45's ra, medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo umano, della cagione, e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la razional medicinapotrà ritrarſi? certamente per quel che Io micreda, niuno, ſe non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci, e ben certe ragioni, come,e qual ſorte di me dicamenti, e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno, e faggio conoſcimento dellana, tura, e della propietà di quelli avere? Ma queſto per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica certamente, e incerta farà da dire la lor medicina; per tal modo, che non ne potrà ſe non-ſelargamente il no. bile, e laudeyol titolo dell'Arte meritare. Ed interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per una menoma particella, che nella definizione, o nel partimento, o nel fillogiſmo dubbiofa fia, ed incerta, toſto dubbioſo, e incerto il tutto anche diviene; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia. Senzachè la medicina in tanto è arte, e conſeguenteinente certa, in quanto ella ha ficuri, e certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini. Adunque non eſſendo queſti certi, ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor medicina. Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti, e più dorti eglino ſono, tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare; ne dalla lor doctrina, e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va; imperocchè manifeftiffima coſa è, che Galieno mede ſimo, non che altri, con iſchiettezza veramenteda filoſo fo, e degna di lui, molte, e molte fiate apertamente il co felli; ed una infra l'altre mordendo, e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi, che troppo arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo: non laſciaremoin Сcc. tanto, 380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore, e dall'odore, e dal fa pore, e dalpeſo, e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù diſpiar s'argométano. Quindi appreſſo ſoggiugne, che tutta la ragione d'eſaminare, e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter debbia, avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj. Ed a ciò anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la fine prorompe. Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad inveniendum, rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus; fed ex modo, quo nos afficiunt ſolum; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat, fed tota fit empirica. Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da' fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro, e ſpezialmente ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre sbracciate arditamete millantato: Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit,fed perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata. Ma certamente s'egli riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui vanterebbe: nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum: quoniam hic author nihil, quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum, quod pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della verità: poichè, per tacer d'altro, non ſi ritien per quella di rimproverare a Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato, il non ſaper punto di Loica; e più ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia, ove infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice, che quelli non ſiano ſtati mai, ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali (ſon ſue parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele, ſpezialmente intorno alla materia prima, dice. manifeſtamente, e confeſſa, che quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al preſente, dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione; anche il mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa non altro, che vaneggiamenti, cd inutili ciar le; poichè avendo egli ſognato, che ſarebbon guariti due infermi, ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della inan deſtra copioſo il ſangue, ei prontamente gliele craſſe, e tutt'altri ſuoi ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo, fe guì l'indirizzamento d'un vanillimo ſogno;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede, ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe; ed Io il ridirovvi colle parole di lui; πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον, ήκον επι την εν τω μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα ερείν, άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα, κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di riferir poi ad uno ad uno, come fanno il Veſſalio,ed altri,ed altri notomiſti,tan ti, e tanti errori, che nel deſcriver le parti del corpo uma no preſi furono per Galicno: per non recarvi consì lungo racconto più di noja, che per avventura non ſi conviene. Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò,che a ciaſcuno è manifeſto, che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di vane ciance, che di coſe ripiene; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe, a più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle. Ne meno ho curato accennar come coſa a tutti nota, chc la dottrina inſegnata da Ga lieno, per la più parte ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa, c peggio ſpiegata. Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione, di narrar come Ga lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 di Placone, e d'Ariſtotele, e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la filoſofia epicurea ap parata; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni d'Eralia Itrato, d’Aſclepiade, e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti, che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri di quelle addoctrinato. Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo del filofo fare, che mai fempreGalieno adopera, non iſccndendo mai alle particolarità delle coſe; e ſe talor e'fi pare, che viſcenda, il fà per modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale. E nelvero chi è, che non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi, a' temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova, ſe non ſe con ſole parole la lor eliſtenza? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo, e del ſangue, della natura, e degli uficj, delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti? Chi è per Dio, che non iſcorga, com'egli facendofimenare per la barba dagli ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici, e com'e. gli oltremodo vancggj in facendo parole della materia del la natura, delle cagioni, e deglicfetti delle febbri, e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia,e dell'Epilcilia. dicendo egli, amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione de’ventricoli del cervello fatta da freddo, groſo, e tenace umore; recandone per ragione, che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano; o eſſendogli caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata,più al vero conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di botto riſtando; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea, e ſottile; ſenzachè ſe ver folle, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo l'Apoplefia, e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi, converrebbe chemai ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel ra, poplellia: e che queſta in quella mai ſempre terminalſe; il che non ſi avviſa, ſe non ſe di rado; ma ciò fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina, che non curoffi mai di aprir cadaveri; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati i ventricoli del cervello, il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali, ſenza tenere ne' ventricoli del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene quelcelebre detto d'Ariſtotele:87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το συμβησόμενον εκ τείκότων, και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον ούτως. Or non fi coglie da ciò che è detto, che Galieno della coſtruttura delle parti del cervello, e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche chiaramenre ad inten dere, allor, ch'ci fa parole degli altri mali della teſta; ed ora mi ſovviene,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla triſtizia de'malinconici, in così dicendo: ficome le tenebre eſteriori apportano ſpavento a quegli huomini, cheaudaci, o fapienti non ſono, così la malinconia col fuo colore offuſcando, ed ottenebrando la ſedia dell'anima, le reca timore; ne' qualiderti è certamente da ammirare, che ſié più errori che parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura dell'anima, edi quella delle qualità intcſo:eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la luce, che coſa foſſe il colore, ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc, o'l diſcorſo in noi fi facciano; perchè ragione volmente nel vero, comechè non a baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato, e deriſo. Or come per Dio huom, che ſuperficialmente filoſofu della natura, e delle cagioni delle malattie, mai può in medicando della ragione valerſi?.e certamente, per ta cer d'altro, a Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare; imperocchèquantunquegli ſi con ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana, cioè, che ſi cagioni la terzana dalla collera, la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa provata,e vera la ſua rego la, che  la, che curar ſi debba per li contrarj; le Galien non fa la natura della collera, come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca, e che imputridir la faccia,e come per la putreſce za vi s'accenda, e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia contrario? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo, e ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co; ma s'ei non fa qual ſia la natura del calore, e della ſic cità, e del fuoco,certamente nulla ei non ſaprà della colle ra, ne comprender mai potrà, come ella, e per chi s'im putridiſca, e come ella cagioni la febbre, e comea ciò ſi poffa dar compenſo. Certamente meglio partito egli avrebbe preſo, ſe della ſola impirica valuto li foſſe;la qua le, ſecondo quel, ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa razionale, Ne meno lo dirò, ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto Dioſcoride,diſagio di buoni, ed efficaci medica menti: c che egli la più gran parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj, ricercă dogli eziandio infra altri ſetteggianti, e cra’volgari impiri ci; perchè diſperato egli anco di ciò, fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine, e nella dieta, e ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole, che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo, aveſſe avuto Gi rolamo Cardano riguardo, certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera, nc mai ſi ſarebbe laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus metho dis, pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben qual ſi foſſe Galieno, il riconobbe, e l'ad ditò il Veffalio, che più del Cardano ne fudi gran lungu informato. De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne mai colui, che per iſpiegarne la cagione, alla facoltà ricorſe, ne punto ſeppe de’movimenti del ſangue? Ma nella loica, quanto egli poco valce, il dica Aver roc, i 1 tropo ſtudio. roc, il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in doſſo. Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere, il della loica: e fe Galien conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò, s'egli non ſapea,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare? e tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato; e dicoloro, che dopo lui vennero, paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina. Furono di così poco taléto que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro, che le coſe mede fime dagli antichi già dette, malamente per lor compreſe, e peggio rapportate, compilare; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori, ſolaméte alla ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio, che di tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio. Ma dovea purGiulia no, ſe filoſofante era, qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui, avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma, che dello ſciocco berlingatore d'Oribafio; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli errori de'ſecoli traſandati, edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre, anzi alle ciance, e alle lunghe dicerie, che alle fal de operazioni avean l'animotutto, e'l penſiero rivolto. E sì, e tanto queſta ſconcia, e biaſimevol coſtuma crebbe, e diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici, ancora,laſciando da parte le loro pruove, e le ſperienze, tutti nelle ciuffole, e ne'ben compoſti cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta, ch'avef fe voluto logorar la ſua induſtria, e'l tempo in contraſtare ! ic le ſette razionali; perchè in iſperimentare, e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto certamente confe guito n'avrebbe. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo impirico, ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato: il quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta dietro alle cagioni, alla natura, a’ſegni, e a’rimedj della ſua malattia per un ciarlatore razionale, così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è, che tu più coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui, che alle tante, e tante pruove fatte permefin'ora; dal che moſſo lo infermo, diede di botto comıniato al van ſofiſta, e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi. Ma certamente cotanto ciarlare, e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti greci dal ſoverchio ſtudio della loica;avvegnachè per quella intorno alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no. E forſe in ciò potrebbon ritrovar pietà, non che per dono, ſe già l'oſtinazione, e la fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale, che per fermo eglino ebbero, e per coſtante, così veramente andar le biſogne della natų. ra, come eglino le îi davano ad intendere, Ritroſi ancora ſi parvero, e negligenti affai i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti, come faldede gli animali; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e, conomnia, e l'ingenerazioni, e gliavanzamenti delle ma lattie; ma ſour'ogn'altra coſa ſi vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti, la quale così dubbia, incer ta, e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche, e novelle ſi troyano colla verità in quella me ſcolare, e confuſe, E ben ſi ſcorge ciò dalla raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride, il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe vere, o falſe elle fi foſſero, di tut te pienamente fece faſtello; e tali vengono poi per Galic no, per Oribalio, per Paplo, per Aczio, per Simon Seti trat tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo,o.umis do, oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato, certamente il fanno dove e * no'l merita; ficoinc allo.incontro il commendano, dove no'l vale. Ne lo ciò dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride, ch'egliè anzi permio avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci alle noſtre mani ne lian pervenute: ma perchè eglino vi ſia cauri, guardinghi, e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian intera credenza. E quinciancor manifeftamente s'avviſa, che non che nulle giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti, anziella di vantaggio loro oltremodo nocque; perciocchè più veritieri aflai trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi, digiuni di lettere, che nelle limite, e ben culte ſtorie loro. Io tralaſcio di far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare, quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare, e comporre infieme imedicamenti femplicida colui, che di quellinon fia pienamente informato. E ben s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci,.e più ſtimari della. poco lieta uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio, e ben regolato vivere, l'arte tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero; e sì, e tanto-in.ciò furono ritenuti, e rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano, cad altri la fo la mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici; perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire icadaveri; avvegnachè una tal Did diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova, più toſto ſia effetto,che cagion delmale; pur nondimeno alcuna fiata potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re. Ma quelche più rilieva, ne meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali, ſe però non le ci ha tolte la lunghezza del tempo; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate, elleno ſon cosi rozze, ed imperfette, che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le crede. Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni, che ſi ſono attentati di ſcriverle, comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera, o perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie, ſicome fece Amato nelle ſue ſtorie:0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati', vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano; ſe pur non ſon elli imalizio fi, che le coſe ſempre aroveſcio, e travolte ne vogliono da re a divedere; ſicome alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe, per difender le loro opinioni tutto di van recando. Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza brigāti, eriot tofi che, tal ſovente videli, nonche ad altri,ma a ſe me d'elimi far contraſto; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i viluppi, e le malagevolezze di quell'arte, che eglino cotanto con biftentis e vigilie, e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare, emaggiormente offuſcaro no; perchè non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope Maeſtro di Galieno, il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera; incontraſtabil cagione. E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo, il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate diſami nate, e riprovate. Finalmente ſi conoſce, che non hanno gran coſa i Greci in medicina adoperato; imperocchè les aveſfer qualche coſa di pro eglino mai rinvenuto, certame te qualche veſtigio appo gli autori, chealle noſtre mani so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata, e premuta,che par che d'altra eſaminazione non le faccia più meſtiere. E ciò maggiormente, che dagli Arabi fu maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato. Ma egli è in iſtato più miſerevole la loro ſcuola, che dove alcunas volta Ippocrate, e Galieno non dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono, ella ſconciamente gli abbandona. Nel rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava lor ſolamente aver letto, o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe, che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca favella, l'un ſemplice, e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe, emolte non inteſero; ma gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura, fe di vantaggio qualche lor ſogno non ci aveſſer frāmeſſo. Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi ritrovati ve ne abbia forſe saluno, che a que' de Greci prevaglia., niente dimeno nulla,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno, ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero, per cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape, le Mulſe, gli Offimeli ſem plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi; con cioliecoſachè ſotto il doice del zucchero,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo; ed egli oltre a ciò ab bonda il zucchero d'una cotal tenacità oppilante, e perciò alle viſcere nocevole oltremodo, e nimici; della quale il miele è affatto privo, mercè, che le apiil rendon volatile, Ddd 2 é fottile, e penetrante e, quaſi ad una celeſtial quinteffens za il riducono; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora, poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne, che men acuto anche, e mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta. Maſenza più diftendermi in queſto, ayendovifaſtiditi pur troppo, lo fo quì fine al mio ragio mare.  vele Icome al partir della fredda ſtagione, dal grave peſo delle neviſgombra la terra, tutta lieta:, e feſteggiante ringiovaniſce, e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte; e fiabe belliſce: cosìparimente;o Signori,le ſcienze, e le più no bili artiscellati ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano, cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella,d'o, gni ſcienza antichemadri, riſurte fiorivano; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben parlare erano in ſu'l far frutto; ne l'Archițettura più, 12.Muſica,o la Pittura, o ciaſcuna altra arte abbattutalanguiva; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun ſollevamento, in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe, efgombinate dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala  3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi, e generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch, avallar doveſſerola ſignoria di coloro, e la medicina, e la filoſofia alla primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e da elſer commendati per quantoil mondo durerà; i quali ardirono prima di far ri paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune; e ad op porſi sforzatamente all'univerſalconſentimento delle gen ti. Maggior gloria certamente fu di coſtoro, i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa, e arice ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro, i quali in prima ſetteggiando a lor talento, nel confuſo rimeſcolamento della medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti; c. s'eglino, i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione, ed i primi ri trovatori di quella in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono: che farà da dir di coſtoro, i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto,e d'ogni erbaccia purga to: anzi cotanto duro, e mafagevole, e ſpiuoſo il ritrova rono, che ben convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra le rozze genti: quanto egli è du To, e quaſi impoſſibile, allor che quelle già auſare viſono, e tutto che indurate,a far loro cambiar uſanza, ericre derle, e ſgannarle de loro errori; perchè è da dire, ches molto maggior vanto foſſe deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in prima, e poi gli altri al diritto ſentiero: che non fu di coloro, i quali non incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata, cpre ſcritta uſanza da ſuperare. Ma ciò al preſente laſciando, trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni, ſecondo il noſtro diviſamento; e diremo chente, e quali ſiano le loro opinioni intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina. Egli fembracertamente, che prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico, e filoſofante Bafilio Valentino, monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi, e in ſü’l ſecco ſenza fallo effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura: comcchè co ' falalli,e colle purgagioni, e con altriſconcj, e violenti rimedi render la ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male. Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe, e molto in folver icorpi maſſimamente minerali affaticafléfi, diede egli cominciamento a quel ſuo famoſiſſimo ſiſtema di medicina, chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo fraſto Paracelſo. Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina que’tre principi, de'quali anche ſer veli il Paracelſo: çiò ſono zolfo, ſale, e mercurio; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò, che egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi. Nel qualſuo ſentimento certamente egli non poco falla, laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del folle vulgo in ſupporregli elementi; perciocchè ben doveva egli avvi ſare, quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele, e di Galieno: e che tutti loro argomenti, malimamente quel lo, che ſembra aver qualche ſembianza di vero, cioè, che icorpi tutti in iſciogliendoſi, a quelli come aloro primi componenti ritornino, ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare lanotomia vitale;mal'aver lui uſa. to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur dovette abbaci narlo. Adunque egli giudica, che tutte coſe abbian lor materia, e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione: e che queſta dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli elementi formata, e da’tre principj ſolfo, fale, e mer curio prodotta, e perfezionata; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua eſſer la primamateria ditutte le coſe; que, ſon fue parole, exficcatione ignis, & aëris in terram formata eft. Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi, i quali G nutrichino, e fi foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù, e la forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta; ma come chè queſte, e altre fraſche aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo, pur ſi potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente, e con ſentimento forſe da non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò, comein altri ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo, e vano nel ſuo filoſofare. Perchè o colpa foſſe de'tempi, o altro, che il ſi faceſſe, comechè egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia, e che con quella ma raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe, avviſando ſottilmente i più naſcoſi ſegreti della natura; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire, che penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e gliefferci de vegetabi li, degli animali, e de'minerali procedono. Mapure egli, come non poco arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati, e di ſottiliffimi divifamenti la me dicina, e che ſaggiamente giudichi infra l'altre coſe, che dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne lieguano,naſcere il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli manifeftamête avviſando l'incertezza di qucl la, ne conſiglia, econforta a riguardar ſempre all'uſcimen to de’rimedj; perciocchè dal nocimento, e dall'utile, che quelli recano a'malati, può il medico avveduto prender có figlio, ſe debba più per innanzi adoperargli. o nulla, quanto al fatto del medicare, il Va lentino delle chimiche operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque belli, e grandi, e copiofi medicamenti gli venine ro, mercè la chimica conoſciuti; la cui vircù egii profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi giugneſſea penetrar la propietà de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie 1 Ma poco, gi!re Del Sig. Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli s'ingenerino, el guariſcano i mali. La quale imprela certamente fu dopo luidal Paracelſo, ſe non compiutamente fornita, a grande ſtato condotta; av vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe affatto di metternes fuora da quando in quando qualche profittevole ammae ſtramento; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto cal lo, e di ſoverchio ſi fian radicati in corpo, ſolo le fifle me dicine approdar poſſano, ficome quelle, che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques piovane aſſomigliando, le quali toſto diſcorrendo per le Atrade, non penetrano per fonghe, o per foſſati fin nelles viſcere della terra. Siinigliante è quell'altro ſuo avviſo, che Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un ſimile vaglia l'altro a curare; allegandonc l'eſem plo del veleno, il quale non altrimenti che la calamita ſi faccia il ferro, tragge, ed aſſorbiſce l'altro veleno; ed in veggendo egli, che l'acqua arzente guariſce la Riſipola, immaginò, che il caldo di quella l'interior calore di queſta attraeſe. Ma da queſto diviſamento può ciaſcuno far con, ghiettura, ch'egli entrato ne’valti regni della natura, qui vi poi li ſmarriſfe, ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ ſe; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente appoſto, avreb be detto, che ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità, gli Alcali volanti dello ſpirito del vino ciò adoperino; il che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle ferute agevolmente rinvenire, e compornc tanti be veraggi, che vulnerarj ſon detri. Maciò, ch'è di maggior conſiderazione, cgli non curò mai il Valentino d'inveſtigare (il che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura, e tutt'altre proprietà di quelle particelle, onde i tre principj ſono formati, eco me, ed onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere, come il ſuo Vulcano fia conoſcitore, egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole, ficome e'di Eec CC CON  ce con quelle parole, che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur, ignis ignem excitat, commotione vehementi, & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti, eper aërem accenditur, ita ut verè, & efficaciter ardeat; fali maner: in cinere, &mercurius inde fe proripit una cum ſulphure ardente. Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na contezzadella naturadel fuoco,di cuipoteva informar ſi dalle continue operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo,egli in sifatramaniera none avreb be ragionato.. E ſe in cocal guiſa foſſe andato confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi, NTOI farebbe ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in aceto. Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo, e poco ſtabile;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento, ch'eglieb be del noſtro corto intendimento, e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente in filoſofando. Il perchè preſe ad eſclamare una fiata. Bone Deus !'natura à nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus conftitueris adeobreve, & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in creaturis; que non ſcientiæ, fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai di venire a Teofraſto Paracelſo; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto, dal Cortino, dal Riolano padre, e da altri famoſi Galieniſti calcata; i quali a biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero, porgendo giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam intellectus; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni, che già più fortunatamente avea il Paracelſo contro illoro Ariſtotele, e'llor Galicno adoperate: intorno a' quali ſoleva il Para celſo dire, che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra; ma rimarrò ſolamente pago di toccar pochiſſime coſe di mio talento, e ſpezialmente quelle, ſopra le quali il di ftema tutto di lui vien piantato.. Lamedicina del Paracelſo, quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto più veriſimile dell'altre razionali fi paja, e che tanto ne' pro fondi miſteri della natura innoltrata, e profondata lilia, cheminutamente ragguardar poſſa a quelle minuzie, per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor fano: ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni menomillunaparticella diſtintamente Itacciare: coſa, la quale già tanto da Galieno fu nella medicina fofpirata; e quantunque nel diviſarle cagioni,e la natura delle målar tie, e diciù, ch'a quelle, ed all'economia degli animali s'appartenga, valentiſſimo egli fia: edil ſuo autore abbia trovati, e poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi; e quantınque alcuno dir giuſtamen te vaglia, aver lui aſſai più di lume, e di vantaggio, e d'ui tile recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro, che co® loro infiniti, e voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori, così Greci, come Latini inſieme s'ayefſer mai fac to; non però di meno chiunque con occhio filoſofico, e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole, ed intralciata, e le ſue saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella. E tutto ciò certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere ad intendiméto uma no, come di ſopra baſtantemente è detto; ed ancora per chè il Paracelſo a tante, e sì diverſe, e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato, Che dal troppo veder men'alto intende, tutto vinto, e tremolante più oltre non osò guatare: ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto inuoltrar fi dovea; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il montanaro, e rimirando ammuta, Quando rozzo, e ſalvatico s'inurba. Perchènon men, cheGalieno già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura della corpo rea ſoſtanza, e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee qualità: ene men inveſtigando onde avvenir poſfa, ch'elleno sì poco valevoli ſiano nel corpo umano ad opera re, e cheniuna parte abbiano nelle gravi inalattie; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò alla natura, o alla proprietà, o a’modi del loro operare;ſenza le quali contezze non può certamente, ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di razional medicina in piè rizzarſi. Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente ſcorger ſi poſſa, convien la coſaw più minutamente diſaminare. Queſta grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare, che da Teofraſto Paracelſo venga in due globi partita: uno al to, che due elementiin ſe contiene, ciò ſono il fuoco, Paria: e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua, e la terra. I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli, chela luce, e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe furono, allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe le ſembianze, e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono, varie, e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del Paracelſo argomentare: i principi primi delle coſe fon di due inaniere; perciocchè, o ſono principj propiamente tali, o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente diconſi. Gli elementi ſono due, uno è fecco, il qual terra dannata, e cenere, carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido, il qual flemmafi dice. La terra dannata non ha virtù alcuna, ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come dicono; e la flemma parimente al tro non adopera, che ammollare, e inumidire; perchè ſon dette principi paſſivi. Ma non ſolamente la ficcità, e l'umidore, giudica il Pa racelſo, che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma quell'altre dire qualità ancora,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono, dice egli ad altro non ſervire, fuor folamente, che a riſcaldare,o a raffreddare; perchè da lui, tutte, e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire ſeioperd te, e ozioſe; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale. Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol, che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo affatto dal calore elementare. Perchè è da dire, che fecondamente chè giudica il Paracelſo, le quattro volgari qualità altro non adoperino, che cccitare, e riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente tali, che attivi egli chiama; ſono anchetre, fecondo lui; ciò ſono il Sale, il Solfo, e'l Mercurio. Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda, ſavorofa, la, qual disfaſli, e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca, e li raſſoda: e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo, agevole ad accender fi. E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe: e per lo ſolfo gli odori in quelle fpirano. Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo, echiariſſimo, il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando, agevolmente ſi diſperde, ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre, egenerare cia fcuna coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza de'corpi; e non potendoſi il fale meſcola re, s'egli in primanon li ſolve in minutiſſime particelle, fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare. Ma la flemma non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo; il qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo: ſi age 406 Ragionamento Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto, fonde il ſolfo, e maggiormente disfallo, acciocchè poſla diſcorrere, e meſcolarſi acconciamente a formarle coſe del mondo. Vien poiil mercurio, il quale a guiſa d'anima nel corpo, per cutto penetra, e diſcorre; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi fermo, e ben faldo cor po, ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia, es’at trae la ſoverchia acqua, chesformatamentel'ammolla: per la qual terra finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de corpidivengono. Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che diſtruggendofi qualunque corpo, in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva: e contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in altro giammai cambiarli, o folverſi: egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento, e abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele, e di Galicno intorno a’loro priini quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze, e non altre dice il Paracelſo eſſeri veri principi delle core. Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal di viſo del Paracelſo, non vo'ora opporgli, che y’abbia alcu ni corpi, i quali, come affermal'Elmonte, e altri valoroſi maeſtri in Chimica, non ſi poſſano maidisfare, o fciorre nelle loktanze da lui avviſate; ficome certamente è l'oro, e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver bene cotali corpi ſoluti; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero artificio adoperare. Ne meno dirò, che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo allor che disfannoſi i corpi: e che prima in quelli in niun modo alliguavano; perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo macerato nell'acqua, le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi pare, era in priina nellegno: e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo maccramento il ſale; anzi dirà il Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza artificio alcuno, e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi, ſicome nelle ſugne, e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge; per ciocchè in quello ſommamente abbondano; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica, o ben fati colo favorio di diligentemaeſtro; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente ingenerato. Nepuò il fuoco, per direvole, e gagliardo, ch'egli fiaſi ciò adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo,ne mer. curio, ne fale non alligna, non ſi potrà per opera difuo co, orlalaro chimico ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte, che dall'arena; dalla ſelce, non maiſolfo, o mercurio ſi può trarre; per ciocchè riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe, e poche, che nel volerle diſa minare ſi difperdono. Ne recherò, che per far pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo ſale l'arene, e le pietre: le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla del loro primjero peſo; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo, edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi pud per huomo avviſare; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi, quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze, che ne ſvaporano. Ne dirò pur coll'Elmonte, ſcambiarſi infra loid vicen devolmente corali principj; conciofoſſecofa, che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato aveſſe il ſale in olio, e l'o lio poi tramutato in acqua; perciocchè non così agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede, fe pri ma con gli occhj propj non l'aveſſe veduto. E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo a quell'altra novella dell'Elmonte, ove egli vantaſi da ſedici once di gromma di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua, due once, e mezza di ſale, e dodici d'olio, perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo, che l'olio ſi ſia nuovamente dal Cale acetoſo della gromma ingenerato; conciofoſſecofa, che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe,ſarebbe & a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo, e i ſuoi principj: ficome quelli, a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe. Sola mente dirò, che quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle coſe; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò,ch ' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza dellavorio, ſi rende quaſi egli impoſſibile; ſen zachè nello ſcioglimento delle coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative fa mestier, che ſvaporino, e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te; c altre comechè pur virimangano, nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan comprendere, non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra qualunque altro argomento, che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar certamente po tea, come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te, e quelle, ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino,eco me operino, ſe pure il fanno; ne è maraviglia, che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto: da che egli non ſa qual ſia la lor natura; ne certamente ſaperla, anzine meno inveſtigarla egli giammai poteva, non ſappiendo la natura della ſoſtanza,onde quelle produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare, che la medicina del Paracelſo manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe ſtato in iſcienza, qual veramente giudicavaſi, dovea ben'egli in avviſando, che co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe, prender quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di quellc, e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli; perciocchè ſe a ciò aveſſe porav ventura egli indugiato; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie, e diverſe figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi principj cagione; perchè agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero: eche non eglino, ma il corpo medeſimo in varie, e diverſe brice fgrecolatose partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna operazione di quelle prendeſſera dice, e cominciamento. Ma intorno alla maniera dei medicare del Paracelſo, ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri, che ſotto ſuo nome vanno, èda dire, chemolto vaga, e in coſtante ella ſi foſ fe, e di pochiſſima fermezza. Il che altronde certamente non nacque, ſe non fe dall'avvederſi, ch'egli fe in medicão do, dell'incertezza grande dell'arte; non però di meno egli pur convien confeffare, niuno,per quel che ſi ſappia, aver avuto corante, e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più pertinaci, e diſperate malattie, quanto il Paracelſo; e sì ſaggiamente ſeppele egli a tempo adope rare, che non fu certamente infra gli antichi medico co tanto valoroſo, e avveduto, ch'a molto ſpazio, così nell' uno, come nell'altro non gliandaſic dietro. Perchè in tā to pregio, e rinomèa montonne egli preſſo le genti, che non huomo mortale tanto, o quanto della medicina cono ſciuto,ma non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente giudicavanlo. Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di, ancorachè alcuni di loro per uggia, e mal talento con biechi occhj il guardaſſero. Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della Germania folea chia marlo, così di luifcrive: creditur habuiſse præftantiffimum illud vellus aureum, quod Iafon apud Colchos conquifivit: (Intelligunt me qui Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit; ande magietiam opinionem apud quofdam cele bres viros, quod magis miror, eft confequutus. E prima dello Spondano, Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno, e di lui per invidia inimico, pur dalla verità ſtret to ebbe a dire: audio multos paffim ab eo in morbis deſpera tis curatos: & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata. E al trove egli n'avea detto: Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR  (nondubito.quin hoc nomen magis fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus, perva. gatus magnam Orbispartem: chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus omnium, ita utper eam metalla immutaret. E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus introivit, metallorum, ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii acumine exploravit,acper vidit, ad morbos defperatosi, & hominum opinione infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque. videatur. Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta, e la dottiſſima Accademia di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove ragguardevol molto, e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice: Apud Germanos: nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert:doctioremme legiſememor non ſum.. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum: din univerſa philofophia tàm ardur, tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem: lepra, podagra, hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: &quotidie per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma diligentia, magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină,quam non ex Hippocrate, fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego de Theopbralo pre clarèfentio: admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel ligat, & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo famigliare, per veduta anche di lui racco ta: pari induſtria novi ipſum leprofos, bydropicos, e pilepti cos, podagricos, morbo venereo infectos, aliofque innume ros infirmos gratis fanare. Id quod Galenici Doctores non fine notabili dedecore non potuerunt imitari; unde in magnum apud quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera appunto, ove fraſtorna to dagli emuli dilui, e fommoſſoanch'egli in truppa, a rabbioſa monte mälmenarlo, infra le tante, e tantc menzogne, e cacce, che per isfregiarlo farnesicando ſi fogna (del che gravemente poi pencilſı, ſicomene narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare, che apertamente talvolta non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico, aver prontamentetra le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem, felicitatem, Quindi di luinarrando foggiugne, che in curandis vulne ribus, etiam deploratiffimis miracula edidit, nulla victus præfcripta, aut obſervata ratione. E de'ſuoi mirabili, e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo, dice, ita gloriabatur, ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis vivas reddere pole; idque aliquoties, dum apud ipfum fui, ipfe declaravir. Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza, che fe del le maraviglioſe cure del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo altamente anorato in vita, e faccigli in morte famofiflimi eſcqui: volle, che nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto; Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa vulnera Lepram,podagram,Hydropem, aliaque infanabilia corporis.contagia, mirifica arte fubftulis, ac bona fua in pauperesdiftribuenda, callosandaque curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina del Paracelſo, comeche delle men nobiliel la li fia, alla contezza noſtra pervenuta; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere nelle ſue opere. Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo, ebbe a dio re eller quelle così rare, e prezioſe, che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne avelle egli riportato. Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2 racclſo in medicina, qual noiraccontato abbiamo; non però di meno non ſempre ſi veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire: e ciò maggiormente teſtimonia la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita, cioè a dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento niuno fchermire: comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur. Che ſe'l maggior medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato, e adoperarsì co'ſuoi valevoli, co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi ri ſerbaſſe, che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na, attenendoci a rimedjdeboli, eſpoſſati, per falvainen to delle noſtre vite? Ma egli ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte, che pur troppo avveduto ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto; perciocchè da quellola vita, e la morte noſtra de pende; quod autem, dice egli, parlando dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine, tum his atentes perfæpè à fa talibusgravius vexentur, &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet, ut inde diſcamus nimis obftixatam de hac fragili vita fiduciam,ac fpem deponere. Etfi enim nocentia fimul omnia, &medicinarum fimulomnium virtutes, morbo rum genuinascaufas; ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè, ftatum formum omnem deftruit; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus, ſed fatali bus caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum mortalesfaciani, noftraque molimina infrin, gant, & providentiam noftram, ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne poſſiamo, che comechè egli valentiſſimo medico, e filorow fante ftato foſſe, pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono; cotanto piatto, e imbacuccato tant. egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti,ch'a ben rugumargli malage voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono. Eoche foſſe ſtata invidia aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci, o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe,dique'ſuoi maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi, pochi egli ne volle inſe gnare:. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe, che ben ne laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia; de'quali egli medeſimo favellanda, dice: in quibus afsequendis paucisfimi fcopum contingent., Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono, togliendo in cambiouna coſa per altra, e sì con quelli pig giorando gl'infermi delle loro malattie, e ſovente anche uccidendogli. Vuole egli, che ciaſcuna malattia, toltenc quelle, che richiedono la mano del medico per dover curarſi, e quelle ancora, che dalle ſole qualità relolacce avvengono, le quali ſenza argomento alcuno d'arte ſi guariſcono, dalle impurità ſemplici del ſale, o del mercurio, o del ſolfo, o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe s'ingeneri no. Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe noi non ſappiamo, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro, ne anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano, accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo. Le medicine, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale, ch'è da curare; perciocchè quantunque ognun fappia, che le malattie fian contrarie alla ſanità delle gen ti, e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor natura; non però di meno le medicine, le quali G convengono alle malattie eſſer debbono pure della mede fima lor generazione; perciocchè altrimenti mala pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità. Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie, così dica: caveat itaque medicus ne arbores duas in unams curam inferat:fed teneat regulas,morbis mercurialibus dan dum ejſe mercurium: morbis falinis,falem:morbisfulphureis, ſulphur; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit. Ma in buona fe, che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie? Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo: igroravit bonus ille vir, quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita. Ne ciò è ſempre vero, che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti penetrare, cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum; perciocchè avviſiamo noi tutto giorno in molte, e molte coſe il contrario avvenire. Ele pur talvolta incontra, che s'accozzino, certamente per al tracagione egli s'adoperajāzicotáto ciò è falſo,che per co trario alcuno dir potrebbe più p diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi ſono, i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono;nei corpi ſpea rali, o ritondi, comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo convenirſi: avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo seno il Paracel fo:Scorpio ſcorpionem curat, realgar ſuŭ realgar, mercurius fuummercurium, meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello, che egli va diviſando; perciocchè, per ta cer dell'altre coſe, nello ſcorpione i pori auſati per lungo tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno, e acconcj anche a riceverlo, più agevolmente il ricevono dalla ferita, ch'egli fa nella carne d'alcuno, che non poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella; perchè movendo per la forme tazione le particelle delveleno nella fcrita, volentiericol loro diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi ritornano. E queſte ſono le con tezze,che deve avere il medico avveduto per doverpren. der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le ſomiglianze, o altre fraſche, le quali agevolmente poſ fono ingannarlo, e mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a' mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma, e colla terra dannata, e altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato ſalutevole del primiero vigore riporgli? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola del Pa. racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da ſeguire in medicando; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte di ſale, o di mercurio, o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali l'infermo, feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi, ch'a ciò il conduffero. Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle particelle, che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali l'amaritudine nel ſal della coloquintida, ſc ragionevolmente egli proceder vuo Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale, come è coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio, non facea meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe, ne'curar di vene łatice, o di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo, o della circulazion del ſangueso dal tri, e d'altrimoderniritrovati: comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate. E cócioſliecofachè l'univerfal medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione, o ad altra coſa del mondo, igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a si fåtte fraſche foſſelli: attenuto, ſe egli diquella erisì ben fornito; perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò valevole a invi gorirlo, e ajutario sì fattamente, ch'egline ſolva, vinci, e diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte prendon dirivo. Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta, e participan te della natura celeſtiale: onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile; adunque corale eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj, acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa. Ma certamente non che il Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai, anzie egli 416 Ragionamento Seſto egli fola il creder, che quella ci ſia, o pofla mai eſſere:av: vegna pure, chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte, e diverſe generazioni di graviſ fime malattie. Ma egli tante,e tante ſortidi medicine ado però nelle ſue cure, e argomentoffi dicomporre, e lavora te con ſuo gran biſtento, e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non s'avrebbe dovuto, ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe; ſenzachèegli, ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe, e menovili, ſarebbe fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo anzi tempo morilli, e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato, no avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore, e della vir tù della ſua univerſal medicina. Ne meno egli certamente detto avrebbe, che l'huomo per la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie, cche i caratteri, e le immagini ſcolpite nelle piaſtre, e porta te adoſſo poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle; ne farebbeli follemente ſognato, che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli, ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini, e ſi fonda: onde poi mettan fuora varie, e diver fe forte di malattie: e che'l ſale, e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi diſtillino, fi ſublimino, e ficalcinino cagionando le malattie: è che'l mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione delle ſubitane morti, e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo all'univer fo, e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte: e che i tre principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano, quante ci ha coſe create: e tante, e tant'altre ciuffo le, e aggiramenti, che ſe tutti fil filo gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo. E tutto ciò a lui avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto ſciocco, qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle da' ſuoi malevoli per uggia, c per diſpetto cosìdiſguiſate, e travolte furo no con torne alcune ſentenze per entro, e altrs, o ſciocche, o fanciulleſche, o empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue, licome il medeſimo Oporino, che così fellonoſamente rubbellogli ſi, manifeſtamente rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle d'accoccaglierla, c dir glicne male; ſenzachè manifeſta coſa è, che quelle, che ragionevolmente ſon da credere opere ſue, vennero perla più parte ſolamente dalai diſegnate, ne più poi per innan zi rivedute; perciocchè egli dal ſuo focoſo, e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar le coſe, e quali dal profondo della natura cavarle, con in tendimento poi di più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare,.e diſaminare, per poter metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto, s'a ciò tempo aveſſe avuto; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli; perchè rotto a mezzo della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco, e diviſato rimaſe, qualnoi veggiamo. Ed è anche opinione d'alcuni, che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti de'ſuoi ſcolari; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi; e quelli poi gli cópilavano in iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio,e molte non ben copreſe travolgendo a lor talen to in tutt'altro, cheegli li voleva dire. E ciò tanto più ne ſi fa manifeſto, quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue coſe ſon ripetite, ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte; anzi dal loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da perſone diciò poco, o nulla intendenti, così confuſe, c inviluppate di vennero, che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne, iveri ſentiméti dell'Autore; col qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza, ch'egli a bello ſtudio argomentolli frapporvi, certamente oſcuriſſimi, e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono; conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piatto, e imbaccuccato ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente, e con lunga fatica agli huomini dotti, e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice: ne Eleufina ſacra.profanè Viiverſi pro fituerent: gnarus, id factiraſse Egyptias, & Pythago ne affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men, che come corpo morto ſenza vita rimane: non può certamente eſſere ne filoſofo, nemedico valoroſo colui che non ſappia appieno ciò,che dellecoſe della natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato.. Fra Tomaſſo Campanella, comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe, pur sì fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali, cheben ne da.aw divedere quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli ſono, che il ritrovar la verità. Nocquegli più che altro ſommaméte in ben filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle opinionidel Teleſio ſuo maeſtro, per tacer della ſtrologia, e d'altre vane ciurmerie,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi; e l'averfi dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente immagi nati abbian parte nelle cofe della natura; perchè non è da maravigliare ſe'l ſiſtema della medicina, dalui fabbri cato, manchevole oltremodo, e difettuoſo riuſciffe. Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo; perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia; perchè egli poi traſcorfe in co tanti errori, e aggiramenti, dicendo il fegato efferfonte, c origine del ſangue e la milza del fiele: e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice egli, cor Jan guinis jecur,fplen fellis, & alia aliorum; omnia autemiſta cerebrocauſsam habent;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur, ubi et ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia, d originis. Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire ilLindeno: Quid horum eft, quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta fallitatis etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo appararc, che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza; la quale ſpirito appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo, e col movimento all'altre membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente favelli..: Ma che direm nai del fiſtema di lui, della nuova arte di medicare,ch'egli ne compone? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente, e'/freddo effer primi principj di tutte co fe, i quali egli chiamaagenti: e l'umidità, e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia, ceffetti di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da: e ſi rondafecca, ingroffata dal freddo. Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor folamente che col caldo: nè'l ſecco con altro, che col freddo; perciocchè ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo: 04 fecco col caldo, dice eghi, che ſarebbon da quelli toſto diſtrutti. Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione dell'umido.: e'l freddo del ſecco; perciocchè il caldo ſolve le coſe, e le allarga, e l'aſſorti glia: e'l freddo per contrario le indura, le ſtrigne, e le co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze, o for me eſſenziali, de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo, c la Terra; perchè anche due, e non quattro vuo Ggg 2 fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente, non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è,chc dice egli eſſer: altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto delle colc; daʼqualivuol egli, che prenda dirivo ciaſcunas operazione la qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce. E queſti principj incorporei, o primalità, ch'egli chiama, vuol egli, cheſiano lapotenza, la ſapienza, e l'amore; onde ciaſcuna coſa voglia, poffaw, e conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione. Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura,non fa meſtier, ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura, ma altre, e altre coſe diver filime da quelle; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo, e del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi, non che dichiarare, fe quelli vera mente operino, e come; imperciocchè ſovente egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare; poichè egli medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro; perchè manifeſtamente s'avviſa, che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele: e grandiſſimo tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe; perchè poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più; prendendo egli in cambio della mido il diſcorrente, che è ſuo genere, e non iſpiegando la natura di quello, ne del ſecco, o del dolce,, o dell'amaro, o di tuce'altre ſenſibili qualitadi. Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun, che riguardiall'acqua, che per lo freddo congelata fi rarifica, agevolmente ſi può avviſare, che non feiapre il freddo condenſi le coſe. Mache è ciò ch'egli di ce, che le coſe inanimate abbian ſenſo certamente a ciò credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne egli,ne il Tea lefio, ne l'Elmente,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono. Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità, c'huom finte da lui non le creda, e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore; perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen fibili dell'univerſo,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni, che da lor procedere tutto dinoi veggiamo. Ma per darci ad intendere, che le coſe tutte abbian ſenſo, do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni, i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella,che l'huomo ſi componga del fal do, dell'umido, dello ſpirito, e dell'anima; e che la ſal dezza dalla denſità naſca, e queſta dallo ſpeſſo, e fulto ac eozzamento delle parti ſi componga; perchè dice egli, che le coſe condenſe, e falde, sì attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute, dice eglieffer la ſpiritualità: la qual non che reſiſta al toccamento, anziella dileguiſ immantinente,e fugge da ognjintoppo. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti operar faldamé te per l'unione non già corporale, ma ſicomeeglichiama, affettiva:dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene, riſcuotonſi quelli, e combattendo diſcacciano ciò, cheloro è d'impedimento. Soggiugne il Campanella, ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe, e per non dover ſeccarſi, erõperſi:e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo, o di ri cetto, che loro dia luogo,e le ſoſtenga. Ma agli ſpiriti,di ec egli, far luogo le parti umide,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino: e le falde ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino, e non ſi portin via; e per con trario l'umore abbiſognare dello ſpirito, acciocchè quello premendo il cibo, e traendone il fucco, il formi: e ſomi gliante, acciocchè per quello ſi riſcaldi, e diſcorra; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito, acciocchè per quello ſo ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito, acciocchè per opera di quello itu dioſamente muova il corpo, e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda; perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo dello Ipirito: dalle cui paflioni ella vien rattenuta, o reſa prontaalle ſue ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel reggimen to delcorpo. Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte, maggior capital facendo degli agj propj di ſe, e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti; che le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan fuora: le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema, e rintuzzare il diviſamento del Campanella? Egli non ha dubbio veruno, che nella maggior parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani, e trafandi,che ſenza ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina, conveniva in prima molto bene la natura del corpo inveſtigare, e di ciò che a quello avvenir poffa: ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in quella piſtola,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti, emolci errori di Galieno, e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe: pure per manchezza non poco danno gliene ſeguì; perciocchè egli così poco acconciamente della natura del le malattie, e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel le imprende a ragionare, che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato, e carminato da tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa: ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow febbre: ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El, monte da lui tolia l'aveſſe; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo; ma ad amcnduc n'avez dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la: Febris, dice egli, eft fpontanea.extraordinaria fpiritas agitatio, inflammatioque ad pugnam contra irritantem mora bificam cauſam: quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red ditque expulfioniapsan, vel extinétioni', velmeliorationi. Macomechè la febbre tutto ciò faceffe, nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è ella cert2; mente da dir malattia; ſenzachè Io non ſolo, come lo ſpi rito poſſa aver ſentimenti: e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe, quando gli metra bene, riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta, e gli reca in toppoalle ſue operazioni. Cofia, la quale delcervellodel Campanella fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti, eglivuole,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga; e alcuna fiata gli uni,ė gli altri meſcolando compor fi convenga, acciocchè il foa migliante appiccandoſi alfomiglianteaſe l'attragga;quin. di il contrario combatrendolo il difçacci. Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta, che ne vuol far Calandrinis dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone: fiquidem, dice, Sapone ex oleo, cinere, da calces confefto maculas olei ex panno extrabimus: oleo invitantej oleum, & alliciente: cinere, calce fimul expellentibus, Quare, ſoggiugne poi, maculas vini ex calce, di vino fa. pone confecto educes; fihanc nofti magiam. Ma doveva av viſar pure il Campanella, non già per la fomiglianza, che pulla opera, l'olio con l'olio fi meſcola, el vino col vino; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura, e per la diſpoſizione delle loro particel le; e doveva egli pure inveftigar la cagione, per la quale la cenere, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco. come egli dice, dall´altro olio, quello ne portin via; per-. ciocchè ſe a ciò egli badato avrebbe, ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere, che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli, i qualiſe mai loro ven gono colti, la calcina, ne la cenere, ne anche il ſapone, che di lor fi lavora, non ſaranno d'efficacia alcuna; ſenza. chè fe per fomiglianza è, che l'olio del ſapone attragga l'olio dalle veſti, e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli, e dia vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de' panni lini, che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza avrà egli il bucato con quelle: 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer tamente non altra, che quella,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa, o l'erpice, elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol preſcrive re purgativa medicina, ineſcolar ſi debbano talora i ſimili co’contrarj, appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino. E quinci, dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga, e dagli aromati poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio, chi non ſa, o chinon ha per pruova avviſato,che la carne della vipera non ſia veleno? Perchè falſo, e vano eſſendo affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come, e quando de ſomiglianti,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle malattie ſervir nc convengu: a'conſigli di lui certamente in niun modo attener nedob biamo, fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire. Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti, che per tacer d'altri falli in ciò da lui preſi,dif ſe egli, che le coſe fredde non ſi convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti; e pure il caltoreo, il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel folto, che cagiona il letargo, avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora, che l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia. Mapiù ſconciamente egli trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in quella ricetta, in cui colui dice, che ſi tragga il mercurio dell'argento, e che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit, cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia fimulnaturarum. Ma comechè in molte, e molte coſe, ficome accennato abbiamo falli il ſiſtema del Campanella, e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato; impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina; perciocchè può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare; eſſendo nel vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi, che la noſtra Italia, e'l noſtro ſecolo ab. bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla, e mandarla al ſuolo; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele, e di Galieno, e diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti ad accattar contezze di buona medicina; ma non gli venne cotanto fatto, chenon deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori, giudicando follemente in prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti; quindi in tanti, e sì grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves: cioè a dire, che il mondo picciolo ritenga in fer tutte le parti, e tutte l'apparenze, che nel mondo grande ſi veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbolando s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo ſiſtema di medicina propio di ſe, filoſofandoora col Paracelſo, e ora con Ga lieno, avviluppa il tutto, e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina diGiovan Battiſta Elmonte; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui edifici,che in fondare, e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria d'arricchir la medicina. Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili dell'univerſo, appo l'Elmonte,è l'ac qua, non intervenendo nella compoſizione de'corpi miſti altramente l'aria, ne il fuoco, come quello, che non è ſo ftanża, ne accidente, ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione, con dire, che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale căbiar fi; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua d'altrettanto peſo ridurſi. Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio, e'l ſolfo,i quali da quel la per natura', e per arte ſeparare giammai non ſi ponno;ne ſono veramente ſale, folfo, e mercurio, come tali da eſſo appellati, per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc egli però, che l'acqua di ſolfo, di fale, e di mercurio coinpoſta venga. Ma che che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente, che l'Elmonte non manifeftis pūto, come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi; ne fpiega di qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion, che da principio diede A le coſe create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc cata, conforta, e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica: così di quella dicendo, Quis unquam mortalium novit quid fit aqua? qua tamen creatorum eft maximè obvia, aperta,viſibilis,atranslucida? tantum enim de ea fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt per obſervationem fenfuum: quod fit.corpusgrave, liquidum, humidum,digitocedens, fluidum, amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum,attenuabia le in vaporem:nemo tamē novit internam aquaquidditatem, vel quare liquida fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente dell'acqua; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile, e laudevol titolo di filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe; im perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto,e meſcolato d'atto, e di potenza, ei freddo, e umido, ne ſpiegundo poi qual ſia l'atto, per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe, che acqua non ſono, e in che conſiſta la potenza, e come ſi maturi nell'atto, e venga a perfezione, sì che acqua, se non altra coſa più coſto quella divenga: ne diviſando, che coſa las freddezza fia, ed onde avvegna il diſcorrimento, ne per qualcagione alcuni de'corpi liquidi, e corſoj, umoroſi an. cor ſiano, ed altri no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua, ne più di ciò che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia. Ma fe l’Elmonte aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi mnaraviglioſi avanzi del le divine opere, ch'ancor fi riſerbano di Democrito, o al diviſar degli altribuoni filoſofanti: o pur s'egli, ficome conveniva, dagli effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle ſottilmente ſtudiato ſifoffe: o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto mente: Io ſon ben certo, che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella,la cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento, a queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la natura di quella. E certamente in ciò, che ſi apro Hhh 2 no, e ſi fendono agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in ogni tempo ſon pene trabili: e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer liberamente per tutto: e dal riempiere gli ſpazj, e adattarſi agevolme te alla figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor ſolamente quella, che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli lafciano, vien preſcritta: e dall'avviſare, che ogni particella loro participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia: ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di menome particelle, i1f ſenſibili, e tra eſſo loro in atto partite, e fpiccate per un.. cotal movimento continuo, che non mai le laſcia appicca re, e congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva di poter la natura dell'acqua apparare, e si riparare all'ignoranza, ch'egli di se medeſi mo ne confeffa; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo diſcorrente, egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome, e inſenſibili particelle, le quali sì fattamente fixo no accozzate,eammaſſate inſieme, che ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa: avvegnachè in atto elle ſiano fe parate, e partite,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano, ne meno per alcuno de’loro lati: e ſeguentemente continuo ſi muovano. E ſcorto egli avrebbe altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo; concioffiecofa chè l'acque, comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l movimento, checosì l'acqua ſciolta ritiene, abbia le par cicelle ſue, o da ſe medeſimo, o altronde che dal caldo a: quelle comunicate;: perciocchè l'acqua, almeno perquel che noi avviſiamo, cede cheta al toccamento, e da luo go a ’ ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere: e di lataſi a'raggi della luce: e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la ſomiglianza, che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati: avve gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del guſto, convengano eſſer diverſamente foggiati; i quali corpi penetrando per mezzo effe particel le, ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano, intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle faline allogare. E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti, e or dinari ſono, che agevolmente per entro, e ſenza niun rite gno diſcorrer vi poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua, avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti, ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano, i quali tanto, o quanto fier poroſi: e che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro, c talotta anche in parte, o in tutto gli ſolvano; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo, e molo le; non però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè dipoco momento elia fia:non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle, ficome ferono già ne’primi tempi Pittagora, Timco, Platone, altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0 pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha cilindrica, e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le: 0 ficome l'incomparabil filoſofante Gio: Alfonſo Bor relli, il qual.cosi'ne favella: lanugo quedam tenuis, &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum, ſcilicet concipide bet interna, & individua qualibet aquæparticula, ſolidad's &dura: cujus figura octaedra. E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro, o almeno poco diſſomiglianci; la qual forma loro, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o egli è cotanto malagevole, che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò operare; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto, ne mai, per quanto Io poſſa comprendere, certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra figura l'ac qua ſi tramuti. E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga., o di caldo, o di freddo,o di altra imma ginabile qualità; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella, che ella in agghiacciando riceve, o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta, e all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua, ma il ſito ſolamente, e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole, l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente, come ſi dice, ſuggellata das Criſtofano Clavio, la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale mutata; e altre acque ancora per più,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo; perchè ſen za fallo è da dire eſſer quelle di tempera dura, emalage vole aſſai a ſolverſi, dall'onnipotente facitore da prima fabbricate: Adunqueragionevolmente può dirſi dell’El. monte, che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare, il medeſimo all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito era: che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder conveniva,quivi tralandındo,più, ch'altrove ſerrati gli aveſſe; ed avvegnachè di ſottiliſimo intendimento, emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce, quando il caldo ha roſe Le temperanze de'vapori Speli: c firta e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente,ch'alta vena preme foverchiando il letto, ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe. E quinci certamente viene, che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno,cheGalieno fi aveſſe fatto; ne di ciò pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del ſuo cervello:altri ne toglic in preſto dal Paracel fo, come gli Archei, i Blas', i Magnali;e quelFormento, il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole, eft ens creatum form male, quod neque fubftantia, neque accidensfed, neutrum » per motum lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia, ut femina preparet;exiſtat, a precedat; con che', e con altre molte fue fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico, da apertamente a divedere l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro, di cui tutto di nuove, c nuove maraviglie egli ſcopriva,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto, e tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le, ch'egli traſcurò la morta, ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto; perchè alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili, e manifeſte alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ', che forſe non abbia tutto il torto a morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio, quando così di lui diſſe; hic auctor, utu eunque acerrimi ingenii,in eo fuitminus felix, quod.veteri placitis rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis, demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina, certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia addietro. Per ciocchè oltre alla contezza delle buone, e valevoli medi cine,, ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli vanraggioſli negli ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu, ch'avviſando i graviflimi danni, che per li ſalaſſi, e per.le purgagionipoſſono intervenire: e'l veleno, che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu, e così ritroſo d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario, comechè Galieniſta ', baud paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit. Ne laſcioſſi in ciò menare alla piena del ſecolo,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo, che non aveffe egli ſolamente intefo quelle medicine, operare, le quali ſenza recar moleftia, o noja alcuna allo in. fermo, fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi, e pericoloſe malattie, che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne ſommamente commendato, e quaſia miracolo tenuto. Così infra gli altri Andrea Cellario in facendo parole di lui, e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo Atlante celeſte, Chymicarum, dice, operationum adjumento admiranda hatte nus præftiterunt, ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana penetrantibus arêtius, altius fe infinuantibus, & remediis à natura productis cedere ne Sciis, primas terent, &vulgaria medicamina longe ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio, Nicolò Franchimorc famo fillimo maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis, ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici d'orrevolmente commendarnelo, ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio, che nó ſi veg gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo. Ma cotantielo gj pur nulla fono in riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro ſecolo, ciò ſono il Gallen do, elBoile, ed altrimolci di non poco pregio. Ma doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello, che niuna delle ſue nobili, e prezioſe incdicinema 1 wifeſtar ci abbia voluto, e quancunque ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo; non do vea pure egli, che sì corteſe, umano, e compallionevole dell'altrui miſerie unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa, che di tanto pro era al mondo rutro,dovea diftos lui, lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così parimente avrebbon fatto delle ſues medicine. Ma ſe egli più lungamente l'Elmonte viſſuto foſſe, con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera, ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe, avrebbes forſe di sì fátti medicamenti alquanto più apertamente fas vellato, Ma affai più tardi certamente di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire in oroi più vili metalli conſu. mò lungo tempo, ed appreſſo trapaſsò ben ſei luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa, ſenza alcun fruta to mai ritrarne; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo medicina, chevalevole a domarfolie le malattie; e quantunque egli dì, e norte ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu daveri aperti d'huomini, e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti, e le materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de' putridi umori, ne in parte veruna di ſano, o d'inferm'huomo, o la collera, o la flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per partito, di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando; e poi i ſuoitrovati al giudicio de'fa vj, e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do: Si rationes mea, cu experientia non optimę videan tur, trutinentur, &ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere videanturrejiciantur omnino, Celia minentur prorſus à fcholis: quod fi vero probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur,tutabuntur. Primieramente avviſa il Fabbrila materia, onde fon le Senſibilicoſeformate efferpalpabile, viſibile, e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ, virtùnella materia,laquale poits chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei,come dalla ſua cagio nel'effetto. Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon terminepervenu po: ma egli appenamefſoli in camino, ſmarrì il diritto fen: tiero.. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga: e credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della priina mate ria cosiofcuramente favella. Vuoldivantaggio egli, chę tutte le coſe, omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto oleremodo, e diſcorrente, di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte l'operazioni della vita, e tutte quelle coſe avvengano, che ſi oſſervano nellemalattie. Queſto ſpirito, dic' egli, che nel fegato e alquantogre /fo: ma più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello; naſcere:ad un parto colfeme, e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce, la quale ſecondo lui èlau farma eſſenzialc, non ſolo dello ſpirito, ma di tutt'altres coſe del mondo... Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce', e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e ſecondo più, o meno, che lo spirito participidella luce, tanto più, o me, noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga, Immaginaancora ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito, e che lo ſpirito poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver, reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere, che ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi coſto della lorvanica. E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici: marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder tāto del lor valore, che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate. Or quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe il Fabbris imperocchè tralaſcian, doda parte tutt'altre mal fatte fue cure: nella peripneu. monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi ſangueallo infermo, c poi collc viole; e collo fpiri to del vitriolos o con altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo, che collo ſpirito della vita di foverchio nc'polmoni ribolla: ed il feguente giorno coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito, acciocchè con tal move mento venga ad aprirli alcunapoftema, ove vi ſia. Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè altrove confeſſa, che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga del Toro,e'lſangue dell'Irco. E certamente dagli acetoſi medicamenti, che altro maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro, che di pe ripneumonia patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera; e oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto fpof fáto, e fievole per l'antecedente falaſſo, qualpro ſe nepos trebbe per lui fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo giammai attendere? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri, allorche dall'Elmonte ay viſato,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes: MirorParifienfium medicorumpertinacitatem, curationem febrium, & ferèmorborum omnium in fanguinismisſione lar. ga, ocopiofa collocantium: cum fepe fæpius caulja moru. borum, & potisfimumfebrium tam continuarum, intermite sentium non refedeat in fanguine, imovirtus s proprietas: lii curana curandi morborum omniü in fanguine collocetur,cum arcbeūs visalis fanitatis economus, & morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata,dlarga manu effufo effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur, di diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit, do curatio etiam morborum omniū, que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut loco illius fubfc quaturmors; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri, e quanto malagevole; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin dalla prima giovanezza concette, e per vere al. cun tempoi fermamente credute; il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge;nella quale fto ria, e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi; maciò traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò, licome poco addietro accennava, che troppo vacillante, e caduco e'fia,eche il Fabbri poco, o niente non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione. - Ma la SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro, l'ordine de'tempi (erbando, far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori de’mueſtri, e delle dottrine già da loro imbevute: pur tanto non potè ella dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora incorrere; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri razionali, è manchevole, e difertuofa; edan co tale ventura certamente le avvenne, per non aver ellow avuta cortezza della chimica.Ma nocquenon poco a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel, che fi dovea,preſtata... credenza alle parole di Platone; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada della vera filofofia. Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta pianta, le cui radici fian nel cervello, onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n vada il tronco, i rami, è tutto il ri manence a mutrire, tal ſugo bianco vuol che ſia freddo, umido; mache nel fegato facendoſi roſſo: caldo, e umido altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue, in caldo, e fecco fi muri. Il calor del cuore crede ela la, che ſerva all'huomo, come it caldo del ſole alle pian te; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le dilicate pellicelle, o membrane, che vogliam dire, delle vene:mapoiin roſſo, e ſanguigno umor convertitos per altre vie, cioè per le vene, e per le arterie ritornare. Or queſto fugo ove ſia malignato,fuor delle proprie vie sboce cando per tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando, contro il provveduto ordinamento della natura. Tutto adunque il Florido,e vigoroſo ſtato di queſtº arbore, vuolella, chedalle radici, cioè a dire dal cerebro avvenga: la dove fc quella, che pia madre fi appella, la dura madre toccando, ftiano ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare, allorvederſiverdeggiante, e fiorita tutta la pianta: ma ſe mai divengan vizze, o alqua to s'abbaffino, fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più vita. Con queſto trovato, o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore, vaella tutti i con. venenti della vita, e della morte, e della generazione, u della corruttura dell'huomo, e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando. Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva; i quali comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali, che non poffeno. fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi; edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala:ut tamlaudabilis heroina ratio habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem: Ma crapaſsado al ſiſtemadella medicina di Tomaſo Vil lifio; egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele rifiutata intorno a' principj delle cos fe, ficome troppo groſſa, e ſciocca: e quella di Democri to, e d'Epicuro, ficomefoverchiamente ſottile, e da’ſenli lontana: alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia, e vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ).di ſale, di ſolfo, d'acqua, e di terra formata ſia; perciocchè in quelli ciaſcun corpo ſenga bilmente ſi riſolva. E con quelto cinque ſoſtanze, in ciò, che elleno ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne, ſi ſtudiacgli, e s'affatica di dar ragione dell'apparen ze cutre della natura, e ſpezialmente diquelle,ch'alla mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze non eſſer ſemplici, ma comporte, e me ſcolate; pur tutto il ſuo diviſamento quì egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte; anzi egli dice, che non avendoviragionc, o ſtrada al cuna da potergli avviſare, ſciocchezza ſia l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller più coſto un grazioſo diviſamento, e voler giudicarc allas ventura, ea riſchio delle.cofe del mondo, che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper: tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona; perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare, avvegnachè egli contro i buoni filoſofi fa vellando, dica procudere,autfomniare philofophiam me nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è, ch'un andare alla cieca, e taftonc,ſenza certezza alcuna. Ma ciò laſcia do ſtare, o non s'avvede egli, o s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli, e fi deprima, c come poi ſi cſalti, e come con gli al tri principj ſi meſcoli: c comc ammendi, e affreni i ftraboc chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del ſale: é comequela to tante, e tant'altre operazioni faccia, le quali egligliat tribuiſce. Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle: fiano, ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva; e colcoccare, che colmuovere ora in uno, oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare. Eben'e gli dovera (ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro cagioniinveſtigare: cav vifare, chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole, ſe di pre fente nonceda atutti corpi ſaldi, che perentrovi paſlino je perchèeglièda dire', cheloſpirito ſia in molte, e moltes particelle diviſo: le quali continuo movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano;ne lo ſpirito,foctile,c volante efferpuðn e per cutto perretrare, ſe le ſue particelle picciolitime non fono, esì fåttamente foggiate, che molti gomiti 20 angoli, non abbiano. Neper darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello, licomc egli dice, di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito; e che da quello nafca il calore, cla varietà de'cofori, e degli odori alle co fe, e l'a lor bruttezza, e bellezza: c per la più parte la di verſità de' ſapori; perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe,cheegli ſenza niuna pruova farne grazioſamente, afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo, argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite, e ſdrucciolantii, calia quanto' famoſc. E què è danocare, come il Villiſio vada divifando dellacomplellion del fuoco; egli dopoaver ava vifato effer quello ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici, in ciò che in tutto partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis exfuina tura nullibi exiſtentiam, ac certum durationis modum obtin net. Quindifoggiugne: formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit aliud, quam ejuſmodiparticularum impetuofius concitarum motus, deras ptio.Ma s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le qualieſſendo di neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a muover velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri, e fpeffi, ficome far veggiamo al fuoco: il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi: non avrebbe certamente eglicosì di quello filoſofato. Ma Signori ancor Io immaginava una volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il Villiſio: e acciocchè ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte, mecomedeſimo penſava doverſi i ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco, e in ſe medeſimi ravvolti formar cotante ſperette, acciocchè agevolmente muovere, e penetrar poteſſero; ma meglio poi il mio divilamento vagliando, ricreduto, igannato inutaiparere. Convien dunque dire, chele pare ticelle componenti il folto diduefogge ſiano, una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante doveva egli delle particelle de'fali filoſofare, e ſpiar le vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,& fluoris:quali egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na túra, e la propietà de'componenti di quelli. E doveva bé egli quanto più ciò era malagevole a fornire, cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col conſiglio dell'incomparabile Boile, edal. tri valorofiffimi filoſofanci fornirpoteva; ma egli per cele far farica non volle di cotante biſogne imbrigarſi: perchè poi diſguiſata, e ſconcia la ſua filoſofia ne divenne. Eles non da altro, almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi avevasben egli in ciò, che quelli folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco ſeccanfi, ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura delle loro particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora in ciò che quelli,davolanti divengono fiſſi, e da fiffi di nuovo volar ti. E Gimigliante da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che convengano le particelleinfra loro, le qualicotante gener razionidifali compongono; e in ciò ancora, che i volanti ſali agevolmente le loro propierà lafciano, divenendo da aſpri, e amari, e acetofi: dolci, e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e amari; e alla per fine inciò, che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano;perciocchè da ciò tutco ben'egli argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura: 0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie, e diverſe figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya', iſali acetofi, in ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti: e l'altre generazioni de' fali cſfer più, o meno di quelleforniti, ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare, ſe aggiugner voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante. E comechè negat non fi poffa che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto, o quanto probabili folamente, e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità; non però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di conghietture,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò, cheper noi non ſappiamo: checosì ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne, laſciarlo vergognoſamente in non calere pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue, alle orine,alle febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può, che non è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto ſenza fondamento alcuno; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa, ch'egli afferma, ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti rim beccato. Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventurato ne’luoi emoli; perciocchè de’ſuoi tempi abbatteſt in tal, che nulla ſappiédo delle coſe della natura, volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo; per chè non durò molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce', non tanto d'inframmetterſi della difeſa di lui, quanto per ricredere, e rintuzzare la tracotata beffaggine dello ſciocco Galieniſta; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima detto. Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo, che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata,ora maggiorméteper fuadere: cioè a dire che vano, e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale: ne medico poter giainmai in quella tane to, o quanto vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima, e inolto ſcorta diſaminazione, ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello, non altro certamente ora ne ſap piamo,chequello, che in prima fapevamo:: cioè a dire nulla di certo. Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco,, e infelice aſſai; perciocchè dopo aver appreſa, ed eſercitata la medicina a quella guiſa, che in Inghilterra comunemente coſtumavali:volendo egli filoſofare ſopra quella, ſi perſuaſe, che le continue ſperienze, così.dover fi medicare additato aveſſero; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri argomenti da raccato tarne la ſanità, ricoprendo con sì fattoavviſola ſua beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'. Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina, che non che valevole argomento egli mai ritrovato aveſſe: anzi in qualche biſognatalvolta, ove i volgarimedici bene ado peravano, egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola della maniera del ſuo medicare, egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole ciò che 1 1 d egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice, per eſſenza ſempremaiſia: e che la pleureſi, la peri pneumonia, l'infiammagion della gola, e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre; conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza: avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi, e ſcemarla febbre, ſicome Icema, o creſce l'enfiagione; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore, c l'enfiagione appa fiſcono: e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu fa'a formentare, e a comunicarſi al ſangue, e far ſaccajan comincia altresì la febbre. Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite, e allor che qualche ſcheggia, o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca;perciocchè ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane, e talor anche pertutto il corpoſi fpande; e leav vien, che le fibre alcuna fiata enfino, ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento; perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già effetto, ſicome immagina il Villilio; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue, e dal ſuo uficio rifturfi; perchè poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio, confeſsado egli medeſimo quefta verità: Ab ejuſmodi tumore,dice egli dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű. tur: fanguis in motu ſuo magis perturbatur: adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men vano, e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare:ma perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza, e per non dilungarmitroppo me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere; nella qual certame te cotanto egli è più de'Galieniſti medeſimi tracotato, che ovei più avvedutifra loro nella terzana intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba, accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi, e mcnos'accenda, e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incendimento diſcorrer poſſa, e riandar perla perſona.Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane intermittenti divenir talora per li falalli contine, certamente cgli non avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla bruzzagliai de’volgari medicanti, più negli effetti de’mali, che nelles cagioni di quelli s'indugia. E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti, ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace, e punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo: mala maggior parte di quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta: come potrafli ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue, che riman nella perſona, anch ' egli mordace, e pungente vi rimane? certainente egli ancora, ſe non ſi addolcia, farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo, e ingenerar la febbre; anzi tanto mag giormente, quanto per lo ſuo fcemo, più debole, e fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in lui quella nobiliſſima ſoſtanza,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento ritornarlo; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera, diverrà ſenza fallo pig. giore: e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a ingenerarſi cattivo: e manterrannc quel calo re, checol ſalaſſo iinmagina di ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana; perciocchè tra per lo cibo, che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda, e cotanto mal cagioni: ſicome a quel giovinetto nobile intervenne, di cui narra il medeſimo Villiſio,che no oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente, chequali ne fu per debolezzamorto, gliene ſeguirono fieriſſimivomiti,e ſpalime, c rivolgime ci d'inceſtini: ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de clinamento del male. Vuole ancora il Villiſio, che trarſi debba fangue nello febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida, ac ciocchè perlo falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato: e le particelle calde di quello per affoltata non ſi accendano; ſi. coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere rinfreſcamento. Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio, che liquorsche continuo muova, e diſcorra, ficome il ſangue, abbia quelle particelle, ch'egliſcioccamente chiama calde, le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af faſtcllate, ficome ficno in palco, maſſimainente, che pic cioliflime, e ritonde quelle fono, e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore; perchè malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire, che fconcio, e ridevole oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato,in cui lo ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione, e'l riſcaldamento. Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato, ſe non già con falalli, ma con rimcdj acconcja ciò fare, ſicomealtrove per noi è detto, ſi foſſe argomentato di ſventolare il ſangue, edirinfreſcarlo. Ma egli più oltre traſandando vuol che da ſegnar fiano anche i fanciulli: quandoil medeſimo Ga lieno, che de ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli, e da fuggire. E avvegnadiochè egli molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo guariti; non però di meno, ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne poſe per la ma la via; ne è da credere, che coloro che ne camparono,fof fcro da falaſiajutati: anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta celsò loro la febbre: e fuma raviglia, che infermo, chenon potè reſiſtere alla febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo: ele ſcoppiate delle bombarde alcuna volta non colpire, perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè talvolta non ammazzino, non effer mali? Ma ben disi travolto diviſamento portonne egli la pena il Villiſio; per ciocchè co'ſuoicari ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe. Ma gľ Inghilefi, huominicotanto pertraffichi, e per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo, Io non sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici, e non più toſto rimirino alle varie, ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano, che ſenza laper mai di lanciuole, o dimignatte, e ſenza 'logorar goccia di ſangue ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano, altri argomenti coſtumano a raccattar la ſanità, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando detl’Indie, e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno, e colle unzioni, e co ' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio niegli ſi fu il Vihiſio; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia grande, d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio, manifeſtamente egli medeſimo il ci da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi, e le purganti medicine adoperare, maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe, e maligne: alla per fine avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della medicina razionale, non altrimenti, che ſe volgare impi rico e' fi foffe, conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza guidare. In his cafibus, ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat; cã enim hæ febres primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia: diex eorum fuccesſibus una collatis facilè edifcitur, qua li demum methodo innitendum erit, donec ultimo crebro ten tamine, feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia, « Lata ád bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus, monitiſquemunita, Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no, e nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio cotanto certo, di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio, per eſſes e' ſtato certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento, rendendo giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe, di fabbricar un ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro, ch'ei compoſe della Farmaceutica razionale; ove egli s'ingegna di dar ragione dell'operazio ni tutte, che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet operationis pharmaceutice Ætiologiam, prius fere intactam, fi nunc temere agreflus, non dignefatis abfoluero, veniam utcunque merebor, quia terram non modo: incognitam,fed, GvaldeSalebrofam,&quafi labyrintheam peragrare. incumbebat, fù’l priino aqueſta opera; poichè il Paracelſo, e l'Elmonte, ſopra i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio, ne trattarono, tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne a queſti, nc al Villiſio, per non aver eglino conſide rata innanzi tratto, e riandata con diligenza la natura del la coſa, cioè que’principi primi, ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una sì commendevoleimpreſa, con quellafelicità, che le avca no eglino dato principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio, licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele, e di Galieno involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine, la Chi mica di que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure dell'incomparabile Giovan Batrifta El monte, di cui ſopra è detto, a quella apparare con tutto il ſuo intendimento, e con non ordinaria fatica ſi rivolſe; e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine, per non dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì, e tanto innoltroffi, cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte, e laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli campi della medicina. Ma ſicome ardito,e poco cſper co Nocchiere, avvegnachè di ſarte, di - gomene, di ve le, di boffolo, e di tutto ciò, ch'a ben corredata nave fac cia meſtiere, ſufficientemente ſia fornito: impertanto per nuovi, e nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare, miſerevolmente inghiottito vi muore; così il Silvio, comechè dibuona filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice: e di non ordinaria medicina fornito, non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi, e quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena ſciogliendo, fortunolamen te annego. Ma potrebbe alcun recare in dubbio, ſe ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato, co me eglinevuoi dare a divedere; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle fue opere, egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe, comechè una fiata dalla ra dezza, che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer profittato nella buona filoſofia, co mechè,i per quel, ch'e'nedica, trentatrè anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati, proteſtando le ſue dappocaggini, manifeſtamente dice: optabile foret naturalium rerum principia vera, eorundemque numerum certum, qualitates legitimas via,methodoq; mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé toſo, volle il ſuo ſiſtema diviſarne, dicendo tre umori prin cipali eſſer ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera, e la flemma; i quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor poicompongano, che da lui è detto triumvirale; che il ſucco pancreatico di ſangue, edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra; chela collera ſi formi di ſangue dentro alla ve ſcica del fiele; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro, e volante, e comee'dice, liffiviale, da poča acqua foo Luto: in cui alquanto d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della ſaliva, la qualdegli ſpiriti animali, e della più ſalda, e tenace parte del ſangue com pofta, dalle glandole delle maſcelle per le docce, che falia vali diconft, alla bocca trapeli, e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco diſcenda: e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi; quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più gran par te dimori. Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo, e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta; perchèin quella una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo: ne dalla flemmadiffomigliante, ſe non ſe più alqua to ſottile; che ſi tragittiegli perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino, la dovenel meſcolarſi ch'egli fa colla collera, perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella, edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to, per lo quale la parte più groſſa, e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini s'avvalli: e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna; e la flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor rente, e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco pancreatico traſcorrano parimente al cuore: ove la fermezza, e’lcompimento deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili, e alle fecces! meſcolandoſi, quelle maggiormente colorate, e tenaci ré. dere, Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua medicina il Silvio, dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol, che tutte le febbri dirivino; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne il pancrea oppilaco, quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſaço dimorando, maggiormente acetoſo divenga, e mor: dace; perchè egli poi faccia negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato: e naſcerne la febbre, qualdicono intermittente. E ſe quella parte della collora, della flemma, c del ſucco pancreatico, la quale al cuor ſi tragetta, non ſia ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo ribolliméto riſ veglj, e le contine febbri cagioni. Ma troppo lungo fa rebbe il voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti, e tre queſtiumori vuole il Silvio, che ciafcuna maa, lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe, eriotte abbia riſvegliate infra' medici un cosi ftrano ſiſtema, così vivendo il Silvio, come anche dopo ſua morte; ma lo diciò non curando al preſente, folamente per quanto a mio propoſito s'appartiene, dico eſſer vera mente ingegnoſo, claudevoleil diviſamento del Silvio, e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya; ma perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va lorofo filoſofante;machi ſpia più addentro, non veggen do comepoffano effer tali quei tre umori, quali e' glide fcrive, ecome poffano aver poſlanza di cagionare i bolli menti, e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti, poco certamente a capitale il ciene. Anzi radillime volte nella flemma, e nel ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non ſi è giammai per al cuno acetofità, ne poca, nemolta avvifara: e pure dovreb be ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe, e s'accoglieffe veramenteil fucco acetofo; perchè ra de volte ancora quel bollimento, ch'egli immagina,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli; anzi è egli imposſibi le, che per l'acetoſità il bollimento avvegna: ficome per pruova veggiamo, che il liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale, o con altro acetoſo umore meſcolato ri bolla: che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio, da cui peravventura ciò apparò il Silvio: il qual contendendo co tro la manifeſta ſperienza, ne vuol dare adivedere, chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco, cheabboudi in collera,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga s'aggi, 1.3 il Silvio a dir, che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi; per ciocchè, fe ciò foffe, inervicontinudrattratti, e in malei Itato ne ſarebbono: ſappicndo ben ciaſcuno, che l'acctori tà, ſicomc (triguente, e lazza, e pugnereccia, a’nerviol tremodo contraria, e nimica fia. Ma chela ſaliva allo ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia, comechè ella pur gli ſia diqualche gio vamento, chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non abbia poſtomente, potrà folamente crederlo. E ſopra tutto è da maravigliare di ciò ch'e dice delle febbri intermittenti; perciocchè ſe quelle dall'acetofità fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono, e terzane, e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea, ficome anche il medeſimo Silvio confefla, oltremodo acetoſo s'avviſa. Ma riſerbando a più agiato tempo sifatte conſiderazio ni: ciò che toglie maggiormente l'eſſere razionalmedico al Silvio, e'l fiſtemadilui manda a terra, fiè, che egli trasa dando le fondamenta, a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella ſua filoſofia, il modo certamente del ſuo medicare, comechèpovero, e manchevole degli arcani dell'Elmonte, e del Paracelſo, non poco dee effer commendato; perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine, e masſimamente l'alloppiate connon ordinaria fe licità,, e pregiodel ſuo nome; fe non ſe quanto egli preſtò alle purgagioni troppa credenza: ele pole talora in opera, ove in tutto, e pertutto diſconvenivano: avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato ne foſſe. E come chè cgli dicoloro, che così volonteroſi ſono a ſegnare, só mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' folo può contrariare almale. Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune, andò a bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli, che faccia luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente radificato non rompa i vaſi,o fac cia qualche altro gran male; non avviſando, che con altri ficuriargomenti, quandociòpur s'aveſſea temere, dar vi fi può compenſo, ſenza tor via, col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi, o fenfibile, o inſen fibile vacủazione, fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie, il che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio,mi ſi fa davanti Lazaro Meffonieri, il qua le troppo libero, coltre alconvenevole ardito, imprende a determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con lungo ſtudio ifilolofanti. Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle coſe il mercurio, il fales, e'l folfo, e dice quefti, licome in cotante arche, o matrici contenerſi negli elementi; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon quattro:cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe, in cui niun principio egli v'alloga; l'aere, in cui ri fiede il mercurio;l'acqua, ove ſtanzia il fale; e la terra in cui dimora il ſolfo. Il fuoco ond'ogni altro elemental mo to deriva, vien dal folto ajutato, ed eccitato dal mercu rio; e ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio, il riſplendere, il riſcaldare, l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua; l'aria colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco; il mercurio è un certo ſpirito aeree, il qual coagula l'acqua, e'l fal volante rappiglia, e che afo fai bene col fuo ſal fiſſo s’uniſce,ed al ſolfo cótraſta.Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima ami, ſtà col ſale, e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo. La terra opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica del fale. Indi deltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare, così ne divifa: il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:(Delle qualità, che gli elementi compongono, due ne ſono attive, e due paſſive: attive ſono il calore, e la freddezza, paflive l'umidità, e la ſiccità. Tre coſe vihan nell'univerſo manifeſtamente calde, il ſole nelmondo celeſte, il fuoco nel mondo ele, mentale, e lo ſpirito vitale nelmondo animale, e tre allo incontro manifeſtamente fredde, la Luna, il mercurio, lo ſpirito animale. Alcune ſtelle divantaggio vi han nelmo do celeſte,dilornatura calde, e altre freddo, ma occulta mente; e altresì nel mondo elementale altre coſe calde fredde, macelatamente, o accidentalmente ſi trovano: umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio; ſecchiſ fime la terra, e'l fale. Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi, allor che conalcuna delle già dette coſe 's accop piano. Le ſeconde qualità daglielementi, e da principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano. I 12 pori ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo, lam durezza dalla terra, e dal fale: la mollezza, e tenerezza, dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta diridur re in un corpo folo, membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce, e falſe opinioni, che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ', come faggiamente,il Verulamio avviſa: Elementorum commentum, quod avide à medicis acceptum, quatuor complexionum, quatuor humorum, qua juor primarum qualitatum conjugationes poft fe traxit, tan quam malignum aliquod, infauftum fidus infinitam, & medicine,nec non compluribus mechanicis rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il Meſfonieri, in tut curto,e pertutto inverigmile fembri; ficomcè il dir; che il mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia;e che ſte colà ne paeſi al polo vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire, per non logorare fuor di propoſito il tempo. Mada tanti, e sì varj,e sìftra ni ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del noſtro corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale, dic'egli,è della natura del mercurio, aereos freddiffimo, e dalcervello perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento, ed ogn'altra azione animales; fi nutriſce della ſalſa, e acquola parte del ſangue; lo ſpiri to vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere, e a far impeto nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé, il quale da per ſeimmobile,e privo di ſentimento farebo be; tragittaſi dal cuore perle vene, e per le arterie infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo coptrário,la morte. Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da lui ſognato, e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del ſangue; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di fuoco, e dar lui il moto, e'l vigore allo ſpirito ani male. Ma formentandoſi continuo il ſangue nel corpo dell'huomo, e comunicando egli ſempremai più, ome no calore a cucce le parti delcorpo, come, e dove por trà mai l'animale ípirito olcremodo freddo, e inmo bile ingenerarſi? Coavien parimcnte poi, che'l Mcf ſonieri ci additi il modo, col quale s’uniſcano fralo ro, el diſuniſcano si farciſpiriti; e altresì, che ſaper egli cifaccia, onde avvenga,che'l caldo eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale; ccoine al lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi, ed eſtingua lo ſpirito vitale. Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano, vada ſovente errato; e quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune falſe opinioni di Galieno; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo, che qualor l'azione dell' animale, o del vitale ſpirito ſia impedita, gli huominiven gano damaloritravagliati; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti delcorpo; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere, ſalvo che in tor via quelle cofe, che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder, che tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa. Ma a queſti, cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per moſtrargli fall. Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za nel vero, e materiale effer ſi vede. Ma poichè da uno in un altro ſiſtema paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea. ra celebre medicante nell'Ibernia. Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima: ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo le vane ciance di Galieno, impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional medicina; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto, che pittor farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne di varj, augelli e dipigner voleſſe. Forte egli rimproccia tutti coloro che ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole. Et miror profecto qua fronte quiſquam experien tia Scientia omnis, & cognitionis inventrici) repugnare prefumat, nifi pro ratione fufficiat, multos pudere, cos pige me quiequam denovo admittere, quod confirmat& eorum upinioni adverfetur, à quo ne látum quidem unguem recedere Suftinent, ne prius non recte fapuille videantur: multos taria ta cum fatuitate, ne dicam Idololatria, Hippocratem, Ari ftotelem; aGalenum venerari videas,utquicquid ab illis non dictum, non dicendum, quicquid abillis incognitum, no cognofcendum putent; e molto appreffo fi briga in moſtrar, che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente però, che non debba a crederſi, che ſian primi; imperocchèegli vuole, che della materia,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino, c'di queſti facciali il ſale, il ſolfo, e'l mercurio, che ſon terzi principi; i quali finalmél te col vario accozzamento loro, quanto v'hanell'univerſo coinpongano, Ed ecco, ſecondo lui, onde formanſi le parti ſalde, e di. ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno; ne’quali, allor, che il ſale, il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati, che non vengano fra ello lo ro a tetizone, n'avviene la ſanità, e per contrario lemalat tie. Diviſa egli, ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali; dicendo, che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata, come è il fal comune, e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa, e in cerca fpecie di malinconia parimente acç. tofa, come è il ſale armoniaco; e così ancora diſcorre ra gionando degli altri ſali, che ſono negli altri umori. Vna sì fatta dottrina fu introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare,che celtaſſero le perſecuzioni chelor faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno; anzi, come in tute gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi, eglino divennero d'ambedue le par ti nimici; e come alga, o ondamarina, che da'contrarjvé. ti ſia, or quinci, orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate. Il per chè anche noi ſenza quì intertenerci immaginamo, che da quel, che di Galieno, e di Paracelſo addietro abbiam di: viſato, rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato; imperocchè, ſe ne con gli elementi, ne co’principi chimici poſſono i varj avvenimenti del corpo umano fpię garfi: di ſeguente è da dir, che ove ancor vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci daglielementi ſi formino, ne men coſa, che monti una frullo Gi farebbe mai a pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via, il ci fa mani feftaméte vedere Frāceſco Gliſſonio;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito, e nella notomia, e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato fi foſ: fe; impertanto non ſeppe egli sì, e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni nella gioventù appreſe, che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina, allor che veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe naturali,vuol, che il mercurio, o ſia lo ſpirito, e l'olio, c'l ſale, ela flemma, e'l capo morto, o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali le coſe o per ingen gno, o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente, che lo di vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere, e quello dell'aria all'olio, e quel dell'acquz alla flemma, a quel della terra alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe,Signori,chi non avviſa, che'l fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia, e che le particelle, che'l compongono lian, piccioliffime', nonſono però elle tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla ao. E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere, la qual peravventura immagina il Glif fonio; perciocchè l'aria, comechè diſcorrevole, c vagas oltremodo ſia, non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru, ciare acconcia, Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs, quali ſono il Mmm file, slaai Cáte jela terra dannata, porre d'accorto, e far ch'una coſt fola, e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro qualche attegnenza, nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro, e non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe; perchè ſcompigliata', e ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle: la qual folle mente il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare. Ma ſufficienti non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura, egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde fiicópongono quelli, al Paracello, e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge, e togliendo da foro ciò, cheeſli degli Archei mil lantando dicono: e giugnédovi di vantaggio molte altres fraſche del ſuo, ſcioccamente con si fatti ripari di riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta: dandone apertamente a divedere con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di que'valent huomini','tralandando d? altra parte coranti buoni, e pregiatiſſimi diviſamemi, chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver curar gl'infermi han laſciati Almondo, che giacea pien d'alto errore.". Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore, il qual negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale, e attuale riſvegli: e muova, e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali: e altri ſoſtegna: e ciaſcuna natural parte dal corrompimento difenda: tenendola buona fperā. zagli fpiriti, iquali egli in feſta, e lietamente fa vivere. Quindi il Gliffonio le varie generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando, ein prima quella dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice, che habbia lo fpirito ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi; e oltre a ciò contenga ancora, ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale, e animale, e che fia ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes, appetente, e movente chiama, da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte, c terminate. La facoltà percipiente, dicu, egli, che l'Idea dell'uovo, e quella ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda; imperciocchè l'Archeodi quelli, non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti, i quali egli può produrre, conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta ravviſa; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora, e l'ordineditutta ſua formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura rappreſentata per l'idea,e una cotal brama di quella limitata, sìche ſoſpeſa reſti laſua potenza infino al sempo opportuno. E ultimamente, la diſpoſizione della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta operazione valevole, e acconcia, maches'indugi all'opportunità dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli, che l'Archeo nell'uovo anche dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga; perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią, o d'altro ſomigliante ajuto la formentazion dello animale rentaſſc, ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb be. Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale, vita le, e animale; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato nell'uovo: l'una fiè, che egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare: e poi nel corpo for mato, in atto già opera; e l'altra ſi è, che al preſente egli in un caſamento già fabbricato abita, e dimora: al quale in, acto egli fignoreggia. Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e l'Archeo animale; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli è fornito, quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato, de’polmoni, del ven tricolo, della matrice, e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura dell'animal ſorteggiate. L'Archeo vi tale, licoine il ſole è di tutto ciò, che la terra produce prin çipal cagione, così eglią tutte parti del corpo l'effetto iq Mmm 2 fluiſce, comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante, i quali nel ſucco nutritivo abitano, e dimorano. E dalla perturbazione, e rimeſcolamento di coteſti Archei vuole egli, chele malattie tutte ne avvengano. Ma egli ſarebbe un logorar vanamente le parole, ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del Gliffonio intorno agli Archei. Dirò ſolamente apparer manifeſto, ch'egli in luogo di ſpiegar, ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te, vie più oſcura, e inviluppata la rende. E doveva pure cgli avviſare, che di quelle cofe, che nonci ſono, ne eſſer poſſono, quantomaggiormente ſe ne favella, tanto men ſe i nedice;ne ſi può ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta, qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio, eſſendoſi ſottilmente argomentato d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate, foffe poi sì vocolo, e traſcurato in ciò, che folle mente ammannare aveſſe potuto cotante ciuffole,e giunte rie, non meno a' ſentimenti, che alla ragion lontane. Ma non tanto del Gliffonio, quanto di tutti quali i va Ient huominiun tal fallo ſi è ſtato; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe operazioni della naturaavviſa tc, diffidando per for manchezza d'inveſtirne le cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero,fi rifuggirono a sì fatte fraîche, e ne compoſero cagioni fia tc, e favoloſe, onde natura. Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da biaſimare il fallo del Gliffonio; il qual manifeſtamente affermando, fe cfſer pago, e contento a ' principj chimici, e a que primicorpi, che coloro chiamano componenti, avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento procedere traſcor: se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei, e sicon fondere, e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani, e ridevoli di quelli de'folleggianti peripatetici Ma che è ciò, ch'egli dice de’pori di noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai? c pur dice egli, che perquel la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino. La qual coſa nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono, leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo. Ma chi non iſmaſcel berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti, co' quali ſi ſtudia, e s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti? Tralaſcio a bello ſtudio, comeche aſſai vi ſarebbe da di re, ciò che egliintorno alle maniere di ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di que’ſcioglimenti diviſa, i quali, ficome egli dice, avvengo no per congregationem, vel attractionem magneticam, fi ve fimilarem. E in prima va egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante goduzquint di egli loggiugne, che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene: e fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra. Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat, quod per attractionem fimilarem, five magneticam intelligam.nempe alle &tationem, five incitamentum, quo cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più ſciocca, e ridevole può per travolto, e ſcempiatocervello immaginarfi giammaisquí to queſta del Gliffonio, il quale a cutte inſenſate foſtanze il conofcimento, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce? certamente fe di baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare,che le cofe, che ſtanchete, e fenzów movimento, ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao no, infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non partano.Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò, che naturalmente filoſofando ragionan que' valent' huomini, de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an dar del ferro alla calamita, doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera inveſtigare, onde ciò ayviene. Ma direbbő per avventura coloro iquali follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe, il qual dicon magnetico, del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime, e ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche travoltę infra loro, inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime para ticelle fpiritali, che efcon fuora della calamita, faccian, l'uficio della formentazione riſvegliando in quelle il movi mento; le quali poi movendo verſo il polo magnetico, dis rizzino, ci fianchidel ferro forte percuotano: e sì quello co’loro colpi innanzi {pingano; ma nella calamita -ancora farſi un cotal rimeſcolamento di particelle ſpiritali, le qua. li urtano in eſſa, e ancor la ſpingono intanto, chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár maraviglia, che la calamita ancorada ſua parte fi muoya, comeche più tarda, e lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro, e la calamita ſi pongano,da qualche legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti, intanto che ſopránocanti poſſano andarea gall.2, ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita, e la calamita d'altra parte verſo il ferro. E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare, dovrebbeegli in alera, e altra maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio; perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go laiciali ſcioccamente traportare: ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe: e che ragionevol mente damedici feguir debbafi, ficome loro molto pro fittevole, e acconcio a dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti; eche Galien d'altri diviſamengi degli umori infrămetterſi non volle, ficome poco utili alla medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire il ſucco nutricāte, il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario,no che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per avere cotal divi ſamento da primaritrovato; concioſliecoſachè poſto che loda pur nedoveſſe all'inventor ſeguire, certiſſima cofa. ſia, che la dottrina de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata già foſſe nelle ſcuo le della medicina. Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di que. gli uinori, che in varie, e varie parti del corpo fan dimora, non mica già quattro, ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è forſe ancora ſcoverto. Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti quattro umori, ſi è moſtro già; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia ftimedeſimil'han conoſciuto. Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro agli umori, che non ſi da niuna cu. ra d'inveſtigar la natura delle coſe, non ſolamente utile niuno, ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al medicare, comechè ſcorto molto, eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in conſiderando una fiata, che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra, ficome cgli afferma, introdotta. Non propone egli medicamen to, che volgar non ſia; ne contento d'un ſol medicamento, molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri medicanti ſi facciano;e in ciò,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine. E ciò baſti avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato; il qual per altro è certamente non poco da commendare; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa diligenza, e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma di troppo lungo tempo abbilognerei, fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio, del Carlettone, delBartoli, e d'altri ſcrittori. A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento, e ſcarſi di partito per quanto facica vi duraſſero,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo noi a ſufficienza conſiderate,e riandate; e altri di loro, fra'quali il Tacchenio,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi, e materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo,che ſe ne abbia a far menzione alcuna particola re: Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta induſtria, e diligenza, che da'fi lolofanti antichi, emoderni vi ſi fia adoperata, e per qua te coſe per la morta, e per la vital notomia liaoſi nelle ani. mali, nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte, e per quantepruove, e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace, non ſe n'è potuto giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera ragione dottrina niuna. Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto, o quanto alle ragioni pongas mente; per le quali, s’Io pur non vado errato,apercamen-, te conoſceſi quanto ad huom’malagevole, anzi impoffibile affatto riefca lo ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe giudicar delli di quelle, che debbono avvenire, per tanti,e canti, che infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra, e'l tempo, così avverrà certamente a ciaſcun' altro, che tenterà una ſimile impreſa 3 ne potrafli così nel filolofare in medicina, comenell'adoperarla prometter ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia. Anzi, o infeliciflia condizione di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, e rimeſcolamento dellamedicinaper fatica, e di ligenza, che adoperata viſia, chi mai fin'ora avviſare ha potuto, che coſa ſia un piccioliſſimo catarro, che ne mo-. leſti? e. venne queſta veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da Empedocle,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα, και πάση τοίς τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν, ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta verità, oltre a Seſto Empirico, da Cornelio Celſo:allorche diſſe della medicina favellando: eft enim bęc ars conjecturalis,neq;ei refpondent,non folum có. jecture ſed nec etiã experientię per; nulla diredel Cardi-: nal Cuſano, e d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente in Aten ne fioriva la filoſofia, e le buone letterc, traſcurarono la medicina, no facendone niun capitale, come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet;.. Ούπ γας ο μιθος ουδέν έσ', ούθ ' η τέχνη.. E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone arti, e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono; anzi dice Plinio: Populus Romanus neque 46-; cipiendis artibus lentus: medicinæ etiam amicus: donec ex pertam damnavit; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito, e danna to; infra'quali il Balſamone Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces © riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū, ut confisú fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum, conjecturarum eſtimationi bus nutans; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost: clo Nnn niin 1 406 Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja: Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos, ut mihi confu lant conſulo: incerta famper ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata diſcernunt. Perchè 9. Chieſa, come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe: adunque, egli dice, non è certamente ragionevole, che il Sacerdote, oʻI Diacono, o altro qualunque Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo, e alfai fo vente fallace. E S. Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi ſerviſler: punto de' me dici; al che riguardando per avventura Franceſco Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede queſto ſalutevol conſiglio: Nulla eft rectior ad falute via,quă medico caruifje. E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca,quel che dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni, 2.4. La medicina como fue erbe, e coſe diri Che fa? caccia carote a tutti mali..'.... Infin che l'huom perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi; il qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina, alla fine fece boto scomedarra Giorgio Orni: Si Deus aliam prolem largiatur, nullo se ampliusmedico ufurum. E per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più rara, ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò,come narra Daniele Einlio,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità; ptaceredi quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna, che nelle ſue infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti: defichepoſcia valevoliflime's ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala, celebre lector di medicina nella famofiffima ſcuola di Padová; il quale canto non potè tenerli, che alla fine, un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva, inqueſta difinizione: Medicina ef ars * illudendimundum, &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa, di tralaſciarne l'eſercizio, e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata, La medicina deve eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir richiedendoteſtimonianze di colo ro, che a faccia ſcoverta abbia la medicina guarata. Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea, dico, ſovente dire a' ſuoi ſcolari: miferi, ed infer lici noi, félmondo arrivale a faper maile,debolezze nofire, che ne meno ne poffiam promettere colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene cõverreh be apparar altro meſtiere? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto intédiméto, e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere, e di nobil'animo forniti,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe, ſavj interpetri della natura, ed altri huomini inſigni dc'tempi noftri, lol faro menzione del no ſtro Col’Antonio Stigliola, riſtoratore della Pitagorica filoſofia: e di Gio; Alfonſo Borrelli chiaro, ed eccellente in ogni ſcienza. Anzi quinciè egli avvenuto, che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina, l'abbjan, nel maggior hyopo mcNain son çalere. Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi cina, diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale; ed eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare, comepotè il, inen male; alla bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto: A voi Nnni non fa meſtieri la mia opera, imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale (così un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer medicato; e ſareiben folle, ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la cura di mia ſalute. E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda, e sì crudelcanaglia; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na coſa dicerto, abbiſogna loro, che alle giunterie, e alle frodi abbian ricorſo peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie: ma fino a'tempi di Galieno, per tacer de’più antichi, eran ſommamente in vi gore.E cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia, acciocchè buon medico divenga: in que. fta guiſa? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi tazioni de' medici; perciocchè alcuniinfermi rade, e altri ſpeſſe volte deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora étrar facédo romore co'pie di, ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la voce: acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli, che gli ſia rotto in teſta il ſonno. Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi, e ſenza ſenno, ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il quale ef fendo da un infermo domandato,' ſe di ſua malattia morir doveffe, rifpofe con quelle parole, ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato, e ad un altro infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων. Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico affettatuzzo della per ſona, e grazioſo in entrando, e in ſedendoſi, acciocchè nó gli ſiano fatte le ſcherne; ma non cotanto tronfio, e traco tato, ina mezzanamente grave, ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo alquanto modeſto, e umi le, o di ſoverchio altazzoſo. E ſomigliante dobbiam noi dire de’veſtimenti del medico, i quali ancoramezzanamé te debbono eſſer foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino: ne cotanto ofcuri, eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli ufaw; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero. Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli medica; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per imitar la coſtuma dello Imperadore, fino alla cuticagnato, devafi; perchè Lucio chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette, e ben forbice; e fe per avventura putiffe loro il fiato, o le dicella, o tutta la perſona,a modo di becco, fpiacevole odore gittaſſe, fi debbon eglino d'odoriferi unguenti, od’acque nanfe for nire, prima che ad altri medicar fi preparino. Ma purvoleſſe Iddio, che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio ricorrono alle frodi, alle in vidie, alle maladizionije ed altre illecite ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano, e maggiormentein pre gio, e ſtima ſorinontare. Così vedeli, che un medicobia fima; e danna i medicamenti dell'altro; tutto che que'me deſimi ſiano, ch'egli appunto diviſati n'avrebbe, s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale, ed anche pega gior misfatto non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari, fe vogliam dar fede a Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo. Primo etenim invidiosè jubet fi qua ante ipſum medicus adhibuit, repudianda. At fi non adbibuerit,tuncprobanda, tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur. Earrab, biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi, allor, cheſcriffe: Medicus aliorum remedia ne lave det,utſupra vulgaresfapere videatur; e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri: rabies quadă,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans. E d'un tal medico ne narra il giuriſconſulto Alfeno: medicus libertus, quod pataret, fi libertiſui medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum, poftulabat, ut feques rentur fet; netie opus facereni, Ed'un altro medico narra Calliodoro, che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe: inter faburis magiftros folusbabea, ris eximius: & omnesjudicio quo cedant, qui fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie,e04 rumquediſtingue confli& us, quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj; o comeſemonna Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del Sere. Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici, che per uggia ze mal talento guaſtarono, e atterrarono diſpetroſamente; bagni di Pozzuoli; e di que'ribaldi ancora, che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali della valle d'Anfánto, di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino. Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il medico, chiamandolo talora: Invidie pelagus, derrationis organum, ambitionis perforatam clepſydram;aliena veritatis contradictorem gar. rulum, propriæ ignorantia conftantiffimum defenforem, & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus, ut potentium gratia uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ notasinurere nihili faciunt. E Giulio Celules della Scala nella fua poetica, de’medici parlando: turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo ſe ipſam eo fenomine venditantem, invidam, maledicam; cbtrecta tricem; novam ſpeciem cynicorum yavaram, temulentamus Supinam, ignavam fimul,asq; ignaram. E GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio; e più che altri del meſtier della "incdicina intcndcnte, vuol; che da eſa neceflarianente 5 avvegna,che taliticnoquei, chefeſercitaiio: medicina ! facit, ſono le ſue parole,nonreruin memoris, fed verborü:1 callidos y verſatiles ingenio;inuidos avaros; idolofos, las boriofos, non ingeniofos, de minime graves s opus enim coni rúm, d exercitatio minusquam liberalis eft: e altrove pa rimente de medici avea detto: funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate, adeò ut nihil pejus excogitari poffit. Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia del Toro, e di Venere, onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad ogni force d'impudicizitz e di diſonore: c la medicina curativa ſotto quella diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire, come ne diviſa il mentóvato Conciliatore; il qua-> le ſoggiúgne, chedalle ſtelle medefime, onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um", eccellente, e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo, e malvagio; ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i cicaleccj.delfa ftrologia: è nondimenodacredere, chegl’intendenti dell'arte,ciò cut to a bella poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe, chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella s'offervano's Má chi mai ilmaltalento, e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano, efimalmenano. Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca tracollato dalla grazia del loro Rè it benigniffimo,e inge gnofifſimo Ticone della perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore, intanto, chegliene fư tolta l'Iſola, e la Rocca d'Vraniburgo, di cui egli era Signore: e sité tanto mara vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia, ele nobi lißime chimiche fucine rovinarono, che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria: E l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir nemichevolmente la patria, ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume, non pur delSettentrione,madel mondo tutto, onde foſſe sõi moſſa a commetterla la cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime narrarlo, dicalo in mia vece Pier Gaſſendi: Erant in his medici quidam, qui videntes non modo exDania, fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia, quę quibuslibet gratis largiebatur expertifeliciter, ac morborumetiam valgo habitorum infa nabilium levamen fentire, livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud quoslibet,procereſquepotisſimum, quibus preftabant operam,ipfius nomen traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei, ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente ucciſe il celebre medicante, e, pocta Lino, la qui inorte pianſero eziandio le genti barbare; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente com poſero, appellato in lor lingua Emaneco, ci Greci Lino, la chiamarono. Ippocrate, comeſcrive Andrea antichiſe funo medico, inſidioſamente brụciò la nobile, e ricchiffima Libreria diGnido; e quindi egli poi per tcina fuggiſli. A Quinto, medico famofiffimo, dice Galicno, fu meſtieri gombcrar Roma di prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici. E in Roina pure attoſſicato da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico, come narra Gin lieno, ilquale anco di ſe narra, che egli fieramente perſe guitato yenne da parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie, c machinazioni, e delle trappole, e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo Avicenna, Avanzavarre, e Raſi: quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo Lullio, ad Arnoldo da Villanova, a Pier d'Abbano, c ad altri molti letterati di vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj, le prigionie; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità, delle tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo, e travagliati ne vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di que tempi Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come coſa dinon tanto rilie? vo, quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio: della Penna, (chea 'di ſuoi con aura di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina, contro Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo, che più d'un buonno ſcienziato, e il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente, e peftifera invidia di Maeſtro Dino dal Garbo medico Fiorentino. Ma quandº altri, e quanti nobili e illuſtri medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe, che ſcola piti foſſero nella lapida della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft, gratis,qui nil dedis unquam, Mortuus, & gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano alla cura degl'infermi, dallamaladizione, e dall'altezzola, e sfrenata tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime födaméta dell'ercſia nella Frácia? e da Michel Servetto, la cuiempietà era inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata, e di Marcello Ancirano: e dall'empia, e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti, e di Franceſco Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio, e quindi ſen? vennead infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia tutta della Tranſilvania. E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol carnificina d'E raſiſtrato, e d'Erofilo,osò, come narra Paolo Giovio, far notomia, non già d'un reo alla morte condennato, come i già detti due Greci facevano, ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura commeſſo. E per far omai paſſaggio a coſe più note, e men forſe moleſte: che Ooo non oſarono, che non imprefero, che non machinarono a danni del Paracelſo i Galieniſti medici della Germania? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere, e rintuzzare il lor rives ritisſimo Ser Galieno: conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino perſeguitarono, e malmenarono Lionardo Fuſio, Giovan Cratone, e Andrea Mattioli; il quale con meche Italiano, e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e altri', e altrimedici,purGalieniftige della formede, fima banda parzionali; e fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a Girolamo Fracaſto. ro, ea Matteo Curzio, comechè queſti tutti afpada tratta la dottrina di Galieno difendeffero: e nel medeſimotempo eglino unitamente contro Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono. Nedi coralrabbia innocenti ſi ſer barono quegli altri pur Italianimedici,che ſtizzoſamente & 'avventarono contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc, e deſtinguere quel chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt, lio Ceſare della Scala;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile, e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto, il Baucineto, l'Arveto, il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor più addietro accennate. È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti fanciulleſchi, fenza fermezza:niuna didimoſtramento? Matroppo lungo ne verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie; e le noje;che nella Lamagna,nella Dania, nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino, Michel Tofſite, Bernardo Perotti, Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo Crollio, ealtri infinitimedici doro tiffimi, e avveduti affai; i quali ſempre, o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza andar mendicando eſempli di fuora, laſciando das parte ftare le non meritare perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città contro il Ferrillo, e lo Schipani, e'l For tunato, e'l Ricci, per tacer d'altri, e malmenato da rabbio. filime trafitture d'invidia il Macaone delle noſtre contrade Marc Aurelio Severini (le cui doctiflime opere in molte, varie lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua perſona, fu prima incarcerz to, e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata, alla fine de' ſuoi beni ſpogliato, Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe tralaſcerò lo, o quali ne ridiro? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le ingiufte uccifioni, che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici miſcrevol mente patito: fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno, ſe non ſe, per dirlo colle parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam, &à Virſungio non teme re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia. Ma in paragone di tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire, che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc: a cui tanto, e si fatta -mente porè l'invidia de’mcdici, che accuſacolo all' Impe cradore di Roma Maffimiano, non mai fi: rimaſero, finchè " non videro per man del manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma avvenga, che i medici fian così,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più chiaro argométo,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti, dove parch'abbiſogni più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon grosſige materiali, anzi che Ooo 110, 1 2  no, ufano altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E per tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali, come riferiſce Francefco Silvio, Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas, ac tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq; ita putant febres miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la cagion di lor malattie fian certe pietre, o animali, o ſterpi, o coſe fimili, le qua li e'dicon, che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi; e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari; e in tanta reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa, voglion effer diloro ſchiera. Nel ta muova Francia poi, ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente le infermità guariſcano: ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale, a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più parte le vomitive medicine, e só quei volpo. ni sì deſtri, checol vomito vi meſcolan di botto, ſenza che altri lor tolga in fallo, o ciocchetta di capelli, o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono altrui eſler la malefica fættura, la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz fuori colla pūca d'un coltello, che tengono infra le dita, o altrove naſcofo; e ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo, che il mal d' un altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano; e quando finalmente lo infermo fe ne muoja, ſi fan loro ſcuſe, con dir, ch'il Demonio,che l'uccide, è del lor più potente; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da ridere a quegli imboccano. Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi, e degli ingamni abbiſogna, deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti;.poichè a loro è conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro. Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia, e d'altre fimili Regioni, in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide: felicisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano, il cui fenno che pote da debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado, che il lor conſiglio non curando,della vita allus ga il dubbio corſo; onde dieron cagione ad Ercole Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan, chiam'io,che quando Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens Diſalubre ſudor fovente molle: Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna, el Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti, il ſervizial, la curi, Che tolgon l'appetito, e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura: Che ſe dato è diſopra,chetu mora, Non ti guarrà dieta,o lunga cura. E più avanti E narraci un villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia, cheformaggio,mentre Ha febbre; emai non hamedico-auuto. E nonvoglio (foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo bicchiero. E forſe,che farà queſto qualchenovellar dipocca, o da orator menſonieros Michel diMontagna filoſofante,un de più grandi', che peravventura abbia avuto la Francia, o fommamente veridico,non cinarr'egli, che in un villaggio, ove inai non vi bazzicavaalcun medico,conmiglior ſanità, ch'altrove vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto dìnell'Italia echiepper Dio di noiche, non ſappia ciò, che molt'anni avveniffe in quella terra, chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati, non che praticati, ſeppe sì ben pelarla, ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori: ed avvedutiſene i vafſalli,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone, e lo sforzarono ad mandarne via il medico. Manon ſo come caduto dalla. memoria mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo, huomio di fingolar giudicio, e di chiara fede: Animadversi, ſctive, in dyfenteriæ popu • larimorbo, in vicis de pagis, qui medicina non utuntur, mortuos, aut nullos,aut paucos: in quibufdamurbibus plu. rimos elatus à medicis maximofumptu:e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri: ex iis; qui medicas adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro con re plicati ſalasſi uccidere; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes medicis deftituti. Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza dell'arte, tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia; e malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio, e avveduto governo il non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina; e infra tanti ſubugli di ſchiere, e fazioni non ſi yide mai faggio Principe, o ben, ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le, e con fattinon paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco, o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto in pregio dal gran Pompeo, o Antonio Mofaonorato, e careggiato da Ottaviano Ceſare, o Vezio valente adultero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio, o l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone, Teffalo, far sì, che a medici di contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche. Cosi fempremai in Romàse in tutt'altre parti delmondo, nomeno i Razio nali, che i Metodici, e gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano, ciaſcun di loro ugualmente il privilegio della cittadinanza di Romagodendo. E dopo le rovines dell'Impero Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri: ne a'feguaci d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4 to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto ſormontalfero, comeaddietro è narrato, non però di menonon poterono far sì, che affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti;ned'al tra parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con ſátire, einvettive lungamen te piatifféro; nondiineno di nulla mai', o reggimento, o maeſtrato, o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio, oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero, non Sommo Pontefice, o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della Suezia,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch," Io ſappia, ſi legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon tefa infra i medici Chimici', e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne foſſedalla ſcuola di Parigi, volle mai inan dare avanti i decreti diquella, nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa (il qual ſe tanto nella filoſofia,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato,quan to nella Loica di lui s'avantaggiò, certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare;e ad ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici, tư di 480 Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu ſeppe Quercetano medico, e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva, ne fu da lui ſommamente onorato; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro: pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco, anzi l'ancimonio per ciaſcun medico liberamente adoperavaſi,comechè nelle cure delle medeſime perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi Redelle Spagne, così ne'paeſi balli, come in tuce'altres Provincie della loro Monarchia ſempre hapermeſſo,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte, e del Silvione del Villifio, fen-) za ritegno alcuno; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti de Galieniſti. Che ſe mai Prins cipe, o Maestrato inframmetter tałora s'ha voluto, e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola, comechè menoma a certa, e determinata legge ligare, bea fiè veduto perpruova, che ogni loro ſtatuto, a ſconcio, e non laudevolefine ſempremai è riuſcito; come ſi vide av venire, oltre a quel, che è detto, allor, che perconſiglio de Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata, qual dicono, come velenoſo vietato; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573. con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno, e del Fraſſino, che poco prima era ſtata ſeveramente proibita. E no poffo no arroſsare in leggere que'rimproveri fatti dal Clufio, e dalMattioli, il quale in cotalguiſa favella: Er. rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno proibire ſotto graviſſime pene, che non ſi debba ven. der la manna, che riſuda dalla ſcorza del frasſino, e dell'ora 10, la qual chiamanomanna sforzata, immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna, imperocchè queſta, oltre che pur ga ſenzamoleftia alcuna, e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo della gravidezza, è fantiffima, ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie, e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487: Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi; però laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano lamanna dalfrasſino, e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento non conoſciuto da loro, febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a' ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione, che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali Ippocrate, del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della natura cſfer non guari diffimili alle leggi umane, dice: ftandum eft libris Hippocratis tanquam ad théticis: giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e das dover eſſere d'ogni eredità incapaci; nel quale errore laſciaronſi traportare l'Alciato, e'l Cujacio, e altri au tori di lieva in legge. Perchè il noſtro Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione; ove in modo giudicoſlinel noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici, che dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole: venit improbandum judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis, & aliorum quos Affli Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat: eorumque ductu Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna fucceffionis incapacem declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam, d predictorum judicium impugna verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita magnifacien dum eft judicium illud Confiliis philofophorum, medicorü relatorum ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit diſce dere, quam à veritate. Maciò ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra quell'av veduto,e giudicioſo ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto Re di Frácia, il gran Lemoſiniere, e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair  1 3 di dar compenſo agli abuli della famoſa accademia di Pa. rigi, e che infra l'altre leggi, e ſtatuti diviſarono delle bi. fogne della medicina: ordinando, che i medici di quella ſcuola doveſſero legger l'opere d'Ippocrate, e ogni ſua opinione puntualmente ſeguire:medicos ſono, parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas tee neant, divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta ejus religiosèfervent. Empiricam caveant, neque ea ullo modo utantur. Ma cotale ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera; e in vero, ſeque’valent’huomini aveſſero innan zi tratto conſiderata, e riandata cotal biſogna, e riguarda to alla varietà delle ſette, e delle opinioni, e all'incertez za di tal profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora. E tanto più, che que' inedici, che con figliarono una cal legge, ne prima, ne poi i diviſamen ti d'Ippocrate oſſervarono; e in iſpezialità nel purgare, e nel ſegnare,come nel ſecondo ragionamento avviſam mo; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate; e an zi tutti medici vengono di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto agevolmente coglier fi puore; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen te, che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine curati, ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo, o daſcorpioni, o da altri velenoſi animali. E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina, che ſaldinon nai ſono fungo tempo durati: delle diverle, e ſoventi fiate contrarie guiſe di me dicare, e dalle si varic, e tante opinioni, che fra i medici di tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo, ed inviluppato meſtiere, il quale non ha in ſe dottrina, o principj, ſui quali huomo unquemai poſta porre alcun menomo fondamento: e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze, acui s'avvengono tutti coloro,che d'ordinar lebis ſogne della medicinafi danno alcuna cura. E perciò lag. gio ſembrami lavviſo di quella Città, o di que'Regni, ch' avendo forſe a pruova legià dette verità conoſciute, non vogliono in alcun modo prenderfene briga, ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta, il quale, coine Orazio faggiamente avviſa, que Deſperat tractata nitefcere poffe, relinquit. Talfu il fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè nella Cicilia; il qual non che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro, anzi prendendole a gabbo, ſcheroù le ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola; il quale a diritto, ed a roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro (ne v'ebbe per avventura a durare la maggior fatica del modo) che la medicina degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che fra medico, e maliſcalco altro di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome. Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc dicina; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a richieſta, o a conſiglio de'inedici, quanto Trajano Boccalini: allor che narra, aver Apollo per ſecondar le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio alquantimedici,a cagion di voler ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano nel medicare: ma per l'ordinazioni di tali riformatori, non pure no iſcemaro no in alcun patto, ma vie più moltiplicarono le malattie; e le morti giunſero a tale, ch'egli rimaſe forte maravigliato: (ſon parole del Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia mandoſi offeſo, eſchernito, che ſotto zelo d'apparente carità verſo il benpubblico, con quel pernizioſoricordo aveſſe volu to aprirſiſtrada all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica udienza, con indignazionegrande disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484 Ragionamento Sefta mo diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile rifentimento". Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion prenderſi d'un arte cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha certezzha 1 RASr 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato, o Signori; delle dubbietà,.e incortezze del la medicina,malagevoliaffaiperhuomo, anzi impoſſibili a ſuperare:'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai; non altrimenti, che picciola, e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa; o mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta, non conoſciuta ſelva;per travolti-bronchi, e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via, o modo al cunoavviſare, convienr'certamente, che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto, e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita, e la ſanitàdi ciaſcuno,dse egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far: giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui, al mio gliormodo cheſi poſſa; çfecondochè la condizione d'un tal meſtiere comporta. E (come a coloro, cherompon per tempeſta in mare, i qualiad ogni picciol cravicello, o pan chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince: uob; maroſi della ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti, che gli li fanno avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia,che con quelli sì degna im preſa poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita. E quinci ſi è, che quantunque poco,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla medicina perrigenti eſerbene ſcorto, e cono ſciuto, chiunque voglia con qualche profitto, e laudevol mente cſercitarla; perchè fa meſtiere, che lo attenendo le promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente chente, e quali coſe a fare un buon medico, e perfetto,in quanto ſi poſſa umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err ato Ippocra te, o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do dice, ch'a coloro, che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές, tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi, e luogo allo ſtudiarconvenevole, e buon alleva mentoinfin da fanciullezza, einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio, ſecondo lui; conciolo fiecofachè mancando talvolta, vano affatto, e inutile ogni ftudio, e ogni diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia vuolch’abbiſogni quella na, turale inclinazione, dache alla medicina apparare, e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla; vero fem premai ciò che dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde aſe, cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova; Eſe'l mondo la giù ponce mente Al fondamento,che Natura pone, Seguen. Del Sig.Lionardodi Capoa. 487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora improvviſo, ſenza aver potuto in prima dello infermo, o della natura di lui molto diſtinta contezza, o eſperimento, convenga diviſar me dicamentijanzi che dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze; eďove ancor queſte ſiano all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e ardire a novelle cure lollevare lo intendimento. Alla qual coſa fare, chi non avviſa, che fano giudicio, e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni, c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori diguerra. E mi ricorda a tal propoſito, che il Signor di Molluch chiariſſimo capitano dir Tolea, ch ' ove il general della battaglia, iit veggendo rotte le ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito,egli, o da vergognago da timore oppreſſo, il ſenno, e l'ardir non perdeſſe ad'un ora, ſempremai buo na ſperanza gli rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati, e incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa. Ma potrebbealcun dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di noi egualmente l'abbia; impc rocchè, direbb’cgli, quantunque lo ſappia molti, e molti eſſer coloro, che per naturaľripugnanza di genio, o d'ate titudine in altre arti, appena aſſaggiatele, dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto, non ne fia medico poſciano e'n buono ſtato divenuto. Eforſe ciò avviene, perchè eſ fendo la medicina al mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie', il ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per apparar lized eſſerne da tanto; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto intender noftro, come temerariamente altri pur s'attenta di fare: ma ſe a qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più rare. Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi. Ne lo ſtenderommi al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca,e dcHa Tedeſca egli è allai chia ro,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio, chedal non pienamen té intenderle ne può ſeguire; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar medicina, con queſte parole: Notitia nominum prodeft ad doctrinam. Et nulla profeéto ars, curiofius, cautius vigilantius homini diſcenda, traétanda, meditanda eft, quammedicina, qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea verſetur falushominum, vi ta; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel medico; il troppo ſtudio della quale nuoce, non ch'altro, a chiun que veramente approfittar ſi voglia nella filoſofia, eſpe zialmente nella medicina,poichè eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte, non fa poſcia dipartirſene allor, che delle vere, e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare; onde faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli artefici degli ſtrumenti muſia cali, i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma la norma ſicura de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge: e malamente al ſi curo fornito loico, e conſeguentemente buon medico ſarà colui, a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono. E certamente avea la ragione, l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello confortare, e fpignere allo ſtudio della Geometria, e dell'Arilmetica: poichè la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole, dice egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí óvño Jou răvő mi yeusercioè,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento, acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad un medico faper Geometria, affermando ancora lommamen te giovevole, e neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa, e l'altre biſogno nella medicina. Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto: ſe oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili, e neceſſarie. Ma fe (come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico, chifiloſofo in priina non fia: c per apparar filoſofia, la Geo metria è ſommamente di meſtiere;egli è pur manifeſto,che il medico debba efter Geometra. Ne può punto dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè abbiamo nelle ſtorie, che gli antichi filoſofanti, tan to biſognevole ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole, che no volcan,cheniuno in quelle entraſſe,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe. E'l gran Galileo de’ Galilei, grandiſſimo maeſtro di coloro, ch’alla vera, e dalda filoſofix attendono, diſſe; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta: e quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto, cioè a dir l'univerfo; ma non mai poterviſe leggere, fc in prima la lingua, e i caratteri, co' quali egliè Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto, dics in lingua matematica, e i caratteri ſono triangoli, cerchi, - Q29 altre 1 > altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der umanamenteparola: ſenza queſti, è un'aggirarſi vana. měte per un'ofcuro laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo Cardano, il qual mi ricorda, ch'avrebbe voluto, che niuno in medicina non ſi foſſe mai convertato, il quale, mathematicas perfecte no calleret, per dirlo colle ſue parole; del che recandone la ragione, ſoggiugne: Nam his folum, nec fallere, nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit,non eſt veriſimile in propria arte velle ſuperioribus, &fuis, ac fibi ipſi impo were. Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia, la Mu fica, e altri nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede; e della Muſica favellando Tomaſſo Cá panella dice:medicusnon ignoret, qui foni, quos motus in (piritu,adquas bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano; e con molte, e ben compoſte pa role l'utilità, che da quelli ſi trae, va egli ne'ſuoi ſcrit ti diviſando, e quanto egli avanzato ſe ne foſſe; ſenzachè, dic'egli, ſe il medico, non è di ſtronomia intendente, gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti d'Ippocrate, il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte, le quali ſenza ſaper di ſtro nomia, impoflibil certamente fie, che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non ſaprei mai comprendere, come ben ſi poſſa medicare, ſenza ſapere, il naſcimento, e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le, neceſſarie al meſtier della medicina, le quali tutte la ftronomia ne inſegna. Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio, come vano, e inutile a'medici biaſimano, punge, e proverbia il buon Franceſco Vallefio, dicen do, che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile, non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe. Perchè il non mai abaſtanza lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela ſcienza delle ſtelle a quella della medicina, principio, eguida ſia. Ma fe la Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al ſaper di quelle, i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze, e d'altre aſſai malattie, manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni de’malije i rimedj, ch'a quel li talvolta hanno approdato, e ciò, che per pruova ha noc.ciuto, e giovato agli huomini: e aſſai pienamente ſi com prende quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto, e altri aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di lui della fie ra, e lunga peſtilenza del Peloponneſo, traportato poi co tanta eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi. Ma ſopra tutto ſenza dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede; imperciocchè, fe perfettamente egli ſaper dee la natura, è l'economia tutta del corpo uma no, le cagioni, così d'entro, come di fuora delle malat tie, le qualità, e le coinpleſſioni dell'aria, delle acque,de' vegetali, degli animali,e de’minerali turti: conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº occhio, e diſcorrendo: ma in quella con ogni intendimen to, e ſtudio involgerſi, e riconcentrarſi, e in apprenderla, pienamente con ogni sforzo, e con ogni opera affaticarſi. Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon damento della medicina; e Ariſtotele n'impone, che il me dico cominciar debba, ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico dal filoſofo non dif feriſca, ſalvo che nell'operare: e che la medicina altro no fia, ch'una operatrice filoſofia. Folle adunque, e danne vole oltremodo è da giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna: che il medico ſenza più avanti ricercare, appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali; Raq 2 ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità; concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta giammai, come ſcioccamente s'avviſa Avicenna, anzi allor maggiormente vi s'interna, e profonda, e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo, che a ciò riguardando eſfo Avicenna, avviſaffe pienamente il biaſimo grande, che di tal conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue to il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare, e contemplar le coſe della natura. Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno, il qual ſopra ciò ben’un libro inte. ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per * chè e' medeſimo dille altrove, il medicare una piaga non, effer impreſa da tutte braccia, ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno davanti agli occhi. Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate: il qual giudicò fi loſofia, e medicina eſſer compagne ſtrette, e ſorelle,giua te, ed avviticchiate; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma, amendue coſtoro d'un medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo: Primomedendifcientia pars fapientia habe batur; ut &morborum curatio, dow rerum nature contempla tio fub iiſdem auctoribus nata fit;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione, nocturnaque vigilia mi nuerant. Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto,quan to Pittagora, Empedocle, e Democrito, e Platonc, e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della Grecia ancor s'avanzaſſero; ſenzachè i fonda tori, e i Principi di ciaſcuna ſcuola di medicina, eziandio della Metodica, e della Impirica, eilor più rinomati ſe guaci, tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia s'eſercitarono. Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate innsós gap Quómo, iostec, cioè a dire: il medico filoſofo è ſomigliante a un Dio. E 1 1 quantunque,come ſopra abbiamodimoſtro, aſſai poco al baſſo, e loſco intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto; nondimeno queſto ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia, acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi, non aver la medicina certezza alcuna; e a queſto avendo certamente riguardo, diceva Cornelio Celfo: natura rerum contemplativ, quamvis non faciat medicum aptiorem, tamen medicine reddit perfectum. Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene; concioſGecofaché, ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate, di buoni, e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già, come a tal pre gio mai aggiugner poteſſe colui, che coile natural filoſofia la moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella, cha per oggetto Panino dell'huomo, e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo, ed efficace ajuto. Orcome po trà il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli ammalati del corpo, ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie? cioè a dire, ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo, come da prima, e principalcagione, da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer ſogliono, la qual certamente ne cono fcerc, ne rimuover potrà il medico giãmai, fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim,dice Sinforiano Cãpegio, per tacer altri, eſt animi, &corporis neceffitudo, ut ſua om nia bona, ac mala, velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole cantò il Guarino. Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora, ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro: e ſe pure dopo ſi è co minciato a feparare l’un meſtier dall'altro, non èmara viglia, dice Malfmo Tirio: perciocchè la medeſima artu di curare il corpo, così in fc ftella diviſa, e lacera ſi vede,: chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar ſolamente gli occhi, altri law veſcica, e altri altra parte del corpo. Ma con quanto di fcadimento, c danno dell'arte, e de’maeſtri di quella, per nulla dir de’poveri infermi, ciò avveniffe,che partite, e ſceverate queſte due profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo, ſenza badar punto alle malattie dentro, lo dicano tante, c tante malvagità, e ribalderie operate daʼmedici, come di ſopra dicemmo; concieſlico fachè non ſon per altra cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli alţri tute si della verità, della giuſtizia, e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori. Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo, il medico filoſofo ſomigliante a un Dio, fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte cotan 10 eziandio giovevole, e neceſſaria alla medicina. Per chè guardando a tutto ciò Galieno, cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento, e di riunir di nuovo, e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde compoſe quel libro, ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare, e del medicare dell'anime le malattie. Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna altrui e' me defimo profittaſle; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli narra, era egli avvezzo a ſoffrire, e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo grande, e immobile, ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita di beni, o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di gloria, o burbanza divana ambizione, o qualunqne altra coſa maggiormente al mondo ſi pregia.. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno, che ſopra tutto egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato, e di quelle coſeancora, che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente ceſfarle. Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano intendimento conceduto, per venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo uma no, gli conviene in prima il ſito, la figura, l'ordinamento, e la grandezza,e l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare: alla qual coſa manifeſto è, che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa: perchè della me dicina folea dir faggiamente Cello: incidere mortuorum corpora difcentibus neceffarium. La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici conſiderando, come pienamente nete ſtimonia Galieno, a ufare i noromici ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano. E oltre a ciò egli dee bene inveſtigare, e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la propietà, o la natura dell'Erera,dell'aria, dell'acqua, della terra, della Luna, del Sole, e di tutt'al tri Pianeti del Cielo; da'quali corpi tutti continuo fotti liffime, e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro, e qua li a dannodell'umane vite. Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le naſcoſe virtù de'minerali, de've gerali, e degli animali tutti, oide il cibo, e imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono. Cola,la quale cotanto al medico è neceſſaria, che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino Inventum medicina meum eſt: opifexque per orbem Dicor: &herbarum fubješta potentia nobis. E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano Poeta E già l'antico Erotimo, chenacque In riva al Pò, s'adopra in ſuaſalute: Il qual de l'erbe, e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo, ogni virtute. Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio, che fenza un tal conoſcimento non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi da’curiofi ſcolari vedere: e ame baſterà al preſente per raccorciar la lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo, over'dice: chiunque nel medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto bene ſcorto, e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di medicamenti, e infra quelle, le più eſquiſite ſceglier ſappia; concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato, ſe mai oferà un talme Aiere imprendere, ſappiendo, ſolamente in ciarle la nor na del medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico, Quinci ſi pare quanto errino i medici, comequelli, che pongono queſta parte, cotanto alla medicina necella ria,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il doctiſſimo Fabio Colonna: in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat pharmacopolis carentibus, artem exerce re? an ne verbis? c più avanti trapaſſa l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali, che di cotal traſcuraggine agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus, dice egli, neſcit quod agro præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum: Rufficus herbarius, qui fæpèlegere ne fcit, &à nemine doceripoteft, cafu colligit fimplicia: &hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem, fepiffimemortem afferunt, ignorantiæ finem; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante, e tante malagevolezzo, che noi diviſate gli abbiamo, ſenza altra fatica durare ſia per venire a capo. Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti viaggi nuovi altri pachi lontani troppo, e non conoſciutia piè volgare: oye fra bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi, e avviluppati ſenticri con gran ſudore, e biftento giugner ſi dee. Egli è il vero, che giunto poi quivi, trova ben cento, e mille vaghezze allettaprici, luſinghiere. Già parę di udirvi dire concordemente, che lo voglia favellar della Chimica, nella qual ſi comprende tutto il bello, tutto il vago, tutto il maravi glioſo, che può mai operar la natura,o l'ingegno umano. Ne 10, zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe cento bocche,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena, e ferrea voce, alcuna menoma parte de' pregj di sì iluſtre, e glorioſo me ftiere potrei narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe, giovevoli, e neceſſarie al gencre umano arti dell'agricoltura, del fabbricare, del navigare, della mili della ſcultura, della pittura, della filoſofia, della me dicina: voi facendo teſtimonianza della grandezza, e dellº eccellenza della Chimica,narrate pure, come da effa -i vo ftri natali, il voſtro accreſcimento, ilvoſtro ſplendor trac fte: dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia, age volò l'opera: Netacete pure, o ultime pruove' dell'uma na induſtria, gloriofiffime memorie dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra deOmero, che co’ſentimenti inſieme i dolori, e gli affan ni de’greci Campioni potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento,e cento altre Egizie maraviglie, che tolte a noi dal teinpo, appena chi vi preſti fede ritro vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi, voi effigiati obeliſchi di Tebe,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica; e ne'metalli, e nelle gemme, cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le fue glorie eternaméte innalzate. Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio, comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil meſtiere, va reixnucios χρυσού, και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης προσγίνεσθαι τέχνης, μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss auliceiv. Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente ſi può ravviſare, che ſenza quella non può Rrr valevolinente operare, ne è da dir arte ſicuramente la mes dicina; perciocchè, fe come abbiamo di ſopra lunga mentedivifaro, in cicchi, e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina, nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna, o più ſicura guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe, che la vera, echimicąſperienza. Enel vero, che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una ad'una le partitutte annoverare, e ſcernere del corpo umano, ſe.poi della nas tura, e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo, che nulla; licome nulla ancor monterebbe, che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti, eivegetali, e gli aniinali, ei minerali, ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di quelli. Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti, fenza la traccia della chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro: e ciò, tra perchè iſegui,į le conghietture, onde di prenderle immaginarono, poco men che ſempre fallaci, evane fi erano: e ancora perchè parecchj di coloro, il tutto a quelle,, che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto altre, edaltre qualità ſpiarc,dalle quali molto più,che dalle prime, le operazionidelcorpo umano, come è detto, dipendono. Matroppo malagevoli alcune di quelle fono, e ad intendimento umano moltonaſcoſe; così ayviluppatou fono, e infra lor intralciate le particelle cutte, onde s'in generano:: 0 per la troppa debilezza de'lor movimenti, o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle, o per altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum ſentimusadhæfum Corpore, nec membris incuffam fidere cretam, Nec nebulam noctu, neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes. Così ancor vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura, e la propietà dell'aere, dell'ac que, della terra, delle piante, degli animali, e de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali, in non pochi errori inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate, Teofra 1to,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti, sfidan doſi di poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire, ſenza più addentro vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono., quel ſolamente ſcrivendo ne, che per lungapruova già ſperimentato:n'avevano. H che diè cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia, edell'eloquenza Romana: mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera, qua radicum ad morſus beſtiarum, ad oculorum morbus, ad vulnera; quorun uim, aique naturam ratio nuſquam explicavit: utilitate, con ars eft, &inuentor probatues, &indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum,quod ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit, videmus, quod fatis eft; cur posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti, emedicidi grido, dallapore, dall'odore, e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero, come, o caldi, o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero, onde poila virtù di radificare, o di ſtrignere, o di riſtorare, o d'altro argomentar poteſſero: inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu dicato; e'l medeſimo Galicno, non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada, oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo, dal freddo, dall'u ! mido, o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro, e l'acetofo, ed altre fomiglianti qualità, che ſeconde chia mano. Oltre a ciò, v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno, ne ſaporc, ne altra manifeſta qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù, eziandio belzoardiche, e veleno ſe dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar, che l'acqua ftigia, che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge, cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia? Solola Chimica con ſue pruove faccendio manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed ogni altra coſa conſu R.15 2 mano, fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come dice Plu tarco: e.de'cavalli avea detto Pauſania,, Trogo, e Curzio; ed Eliano delle Corna degli aſini della Scitia; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis agudo E Vitruvio: conſervare antë eam, &continere nihil aliud po teſt nifi mulina ungula. Machi potrebbe mai credere, cheſotto la dolcezza del miele, e dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia diſſomiglianei? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo, nel nitro, nell' allu me, e nel ſal comune s'appiattano; e che nel ſolfo diqua, lunque ſapore ignudo, c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo, c roditore; e che nell'olio delle ulive due fali fi ragunino, uno acutiſſimo, c aſſai valovole a rodere, e l'altro ſoprammodo piacevole, e ſoave; e che l'acqua pu ra, e ſchietta, che continuo ſi beve, e ſembra al guſto co tanto inſipida, ritengi un fale sì fattamenteacuto, e pene trevole, che ben balta egliſolo in minutiſſime particelle a fminuzzare, e ſtricolare quel duriſſimo metallo, ch'alle fiąmme, ed a'fuochi punto non cede; echenelle viole, nel ke lattughe, nelle roſe, ne'papaveri,, e in altre ſimiglianti ierbe, e fiori, giudicati anzi freddi che no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato, ed ardente mícoſo li ftia, dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante. Vanillimi adunque, e fallaci i ſentieri ſono, ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli antichimedici s'impreſero: e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe, cgliè di meſtiere,che pré-. diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri: cioè (viſcerando, e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera della vitaf notomia, la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi veggiamo oggidi a sì bello ſtato eſſer condotta. E quanto sì nobilc,e glorioſo meſtiere per aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo, ben conobbelo il curiofiſla mo Ga. for mo Galieno, allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi, così ebbe a dire: In queſta coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade, e tenterò di far ogni pruova, acciocchè poftafi qualchearte, oqualche ingegnoritrovare, col qua le ſeparar ſi poſſano le parti contrarie nell'aceto, ſicomeſuol farſi nel latte. Macertomala pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto dell'ar te agevolisſimamente s'adopera. Or quat maraviglia fa rebbe all'orgogliofoGalieno,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno, main altre, ed altre molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e profondo eſa minamento de filaſofi, con dar probabile,e verifimile con tezza delle lor varie; e diverſe propietà, le tante, e tanto maraviglioſe operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare. Oltre a ciò lo immagino altresì, che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la Chimica, comeche rozza; e imperfetta aver potut?, 11011 đì -ſarebbe certainéte maieglimaravigliato, come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere, quanta è nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc.- Imperocchè egli con far di quello notomia agevolmente,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe, onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme, e di riſtrignere pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa. Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le contrariope rar mai poteſſe, ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap prendendo d'altra parte alcuni liquidi, e fortili, e.volanti troppo, ch'a qualunque oſtinato ghiaccio ligar non lila fciano: 0 como manchevole, e imperfetto il ſuo filoſofar..conoſciuto avrebbe. Or di queſta nobilisſima arte non meno per avventura, che già ſi ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor d'incognito fonte il nila muove, tra per le tenebre folte disì antica età, e maggiormente per la non poca cura, che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone purcon ritegno, e riguardo, accennandola con ignoti geroglifici,c.con intralciati eniin. mi, e con oſcure allegorie, e favoloſi racconti inviluppan dola:malagevolemolto,e confuſo per certo, e poco mē,che impoſſibile rendeſi a volerne il ſuo primo incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò Gia,.che di sì nobil ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina, o pure alla Fenicia,o all'Egitto, o alla China, o a qualū quealtra parce forſe più ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo, avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica: novum effe inventum della Chimica favellando, nec illius quenquam meminiffe ante Iulium Firs micum; il che pienamente teſtimoniano Euſebio,e Zoſimo; e Suida, c ſpezialmente il Firmico, il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino, pure traſſe le ſueſcritture, come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio, che aveffe la Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι και φιλοσόφους, εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε περί χρυσού, αργύρα, και λίθων, και περφύρgς λοξώς'. ομοίως δε και Μαρία εσ ηγέθε σαν παρ' ο'τανε, ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην. Μa che Democrito ſapeſſe la chimica, ſi può apertamente ve dere in quel che dice di luiSencca in una ſua piſtola: exce dit porro vobiseundem Democritum invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur; le quali parole di Seneca fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca For conto Scala; in facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti Euſebio, che Democrito nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio un tal racco to, aggiunto, untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in Egitto, e ch'eglimorto {ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito; impertanto qualch' altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel nome, da ciò non puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della chimica affai: appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura, las qual ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora:: e'l modo di coporre il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino, e l'artificio veramente maraviglioſo di fabbricare i vetri, e diformar le gemme, e'l meſtier del la milizia, e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco, e neceſſarie al genere umano; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente ritrovare.. Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti gio appreſſo Teofraſto, ed altri antichi ſcrittori: e da qualche medicamento ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte, e da’moderni inge gni ritrovata. Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo. ficio, o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere inſieme i diviſi.. E quantunque ella ſia uns fpezial arte, che da ſe medeſima reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte, di cui dipender debba; non però di meno per li molti, é diverſi fini, in cui gli ar tefici le loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio. no, ella infra varie altre arti ſovente s'acconta;, ma in tre ſpezie principalınente è partita. La primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper fezione (come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien chiamata da’Greci aepurunanida, La ſeconda ſi è la filoſofia,per la quale sì fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico di conoſcere, e ravviſare la natura, e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte. La terza- ſi è la medica, che il mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie, e dell'arie, e dell'acque, e demedicamć ti, e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri: e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano, e di maggior efficacia,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino: e ſi poſſa ad un'ora più felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no, o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle matematiche, o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette; ſe non ſe per avventura dobbiam dire,che maggiore, e più manifeſta utilità recau alla medicinata Chimica, che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e rannodati ſi facciano. Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo colui, che del la Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve, così ſo migliantemente o ſtronomico, o geometra, o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe, che per maggior profitto inmedici na trarre, di sì fatti ſtudi picnamente fi conoſce. Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico, o chimico filoſofante-colui chiameremo, che del la chinica arte, o per medicare, o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole. Madall'uficio, edal fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia, e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne poſſa. E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede, ch'allej naſcoſe coſe Non trova ingegno-umano aperto il varco: chi può mai porre in dubbio, che lo ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i naturali corpi ſono: come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi, comed'orioli; o d'altri ſimiglia. ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del la natural filoſofia, Pittagora, Parmenide, Anaſimandro, Democrito, e altri ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni, che attentamente ſempre facevano nello ſciogli mento delle coſe, che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai ſempre ſi ſtudiarono. Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar l'opinione de'quattro pri mielementi, ſe non ſe di quello della reſoluziou del corpo umano; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito: dicendo, nella carne,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente il fuoco,e la terra, poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi noneſſervi altri menti legno, ne carne, ne in atto, ne in potenza; imper ciocchè le vi foffero, certamente ſe ne ſeparerebbono. E tal ſentimento dalla torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato; a'quali ſeinbra aver aſſai bene ſtabiliti i quattro pri mi clementi, con dire, in bruciandoſi una pianta aver vi, oltre al fuoco la cenere, che è terra, e'l fumino, che è aria: e la groinma, la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua. Ma quanto ſpoſata, e fievole una sì fatta pruova fia,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto in chimnica, cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto, e i difetti di cota le ſcioglimento; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte, e varic favoleſche, oltre a quelle, che per la picciolezza in conto verun çavviſar non ſi poſſono, aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo: ne è da dire la cenere, il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici, e non compoſti, che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano, e inſino a primi ſenſibili componenti fi partano, ravviſanfi compoſti di particelle di natura, en d'operazione diverſi, come quelle, che contengono un'ac qua ſemplice, ed infipida, ſenza altra virtù, falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe, non micno il ſapo Sss re, che  le che la virtù tutta del legno: le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili, ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco, ed a ſcioglierſi nell'umido, ed una ter ra priva di ſapore, e di efficacia. E corale ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare, ma col conſiglio della chimica, poco men, che in tutti corpinaturali adattar puoſli; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto, egli odori dal ſol, fo, e dal mercurio la penetrazione; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo ritroverà, che i ſemi del liquido, e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino; o che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette, o dipiccioliſfimi globi: e che il ſolfo ſia d'uncinute particelle, e aggavignate com poſto. E così pian piano ricercando la figura delle parti celle del fale, è degli altri chimici principj trapaſſerà a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli. Così pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato, po trà chiche ſia inveſtigare,come far ſi poſſano le piovese i grā. dini: come s'ingenerinoi tuoni,i lápise le ſaette:come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il ferro della ſpada,rie manédo illeſa la guaina: come piovano foventi fiate pietre, ſangue, elatte, e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le cagionidelle qualicole, e altre molte, potemo ogo gi col giovamento della chimica, non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare, ma coll'opere, e coll'eſercizio prat tico imitare; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel la fornace chimica; che dagli effetti oro fulminante appel laſi, la quale acceſa, fa non folo lo ſtrepito, e lo ſtroſcia del tuono, ma anche ilcolpo, e la violenza della faeţea; il che fa altresì quella polvere da ' chimici parimente ri trovata, la qual tonante chiamano. Così parimente raccoglieſi dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives, un ſale, chemeſcolato con egaal porzione di ſalnitro,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento, che ac celo li fonde in pietra. Ma di troppo più tempo avrei bi fogno ſe voleffi Io far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per addietro, e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne, e manifeſte. Perchè non è forſe dadubitare, che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo le huom ricevuto, che prima in quella non foſſe alcun té po uſato, e ben lungo vantaggio tratto n’aveſſe; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella, onde Platone, e se nocrate volean, che nel filoſofare non foffero ammelli com loro, che della Geometria digiuni foffero, come teſtimo: niano Laerzio, Suida, ed altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw. Concioffiecofachè la chimica fola il più certo, e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia; edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde,e diamantine porte differrar in qualche modo ſi poffano, ove i più cari, e ricchi tefori deita natu ra fon riſerbati: perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio, e per eccellenza floſofi, e ſapienti coloro, che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per diſcendere al più particolar giovamento, che della Chimica raccor fucle la medicina: Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia,la chimi ca lommamente abbia luogo, e la ſua vital notomia; im perciocchè ſiafi pure coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto, le quali gli antichi ſapicaci ravviſar non poterono; e lungo tratto vi crrarono: e ſap piaſi pure per quella il vero movimento del cuore, e del ſangue: e che il ſangue non s'ingeneri nel fegato, o nelle vene, fecondochè con molti altri, così antichi, comemo derni porta opinion Galieno: ne men nel cuore,ſicome im » magina Aristotele: c ſappiaſi anche, che il chilo tragittiſi non per le vene miſeraiche, ficome vollono gli antichi me Sss dici; 508 RagionamentoStrimo dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue trapaſſa al cuore: e ſappiaſi eziandio, che vi ha le vene acquofe: c come, e per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli: ecento, e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi, de qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi altresì volentieri (il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la notomia già all'ultima mano ſia giunta; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire, o fa pere:non per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede; anzidopo tante, e tante fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del corpo umano: utiliſſima certamente, anzi neceſſaria a do ver ſapere; ma non baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare, e mandare avanti una verifimile razionalme dicina: per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro, ele probabili ragioni delle coſe, non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice racconto di quelle. Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo umano quel medico, il quale non potrà render ragione della natura della generazione, del movimento delcuore, del ſangue, del chilo, degli umori acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano, c della propietà,e operazione di ciaſcuna di quel le; le quali coſe inveſtigare impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere; per virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa, e de' peli: ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa, e di peli, uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia: perchè dic'egli, che l'oſſa più umide, c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili ſi traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo, & unifor me licore, che chilo appellaſı; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento, e'l ſuo calore, cioè aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento, over disfacimé to decorpiſolidi, in virtù di convenienti liquori; la gene razione della bianchezza nel chilo, e del roſſore nel fan gue, alla trasformazionedel colore nel latte vergine, e nell'eſſenza del fatirione, e altre ſimili coſe; la continua produzione del calore nel cuore, e nel ſangue: al fervore, che per la formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve. getabili. E cotanto montano per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo intor, no alle malattie, a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre faccendo delcorpo umano, coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi, fe minutamente les dette coſe, e molte, e molt'altre per virtù della Chimica in prima diligentemente non s'inveftighino, le quali tutte lungo ſarebbe al preſente volerle quìfil filo narrare. Ma non men utile, non men giovevole, e neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le egliponendo ad una rigoroſa, e ſottile eſaminazione l'aria, le terre, l'acqua, le piante, e gli animali, eimine rali corpi, attentamente poine ſpia, e ne conghiettura la natura di ciaſcuna coſa; e di qualunque lor menoma parti cella le propietà, elevirtù, ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e ſimili conghietture ravviſa. E nel vc ro queſto, che ciaſcun di noi, e tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda, penctra, avviva, emantiene, valtiſ fimo, e diſcorrente, e lieve, e ſereno, e ſottiliſſimo cor po dell' aria: la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate, e minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem, plice corpo, come il volgo follemente s'avviſa;ma di varie, e diverſe ſoſtanze compoſto inſieme, emeſcolato. Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora, edall'acque, che quella, irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da altri corpi superiori vi piovono; per li qualil'aria, o più, o menoalla reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè nelle cimedegli altiſimi monti, ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua, e della terra, gli animali fi foffogano; perchè poi in coloro in varie guiſe le malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris Corrupto cæli tractu, miſerandaque venit Arboribufque,fatiſque lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme, e nell'aria coufuſe aſſai malagevolmente per certo, aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono, ſe non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti. Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo,quelnobilif ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui nel mondotra noiſimuove, & fpira; che perciò egli vitale l'appellasper cui l'aere non ſolamente agli animali,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria eller li conoſce; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli, allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena vigare; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia, cioè folvå, e precipiti giù quelle ſoſtanze nell'aere, che'l ren dono mai atco alla relpirazione. Ma l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole, quantunque chiariſſima, e traſpa rente, c pura a tutta poffa fi ſcelga, eli proccuri; e che al fapore, all'odore, e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano, ſe ne cava ancora un tal ſaie sì fattamente acuto, e pugnereccio, che JEI che di nulla ha che cedere in forza aque'ſali,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie, comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo, e oftinatiſſimo mai ſempre contraſta; perchè è dacredere nó bene operar coloro, che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo, e maffimamente di piomboagli ſpeziali permet tono; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro, vengonoinſieme a corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua, che ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua, e a guiſa di latte biancheggiare, quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice, e non diſtillara acqua ſimefcola; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò, oltre al ſale, il ſolfo altresì, e'l mercurio, e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo medico, e chimico filoſofante Borricchio. E che diremonoi de ſemidi tantis e tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano: il che diede per avventura cagione agli Egizzjdi giudicarla primera, e univerfal materia ditutte coſecreate, da'quali tolſe Ome ro a dire: Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι τέτυκάι. Ωκεανών πεώτG», καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege TyIwTHEY, E’I noſtro poeta, per tacer Virgilio, Catullo, ed altri, ſe. condo il medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta: & vanti La reggia, ei figli ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede,èfama antica L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc Mileſio, il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius Thales, aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli, come fasſi a credere Ariftotele, effer umido, così il ſeme, onde s'ingenera l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica: e dal credere, come riferiſce Plutarco, il ſole, e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca, ed in ella diffolvafi, comc racconta Euſebio. Malo immagi. no, che Talete non già principio delle coſe abbia voluto eſſer l'acqua, ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e, forma quella materia, onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte d'Efiodo, allor che dice, il caos d'Eliodo, altro non eſſere, che l'ac qua. Ma non men dell'acqua, e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre, c con attentisſima eſaminazione conſide rarle, ove certamente infra tante, e tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe, e varie ſorti di minerali' ritro varſidagli; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria, o l'acqua, o le piante, o le frutca, nuove, edi verfe guiſe di malattie ſovente cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda, quelle gravisſime febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano, ſe non ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro corpo, e dall' aria, ed all'acqua, e da' cibi quivi racchiuſi, e ingozzati, ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime malattie; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu gli alitį arſenicali, vitrio lati., nitrofi, e ſulfurei dalle occulte miniere della terra, rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute; concioſ fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ravvifarido, come alcune ſoſtanze, le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno, come nel ſolimato ſi vede, del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini, pofſa produrſi nel cor. po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino. E ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella, che ci dimoſtra, ivi avvenir le malattie di cambiamenti d'aria, ove ravviſa fi maggior varietà diminerali, ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente; ne da altro, che da aliti velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi, e a’villaggi tutti, fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade. Ed abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti, e quanti da sì fatte cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial febbre, laſciò vuoto, e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio, ed altre terre,non ſolo della Campagna Fe lice, ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro. Ed è egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura, e la propietà de'cibi, e de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano; conciosſiecofachè quantunquc vero egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta;che i ſapori, e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi, e ſicuri ſegnali della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono, che poſlan ſempremzi ben comprendergli, egli ne fw certamente meſtieri per iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermetica notomia, la quale partendo i corpi, ed eſaltandone le qualità (per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa. E quale avviſo potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a que'cibi,e a que'medicaméti: che pur ven'hà molti: edanche intorno a que'veleni, che privi affatto,e ignudi d'odore,e di ſapore,e d'altre ſimigliá ți qualità, di tanto vigore, e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper pruova, qualia danno, c quali a prode gli huomini, chc nulla più? E quale argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche. rate in prima, come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato, e la lingua, e poi tranguggiate, nello lo maco formentandoſi, le viſcere, cgl'inteſtini crudelmeute, n'offendono? Coſa,la quale nel zucchero, e nel mele, e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al guſto, a la ſaluteè rea; perchè facendo le beffe a' volgari medici il motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato altrui diſtempre, E’n collera ſi volti; a cui l'amaro Danno coſtor, che fan tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno, e raro Maſtro Simon ftudiandoil Porcografo Scoperſe a Brun, che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o Babualo, Edì, fe'l mele in cullera ſi volta, Segno è, che d'amarezza non è caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele, e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi; pure de’lor falli agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte, e dello ſpirito del nitro dicimile: Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino: nibilominusin tanta dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi, qui ubi exaltantur, & ad extremitatem ducuntur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale. tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq;faporismeile Corroſivă peffimü, atq; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato, e ſciocco, e giudica pur dalle qua lità, ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della natura; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete, ch ' accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche agl'Idropici più ane lanti la fete. E che direm poi del pepe, che così mordace; e pungente, puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde? E che d'altre, e d'altre pruove infinite, che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi volumi, non che piccoli diſcorſi di ragionamenti? Sarà dunque da con. chiudere, che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del mondo ci adoperiamo, pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge, c riſolve, e diſtinta mente elaminandone le parti, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita, e le operazioni, e'l convenevol modo di farlo, certamente chiunque ciò follemente intende Ne l'onde folca, é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il Cardano,che col lim. bicco, e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non poterono, o Ariſtotele, o Galieno; e ciò fu, che nó fappiendo coſtoro la cagione, perchè cotanto noccia il vi no,maſſimamente generoſo, e pretto a colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico (sõ ſue parole) nõ cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus id eveniat: neq;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo tamen non convel tuntur. Caufsa ergo eft aqua ardens, quæ in illo continetur: que quum latuerit Ariftotelem; & Galenum, meritò in Aris fotele admirationis cauffam præbuit, in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem abundantior, quo vinum craf Ttt. 2 pius eft. Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe meglio inteſo nelle faccende della chimica, aurebbe certamente una aſſai più veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta, e avviſata: im perocchè oltre allo ſpirito ardente, che giova anzi che no al mal caduco, evvi un ſal fiffo acetoſo nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe, del qual aſſai più, che dello ſpirito ardente egli è il vino groſſo abbondevole, e copioſo. Ma intorno alle fattezze, così dentro, come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le vir tù dc'ſemplici, non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo, ch’lo tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal Paracelſo, e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino, emol to de’ſegreti della natura intédente Gio: Battiſta dalla por, ta. Maniuno certamente ha, che con maggior diligenzas per quel che me ne paja, e più felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo Elvezio, E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo, non però di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare. Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto; imperciocchè negliannidell'oro, e nella felice etade, quando i pomi, e le ghiande Eran del corpo umanlodevolpaſto: nelle ſemplici piante la germogliante medicina ſolamentes confifteva; e allora non men che le ſchiette vivande, i me dicamenti ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo, e comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre per lor biſogne avvedutamente propoſe ro; quindi tra perchè non ſi fapeva, o non ſi potea purlaw parte nociva, è inutile dalla buona ſeparare, e anche per chè così diviſe, debile molto, e sforzata la parte medicinal He rimaneva, qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giunſero valevole ariſtorare i mancamenti, e i difetti del la prima, é a far sì, che quella nulla, o poco nocer potef fe; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe, quindi la ſua virtù notabile mente avanzar nedovefle. Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme, e meſcolarſi i medica menti; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta to la biſogna, ſe già tanti, e tanti indiſcreti, e ſmo dati medicinon aveſſer quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina tota, con ac cozzare inſieme; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la medicina, o più malagevole, o di maggiorpregio al mondo; e componendo inſieme una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo, e inviluppatiſſimo guazzabuglio. Cofa, la quale ſommoſſe i più faggi, e avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα, και βοτανικα, και θηeμακα, και τα από γής, και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy, og díxua, και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε. ΜαEragrafo biamo ol tremodo l'indiſcrezione, e la curiofità di coloro, che i minera Li infieme, e le piante, e gli animali, e ciò che mena laterra, o naſce in marein unomeſcolarono; che più fennd af'ai avreb ber fatto, fe daparte laſciate cotantecoje folamente co’farri, colle zucche, e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum,&ingeniorum capture officinas invenere ifas, in quibus ſua' cuique homini venalis promittitur vita. E chi non maraviglierebbeſi di tante, e tante coſe, ch'a com por la Triaca, o'l Mitridate, concorrer debbono, dan ftancare i ſpeziali,non che a raccorle,maſolamente in leg. gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove il medeſimo Pli nio, vocatur excogitara compofitio luxuriæ; fit ex rebus ex ternis, quum tot remedia dederit natura, quę fingula ſuffi, cerent. Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur, interin nullo pondere equali, & qua. rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata. Que Deorumperfidiam iftammonftrante? hominum enim fubtilin tas tanta effe non potuit. E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim perciocchè nel comporgli da prima, e nel lavorargli non con avveduto, e ſano giudicio certamente adoperarono, ma a riſchio, e a caſo alcune di quelle coſe togliendo (che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb. bono anche dell'altre, e forſe con maggior ſenno, più ef ficaci aggiugnere)il tutto e nella ſceltage nel povero,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente alla ventura riniſero, non guardando minutamente comeſi richiedeva, al valor di quelle, ne punto efaminandole. Impreſa per molti ca pi malagevol troppo, e quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi,nel diſporſi, e nel formentarſi inſieme i sé plici,varj, ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne foglio 110; iqualicertamente non è da dire, ch'aveſſer mai que primi ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli, così nõ meno il caſo an cora ha parimente portato, ch'il Mitridate, la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante compoſizione, giovevoli, ed effica ci rimedi per molte, e graviſſime malattie fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia, manifeſta coſa è poterſi molto be De l'antico ufo rinovando, colle ſole piante medicare; la qual forte di medicina, dirò con Adriano Turnebo,huom di varia, ed eſquiſita letteratura: fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft,quam illa confuforum miſcellanea compo fitis; magno mortalium, & difpendio, & damnointroducta. £ noi per tacer de' bruti animali, che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil Caritrero, famo filimo medico Tedeſco, con ufar medicando le ſemplici piante, non ordinaria lodå guadagnoſli; e i popoli inge gnofillimi del Braſile,iſicome riferilce Guglielmo Pifone, medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis fimplicibus utuntur, noftraque derident, quia compofira; e degli abitacori del Mellico, Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj, così dice: los Indios fon grandesberbo-, larios, ycuran fempre con ellas, demanera, che cafi non hay enfermedad para la qual no ſepan remedio, y le den:ya eſtacaufa viven muyfanos, y cafi per maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma: ed in quel va ito, e quaſi immenſo tratto dipaefe della China, comete ſtimonia il Padre Matteo Riccio, fi è medicato permolti, e molti ſecoli, e ſi medica tuttavia, ed aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe. E certamente come la natura delle ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta, Nam varieres Vt noceant homini credas, memor illius eſcę, Que fimplex vlim tibi federit; at fimulaffis Miſcueris elixa, fimulconchylia turdis; Dulciafe in bilem vertent,ftomacboque tumultum Lenta feret pituita: vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia? quin corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo divineparticulam aura. Così anche ſchietti, e non compoſti medicamenti per riſtorarſi richiede; perchè Plinio: non fecit, diffe, ceraia, malagmata, emplaftra, collyria, antidotaparens illa, ac di vina rerum artifex: officinarum hæc, imo veriusavaritia commenta funt. Pure, poichè la coſtuma de’meſcolati, co me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata, che per legge è quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle botteghedegli ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare: convenevol cofa egli certamente, anzi neceffaria mi pare, dovere il medico degli unis e degli altri piena, e ficura contezza avere; e oltre a ciò nelle ma niere del lavorare i compoſti medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato. E certamente, o quanto farebbe egliil migliore, ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa, po • neſſe in opera, e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del danajo, e per la loro ignoranza il tutto traſcu rata:  1 1 ratamente abborracciaffero; o almeno lavoraffcro imedici qualche medicamento dimaggior conſiderazione, laſcian-, do ſolamente in man degli ſpeziali i più volgari, e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di Galieno ) Archigene, Andromaco, Apollonio, Critone, Pacchio,e altri famoſiffimi medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole, e aobil meſtiere; an, zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi, come e'medeſimo ne fa teſtimonianza, e molto addie-: tro ancora, il meſtier delmedico da quello dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole,medie cine ſolebat:ene'répia noi più vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati molto ſi foffero, e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro: come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente ſi può cópren dere; a cui Bruno dicea: e ſappiate, che quelle camere ſono nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra, quando voi fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin mamente coloro, che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano. Ne dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice Primeroſio, remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis; præftantior igitur medico erit remediorum natura: quare ea præparare, &componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero egli è queſo un meſtier sì nobile, e lodevole, che non che i filoſofi di mag gior lieva, e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero, e l'a veſſero in diſpregio, anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee ser deeimedicamenti,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini l'adoperarviſi; come potrà giammai, quan tunque faggio, e avveduto egli ſia ', porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene, uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere, e gli artifi cj, co’quali ſi compongono? iinperciocchè l'efficacia, e'l valor di quelli dal niodo dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar de'ſempli ci, de'inodi, co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e tramcſtare? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato, ebazzi cato con gli ſpeziali nelle botteghe loro; & quidem exifti mo, dice anche Pier Caſtelli, oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum: alioquin fore, utfere fem. per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari tornando, onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica, quanto al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe; poichè ſi ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re, come potrà inai quando meſtier glie ne ficcia, o colle fue propic manicomporle, o adoperarle, o conoſcere al meno, c riparare aldanno, che quelle aveſſero per avven tura cagionato; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero, raffermare i loro sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà, che ſi convegna per lo miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico, ſe non ſe intendentistimo della natura, e delle propietà delle parti, chic’lcompongono, e degli effetti ancora, e del mo do del loro operare? E come potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una, o d'altra malattia; e divi. farle ſtagioni, e itempi, in che fan da dire, c alle conj: pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli? o comcpotrà mai loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità: 0 temendo di qualche riſchio rin Vuu tuiz Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la troppa violenza, o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di preſente ſoccor rere; o toglier lenoje, ei fastidi, che ſovente ingenerar ſo gliono? Non è certamente cosìagevole, ſecondo i ſenti menti del medeſimo Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui, cui conoſciuta in priina, e manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli effetti n ' avvengono. Or che di grazia avrebbe detto Galieno, re: qualche contezza pur delle chimiche medicine, comechè leggeriffima, gli foſſe all'orecchio pervenuta? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere, e malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio, cavvedia mento maggiore; e non che piane,e facili, e ſenza trop po riguardo giudicate l'avrebbe, ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare, e da troppo più, ch'a popolar medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im, perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri lor ſeguaci, che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero, comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti; ne dalle rego le, che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè, ficome è detto, in quelli ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri.Ne quelno biliſſimo pronipote del gran Re di Damaſco, Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica medicina, e in quella di Ga lieno, maſſimamente intorno alle purgagioni eſercitato, n' avrebbe mai conſigliato, cſfer ſempre da leggere, e ſtudiar ne’libri de'fapienti (cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci apparare:netanti, etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. qual legge ſeguito c, con molta fatica ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono. E licomc ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére eſercitato, ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella,e ſorprender Città:dimine, d'archibugj, di bombe, d'artiglierie, e d'altri nuovi, emoderni ſtru menti, ed ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro, e intendentiſiino di quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando, o per offefa, periſcherno da adoperar ſiano: così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro compiutamente quanto mnai nell’: antica, e volgare fcuola diGalieno apparar ſi poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono; ma egli fa di meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata; imperciocchè fe così sfornito dell'arte, e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa çotanto matta, e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo orgoglio; e rimettendo il medicamento al Izventura, e alla cieca andando, a manifeſto, e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà. Così quella famoſa ſci mitarra diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota, la cúi memoria ancor teme, e trema l'infedel popolo ſaracino, diceſi, che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue glo rioliflime pruove laſciate aveſſe: ita plerique medicine, dice a noltro concio Teodoro Chercringio, chymice præſertim, aut mortue,aut (quod deplorandum magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no verit eas tempore, &loco adminiſtrare. Così anche dopo l'infelici pruove per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano, lo dico,ritornato in Damaſco fu qui vilungamente ſcherno delle femmine, e de'fanciulli. Ma tanto più da piangercè, comechèdirifi ancor degna ia,la Vull liioc ſciòcca tracotanza dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine, quantunquc ſicure, e piacevoli quelle ſieno, pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati. Così il dotto Galieniſta per altro, e avveduto molto To waffo Eraſto collo ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura, e l'uſo di cotal medicamento apparato; che ſe egli dal Severino, dal Penoto, dal Dor neo, o da altro profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe, e pienamente conoſciuto come, o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia, certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe, che nel medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha guari un credu to, e molto ſtimato Galienifta, il qual collo ſpirito fimi gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori, fi era riſerrato il perto, infelicemente ſtrago Jandolo licciſe? E piaceſſe pure al Cielo, che per l'abuſo di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte, e molte perſone morire. Egli è coſa troppo mani fefta, ſe pur merita fede la ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc, e roſe ritrovaronfi. Ne giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo con ritegno, e riguardo, e ſcarſamente uſar lo, teinperandolo anche talvolta con acqua, o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più, e più volte co minciapianamente ad operare, ea poco a poco rodendo, infin le tuniche del ventricolo, ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora. Così talvolta al continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et leviter quamvis quod crebro tunditur ietu, Vincitur in longo ſpacio tandem, atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia cevole ſi ſperimenta, che ben felicemente a'fanciulli anco:. ra da Del Sig.LionardodiCapoa 525 1 ra dacolui, che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli.? E ſe'l vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato,ben da colui ancora il ſuo ſpirito vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem angularem in officinis pharmacopoeorum; avve gnachè cotefto ſpirito, che comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa, non fia veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più groffo, e di minor virtù, e giovamento di fuello.: ! is Ma per ritornare a' grofliffimi errori, ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè faggj, e av veduti, talvolta ſmucciare, egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto fcioccamente, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di Galieno, Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta, e cotanto nella lottrina del fuo maeſtro eſercitato, Aleſſandro Maffaria? vvegnachè più toſto da pianger fiat, che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti, e funeſti, che ne fuguono. Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne cosìinfelicemente favellato, venendone all' lifo del darlo, e diviſando in che quantità da dar fia,in und fua cotal ſciocca ricetta,cosi ragiona: Recipe antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori, o del gruogo, o del vetro, o d'altre, e d'altre molte medicine, che foglion farſi dell'antiinonio, abbia intender voluto? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più. Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del fale del vitriolo vomitivo, cheda piacevoliſſimo chequel, loè, facendolo fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato, ed al vetro dell'antimonio, lo riftrigne, eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo. ſparmia a nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella digrano. Ecco d'altra parte il più illuſtre, e famoſo medico de'ſuoi tempi Guglielmo Rondelezji doftar forte, e temere, non la raſchiatura del dente del Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo certamente egli involto non fareb be, ſe nella maniera del filoſofar de chimici in medicina baftevolmente avanzato fi foffe; concioffiecoſachè cota li rimedi per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo; il qualpenetrando, e trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene, e nella punta s'accoglie, eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così aper ta, come occulta,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora la inateria tutta inſaccata. E ſe cotal via di filoſofare quell'altro famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe,certamente, che ne anche eglicosì ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma latiil.corno del cervio. Ma come, o in qual guiſa a sì no bilmente filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi i tondi, c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane, e più manifeſte di quellow, anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive? Egli non può narrarſi certamente ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica va lo ſcoppio, c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire: e ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti, che il Macſtro Simon fi faceſſe, quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari ini corſo andava. Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro, cujus fi granum unum, aut duo carbone defuper lentè ac cendas, bombardam minorem fonitu aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia;&contradicendi ftu dium; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat, ctſi oma ninò effectus evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſam refert: dignum certè hac patella operculum, & hoc philos fopho hæcphilofophia., Egli è dunque da conchiudere eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica ſon propi, e che per opera diquella, e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi compongono; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi conviene; che co me è già detto, così pericoloſi ſono,e da temere inmaneg giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re. E concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare, e d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi, che per regole d'ordinaria medicina non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti, detti ſpecifici, i quali convien fenza fallo, ch'a chiuſi occhi, e ſcioccamente lavori, e maneggi chiunque del meſtiere, c del modo del filoſofar de Chimici non è bé dottrinato, e intendente affui; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica della medicina, così brevis ce ſecche, ecalor confule, e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano, che per im broccarnela quantità, o'l tempo, o la maniera d'uſarle, o le malattie, nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente, e ſenza fofpetro alcuno l'adoperar lc, e ſervirſenic calora, dove lor faccia meſtieri, con effer in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben penetra ti; e per quel che permeſſo ad huom ſia, con aver le loro qualità baſtevolmente compreſc. Cofa, la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me dicamenti naſcer poſſono, pur troppo è a ciaſcun manife fta. Ne è già punto maraviglia, ſe gli arditi, e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno: ſe come è detto, anche nell'adoperare i. Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando per l'incertezza,quaſi ciechi al bujo; e in quelli maſſimamente, a’quali dan nomedi virtù occulta, cioè a dire di ragion no conoſciuta, e non punto da lor compreſa, credendo così la lor groffezza, e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura dc'mali, e le cagioni, onde avvengono, ſicome con avveduto, e probabile divi famento fortilmente ragionar ne ſanno, così con loro no bili, ed efficaci argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano, degni d'immortal gloria, ed'eter na fama ſirendono..., mily Magià baſtevolmente dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica: a divilar de' chimici medicamenti, e quanto ſovente ne lian neceſſari. trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo, pur dubito, non alcuni dannā- ) do,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano. Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere mancava? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per, ogni menomacagion le vene; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti, e altriricroyati di barbare, e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento, e la virtù di ravvivarlo, e di riſtorarlo alle liquide: uſar le ſcamonces, gli elaterj, le colloquintide, ilatirj, i pepli, gli Elleborin, iTurbitti, iMezerj, le ſquame del raine, le pietre lazule, e tante, e tant'altre forţi di nocevolislimi veleoi più ches, di riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina, ſe non vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati, i mercurj divita, 0 Alcarotti, come altri gli chiama, i verri, i fiori, e altri cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio,del vitriolo, del mercurio, o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale? Deh piaceſſo pure al grande Iddio, che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodotta la medicina; o almen, che non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata, e delle nuove, e ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta: che mé malcerto ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te; e gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino, e ſudina a gara per imprédere un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco Teofraſto, non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato, ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte,buo giudice in sì fata te coſe,da’medeſimi minerali; che continuamente e' manego giava; dal cui nocevole, e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto. Così anche a ' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli ſpiriti del nitro, e del vitriolo, e da altri minerali do po continuo tremore, ch'e' n'apprefe, e dopo lunghe, e gravi malattie miſerabilmente alla fine morirſi. Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui, che quaſi cibi inno centivolentier gliſi tracanna, fe cotanto nocevole, e dan noſo è l'avergli ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo i medicamenti delle parti inutili, e nocevoli ſpogliare, e di rendergli benigni aſſai, ed efficaci; ma per tacere, che alcuni di quelli (e'l confeflano comechè mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli, e ſpotſati, e di niun momento dal ſuo maneggiar diventano, parecchi, e parecchj (coſa la quale certamé te è peggio aſſai, e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in prima erano, o pur tali ſi dimoſtra vano, rendegli la chimica col preparargli non altrimenti, che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali. Dica pur queſta nobiliflima Città: quanti, e quanti nel tempo della paſſata peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel velenofiffimo ariento vivo precipitato, ch'angelica polvere allora chiamavano, pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura dubitonne alcuno, ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet medicamento, o per la medeſima peſtilenza mancaliero. Edo quanti, e quanti alla giornata veggonfi privi di vi ta, o cagionevoli reſi della perſona per opera di chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i quali dalla noſtra natura affatto rimosſi,altro mai, che dolori, noje, malattie, e morti recarnon poſſono. Odafi per Dio ciò, che di coteſti Chimici, e della loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto, l'eloquentisſimo Cortino, il ſot tilisſimo Riolano il padre, e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi, e mandi giù l'acutisſimo peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio; e ſopratutto ſi riguardi a ciò, che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti tutt'or querelando ſi dica, e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi ſcagliano. Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole, c dannoſo me ftiere, e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel vero, e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo dell'Alcarot to vietarono; e ſe ſono, e con ogniragione, da' noſtri fta tuti proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili, e d'altre ſomiglianti arme,come nocevoli algenere umano, quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore, e della perſona pur buone fiano; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie re, emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante, allor più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano. Sono o Signori, sì fatte querele, e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente adoperari; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e troppo cre dula gēte, fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri ammazzar fogliano, e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole, da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa lamente volmente gli biaſima; e con torti, evani giudizj ſovra i chimici, i misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E parla più di quel, che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te degl'infermi: non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo dilui, o no v'era, o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de Greci,colla medicina la Chimica. Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar la violenza del inale, ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano, ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi riverſa; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò, che per argomento umano imposſibile ad operare. Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici da prudente huomo, e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati masſimamente da altri medici per malavoglienza, o per nimiſtà, ficome di ſopra baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri,ut alius in alium culpam refe rat. Ne già è mio intendimento, che di cocal quereia al cun de'noltri medici al preſente fi punga, come a ſe pro piamente inveſtita; perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni medici; cben ſo, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene, c onorati affai, e di qualunque gran loda dignisſimi: avregnachè talvolta pur alcun di loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL. già per altio, e permalayoglienza, maper troppa ſua dab benaggine vi falli. Pur male a noſtr’huopo comincia tal volta leggeriſſimavoce, non ſo donde, o falſa, o vera, ch' ella fiali, che roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla bafla plebe, e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia, anzi tal volta ſenza ſaper come, o quando, c da chi cominciata ſia, volentier la s'inghiottono: & fepè etiam quod falſo creditu eft, veri vicem obtinuit. Perchè poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico, che non che viſitato giammai l'aveſſe; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar ch'a’miſerichimici maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori, e più gravi dan ni da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che da’Chimici; e pure quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non alla dappocaggine del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario, laſciata dw parte qualunque altra cagione, folamente i chimici medi camenti s'infamano; maſtimamente per coloro, i quali nul la fappiendone, come di nuove, e non conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono; follemento mai ſempre,e in tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito:fuper omnibus negotiis melius,atq;rectius olim provisü:et quæ cuvertuntur in deterius mutari. Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe, intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e comunali medicamenti talor fer virſi; che pur diquelli il vulgo ignorante teme; dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine, comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ', tantoſto alla cieca, e ſenza tema alcuna le fi tracannano, volendo pertinacemente anzi che a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora ſciocchi Galie niſti, cui ne men per nomequelli conoſciutiſono: non che ne ſapeſſer mai le qualità, e glieffetti, che ne'corpi umani quelli adoperar ſogliono. Non niego però, che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer agevolmente creduti, eglino medeſimi talvolta la ſi procaccino, quando o per ſoverchio dicompasſione, che han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover gưa rire gli abbandonati da'Galieniſti, ambizioſi s'inframmer tono di medicare i diſperati, e voglion quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca géte n’aſpetta pur le ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i mira coli; quando forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la creſcente malattia attutare, con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti; perciocchè Principiisobſta: ferò medicina paratur, Quum malaper longas invaluere moras. Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio, e alla cieca gli ammalati, malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e cacciato il Chimico,e i fuoi rimedi bia fimati. E a tal fegno pure giugner veggiamo la iniquitoſa malizia d'alcun medico, che di quel medeſimo infermo, cl egli ſpacciato in prima, e già laſciato aveva, attribuiſce poi difpertoſamente altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc, che colgruogo di Marte un co tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio, e corrorto, e com'egli medefimo narra, già moribon do, e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio,che non foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei, che già reputādofia vergogna il falvaméto,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano: Ha buon ز occhio, buon vifo; buon parlare, Bella lingua, buon / puto, e buon toffire; Queſti fon ſegni, che non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro onore, S'egli ufciffe lor vivodalle mani, Avendo detto, egli è Spacciato, e more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare infermidiniuna ſperanza, danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a prender cura di malagevoli, sfidate malattie, ſe non vogliamo pure guadagnar titolo di cattivi medici; e anche avviſa Cello, prudentis hominis eft, eum, qui fervari nonpoteſt, non attingere: nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi, quem forsipfius peremit. E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro niuna ſorte dimedicaméto, per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati di minor riſchio giove voli ſono. E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet ti: prudentis medici, dice, ef,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare;ne hominem occidiſſe, quifua forte interitu rus erat, exiſtimetur. E che direm noi di que'chimici medicamenti, che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano, che dichimica, ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente, anzi abborrare i rimedjchimici, cheda'Ciurmadori, e da Cerretani, edas viliflime femminelle uſar pubblicamente ſi veggono, e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te li ſpacciano, e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali, e da’medici per diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor s'imprendono, e teme ruri. rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli ordinare, e lavorare alla cieca. Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne, e di cotanto riſchio: certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono, e veggonfiatcriſtar le caſe, e le famiglie, non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono, ma color ſola doperano; non altrimenti, che ſe ſpada, o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia, non n'è lo ſtrumento da accagionas. re, ma la follia ſolamente dello ſcherano. Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare, e ſpezialmente con argomenti chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa luogo; che le malamente s'adoperano, maſſimamente le purganti medicine, ove il medico non abbia in dandole riguardo al tempo, lità del male, all'età dello infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal ne capiterà: Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto tempore vina nocent; Quin etiam accendas vitia, irriseſque vetando, Temporibusfinon aggrediareſuis. E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in corpo per traſeutaggine, e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne, le roſe, le caſ. fie, e anche l'aloé, di cui non ſi trova al comun parere mę. dicamento più innocente, e benigno? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento, e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne, qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte, ſe coluimalamé te adoperandola l'ammalato n'uccideffc? Certamente niu. najper. alla qua: 51 na;perciocchè come Ippocrate medeſimo, e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora ſon peſtilen zioſe, e da non uſarſi; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio, che il guadagnar tempo con iſchermi readagio, e tenere a bada la foga del male, ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine, masſimamente gagliarde; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli n'andrebbe cof peggio:neq;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello, ir malis magnis eft,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat, porrigaturque in id tempus, quod curationi locum pre Stet:così parlavano que'buoniantichi, che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo, ſenza ſtarſe neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo, che non è dalla natura forſe per venir giammai. Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato, e quaſi abbattuto il Bor go Sant'Antonio,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique' poveri infermi, che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé. za rimedj la lor vita ſerbaronſi. E per cacer d'altri, il me deſimo anche eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo, e di riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi, e non debitamente maturati, certamé te il medico ne farebbe da biaſimare, non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti d'Ippocrate, e di Galieno s'inframmet. teſſe di purgare ammalato, in cui fian crudi gli umori ſex 2:2 en za enfiamento alcuno: in morbis quoquenihil eft magis peri culofum, quam immatura medicina,comechè non medican-. te, avviso Seneca; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce maggiormente farſi a conoſcere il danno, che dalle purgagioni, oltre al convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo, e di maggior riſchio fiè il male; concior fiecofachè nelle lievi malattie, che molto non piggiorano dal ſuo naturale ſtato l'inferino, poco nocimento ricever, certo egli ne foglia; perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì poco cagionevol della perſona coluinerimane, che nulla il medico quan tunque accorto, ed eſercitato Gali, comprender mai ne puote. A torto anche vien biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna, o s'altra al mondo è più vaſta, e più folta ſelva,tã ti alberi, tante belve, quanto ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra,madagli animali anco ra, e dalle piante abbondantemente i rimedi ſi formano; perchè troppo ſcarſa, e mendica pur ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza; perciocchè quanto cuopre il Cies: lo, abbraccia l'aerc, nutrica la terra, e'lmarchiude, tutto alla Chimica giuridizion ſoggiace: e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali; concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi vitrioli, i fer ri, i rami, e gli argenti, c gli ori, e le gemme, comcchè di queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi, non già i inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra, c tronchi, e frondi, e ſughi di cento, e mille infra lo ro diverſiffime piante, e anche tutte parti ſalde, e diſcor renti di tanti, e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica 538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie, e tante guife ordina, e lavora.: Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi,e s'affarichi, è per huom da tacciarne: anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico; concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti, comealcun di loro follemente ſognoſli, veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai manifeſto egli fi è, anche antichi, che liberamente, e fenza niun ſoſpettomettevan gli in opera, e così fchietti, comecon altre coſe meſcolati l'uſavano; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei: maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama del rame fovente fi ſerviſle; e Dioſcoride no conſiglia, e conforta a dar per bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il mercurio: e ancora a' dì noftri nella colica, e ne'vermi, e in altri ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime, ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno;e ſe fra’minerali v'han di que', che velenofi fo no, ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili. Maſe egli avvien mai pure, che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano fpoffati, e debili, egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma de’poco av veduti artefici, e de’medici, i quali intendenti non ſono delle chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun preparamento fiano da porre in ope ra, e quali gli richicggano. E ſe divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre ſalucevoliſ fimi antidoti, ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere, e frane. E ſe'l precipitato, e'l ſolimato, che potentiſſimi veleni ſono, cavanfi dalmercurio, e da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare, ne i chimici medeſimi, che gli compongono; concioffiecofachè anche l'oppio, e altres molte comunali medicine, avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539 noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino: e ne balti ſolo al preſente fapere, che ciò non, lia ſpezial biaſimo della Chimica; e ſe da quella i pre cipitati, ci ſolimati fabbricaronſi al mondo, no fu già,per chè s'aveſſer quelli ad operar mai ad uſo alcuno dimedici na, ma per altre, e altre biſogne; ne perſona ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò;perchè ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato, il qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe Empiricorii fecreta, quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant. Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra: nci, e rimoſi, dovrà ciò darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo, dovrebbervi eſſer a parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila pietra lazula,e l'oro, el’ematite, ci giacimi, e'l bolarmcnico, e le pietre giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano. Ma lo per non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā.chio là dove d'un cotal balordo, che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli al ſuo Oiſtio ſcrive: oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata, ideo quia non iis alamurfed; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque pleraque. Quænos alunt impura ſuntimnia, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt,fed quotidie agunt in balſamum na turæ, cum corrumpendo in fenium; labefactatis viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus; fed fixio illa in fixa; mineralia figuntſpiritus, purificant, & exaltant. E prima di lui Avdrea de'Mattioli, così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe: ibi tum alibi, tã in chronicis morbis eſt ani: madvertendum, ubi tota malafanguinea in univerſo vena rum ambitu corrupta eft, & referta multorum morborum fe Yуу 2 minariis, tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che di chi mica pienamente non ſi conoſca; il che noi baſtantemente altrove dicemmo. At qui, dice egli, ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi aggrediuntur, ii ple rumque re infecta cummagno dedecore, & fui, &artis me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis. Et fanè certum eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt, metallicis fæpè, &malè præparatis, & malèadhibitis uti; verum ut jamfupra dixi mus, eadem eft materia, & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm Chimici, quàm vulgaris; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne. Nonne maximè probanda eft ars illa, qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata,non integra exhibet? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo, elfal comune alla giornata ufarli, e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi; i cui fumıni certamente, come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni fono. Pure non è coſa cotanto utile, e gio vevole al genere umano, che nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem. Igne quid utilius? fi quis tamen urere tecta Cæperit, audaces inftruit igne manus. Eripit interdum, modo dat medicina falutem. Le ragioni poi, e le teſtimonianze dell'Eraſto, del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han canto dello ſceno,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano; e comechè per mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica, e ſozzainente lacerarla, e quaſi metterla 1 in fon Del Sig.Lionardodi Capoa 541 1 in fondo; pure non han potuto far sì, che ſtretti talvolta dalla propia coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla;e la ſcuola tutta di Parigi pur la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto, ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero. Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi co Torqueto, e l'Arueto, e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo, e ben parlante Libavio nella ſua Alchiinia trionfante,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë,ut nihil amplius addi polje videatur; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il ſottiliſſimo Borricchio, non men celebre, che dotto let tor di quella, nella famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del Corringio, che nulla più. Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui vennetenuto il loro divieto; poichè non men,che prima in Melano, e altrove le genti tutte l'adope rarono; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è, che il mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio, che alQuercetano, sì bene ſcorto nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto ciò ravviſare. Ed è egli pregiato l’Alca. rotto, eziandio daʼmedici volgari, e Galieniſti, e per buo na, e giovevol medicina per tutto ſtimato; ma pur ſi vuos le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati; ne fi dee prendere ſenza conſiglio di medici faggi in chimica, e conoſciuti affai; perciocchè ſe da perſone dappocomallavorato folle, o foſſe pur ſenza riguardo at cuno preſo, certamente nuocer potrebbe, e a riſchio della perſona talvolta ancorcondurre; ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare, il qual per conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone trangugis to ſoverchiamente, con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente, certamente nemoriva. Ma di ciò ſenza dubbio, non n'è dabiaſimare il medicamento, ma la follia più coſto del medico, cheoltre al dover l'iinpone; e più quella dell' ammalato, che alla cieca, e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra caima. E ben ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì fatti medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno; e come cantò colui Velperfectèartem diſcant, vel non medeantur; Namfialiæ peccant artes,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta, eft plenapericli, Et fævit,tanquam occulta, aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di quello, ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio, che da alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana; e nuova ſorte di minerale di variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba, che ragionevolmére alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo meſcolanza, che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione delle parti,che'l co pongono, non eſſendo potuto alla debita maturità, e per fezion di inccallo pervenire, così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace. La ſua ſtrana natura ', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui notomia, in tante, e sì fatte guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo molci, e diverfi argomenti, e ſperien ze, ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro avviſo ricreduti ſi ri mangono. Ma perquanto col noſtro intendimento com prender ne poſſiano, due forri di zolfo par che abbia nellº Antimonio: l’una fiffa, e pura oltremodo, in cui le ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè daalcuni degli ſpagirici filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa; perciocchè no filla, mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara. Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto, il qual corto più, che ſe mercurio vivo non foſſe, della natura del piombo alquanto ritiene;e as queſta parte, che certamente è la maggiore nell'ancimonio, alori la violenza attribuiſcono, e'l poter, ch'egli ha nell'o perare; anche havvi alcune parti arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra, la qual della ſua matrice ſommamente participando, con quella inſieme,e con ſue particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato, che pur ven’ha: a cuila malvagità tutta, e'l veleno altri aſſegnò, che tanto all'uſo, e all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito, ne tanco, o quanto a colui, che'l prenda offender ſuole; perchè ne Galieno medeſimo, ne Dioſcoride, ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi Diofcoride medeſimo ne conſiglia, e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva dell'Elacerio, con meſcolarvi deutro dell’Antimonio,e così temperandolo ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno, che del me dicamento, ſe violento, e rigoglioſo il ſenciamo, che se vorrai purgare, ſono le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio, meſcolavi altrettanto di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri,laſciandoall'altrui diſcrezione il divri Jarne la doſe: seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ xabagors. ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν, διπλάσιον αλών, μίξας, και είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai, comechè leggiermente, ſoſpettato, non forte velenoſo, enocevole l'antimonio. Nicolò Mirelio poi, it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto,ch'egli del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra, ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio ingraſſavanſi i porci: e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra abbiamo, che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone; e in molte contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in quantità d'unanocciuola, ſenza danno, o noci mento niuno, e'l chiamano volgarmente allegra cuo ré; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati; e nella Francia, e anche altrove, l'Antimonio crudo, ſicome per M. de la Febure di ciò pie namente inteſo ſi racconta, fe donne tout les jours tout crud par la bouche fansaucun accident, emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre la verolle, &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da quegli intoppi, c da'legami, chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le nocevoli particelle dell'antimonio, o ſaligne, o ſulfuree, o mercuriali, o arſe nicali, ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni, ei contefe intorno a ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere quantenoje, e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano,con fondere, e diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde ancora del corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo,finattanto,che colvigor talvol ta lo ſpirito, e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi dee, che ritrovali talora in qualche miniera, Anti monio, cheſenza niuna preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare; ſenzáchè'talora nello ſtomaco di colui, che'l prende, può eſſer coſa, che ſciolga da’legami lalparte ve Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera, parimente può ciò fare; e quel'è la cagione, che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà dell'antimonio crudo: Ma che che ſia di ciò, ſe per opera, e argomento d'avve dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno neſia, certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni peſtilenzioſo ma lore, ove a tempo, e acconciamente, e con riguardo per huom ſi dea; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi, cvuoti dentro, ma ſovente ancora diſſolva, e miglio ri, e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno, e cattivo così nelle falde, come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il che certamente a niuna altra forte di medicamé to, o purganre, o vomitivo, ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat, dice il Zuelfero, ex vegetabilibus unicũ emeticum, grad nainore cum periculoexhiberi pifit, quàm aniimonium dextere, ac debitè præparatum; nunquam enim tormina ventris, convulhones, hypercatharſin, fluxumque nimium colliquativumcauffabit, etiam fi frigida ſuperbiba tur. E egli però quelta malagevoliſſima impreſa,e difficil molto, p mio avviſo, anzi impoſſibile affatto ad artificio umano; perciocchè la parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella, che muovelo ſtomaco a recere, e ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può in modo alcuno accutare, che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non abbia gravemente a nuocere. Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante, o vomitivo fa vellar ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare, e ftraboc chevol riſchio, che agevolmente vi ſi corre. E quel ſapientiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea dire: Antimonium,quandiu vomitum, aut fedes movet, mercurius revivificaripoteft, venena funt: non boni virirea media. Soglioſi dell'antimonio ſublimare i fiori;e ſi fôde egli an che in vetro, e in regolo; e'l mercurio di vita, e'l gruogo ancor ſe ne forma: purganti inſieme, e vomitive me dicine. E per cominciar dal vetro, il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario vetro differente; pure comunicar ſuole minutiſſime, e però inſenſibili, e cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore, in cui per qualche ſpazio di tempo ſia dimorato. Egli è il vetro dell'Antimonio commendato aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio, Strolago infie me, e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta; e dalGeri neri ſomigliantemente, e dall'Andernachi, e dal Langio, e dal Mattioli è ſommamente lodato. Ma Pietro Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica, e in medici na, forte il biaſima, e danna; dicendo, che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato ſia, non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri, ed altri famoſi medici, e chimici con apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti. Vitrum antimonii, dice Giuſeppe Quercetani, quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur, perniciofum eft medicamentum; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem, perſuperiora, einferiora magna cum perturbatione ducat, evacuetque; quod ego probare nullo mom do poffum. Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri fiutandolo, affatto dalla medicina il bandiſce, dicendo: Vitrum hic antimonii fciens omitto, tanquam pernicioſum medicamentum; e'l dortisſimo medico, e Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice, che comechè alcun guarito pur ne ſia, non eft tanti ifta for. tuita quorundam fanitas, ut propterea, vel unius hominis vita exponendafit periculo. Vidienim quum ager tantùm femiun. DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes infafionis, eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes,fubito efflare animă. Ata binc ille lachryma, hinc clamoresifti contra Chymicos inſur gunt; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos; modo unus; alterve fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės, emungantque rufticis pecuniam. Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera, ecorrezione del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza riſchio alcuno in ado perarlı; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova quella; che dal Ranzovio, e dal Mattioli, e da altri uſa vali, così verrà un tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo, dannerà, e riproverà anche la ſua. Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente che dirmene; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio, ove c'dice: quane do coctio inſtituitur, favellando del vetro dell'antimonio col vino bollico, fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur;" E foglion certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio, e non dall'arſenico, ficome il Rolfincios avviſa. Ma che che di ciò ſia, in biſogna dicotanta confi derazione, lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no, e a ſeguire il conſiglio del Rolfincio, e a dubitare non forſe così foſſe, come cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata, e da altri cotanto commendati,così il teſtèmentovato Quercetano favella: Antimonii vitrum idem ferociterpræfat,quod ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album, & arſenicalem ipfi infitum quě nec à floribusego exulare exiſtimem; quippe quos adeo afro citer corpus concutere, ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus, ut res non caréat periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi. Z z z Mai Regolo anche dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione Dioſcoride,e Plinio (av, vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio. E ciò anche a' Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto; infra’quali il Priineroſio,così dan nandolo nefavella; omnem retinet antimonii malignitatem, qua antea fub terreo excremento sopita latebat: edindi ap preſſo: fed quum omnes pravas, e horrendas antimonii vi res adhuc posfideat, poculum indè confeftum perniciofiffi mum effe neceffe eft; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo, così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona: Calix chymicus toties in obſervationibus no Bris nominatus, communiterque adeo omnibus confectus non eft, ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris. Exregulo quidem eft:fed tertii gradus, qui longè differt àvulgari; quamvis etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium. Ma il gruogo de metalli, col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in tanto ono re, e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no, perchè ſecondochè egli ne dica, dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano, e fpezialmente l'oro, l'argento, e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens violento, e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma perocchè l'Alcali del nitro nőben? anche tutta la parte velenofa dell'antimonio ha tolta e pur gata, o p me dirc legata:la qual certaméteè quella cheare. cer muove, ben li può di eſſo dire, che comechè per ope ra d'eccellente, e ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi foffe, pure pofftan dire che L'ira s'intiepidi, ma non s'eftinfo perchè ſoſpettar fempre dee l'accorto, e prudentemedia co, non ne ll'adoperarfi,alcun ſiniſtro avvenimento ne ſe gua; perci occhè pure, comechè di rado fortir ne fogliono, Ed havvi un'altra malagevolezza nel gruogo, imposſibil quafi a ſuperare; perocchè quantunque con la medeſimas proporzione del nitro, e dell'antiinonio diſpoſto fia, c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta più;o men vigoroſo ſortir ſuole, e sì da ſe mede fimo differente, che in dubbio ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto, e ſperimentato che l'Artefice fia, potrà maicome, o perchè ciò avvegna baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli, perchè fi rompa qualche apoſtema dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo: o che tra per la violenza del vomito, e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra, e ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere, e dibucciandofi la mucilag gine, la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di veſte copré dole, difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti, e pugnerec cj, o d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento s'offendano: e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi, pure così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande. E comechè di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città; purs baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role: Huc referamus hiſtoriam, quam mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam, quæ à fumptu pharm macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft obitum vocatusaperuerat. Nulla com paruit vena, fivèrupta, five exefa; cæterùm in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit; fiquidem multò maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis copia promanaret, dorfo.cultri inte riorem tunicam, ut penitiusreminfpiceret deterfit: boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo pare Ragionamento Settimo parebant; ipfa quoque funica quaficutis derafa: cuticules 1. E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi, e viſcoſi, ch'uſcir fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje, e ſvenimentirecar foglio no, e talora anche con toglier agl'infermi miſerabilmente la vita; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo. lamente, madalle manne ancora, e dalle roſe avvenir fo gliano, ed eziandio da altremedicine, che per comun conſentimento più ſicure, e piacevoli, e innocenti tenu te fono: memini non defuiffe, dice il Libavio, qui Caffia fumpta omnia pateretur, que illi,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia; perciocchèil medeſimo veleno, che è nell'antimonio, è anche nella Callia, non che nella manna, e nelle roſe, e in altre ſomiglianti media cine; perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora gli effetti medeſimi dell' anti monio. Neq;enim,dice il medeſimoLibavio,in favellando pur della Caſſià,parum acrem inde elicimus liquorem: tur batorem nimirumillum alui. E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo parto dell'Antimonio, non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio, non dell'antimonio. Ma egli è ſenza dubbio men temperato, emen gaſtigato del gruogo; e fe guentemente maggiorinoje, e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte maligna, e velenofa, che in eſſo preva le; perchè men certamente agli ammalatidar ſe ne vuole; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo co tal vizio perarte.correggere, e ammendare, e più forfes chc da'volgari maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato ſia, temer fempre, e fofpettarne dobbiamo; ſenzachè il mercurio divita, come Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi ingannar ſuole, o nulla, o ſoverchiamente operando. Ma non perchè dannoſi talora, e pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano, ſi vuol perciò dalla medicina l'uſo dell'antimonio affatto sbandire; conciofliecoſachè ben an che fabbricar ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini, e alle donne groſſe, ficome agevolmente compren der ſi può dall'opere del Valentini, delParacelfo, e dell? Elinonte. E comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi medicamenti, ma innocenti però, e piace. voli e di qualunque veleno difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica, que'po chi inedicamenti, che vanno attorno; come il belzoardico minerale, l'antimonio diaforetico, e altre ſomigliantime dicine, nelle quali comechè attutato affatto,e ſpento il ves Jen ſia, pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa: non ſogliono, anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime particelle offender giammai, ne ad huomonocimento alcuno apportare; non altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni, e nellolio, e nella pietra focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano,de'quali il concorſo, il movimento, la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco. Eben diſs’Io non effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta, e fmorzata affatto la ferocia; concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza, i quali il vigor del veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua primiera,e natia fierezza. Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio, il qual vuole, che l'antimonio diaforetico, altro non ſia, ch'unw ſemplice terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico, certamente in altra maniera n'aurebbe favellato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia veduto nellofte: maco d'alcuno non men,che la polvere di Sicilia, detta del Chiaramonte, e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti talora impietrarſi; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi puote. Maciò laſciando di parte ſtare: e'manifeſtamente fi comprende eſſer nell'anti monio la parte velenola fiſſa; e forſe arſenicale,e non come altri vanamenté s'avviſa, volante, e vaga. Ma ſe ciò è ve ro, potrebbono per avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti, che colla loro efficacia vale. voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli alcali, e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua uſata peſtilenza: e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori, e ſtracciamenti di viſcere, che recar ſuol l’antimonio, non altrimenti che ad uſo de'fiori, o di vetro lavorato ſia. Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto, ed innoccnte mercurio, meſcolato dentro dall'huomo,coll'acetoſo ſale, che vi ritrova, gua ftali agevolmente, es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera; e ciò manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa,e da’fumi, e dalle unzioni, e da al tre ſoinigliantimedicine. Ma poſto che lavorato per ogni verſo l'antimonio sépre nocevole, e velepoſo all'uman genere rieſca, non ſono però da biaſimare cento,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi della Chimica medi cina, maggiori nondimeno, e più peſtilenzioſi aſſai ne ha ſempre la volgar de Galieniſti, ſecondo il ſentimento cos mune di loro medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam,validisfimis. uti medicamentis, quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent, autſaltem melius pre parata. Nec verum eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari; fapillimè mitiffimus calor adhibetur. Sed præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai acrimoniam, mordacitatem omnem deponere. Etcertum eft, egli poi ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta, & fero ciſſima medicamenta edomari, & plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca. Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile, e valoroſo Galie niſta, e d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le colloquintide, gli elaterj, le ſcamionee, e al tri non pochi violentiſſimi medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina, i quali già ella più forſe ad offende reinteſa, che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della Chimica raddolcito il natio amarore, e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della natura cotan te volte da noi, coniechè non mai a baſtanza commendato Gio: Battiſta Elmonte: aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum vim, intelligo rerum vires pri ftinas manere debere, infui radicem introverti, vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes clanculum fub cuftode veneno: vel de novo partas ratione additaperfectionis. Quopacto colocynthislaxativam,atque deletericam qualitatem introvertit; emergitque ex imo vis. reſolutiva, morborů chronicorum curatrix egregia. Id enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit; filuit tamen, vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium, &vegetabilium venenis per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio, di cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe: Generata naturalia inferiora loco durioris compaginis conflata, & alta magnifactione, propter duritiem nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio. Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere, utilisſime molto, e neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon, te, e'l Paracelſo, ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine? Eglino certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo de'inaggiori medici del mon do: e per queſto ſentiero in tanta altezza di pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no medimonarca della medicina. Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi de'ſempli, ci, e della lor natura: e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne la parte inutile, e nocevole, e ſerbar folamente pus ra, e intera la medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di, e le qualità del fuoco, e gli ſtrumenti tutti, egli ordi gni acconci a lavorare, e'l tempo, e l'altre circonſtanze a ciò confacenti oſſervano. Quindi dal loro faggio, e avve durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti: e fanno dal vino, e di altri vegetabili, e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri, e olj,e tiņture, e fali, ed eſſenze, e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo, e ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare, eadar dipreſente ripa ro alla mancante vita; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli sfinimenti, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori; in cui convien di preſente con prelto, c valevole argomento ſoccorrere. Nea ciò fare al tro che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole, cbi ftāte; perciocchè a’ınali gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari, e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno poſlono aggiugnere. Inde illa, gridaforte ſtupidito il principe degli ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia, auripotabi. lis, fi ſcuſi nel Mercati, ignorante dell'arte, la follia del preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne, così ſoggiugnendo, Chymica enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555: ratur miſtis tenuitas, quæ duplieiter malis peritioribus profi cit, quia cedit ad imum, radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret, &devincat. E quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità, e in ragion civile Martin del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa, creda col Mercati, econ altri mal pratici del meſtiere; che ſia vera mente oro potabile quel liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale: ſommamentela Chimica loda, e innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della Chimica, qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur, ut phyſiologie fatum præftantifimum, in ventricem auri porabilis, reinonminusutilis adſanandum, quàm ad alendum, ac quoad fieripoteſvitam prorogardam. Ma che cerco lo co raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi? trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti lavorare, e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico, che chiunquc lavorar chimici medica menti intenda, e meſtier di tuo riſchio, è di tanta confi derazione imprender voglia, egli della chimica filofofia, è della medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno, e comprender lanatura, e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo, e avvedutiflimo guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina, mal fenza dubbio i ſuoi medicamenti faprà fabbricare. E ciò bene avviſando il Valentini, e’l Para celſo, e l'Elmõtese'l Quercetano, e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini, e'l Crollio, etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine; anzi que' due gran lumi della Chimica medicina, il Paracelſo, e l'Elmonce foven te d'alcuni lor famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre', e difpenfarc i Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno, e riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica. Ne per altro in vero in tanta infainia,e ſcherno cadde cotal meſtiere, e tuttavia ſi biafima, e fi vitupera dalle genti, quanto, che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo conſigliare,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui cura, e talento i ragguardevoli lor medicamenti; dicendo alcuni di eſſo loro, coluiſolamente effer vero medico, che a ſue propie mani le ſue medicine ſi lavori. Quo circa illum demum cum Crollio, dice Criſtoforo Glucradt, verè genui num elle medicum cenfemus, qui medicamenta debitè cogni ta, non ratione, ut rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare, & à veneno, & feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere didicit; eaque imperito non committere coguo; e prima di lui n'avea recata la cagione il Penoto, facilius eſt, R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus, cineribuſque ſordidum ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo rio de' grandi antidoti licome, avviſa Galieno, propiamé tc al medico s'appartiene: perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il commetteſſero:Io non lo comead altrui, chc a medico il lavorar le Chiniche medicine impor ſi debba; perciocchè molte, e molte di quelle di maggior vigore, ed efficacia fornite ſono; perchè certamente maggiore avvedutezza, e intendiméto richieg gono, che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo antidoto, che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione malne ſortiſce, aſſai più certamente ne può di danno, e di nocimento avvenire; imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati, e pericoloſi in lavorarſi, cheper ogni menomo fallo, o tra ſcutaggine, che vi ſi commetta, graviſſima certamente, e mortal rovina ne può ſeguire. Perchè l'incomparabile Resnato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua diſcepola ſcrivendo ragiona: Caurè etiam fecit celfitudo ſua, quod non luerit Chymicis remediis uti; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires comprobatę fuerint, tamen, vel minima in eorum preparatione, etiam quum optimè fieri creduntur, variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re media fint, fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani mutamenti avviſare, che alcune di quelle, eziandio ottimamente compofte, e apparecchiate far fogliono? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità dell'antimonio diaforetico? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo Zuelfero, quocunque modo fe và cum folo nitro, aut addito etiam tartaro præparatum fit, traétu temporis aëri expoſirum pravam, da quaſ maligram induit naturam, fumptumqueintrà corpus, cordis anguſtias, lipothymias, vomitufque, & fimilia prava ſymptomata pro creat. Come potrà egli mai d'altri medicamenti comedel gruogo del metallo, comprenderla vera, e giuſta quanti tà, ch’ad ammalato ſia da dare? la qual certamente non da altro li miſura, e conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le parti arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta: e quella ſenza dubbio comprender non fi può, fuor ſolamente per iſperienza, e per pruova, con far ne ſaggio in darlo ſcarſamente agli ammalati, e con rite gno in prim?: quindi a poco a poco andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol quantità giuſtamente ſi pervéga: oltre a queſto havviancora alcune virtù di medi camenti, che come di ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione, e qualità de'ſemplici, cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano, pur diverſame te o più, o men vigoroſe, e valevoli ſortir ſogliono; in torno alla qual coſa non è tempo ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi ſarebbe; ma pur come potrà egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate? co me poi diviſarne agli ammalati i medicamenti, lenza pun to conoſcergli? Ma 558 Ragionamento Settimo Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono, iquali eglino nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne: dico, chenon haluogo al medico cur ti rimedj a ſue man lavorare, ma que' ſolamente, che di maggior conſiderazione, e di maggior riſchio agl'infermi fono; commettendo ſolainencei medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui per pruo va già in primaconoſciuti dattanco; eſſendovi anche egli talvolta in fu'llavorio per maggior ſicurezza, quando la biſogna peravventura il richiedeſſe. Ma convienmiritor: nar addietro; imperocchè caduto dalla mente miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro, che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti? E ' no è peravvétura purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici, e feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico, e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes Damafcenus in herbarum decoctio nibus; diſtillationibus, quamvis corruptê, di impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem,nefciétibus evela bereelementa à fimplicibus, tantum affumuns aquam endi: viæ primam,oprojiciunt aërem, ignem; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia, & fecres ta: à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa: hoc voluit in selligere Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med. ad augendum coitum, ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum, &patentiffimum eft falem no poffe confici, nifi perdiſtillationem; ducum prima aqua dif folvere cinerem, abluere primam aquam, terram albifi cando, ut docent fapientes. Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo maeſtro, c compatriota'nelle fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna. Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in tender gli Autori, con produrre in mezzo molti, emol ci altriluoghid'Avicenna male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci, per non conoſcerli di chimica; e centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare, ſe dal tempo ne foſſe permeſſo. Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere, e ravviſare tante, e sì fatte guiſe dime dicamenti, che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere, ſom vente a' rapporti de’medeſimi componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto, e privi ritrovandoſi di qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti, ne in quali forti di malattie, in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da uſar fieno, appieno compré der potráno:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte appreſſo i buoni autori s'incontrino, i quali appena ſi pare,che l'ab. biano ne'lor volumi groſſamente accennate, non che par. titamente ſpiegate, e deſcritte, coprendo a bello ſtudio, e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più profondi dellar te, per non logorargli yanamente infra le genti volgari,cu dibaſſo intendimento. E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono vapamente agli ammalati alcunisime dj, che chiaman prezioſi; facendoſi a crederc, che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature, e fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de' medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico: Multos pratereamedici componere fuccos Afuerunt; preciofa tamen quum veneris emptum. Falleris,fruftraque immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro, che cotanto alcuni ſopranmodo millantano: come potrà egli un buon medico diſpor 560 Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere? Oh ſep chimica conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento, certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali, perciocchè non è egli, ne eſſer può giammai ſal d'argento; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me, e rappreſi dalle particelle di quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi, onde già roſi, e ſgretolati furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali, e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far fi ſuole; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai, così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù, cheſipredia canodel ſald'argento; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati cervelli. Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è, quanto più del vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente, o la natura medeſima, o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir ſarebbe dell'olio dell'oro, e dell'oro, che chiaman potabile, del qual certamente niun mai ſervir dovrebbeſi, ſe non aveſſe egli in prima per più d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri ſembianti ritornare, e prender di nuovo forma di metallo,laſciato avēdo affatto d'eſſer tale. La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con. ſigliata ne fu allor, che diſſe: ne metallicum ullum arcanu intra corpus accipiatis, nifi prius redditum fit volatile, din nullum metallum reduci poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli, delle perle,del le quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini, cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc eſſenze non ſono con cior sor ciosfecofachè a farle tali, egli convenga in prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera, e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe altro veramente non ſono, ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche sbracciate del Rc Artù, e lemillanterie di Lancillotto, di Triſtano, ed'altri crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte. E ſepur vere coſe, e non vanisſime dicerie elle fono, ficome al quanti guari autori han voluto pur credere, cgli però ſo 110 sì inviluppate; e cieche, e rimoſſe dal noſtro intendi mento, chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire; così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo, l’Elmonte, e altri, l'han ſapute co' loro riboboli, ed cninmisì bene avvolgere, e intralciare, che impoſſibile omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto, che comunemente far pe veggiamo, altro certa mente non è, ch'un minuto ſtrirolamento, o ſceveraniento delle parti, fatto, come è detto,da’ſaliacuti elaltati,e per ciò ſoinmamente velenoſi, i quali meſcolativi per entro, e forte appiccativi non ſe ne potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli dell'oro, o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati, e a que’ſali appiccati, ceſano, e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali; intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto, e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte; ficoinenel tartaro vitriolato far ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi rimancſſcro, ma per opera d'ec cellente, e ſaggio maeſtro già tutti interamente ne goin beraſſero, certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze, ma tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio; come gli intendenti del meſtier fa vellano. E di ciò ben fi può far manifeſta pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro; concioffiecofachè bcn allor di preſente fi vegga l'argento, e l'oro, e le gem me calar giù, e far toſtofondaccio: comechè alcuni cotali paltonieri, e giuntatori de’noftriſecoli pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario: circumfuranei fallaces,come dice il grand'Elmonte,qui aurum, & argentum furripientes aliud in borum locum fuppofuere; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare. Ma de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte, huomo per univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato. Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum, qui foliatum aurum, gē maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam ignorantiamfinondolum; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium. Subtilior, ideoque magis condolendus efterror eorum, quiaurum, argentum,coralia, perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri, verè ſuasproprietates nobiſcum communicatura.Nefciät enim, ah neſciunt acidum venis hoſtile; ideoque peregrina diſſolventiúfuperata, & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla,& lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai, e ferino, e veritiero ſcritto Te: omnes illi, ſclama, qui talibus portentofis promifis, quo rum ne minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta, &impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus, intendendo egli di coloro appunto, de' quali noi ra gionato abbiamo: ſciocchi,e ignoranti della Chimica, qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur, tanquam profundi ar. canorum naturæ fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di ciò avea egli detto: meritò fufpeéti habentur, qui primam dari materia philofophorum tùm ad quorumcunque morborum curationem, tùmadmetallorum tranfmutationem, multis, jiſque ad oſtë tationem, & fraudem comparanis rationibus probare conan tur. Qui ex auro, quod necfummaignis violentia, autul lo corroſivo cogi poteft, ut vim fuam metallicam exuat, se liquorempotabilemverum fine peregrina miſtura conficere poffe jactitant. Qui non folùm colorem, innatam tin &tu ram ex omnibus metallis, lapidibus presiofos, fed etiam fpi ritus, olea, & ſales non minus, ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui ex.talco, corpore illu metallico, & incombuſtibili, balſamicum, &temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris, faporis, &tem peramenti, majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam,quæ humidum radicale confumptum meliusquá ullumaliud fimplex,aut compofitumreftituat. E quancunque gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene; perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli, vengon si fartamente a ſchierarſi, e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje, od’aſpri riccj fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono; ficomealla giornata nel ſoliinato, e nel precipitato, e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo. Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio, dicoral oro favellando, dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice, illo nocentius toxicum. Ed io porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti, ſe non ſi deſſero tanto miſuratamente, e a ſpiluzzico, non nien gravi, e manifeſti danni ſeguirebbono, che dal ſolimato, e dal precipitato avvenir ſogliono; perchè non ardirebbono imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi, e ignoranti, ſe nella chimica eſercitati foffero, cotali medicamenti, anzinocevoliſſimiveleni, a'loro ammalati per cagion veruna imporre; e comprenderebbon pure che corali, che chiaman riſtorativi, in luogo di dovere agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze ravvivare, inaggiormente gliele abbattono. E ſappiano pure, che ſecondochè nes dicano i più veritieri Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro, che'l già fatto diſtruggere. Ne è dacredere, che quell'olio d'oro tanto celebre, e famoſo in Portogallo, curi, e ſaldi le ferite con altro, ches co'ſali roditori, ed acuti dell'acqua regia, che if diffolve; perciocchè corrugando quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita umore alcuno trape lare; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù dell' olio dell'oro, o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire; che per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato, e di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile, che rade volte ricever fe ne ſuo le, ſe paragonafial riſchio, in cui la vita del malato mani feftamente incorre. Ne altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle, de’coralli, e dellc gemme; perocchè, come di ſopra detto è, sì fattamente nel loro Atritolamento gli acuti fali vi s’appiccano, che per quindi torgli vano affatto, e inutile ogniſtudio riuſcirebbc.' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali, onde compoſto era, putiva; e quelvalent'huomoall? aperto riſchio della perfona colui ſottraffe, che di preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi; e'l Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino, forte gli biaſima, e danna. Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine ragionevolméte da ſeguitar non fia; non però di meno in ciò, chcnarra delle perle, egli ſenza dubbio ſembra dir vero. Acetum radi catum, ſon ſue parolefua, acrimonia, & vi corroſiva, atq; cauſtica non modo margaritas, verum alia etiam diſolvere; &in cinerem quafi redigere, atque quemadmodum Chymiſte loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft. Huc autem no eft fpiritum margaritarum elicere, fed totam earumfubftan. tiam corrumpere. D.Vaoylelius ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum, magiſterium hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife, atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem, in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt erofa. E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre modo acuto, e roditore. E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa ne'magiſterj delle perle, e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali, o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato, pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano;per chè in luogo d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo, che nelle noſtre viſcere calor ritrovano, accreſcendolo maggiormen te, le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric, che in sì fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono? Ed è egli recente ancor la memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano, ilquale con ſue ciarle, e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone, vendendo, e di fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi, c'l biſmuto calcinato con acqua forte, e ſciolto, co me dicono, per deliquio, in luogo di veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire di propierà per balſamo di Criſto, e la cintura del Chermes per quella de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire il noſtro Dante la giu nella: decima bolgia dello Inferno: Sì vedrai ch'Io fon l'ombra di Capocchio, Che falfaili metalli con Alchimia: E ten deiricordar ſeben, t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia. E non ha guari di tempo; cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali (edimedici pur l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace, e vigoroſo, con quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo; e gli ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre, e più vigoroſa negli eſtratti l'efficacia dellemedicine dover riuſcire. E ſomigliantemente dall'ignoranza della chimica anco ra avviene, che i baccelloni, e ſemplici medici credendo di foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie, e diverſe moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al mondo, o folamente ne’libri di poco pregio, o dalle bocche, o dalle penne di chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri infermi, chi potràmairaccontare:Dirò lo fola mente, ch'un celebre Galieniſta de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino, o altro ſomiglia te libro di Chimica, ftimandofi egli già gran maeſtro in quella, preſe ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto; e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa il con traſtafle, pur colei preſolo, dopo acerbilliini dolori nabif fando, e rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche, e irra gionevoli ricette ben ne potrei Io un lungo catalogo qui diviſare, ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio; temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno, come di fallo per avventura da ſe maffimamente commeflo; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo ordine intel R 1 iuto, ne, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga. E dall'ignoranza della Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar ſi co ftumi; il che certamente non avverrebbe, fe ſapeſſefi qua to eglioltremodo malagevol fia il comporlo; e che gli ſpe ziali in vece del ſale del vitriolo, dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco, o pure il vitriolo riprodotto dal capo: morto, ſicome dicono; il quale talvolta aſſai più del vetro medeſiino, e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando acerbillimi dolori nelle viſcere, e talora anche manifeftamcnte uccidendo. Così non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel nuovomiſerabil mente rabbiando Gio:Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido. Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare. E ſon' anchei medicinegli ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati; perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo danno di colui, che prender gli dec; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi formentati, gravida di quel ſale acetoſo, che non mai partir ſe ne può, trae ſoven te qualche nocevol particella della campana, e con la ſua mordacità tanto quanto la rode, e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in prima avvedere,[con volge, e morde le viſcere, e diſtempera il corpo, cagione vole oltremodo, e difettoſa l'economia di quello renden do. Ma veggo Signori che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio, fe pienamente non ne fan riuſcire, dico di nuovo, che laſcjno da parte ſtare le pericoloſisſime medicine della Chimica, e ſolo alle lor menovili, ccomunali attendano: Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila, diſcive, trochive quieſcit, Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re, che non ne fieguono le ſcherne di lui, ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni maeſtriScimmionide'ſuoi tempi, i quali, com'egli dice, quum rerum Chymicarum planè ignari fint,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur, chymica medicame ta, quorum vires, & præparationis modum ignorant, fatis periculosè ufurpant. Or che direbbe egli, s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza del noſtro ſecolo, e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città, in queſto Regno non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere, non eſſer cerrerano,non doniccico: 1a, che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico, che non gli ordini, appena che ne ſappia il noine, o bene, o malc, in tutte ſortidimalattie? Anzi, che direb be egli pure, ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente, e con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti, e non punto intendenti di quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono? E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino; pur nulla conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla groſ ſa il tutto, con danno, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius eamfpreverant, excoli; ejuſquefcientiam à pluri bus, qui ipfam nunquam coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur. Vndè faftum quodplures Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis, atque in uſum verſa; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſicis, tùm medicis adopsate. E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la chimica, a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra, e in altri molti famoſisſimiluoghi d'Europa? A che tanti valentisſimi medici (de'quali alquanti più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla, per appararla? E per racer d'Avicenna, di Rali, di Meſue, d'Abulcafi, e d'altri famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli, d’Arnaldo da Vil lanova, e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero Giovanni da Bagnuolo,Gio:Battiſta Món tano: Giacomo Silvio grandiffimo parteggiano diGalieno, Giovan Fernelio, Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero, Andrea de'Mattioli,Gio: Giacomo Veccheri, Gabriel Fal loppio, Felice de' Platteri, Martin Rollando, Anſelmo Boezio, Girolamo Cardano, Giulio Cefare della Scala, Gregorio, e Daniello Orftio, Pietro Caſtelli, Marco Aure lio Severini, Daniel Sennerti, Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni Eurnio, e Giovan Cratonc? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare, e abbatter la Chi mica, pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla, e ſeguirla; e introduſſe in Vienna, com ' egli narra, nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli, e nobili medicamē. ti; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita to, e biaſimato. Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica, fe pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi, e magnifiche: poichè non s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa, di che pienamente non ſappia, e non ne ſia in prima a baſtanza informato:ma folo la Chimica fi biaſima, e s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un meſtier,dicui appena fanno il nome.: Machi baſterebbe giammai ad annoverar tutti coloro, Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine adoperano? certamente non è medico a'tempi noſtri, ch'abbia fior di ſenno, che per be ne ciò fare, con ogni ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica; e ſi è ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà, o della noftra fioritiffima Italia nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta. E Pier Caſtelli ad un co tal meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa, fciat,diſſe, in Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non poffe, &vixin Gallia, & in Italia; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio: encomia Chymie non opus eft, ut hic recenfeam: quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius: ceſpitat, jam profecto fine hacarte medicina. E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli: medicum abſolutum effe non poſſe; immo nec mediocrem quidem, qui in Chymica non fit exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti, e in varj altri luoghi l'accennato Caſtelli, tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più utili al genere umano: imperocchè l'acqueodori fere, gli olj, tanta varietà di liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla Chimica, qua fi emula della natura produconſi, la varietà de'colori, che formanſi per uſo della pittura, le paſte da indorare, e lac que da partire i metalli, che continuamente adoperanſi dagli Orafi, tutti ſono effetti, coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle buone lettere Budeo, che nel terzo libro de Af se, ebbe a dire: hujus eft id artificium, ut vi aqua medicata, quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri partem argento, aut cuivis metallo illitam, aut confufam,nullo di Spendio abſtrabat, ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do, niſi quod ufu interteritur. Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære eximere, etiã, quod magis mireris manente vafculi forma quaſa interdum, a inani, veluti quadam idea à materia abſtracta. E l’Alciato ammirò pariinente la medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem Pomponius, S. fed fi D. de rei vind. nella quale ſi dice, che'l rame miſchiato con argento non può ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual dicono: onde e' ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari, hodie forte aliud erit, etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices, vixque finguli in ma gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit, apparèt non effe fuprafcripta rationi hodie locum. Ma cotali brighe a'cervelli più ozioſi de' noſtri laſciana do:poichè la chimica eſſer così giovevole, e oltremodo ne cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a diviſare delle ſtrade, perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil meſtiere. Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar ſi voglia, conviene, che non ſolo, comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma ben addottrinato: ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento:concioffiecoſachè in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti, e con tanti eniminio eri boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi, c.alti cervelli per iſpiegargli: Ea fuit om nium hactenus invidia, dice di lor querelandoli Geremia Bartio, idque præpofterum occultandi ftudium, ac labor, ut non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica, tanquam eleuf, na facra celarint: ſed veterum etiam arcana, fimpliciori, apertiorique orationis genere propalata, impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate, in tenebras ipfis Cimmeriis, & Ægyptiis denfiores conjecerint. E oltre a queſto deeil Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver diligentemente ſtudiato in fiſica, e conſeguentemente in Geometria, e in tutte altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie; ſenza le qua li mal certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit, e valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo medico; e chimico Arnaldo da Villanova: quicunque ad hancfcientiam vultpervenire, &non eſs philofophus, fa tuus eft; per tacere il Morieno, e altri. Maconviene oltrº a ciò,che per internarſi nelle cupe, e profonde ſpecula zioni della natura, ne' tre vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno traſcorra, e molto in eſli ſpii, molto co prenda, e avviſi tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe; cer cando per lande, e per valli, e per colli, e per fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante, erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli, e peſci, e altri infiniti animali, e minic re, e gemme, e altre, e altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti volentieri imprenda, come già fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo Lullio, e Teofraſto Pa racelſo. Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer otti mamente avviſato della natura, e delle qualità di tutti gli ordigni, e ſtrumenti del meſtiere, e ſopratutto del fuoco; € fottilmente anche comprendere checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o fali gne, o d'altre ſorte di quelle coſe, che ſi lavorano; perchè poi vengono oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine. Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca, e troppo fuor dimiſura n’allungherei il ragionamento,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re: ed è, che il voler da’ſoli libridegli autorila chimica ap parare, è impreſa oltremodo malagevole,e dura affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia, e per la medicina ſervir ſe ne yuole. La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata; e ciò fanno per. non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te; nella qual cofa adoperano certamente gran ſenno, ſe guitando i conſigli degli antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci ſapientiperciocchè;, come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe, e care, Saporite, foavi, e delicate Scoverie in man non fi debbon portare, Perchè da'porci non ſiano imbrattate. Perchè poi molti, e molti, che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri, ne rimangono certamente di gran lunga ingan nati, e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo coloro, che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora noi ragioniamo. E quel, che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che fpesſiſlime fiate, quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente, e alla ſcoperta ſenza aggiramenti di parole, al lor maggiormente n’inviluppano. Omnium rerum, avvi fa il gran Claudio Salmaſio, quæ ad hanc fcientiam perti nent vocabula, ab ufu, & confuetudine communifubmoveritt auctores fui, &peculiarem fibi dialectum vindicarunt, fa lis myſtis tanti arcani intelle &tam. Fornaculam fortem, ve caminum, in quo argentum,& aurum fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio, quod qui vel ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum ambiguo, & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt,modo percipere; ipfis. confilium non effe, st intelligantur,nifi à filiis artis (utvocant, nec vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum fententia utuntnr: ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus. E’l dottiſſimo Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta, ut in ejus cognitione adipiſcenda oleum, & operam miſe rè perdant pleriquemortalium. Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut videant, ideo folü fcripfiffe ut nõ intelligerent? E peraddurre di ciò un ſolo efemplo, chi non crederebbe interamente al Beguino, ea tant'altri moderni autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo, quelmedeſimoappunto, che gli antichi Chimiciin, molte malattie di darper bocca uſavano? Epur la biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra,e più sé plice maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino, non ſolamentenon giova, anzi n'offende notabil mente le viſcere; perchè molti della lor perſona mal capi tati ne ſono, per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato credenza; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma: ecento, e mille altri eſempli addur ſe ne po trebbono. E quinci avvien poi, che non ſi veggono a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure, che ſi leggono già per iná degli antichi Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati, e alla groſſa diſegnati, che inal certamente per huom ſi poſſono adoperare. E a ciò ben dovea riguarda re Pier Caſtelli, che troppo mal conſigliato, il libro de mendaciis Chymicorum, con ſua poca loda compoſe. Or veggali di grazia chente, e quali fian le malage volezze; le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano, e come ſe ne poffa in ſoli due meſi huom mai ſuis luppare, ficome non meno ſciocco, che malizioſo fi ſtudia di darnea divedere, il Billicchio; quando egli ſotto gli ann maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe, tanto tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa, che ſpecu lativa fia: egli è di meſtieri all'avveduto Chimico,anzi coll' uſo, e colla ſperienza, che col rivolger de’libri appararla; perchè poco ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya, dicendo Vos exemplaria Gebri Nocturna verſate manu, verfate diurna; perciocchè quantunque in ſui libri diGebro, e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno ſe non ſi pruova col fuoco: econ altri chimici ſtrumenti,ciò, che Del Sig. Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir, che più co'carboni, e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia; ne per altro certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò. E comechè dura oltremo, do, e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto, ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω, Και τζηχυς το πρώτον:επήν δ' εις άκρονίκητα, Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα. Innanzi a la virtù poſto i ſudori Hannoglieterni, & immortali Dü: Aleiper lungo, ed erto calle vaſſi, Che duro inprima appar, ma quando alfommo Si giugne, agevol èquel, ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere, ch'Io avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui, che pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella; ne in meſtier di tanta conſide. razione, quant'è la ſalute, e la vita degli huomini haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro, ne ar roffarfi di ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di qualche pro-alla inedicina; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio: nullus adeò malus liber eft, ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit. E Giuſeppe della Scala: ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum librumeffeputo, ex quo non alia quem fruitum colligere poffim. Ne è perſona cotanto ſcioca ca, e balorda, da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa, eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε, che per tacere altri, il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto, così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto a propoſito a la gente. Ma particolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal pro, poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di Lione: prudens le&tor, vel auditor, omnes libenter audit, omnia legit: non fcripturam, non perfonam, non doctrinam Spernit:ab omnibus indifferenter, quod fibi deeffe videtur querit, non quantum fciat,fed quantum igno ret, confiderat. E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo, cui no aveapotuto porre alcun compenſo, e vani erano riuſcitii molti, e varj conſigli de' valentiſſimimedici. E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città, egli è gran tempo, ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi rimedi per li bozzoli della gola, e perle ſcrofole; e al mal della pun ta guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite,aftenendo ſi da’ falafli, l'olio del lino, l'olio dell'olive, il ſangue del becco, il ſalnitro, l'incenſo, la pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale, i fiori del papavere roſli, la calce, il gen giovo, e'l zafferano; nella colica la cenere d'alcuni legni, nella riſipola il ſangue della lepre, il ranno, e l'acqua del vitriolo, e della calce, e altrimolti medicamenti, che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo, il qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar nelle ſcuole, come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto ciò, ch’alla medicina ri chiedefi; ma gli convenga anche girne dalle vecchiarelle, dalle zingane,da'ciurmadori, e da’vecchj, e ſperimentati contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più, ch’altrove per avventura non farebbe; e quinci fi coglie, the'l medico, non menche del chimico è detto, debba an dar ſe poſſibil fia,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora, acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre, delle minicre,dell’acque, degliani mali, dell'aria, delle ſtagioni, de'coſtumi, de'cibi, delle bevande, delle medicine, delle malattie, e delle maniere di ciaſchedun paeſe. Ma con tutto, che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo grado della medicina pervenuto: concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che l'Elmonte dice, che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi:imperocchè queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi vide, per tacer del Paracelſo, nell'Elmonte medeſimo, che forſe quell'uno ſi era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente filoſofaro avea. Ma laſciando ciò daparte ſtare, mi par tempo omai, che veggiamo, quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla medicina. E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto, infra l'altre coſe al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare; conveniente coſa mi parrebbe, acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero, d'un compiuto, eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er bolajo ritenere, il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare, con iſpiegar loro la natura, i nomi, e gli effetti di quelle; acciocchè avveduramente poi ciaſcuno uſar le do velle. E ciò tanto monta al comun deila medicina, che ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe: ficutmedicus fim plicium ignarus non eft bonus medicus, ita Academia, quæ horto fimplicium publico caret, non eft perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti, e molti danni annoverati, che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino de'ſemplici, avvenirnefogliono. E certamente niun maiſaprebbe, comechè ſagace, cavveduto molto ſi foffe, giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me dicina appartenenti, ſenza aver huom, che d'efli affai pie namente informato innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno avviſata, allorche dilic, parlando de'ſemplici: Convien certamente, che non Dddd nina, una, o due, o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te offervando con qualche'maeſtro, il qualgliele additi,come bocca gliele inſegni. E altrove: Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia comprender la materia de medicamenti; eglino medeſimi non una, o due, e tre fiates ma ſoventi volte ravviſandola; concioficofachè la vera co tezza delle coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia. Ed altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe lordiſegnate non curano: diſſe:Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i qualii ſe gnali tutti, e i marchi d'unoſchiavofuggitivo, comeche mai non l'abbian veduto, a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò eglino daaltrui, comecanzone il vă per tutto poirecitando; che ſe per avventura intervenije, cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa menteper tutto ciò no'lravviſerebbono. E ciò tanto mag giormente avviene, quanto,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e per le contele, ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e moltinomi, che i ſemplici hanno, chia mandoſi diverſamente da ciafcuno. Coſa, la qual cotanto fe ſudare, e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè, co mc egli dice: in berbulæ cujufdam facie repreſentanda, no tas tam variè delineant, utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur: aut cerie eandem multi plici prorſus effigie: quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium, per vaftas ire regionum multarum ſolitudines, invia montium juga peragrare, lacus inacceffos Inftrare, abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare, ut inſpectu eriam, ne dum cognitione res ipfas comprehenderem. E ciò certamente fu non poca fatica d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno, ch'a sì fatro meſtiere in tender preſuma.Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino, con apparar quì in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! be da confarſi ad ulo di medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio, e riſchio delle noſtre perſone. Ag. giungafi a ciò, ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più nelle noſtre ſcuole, ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia, quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali conoſcenze ne con vegna, e nel tempo,che germogliano, e nel tempo, che creſcono, e nel tempo, che languiſcono le piante diligen temente confiderare: τον δε βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές επιγνώναι.. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna, di Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo, e comendevole Orto di Padova find a ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to; del qual mai ſempre han tenuto cura huomini in tal meſtiere, e in tutt'altre parti di medicina intendentiflimi: ficome certamente fu Luigi Mondelli, Luigi dell' Anguil Jara, Melchior Guilandini, Giacomo Antonio Cortufio, Proſpero Alpino, Giovan Prevozi, il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio, ed altri molti per le lor famoſe opere in iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa, e tempo logorandovi, fe a più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non aveſſero; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove, in queſta noſtra Città, in queſte noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana, e ſconoſciuta pianta ricorrer ſi poſſa; da poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe. Intanto, che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli, che in ciò pochi ebbe a ſc pari, infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1 -mofaa compor s’avea la Triaca, fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene. Or che della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì ebbe a ſcla mare? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut diſeantjuniores medici, atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum, decus, fed quod maximum, quod optă dum, ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur? quot agri indè necantur? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più,e più altre con tezze a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue, farebbe meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne ſiano; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo, o della materia, o del la lingua intendenti, in non pochi errori ſono incorſi; e per tacer d'altri, o quante, e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato fede a coloro, che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che Plinio, anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella, pur malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato? Ma meſtier anche farebbe ri ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia, ein man de'medici ri porla, come già prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba; certiſtima coſa eſſendo, che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no Notomiſta avuto; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio, o perchè di fcco cotal biſogna le riſpondeffe,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato, una faccenda di tanta conſiderazio ne, e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata, che un di ligen Del Sig. Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle, e facédofi ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe; perciocchè in sì fatta guiſa non ha dub bio, che a'giovani, perchè perfetti notomiſti diveniſſero, agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino inſieme unite le due cattedre della notomia, e della cirugia, e come di due peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè loderei, che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual fatica ſi partiſsero, e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero. E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli fono al co mune, che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan meſtieri, ma per l'arti della guerra ancora, c per la na vigazione, e per le mercatanzic, e per tutto il civil con mercio. Ma oltre a tutte queſte ſcuole, che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre; la quale per quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto, così gio vevole, e neceffaria è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono, & cccellente maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote; e non ha il torto l'avvedutisſimo, ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a vituperare, e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa meſtiere: avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia, alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio, quãdo diſſe: Medici hoc têpore (Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum legerit?qui impunè homines occidit? ) cum mihil reliqui habeant medendis corporibus, vel cum re ipfa. ignorent, quo morbigenere ægri fins affecti, ad aquas Baja. nas eos rejiciunt, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi tamen ftolidos noftræ ætatis homines, quificaci eò profici Scan ' 582 RagionamentoSettimo fcantur, jam ſe videre, caciores indè reverſicontendunt. E certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe; perciocchè non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate l'abbia, come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia; dal quale ingan nato, follemente credette eſſer non ſo quali miniere di fo le, e diluna in quelle acque. Ma per accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina: Io richiederei, che i Lettori di ella, oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate, e diGalieno ſpiegar dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi, e moderni autori,ac ciocchè gli ſcolari, ſicomeGalieno, c altri famoſi valend huominigià ferono, di tutto ciò chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano; e ſe bene sì fatte contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace, e che niuna ſetta di quella abbia in ſe dottrina, che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento porre, ne coſa di certo mai determinare; impertanto potranno agevolmente ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte, e dell'opinioni, e alle varie, e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare, che fra i medici ditem ро in tempo ſono venyte in ſu, qual via nel meſtier del me 'dicare debban genere, Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi farebbe, ficome alcuni daquelle parole: li bros authenticos tam Hippocratis, quamGaleni in fcholis da Geant: vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re; cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno,i sé timenti di Galieno medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di Galieno colui, il quale non faccia, come Galieno adoperò, ſcegliendo datutti libri il migliore, ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola. w inſtantemente conforta. Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto, ſecondo le fpoſizioni d'alcuni, che sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire, einſegnare; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono riſerbare, e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat, tantummodo, folum, che i Dottori chiamano taſſative; ſenzachè, ſe colla mente del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio, nevolmente è da fare, certamente non che lo ſpiegare an, che altri nomen famoſi autori vietato ne fia, anzi egli n'è apertamente conceſſo, o per medire impoſto; conciollie cofachè l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge,, altro certainente ſtato non ſia, ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe di formare un, perfetto ge valentemedico; il quale, conte già abbiam di moſtrato,cal divenir non potrebbe, s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina è ſcritto piena contezza non abbia. E. certamente ſe l'Imperador Federicoamici!limo, e bene in formato delle buone lettere', che fe lo ſtatuto, e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo, che ſcriſfelo, econrpilollo, aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e dottrine de" novelli medici, e filoſofanti alcuna concezza avere, eglino ſenza dubbio non pure permeſſo,ma commendato anche avrebbono,che nelle ſcuole a pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel barbaro, e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no mandolfi mai di que’tempiad effetto;o pur ſe andò avā ti, fu preſo ſempre in quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova, e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo, chepiù che d'Ippocrate,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena,c di Meſueallor ſi coſtumavano; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da parce i Greci maeſtri, con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca, famoſo maeſtro in medicina di queſta noſtra Città. Ne altre doitrine in vero, o diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do, licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor ſeglionfi; ſegnal certiſſimo, che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo nimico di Galicno, e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente mandar giù le loro doterine, aper tamente cozzandovi, ſe per legge ne foſſe ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma, e la ſperienza ſeguire. E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti di Galieno traſandando, ove la verità il richiedeva apertamente il contraſtarono? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono, ſe contro i divieti imperiali altronde, che da Ippocrate, e da Galieno raccolta l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto,comeche foſſer preſi a leggerfi i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio ſconce,e gua íte, e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi; de'quali la doctrina allora per tutto trionfando fio riva; intanto, che Avicenna per comun yoce era principe della medicina chiamaco. E tanto parmial preſente della traccia, che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina aver baſtantemente accennato. Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia, comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar-, fi all'altrui autorità nell'inſegnare; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole, Rai più illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare: p mio avviſo laver ella ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti, % 9 e albergati pellegrini ingegni, e ſaggi, ſcorti, e liberi nello inveſtigare i ripoſti, e profondimiſte rj della natura. E nel vero per non far parole de' più anti chi tempi, chi è di voi, che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della filoſofia, che quella avea no a vile, e duriſſimo fervaggio miſeramente condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle coſe? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi, Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità degli antichi mnaeſtri, della quale dubitar Еесс punto non che farle alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza recato? Vlti mamente, chi è divoi, che non ſappia, e che non abbia co’propi occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli, ſol perchè era intendiméto di lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale, alla ſcorta della ſperienza ſolamente, e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti i nobili fpi riti, che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero rammentare? Ella ricoveroſſi, come voi ben ſapete, ſotto la protezion di D. Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele, un Daniello Spinola,un Frá ceſco, e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci, un Luc' Antonio Porzio, un D.Michele Gentile, un To maffo Cornelio, e altri, e altri curiofi, e ſagaci interpreti della natura, che collor fenno, e ftadio,e gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo, chegià ſtabilito, e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e dallautorità che gli avea data il tempo, alvero, e alla ragione ſovraftar avviſavanſi; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero operá, ecominciamento; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente, e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe naturali, altro veramente noh fecero, ſaluo chc fecondare quef rego lamento, per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze, e l'altre coſe tutte di quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è dato agli huomini acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento, e corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo fortemente ra: dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no parimente le medeſime fatiche, ſe non maggiori, che durarono que'primi autori, e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare, ſe non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole abbiſognino; ne a ciò fare veruna induſtria, veruno ſtudio, veruna fati ca reputerò vana, e inutile: imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero, che a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro, camefelice termine di queſte poche fatiche, che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai comincianento,dico, ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai, che s'aveſſe a rinovellare l'antico, e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa,ri pigliare l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare, Oye poi queſta non li voleſſe ſeguire, certamente giudicherei il men male, che ſi faceſſer le chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni, in cui, e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente gli ſcolari; sì ve ramente, che poi i maeſtri a quella guila, e con quella li bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di Platone, e d'altri antichi trattar ſolea. E co me a ſuo eſemplo fecero poi delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia, Filopono, caltri, e altri ſuoi più nobili ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori, cioè a dir, ch'egli s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto, diſaininar a fpiluzzico ogni ſua ra gione, econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza, ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura; e ficomene'miſterjdalla Divina eterna fapienza, che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare; così nelle dottrine in. fegnatene da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in ſu l'avviſo,ed aprir, come fuol dir fi, mille occhi, e mille, per veder ſe ciò,che egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio, e immenſo volun medell'Vniverfo. Ma perchè chiaro appaja, e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele,ne daremo ora, comechè breve, qualche faggio; e primieramente in que ſentimenti, che da criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini: ne di noi punto fi brighi, ne con noi voglia, o poſſa uſare in alcunaguiſa, ne in ſonno, ne in vegghia: e ch'egli non ſia colui, ond'ogni bene avvenga. Che la per fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda, ſen za alcun godimento nellaltra poterfi ſperare. Che la det ta beatitudine nella fola virtù non confifta: ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna: dipartendoſi dal parcr del ſuo Macſtro Platone (cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove diſſe, cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che buona ſia l'é pia legge di Minoffe,il quale volca, chelecito foffe il pec car cótra a natura, acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza: burlandoſi di Simonide, che detto avea effer Dio folamente il ſapiente; e ftizzandoſi contro Platone, ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile, e bazzeſca. Che igio, vani debbano fraftornarhi, comcincapaci, dalle morali dio fcipline. Che la modeſtia non fia virtù: nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric, la povertà, gli 1 efilj, la morte, o altri infortunj: le quali coſe, come em pie la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio, Socrate la morte. Ma che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante, e tante volte da lui ridetto, e pro varo, facendo contro il vero arme i ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio, il qua le ſcioccamente egli chiama (wor, cioè a dire animale. E a lui di vantaggio egli l'onnipotenza, ela providenza, elas libertà dell'operare empiamente toglie; oltre a ciò non potendo talor la fuafolle, e pertinace miſcredenza celare, apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le genti, e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E che diremo intor no alle pene, e premj, che dila ſi danno ſecondo l'operes che di quà per noi fatte fono: E che direm’anche dello in ferno, il qual egli dice effer certamente novella da vegliar de; morendocon noi l'anime ancora, ne altra coſa di noi reſtando dopo morte, fe non ſe il freddo cadavero, ſenza, fentimento niuno? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate foſſim’anime di ferpi. Ma non verrei mai a fine, ſe tutte quì diſtintamente re car lo voleſſi le fue empie, e peſtilenzioſe doctrine, dalle quali contaminato il miſcredente Arabo chioſacore in's prima; e poi altristolſero l'occaſione di comporre, e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano: Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles: e prima di lui il grande Origene nel libro, cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote le piggiore aſſai d'Epicuro; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia; e'l beato Serafino da Fermo, e S. Vincenzo Ferreri abboininando, e maladicendo la dottri na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dareeffer quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane, unde facte furtamare, ficut abfynthium; per chè anche la venerabile ſua ordine avca ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele. E ben ſi paa re, cometeſtimoniano Laerzio Diogene, Ammonio, Cle mente d’Aleſſandria, e altri, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per ordinazione di quel Diavolo, che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya le riſpo Ite in Delfo;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia, che dottrine d'Ariſtotele: Arriana berefis argumentationum rivos, de Ariſtotelæo forte mutuatur: fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum Chri Si generationem putant ufufaculialligandam, relinquunt Apoftolum, fequuntur Ariſtotelem, E S. Baſilio il magno ſchermendo, e vituperando oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli d'abbat tere, e diſtruggere Criſto; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice: deh laſcia forſennato il malvagio, e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura dell'anima: è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni. Or ſe nelle coſe, che abbiam noi di certo, come loni quelle della noſtra ſanta Fede, così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò; certamente dovremmo noi anche nell'al tre tenerlo ſoſpetto, e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe, dalle quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli ap. poggia, o tutta, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè l'eternità della materia, del movimento, del mon do, delle intelligenze: la neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui: e altri, e altri ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur la Ipe 1 ricn DelSig. Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a noile dimoſtra, che nulla più èda dubitarne? O forſe negando noi fede agli occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti, e le dimo ſtranze, crederem noi oſtinatamente ad Ariſtotele, e non ne prenderem pure faggio da altri più avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere fpe rimentato tutt'altro di ciò, cheAriſtotele nefcrive: Adun que perchè credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere, quando contro l'avviſo d'A: riftotele, Franceſco Pico della Mirandola, il Campanella, il Gaſſendi, il Blancani, ed altri molti maggiore affai l'of ſervarono? Anzi Io l'ho purriguardato, che non ſol mag giore, del mezzo cerchio apparir foglia, ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto, e intero, dove il Sol fia alto, e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia: anzi le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe pur più ſovente apparere, che non Polervòcolui in due fole volte per lo lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo; non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle, mentre la fua donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava. Ma degli errori d'A riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio, il Campanella, ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata bilancia in andar ſu le coſe leggiere, e giù le gravi? E la fciando per ora ad Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men che la gravezza me delima, qualità delle coſe: e come poi per ſua dappocag gine lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente della ſua fciocchilimatracotanza il non volere far pruova di ciò, che ſogna, che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto, ch'un altra d'una libra; potendo con durar poca fatica,ravviſare, che que due mobili, tutto che tanto diſuguali di peſo, diſcendano però eguali in velocità. E chedirem noi intorno aciò, che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe, che poſte in acqua, o ſcendano giù, o galleggino? e come egli tratto dalla ſuaſciocca maniera del filoſofare, vuol,che peropera della larghezza, o ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi aſſai dell'acqua medeſima, non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in ciò con venir poſſano. Intorno alla qualcoſa così ſmentito, eri creduto ne fu egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei, che nutta più ne ſarebbe il favellarne. Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre. ſe il noſtro Ariſtotele eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo,che di ſopra li ſieno? Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color,che non veggon pur l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati, e bambi ſi ſon laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj, e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti,e troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano, ch'egli ſia infallibile verità: quum hoc, dice Giulio Ceſare dalla Scala, pro comperto,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere, e di non ordinario avvedimento così operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero, ritrovando alla per fine il contrario, ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum, nec itineris tantillum navis confi ceret, nullo Spirante vento experiri libuit, vafe cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit, funi longiffimo alligato, quem nautæ fcandalium vocant, & altero leviore funiculo operculo accommodato, ita ut attractus illud aperire poſſet. Itaques manibus propriis utrumquefunem in mare demifimus: vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum, ſcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere, minorem funem traxi, operculum referavi. Extraximus opertum mari ple. num, falfo, amaroque, baud majorefalfedine, vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio guftabamuscompa rando. Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza il chiariſſimo Boile, il qual dice, che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella diſopra; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata nel fondo del mare pezzolinidiſale, e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel, che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino; affermando con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua toſto che ſi riſtringano. Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame; la qual parimente nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno a’mari, i quali dice Ariſtotele eſſer molti, e molti, che non ſi congiungano inſieme, trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe, p piccioliſſime focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli, e follemente giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei; e nel Parapamiffo l.2 lor prima fő te avere il Battro, el Coaſpe, e l'Indo, e l’Araſle, cche da queſto poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle, e impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò intendente, che'l Coal pe per la Perſia diſcorra, e di la dalla Perſia il Battro allin Battriana Provincia dea nome, e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè non è da credere, che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane, e rimoſſe, in un modelimo luogo tutti, e da una medeſiına fonte ſorgano; c'l Tanai ſa ben ciaſcuno, che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff Ariſtotele, che nella Liguria un fiume grandiflimo; e non minor del Po s'inghiotta tutto, e fi divori dalla terra, e quindi dinuovo poi rinaſcendo diſcorra altrove. Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti,egli molto ſcioc camente parlando dice, che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto, e condenſo, e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne, e nelle picciole buche della terra; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal gravezza, la quale perrocce, e per burrati, eper lande, e pervalli faccendo l'acqua diſcorrere, eca dere La fa inquieta, inftabile, e vagante. Nel qual modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli, e fonti, e poveri rivi, ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca, e da ridere, ben può comprenderlo chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica. Eche direm noi di quella così ſmiſu. sata, e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja, ch'avanza inver quante novelle, Quante mai differ favole, ecarote Stando alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice, che fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate; che fatta ne la ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo Mazzoni, farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre Italiane per linea perpendicolare; c quì non può non gridar eoli: papa in quos aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici; putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe famam. La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare, o tacciare il noſtro veritiero, e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico, cercando a biftento di menomar cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue; qua DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen, ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem nimium exfuperat; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores judicent, dice, num recte philofophus, cujus eſiree condita, &abditadocere, excufetur,fedicatur eum popula. rem famamfequutum effe. Ma fe falla così ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere, non meno errar ſuole egli talora in rifiu. tar come mentite, e falſe quelle, che manifeftamente ſon vere. Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo, in cui già cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for bituminofe, e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria, egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve, (Benchefia gravepur, qual ferro;of affo,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare, e ad affermare a fuo talento tutto ciò, ch'e' vuole, fenza aver riguardo niuno alla verità. E volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere, e negare contro l'avviſo di molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che direm Noi della Galaſſia, o vogliam dire cerchio di lat te, il quale fecondo Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per l'eſalazioni, che dal le baſſe valli, e dagli alci monti vi manda continuo la cerra; errore così grande, che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero, e apertamente ne'l ripigliarono; in torno alla qual coſa, ſon veramente degne da notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2 quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo: il Reo (dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell attore; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la Galaffia, ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone; perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur, nifi ftul si quidam:fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome CeſareCremonini:mathematica,et rationis expertes;e Aver roe, il quale così a capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele, che tranguggiar volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire. Ma che direbbono a’giorni noſtri il Cremonini, e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci, fe mercè del Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce, ch’ammucchiare inſieme, e riſtrette laſsù formano la Galaſſia, edi quà ne fembrano per la lor picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito, allor che, come Plu tarco, e Macrobio teſtimoniano,difſe eſfer la faſcia del latte non altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza, non già perchè allumate non fian dal ſole per lo tramezzamento della terra, come falſamyente ne vuol dar a diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito, per avval lare il buon nome di quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore. Ma chi non fa quanto egli fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle stelle comete, e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi; e già n'è prie troppo a ciaſcun manifefta la verità, avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco (che tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così dimentito, e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo, intorno alla natura del ſole, e dell'altre ſtelle? E che direm noi della favoloſa novella della sfera del fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo avendo Ariſtotele poſta ritonda, pure ſpagato, dice ne’ libri delle meteore,ch'ella inverſo Settentrione, alquanto più rilevata, e alta filia. Nedi ciò anche contento, ne’li bri medeſimi delle meteore, come ſe caduto gli foffe della memoria, ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione eſſer la terra, non già ritonda,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo,o di cilindro, o dirottame di colom na: ftando ella, ſon ſue parole, non altrimenti,che tamburo; perciocchètale è lafigura della terra: equantunque ſi paja ch'eifavelli della terra abitabile, di queſta anche aveans favellato gli antichi filoſofi, i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che ſia di ciò, falfo pariméte ſi è, la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo; ondeebbe a di re il Tallo, comechè peripatetico e' fi foffe: Tal che nonſembra l'habitata terra Timpano più,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color,chefanno. Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele,i que. li quafi in ogni carta delle ſue opere s’incontrano, lun gofarebbe ora a dire; le quali così manifeſte, e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono, chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle. E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di fcoprirgliele, tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne. Solamente non vo lafciar di trarne a noſtro concio, cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo, che il luo maeſtro Platone, e Socrate ſi aveſſer già fatto; e feco dochè più in concio gli rendevali ſerviva delle opinioni al trui; e quelle, e queſte, or abbracciando, or rifiutan do a ſuo talento, non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo. E certa mente lo direi co'l dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora, che dir ſi poſſono propia mente ſue, eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo 1 2 4. 4 capiti, e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de multis, magnis infinitorum authorum; & operum vigiliis; recognita nufquam funt. E piaceſſe pureal Cielo, ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare, con quanta ragione detto aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida, eſſer Ariſtotele ditardo, ed ottuſo in tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες,είναι αυτονευσχερή,θρα συν, πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον αποκεκλεικόG, και στις πασαν αυλήν, και σκηνήν έμπισηδηκόα. Timeo diſse contr’Ariftotele, efser lui impronto, orgoglioſo, rintuzzato d'intendimēto,eda ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti, e per ogni ſcena pro verbiava; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul la inteſo di sì fatte faccende dice, in favellando di Timeo, falfifima enim omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar alcun luogo alle conghiet ture, più balordo, e ſciocco eſſer veramente ſtaro di quel, chc Timco, ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele;perciocchèegli ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor, ch'e'vi logo raffe,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele, e malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo. E ritor: nando ora a ciò, che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele cerca talora di contraſtare, ed abbattere gli altrui veri ſentimenti: maraviglioſo certa mente, e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli dice del ragnolo: ed è,che avendo già detto in prima De mocrito, che le ſottiliſſime fila, onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole maraviglioſamente le fuc tele, egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo fondo le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere;levofli incótanente fuſo Ariſtotele, e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe, che Democrito in ciò manifeftamente fal lava, e che le fila forminſi dal ragnatelo per tutte parti del ſuo corpo, a guiſa di corteccia, o di lanugine, chetut ta gli vadano coprendo la buccia; o non altrimenti che s? avventino le penne dell'Itrice: ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον, ευθύς γεννώμενον, ουδ' έσωθεν, ως αν περιθωμα, καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges: cioè i ragnateli nati appena mādan fuq ri le fila,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come falfamente immagina Democrito, madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur di quegli animali, che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine,e lentezza de’poco curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto,confarne pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do daparte quello di Democrico;ilquale tutto il corſo del la ſua vita, che fu affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato; e tanto più degni di biafimo ſi rendono, quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno, e avvedimen to, o fatica per venirne a capo: che ben ancora le feminel le delcontado, e imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno, allor, che ne’lor piccioli abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero, chi mai ſoſpettar avrebbe potuto, eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco, e ardimentoſo nel ſuo lcrivere, che manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova co’propi occhj. la ſua ragio ne; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più conoſciute belve; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud; filare;pchèvalſe tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto: acceptomanu bacillo Araneum quendam:dia ce il Blancani: ex iis, quicirculares telas, quas nonnulli, & quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt,fic adii, ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet; dum ipſe interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras ederet: cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret: cum primum obferuo ipſum inverſum, hoc eſt capice deorſum, ventre ſurſum pendere; ut autem acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui, ne pre nimia luce tenuiffi mum aranei filum aciem oculorum effugeret; quo facto cla riſfimè videbam filum ſeceſſu Aranei prodire. Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio; mane a Plinio, ne al Blancani volle pre ítar credenza il Vosſio padre: così poco acconcio egli eb be l'intendimento a diviſar delle cole della natura. Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro Ariſto tele vanamente anco s'aggiri, dicendo partorire i ragnoli cotali vermicelli vivi, e non già le uova, come alcuni im maginano; ma quanto ciò ſia dalvero lontano, dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe, non avea mai veder po tuto ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce. re i piccioli ragnolini; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al Canclo in dicendo efferli ingannati coloro, tra'quali fu Erodoto, che diceano il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo, comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben conoſciuti aniinali ſcioc chinen camente Ariftotele travede che dovrem noi credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade, e meno uſati,de quali egli nátrâ cotante ſtrane, e incredibili novelle, e più affai, che me diceffe mai fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo? Narra egli del Lione Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè sì ſottili, e poche quelle ſiano, che par,che af fatto eglinon ne aveſſe; onde egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo fia, non pure per Ateneo, che forte ne ’ ripiglia, ne ſi fa chiaro;ma dopo lui ancora più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio; il quale aperti due gran lioni in Afnias, reggia di Danimarca,vide egli avere in molte delle loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu ravviſato in queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa, Principe di Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle; e quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’ critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio,paver lui poſto in bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem, sedſpiſſa Leonum Viſcera ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto, quando fa egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante, all'effeminato Ruggicri così dica: Dimidolle già d'Orſi, e di Lioni Ti porſi.io dunque li primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni; il che an che credendo ad Ariſtotele il Mazzoni, ricorre per difen der l'Arioſto, giuſta il ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane, e puerili, ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche, e cavillo fe: Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele, diccndo egli aver i Lioni così dure, e falde l'offa, che fre gandoſi inſieme, agevolmente ſe ne tragga il fuoco; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602 Ragionamento Ottavo altrimenti, che avvenir loglia nella pictra focaja. Ma ciò manifeſtamente fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia, i quali comechè fortis e gagliarde l'offa avelle ro, non però di meno per diligenza, chevi fi adoperaffe, non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla di fuoco;, fen zachèſe ciò pur foſſe vero,non ne dovea però cavare Aria ftotele per via d'argomento l'invincibil durezza di cotali offa; concioſliecofachè anco in fregandoſi due tron molto dure, e pieghevoli canne d'India, o due molliflimc ferole, o altri simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono accender in niuna maniera il fuoco. Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte, e partite, ficome tutt'altri animali le hanno, e poi per opera de’nodi con giunte; ma tutte intere, e diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte, che in niun modo ſi poffan piegare; ma in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame. te lo convinſe di bugiardo, il Borricchio; dicendo, per ve duta fermamente di que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta erant. Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio, e ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi, dice egli, che i cani fiutar fogliono gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al pedal dell'al bero, quando e' vuole ſtallare; c più appreffo ſoggiugne: e lafcia il Lionegrave, e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi, ch'egli divorar ſuole; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato, che il Lione fpira; percioc che, come e narra, le interiora oltremodo putono al Lio ne. Coſa, la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione aperto, o teſtè occiſo,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che: Ariſtotele fognò del Camclo; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo;non avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia formata da'peli; c ciò, che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte ſangue, ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti dietro al Coccodrillo alle Aqui le, e ad altri molti animali, che manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono;e tuttavia da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas ventura del noſtro ſecolo; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli affennati, e diligenti ſcrittori, i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono; ed Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio Cicerone, incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della natura degli animali; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e ſcimunito, ben è da credere, che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per Ariſtotcle: c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali animalida lui ben conoſciu ti; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche. Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a dire; con qual cura, ö diligenza, potè mai egligiugnere a fapere, che coſa fi facciano i peſci nel ma re, come dormano, e qual ſia il lor vitto,o qual Proteo, o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua. gliargliene. Come gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche; ove mai potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio; e dopo aver narrato queſte, e cent'altre novelluzze da ridere, e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori, dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali, riſtucco alla per fine di più annoverarne, trala fcio 1o, dic'egli, di narrar molte coſe,e multe,nelle quali ma nifeftamente lo fpeziale, cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente delirato. Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali, Io porto fermislima opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni, e che buccinavaſigià (ficome riferiſce Gggg 2 Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè, ch'egli avuto aveſſe Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro, per po refla più acconciamente fornire ottocento talenti, che ſo condo la ragion del dottisſimo Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e che per una sì glorioſa, e mirabil opera gli foſſer deſtinati, co me narra Plinio:aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere juffa,omnium,quos venatus,piſcatuſque slebant,quibufque vivaria, armenta, piſcine, aviaria in cura erant, ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto; imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an tichità, dice, che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro, ma da Filippo ad Ariſtotele foſſe ſtata donata. Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare; conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre, ch'e' fece in Grecia, e perle grandi impreſe, ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia Perſiana, gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj, in uccellami, in cacciagioni, o ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi,priina d'incominciar la guerra contro Dario, ad altro certamente dovette badar, ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri; fcozachè non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta; manel tempo della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele, che per fargli onta, e diſpetto,mnādò Am baſciadori, e doni a Senocrate ſucceſſor di Platone, e fie ro emulo d'Ariftotele. E dirò ancora, che ſe mai Ariſto tele ebbe parte ne’teſorid Aleffudro, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico, che in acquiſtar notizia, e contez za delle coſe della natura. Neglimancò agio da farlozim perocchè egli era, come ne da teſtimonianza Tineo:760578 γαςείμαργον, έψαρτυτήν, επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito, e divorator delle più ghiotte vivande, ne fi ritene va di gos va difvögliarſi di qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore, per cuii giovani male il loro avere ſpé, dendo, le più fiate miſeramente ne capitano; e tinto s'in veſchiò nella pania, che per amor venne in furore, e matto; e come narra Laerzio,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia, che a leicosì immolò, come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi; e per tali cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo, gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni: poi tolſe a fare il foldato,ove ne meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi avea depoſto le ſozzure tutte del corpo; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità, con cui difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio. Io adunque mi fo a cres dere, ch'egli non nai vedefle notomie di morti, non ches di vivi animali; e che folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò, che ne’libri degli antichi fconciaméte forſe appre lo n'aveva, o immaginato. Perchèpoi così alla rimpazza ta confonde, é meſcola il tutto, ragionando de' nervi, es delle vene, cheben'a lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis appingit,fluctibus apram. Così cgli follemente immagina naſcer i nervi,e le venej tutte dalcuore; il qual dice ſolamente eſſer quello, onde il ſenſo, ei movimenti negli animali fi facciano; ne ad al tro fervire il cervello, fuor folamente, che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore. E ſomiglianti altre balordaggini, e fcipitezze narra: anzi maggiori affaiz in ſomma intorno alla fabbrica, diſpoſizione, ed ufici del le parti del corpo umano tanti,e tanti falli commiſe,che ben potè dir Ateneo: coſe tali ſcriffe Ariftotele, parlando della ſtoria degli animali, 'che come dice il Comico, daglá ufcempiati,e pecoroni quaſi a fravaganza,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben fi parc, che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente, anzi che no, allor che diſſe po + 1 CO Ariſtotele conotcerti di notomia. E ben’a noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva, Ariſtotele intorno agli animali compoſe, ſolamen te que’pochi ſe ne leggono, che il tempone laſciò; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi favorevoli avrebbono; fi enim,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent, effent fortaſſis innumerabilia. E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe, del tanto aju to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare? Ma ſenza venir tinto buccinato, fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò Democrito, no dirò Eraſiſtrato,non dirò Erofilo,non dirò altri antichi, ma un folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli, sì chemeritevolmente, e ne ſtupiſce l'aman ſa pere, e l'amira il preſente ſecolo, el celebrerà il futuro, Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura, cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale? Eglicosì ſciocco, e gocciolonc fu Ariſtotele, che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono. E per nulla dir de' Greci; o d' Avicenna, d’Algazele, e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato,che talor da lui apertamente non fi partiſſe? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto, lume della Criſtiana ſapienza, e della venerabile Ordine de'Domenicani, avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate, niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam, fed juxta pofitiones peripateticorum; & ideo illos laudet, velre prehendat, non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto Pereira della Compagnia di Giesù, il quale in quel ſuo libro de rerum naturaliums, principiis, dopoaver largamente conſiderati i poco fermi argomenti, c fillogiſmi, con cui le coſe dubbic, e incertes. fievolinente egli tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium, quam nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles, fi quis velitbeneſentire, propriè loqui, nous poteft dici abfolutè,din totum ſcientia; perciocchè riguar dando alle fondamenta di quella, e ravviſandole,che falſe, e che dubbie, e malamente con falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia, dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche: ragionevolmente poi e': ne tragge, e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars, pars autem topica tantum probabilia.. contineat, non poteft dici abfolutè, & in totum fcientia. Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa, quanto inu tile, quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia d'Ariſtotele, conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola. Dico adunque, che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla ſublime altezza della natural filoſofia pervenire; una, ches quantunque falli, è nondimeno agevole, e piana, echiun que per quella prende il camino, non fida cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē. preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini, e de' vocaboli, quali a ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi poſſono; e comechèſembri, che tutto dicano, che tutto ſpianino:impertanto, altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non altrimenti che ſi faceffero un tempo, ſe'l ver dice l' Arioſto, que’franceſchi, e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità; ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è più nobile, e più gloriofa. Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti inveſtigatori del le coſc, ei ſavj interpetridella natura; i quali diſcorrendo regolatamente, ed offervando con diligenza, guatavano quaſi a ſpiluzzico le coſe naturali. Dopo queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli altri a traviac da queſto diritto ſenticro, ed a tenere la falfa ſtrada;o che ſe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare. E fu tanta certamente loro ſchiera, e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go del buono filoſofare; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon, perchè rara è vera gloria: i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie, che noi rabbiamo comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle, Leucippo, cd altri pochi, Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel ſatirico: Rari philofophi: numerus vix efttotidem,quod Thebarum porta, vel divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro ) etatem inter experimenta con fumpfit; e con principj veramente naturali, cioè a dir ſenli bili,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla natura appartener fi poffe, che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo detto antiquorum omnium fubtilif fimum,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a chiamar l'ebbe lingua della natura; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia, e per invidia volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui; poſe in non calere co tal vero, e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della natura, e con univerſali, c apparenti ragioni avvilup pò il cutto. La qual maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe, fu poi ſeguita,e abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia; ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia, e la fece di nuovo fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti, ove rinaſcendo viffe, e morio. Perchè non ebbe il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di quei tempi un vano berlingare, e cinguettar di vegliardi ozioſi, e ſcioperati, a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire, che gli antichi aveſſero nelle coſe filoſofato,ei moderni ſolamente in pa role. Qualdunquefia maraviglia, ſe così mal concia, malmenata la filoſofia, non potea vantaggiarli nella Grecia. Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del muides is ', gépur di enlew oux iso, certè ha bent, dice Franceſco Baccone, id quod puerorum eft, ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint. Così perduta, e ſpenta la buona filoſofia, poco a capi tal tenendoſi i libri diquella, nc punto per huom riſerban doſi, o traſcrivendoſi, avvennc, che infra breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi perderono; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto, e corrotto ſecolo erano in pregio; ne? quali poteſe ben paſcerfi,e nutricar l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba ogni coſa, que'pochi libri, che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice il teſtè rap porcaco Bacconc, doctrina humana velut naufragium per. pefa eft; & philofophia Ariftotelis, o Platonis tanquam, tabula ex materia leviori, minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati, lo non ſo come, dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade; e queſta è quella filoſofia,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita, e tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna: e a cui dicevam, che già poneſſe le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero, e diritto modo difiloſofare: percioc chè difficil molto, e malagevole gli ſembrava a ſeguirlo, lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare; comeagevolmente egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi, e malimamente in quello, ch'egli intitola il Ti Hhhh.. meo, o della natura. Perchè ben ſi pare, ch'egli ſaggia mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero, per cui già Democrito, e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia avviatiſi erano;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν, fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης, αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα και η άλων και των τοιούτων, ουδεν·έτι, ουδε. περι αλοιώσεως, ουδε περί αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί ουδενός ουδείς επίσησεν, έξω Δημα reíte;cioè Platone cöfiderò la fula generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare, come formifla carne, el'offa, e gli altrifo miglianti corpi; ne demutamenti, o come s'accreſcano,o pig giorino cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno, fe non ſe alla rimpazzata,e lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora.Ecomechè que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto, e falfſſimo appo ſtamento, e maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così fattamente ragionare; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre, de'venti, delle gragnuole, de’nuvoli,del criſtallo, della neve, della rugiada,delvino, dell'olio, e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli odoris e de'colori delle coſe, e detto altresì de’mutamenti e degli accreſcimenti di quelle; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta della carne, e dell’oſsa, ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe; perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero, che ſi conveniva; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente. E queſto è quel, che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella difeſa del ſuo Platone. Ma fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi, pereffer valevoli a produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori, e i ſapori, e i colori delle coſe; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele, niun maeſtro in filoſofia, fuor ſolamente Democrito, aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi fondi i principj delle coſe. E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε γίώ διατρήσας καθαρgν, και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ, και μετα τούτη άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra pura, é netta,meſcolalla, e inu midilla colle midolla;quindila poſe nel fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e cosìriponendola molte frate or nel fuoco, or nell'acqua, sì, e tanto fece, che dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi. Or chi domine, non direbbe con Ariſtotele, eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole parole, ſenza veder più in là, che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la terra, come vuol Platone, era pura, e ſchietta, non era, meſtier certamente di sbriciarla; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata, così ammaſſati, e riſtretti ſta vano, che ſegnale alcun di partiinento non avevano, già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi; e ſeguen temcntc non era dadir terra quella, ma una cotal maſſa, che tritata, e minuzzata così ſe ne poteva formar terra, come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo, ſecondo le particelle,in cui partir ſi poteva. Perchè me ftier certamente non era d'accattare altronde fuoco, o ac qua per lavorar quaſi in fucina, temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva. E ſe i cubi eran partiti, e affacciati nella lor debita figura, che coſa mai potea cosi divili, e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega; non altra diſcorrente ſoſtanza, e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo Jarmente figurata; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo. do; ne la terra pura farebbe, e da niun'altra coſa non tra meſtata. O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto tener diviſi? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda ſceverato oltre molte altre inconvenienze, n'occor re queſta, che non già un corpo ſaldo, ficomeè la terra: main diſcorrente verrebbero a comporre. E lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo Placone intorno alla generazion. della carne, e de' nervi;ch'egli narra nel medeſimo Dialo go del Timeo; il qualccrtamente non è altro, che una va ga, e ben compoſta diceria; che con vane parole allettan do i ſemplici, e poco intendenti delle coſe naturali, fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele in dir,che il ſuo mae ftro non trapalli più, che la prima buccia delle coſe in filo fofando, e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della natura. Di più, dice Ariftotele, e libera mente confeffa, che ſciogliere i corpi fino alla lor ſuperfi cie, come fa Placone, ſia coſa affatto ſconvenevole; per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità, altra cofa, ſe non folamente corpi faldi; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto dopo ſoggiugne: Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e convenevol ragione la natura delle coſe. E comechè in parte ingannaſſefi Ariſtotele in ciò dicendo; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo, come talora il caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie: non però di meno ha egli per al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun ' ch’abbia ſenno, ſoverchio alfai, e ſconvene vole quello ſcioglimento de corpiinfino alla ſuperficie. E noi, le il tempo ce'l concedeffe, ne ragioneremmo per av, ventura più alfai, e forſe altrove ne diremo; ma non è al preſente da traſandar, che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente ſtricolarli, e minuzzarſi in altre fi gure, come ſi pare,ch'egli in qualche fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia; vano certamente, e foverchio è a dire, che que'cotali corpicciuoli colle lor figure, e facce dean cominciamento alle coſe tutte del mondo; e non più tolto un ſolo corpo, il qual poi in molti corpicciuoli di moka te, e varie figure partito foſſe. Ma fe pur vogliams contendere, che ne ftritolar, ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano, lo.non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante, e tante diverſe coſe, che noi ci veggiamo, baſtanti pur ſiano. Ne meno fo lo certa mente comprendere, come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe, portando opinione, che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio; nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani, e prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi l'avvedutisſimo Platone, riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā. taggio ne'maraviglioſi ſegreti della natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo i più ſicuri lidi, non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del filoſofare, e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle coſe. Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli, non volendo ne ans che affermare alcuna, comechè leggeriffima cofa, feces quaſi in iſcena comparir perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto, delle coſe del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia. Ma lo ſcal trito, e fagace Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo, e con tutto lo ſtudio del ſuo ingegno riyol gendoſi, cercò artificioſamente la coſa naſcondere: e tanto operò, che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi dimoſtrerò. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare: e ad eſemplo degli antichi, or di Teologia, or di ſapienza, or diprima filoſofia altiera mente chiamollo; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo della Metafiſica cambiati. Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire;ma chi pur n'è vago di qualche contezza, vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio, e Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà,e di ligenza eſaminandolo, trovollo alla fine non eſſer altro, che la medeſima loica d'Ariſtotele, con diverſe parole, e nuovo ordine travolta: e una ſconcia, emalcompoſta me ſcolanza, e guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da Damaſco, il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto, o d'Ariſtotele medeſimo fureputato, comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele, c Peripatetico ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe; e de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco. Ma che che di ciò ſia, immagi nò Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere, ch'egli aveſſe diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte, per non doverle poi meſcolar colle fi fiche, come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi peripatetici confeſſano. Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua ſcalterita avvedutezza; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente, e ideale, ne ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai, e ingegnoſoallas ſembraglia de'giovani; i quali s'avviſavano concotali va ni, e folli diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto, quando per avventura non ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva, maravigliando ſommamente di cotanti termini ſtratti, e fantaſtichi, comes nuovi, e non ancor comprehi dagli ſcolari di baſſo inten dimento, e da dover richieder più profonda, e ſottil dot trina, checoloro non aveano; Semper enimſtolidi magis admirantur, amantq; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non iſpiegando mai nulla di vero,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe, di cui egli fa vella; ne come di nuovo naſcano, o yengan meno, ne co me patiſcano, o operino nel mondo. Al che riguardando infra gli altri Plutarco, comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto; l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto avea. Ne in ciò cota to teneri,.e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti fono, che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo fuo Chioſatore, il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus (dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico, edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones: ubi adres phyſicas de venitur, quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires nonacuit; ed in un altro luogo: Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus affuetus, quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude: fed fenties in rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi ſarà maicolui, che riſtucco forte, e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l biaſimi, e rimproveri, rin venendo in lui più, e maggiori tacce affai', che non vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616 Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro,che gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica, e apparente, prele per principi delle coſe sé. fibili, e vere, terminitutticonfuli, e generali, e da' noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare; mallimamente, ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata, do ver delle coſe ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj; e ciò cotanto egli giudicò vero, che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i principi, onde Ariſtocele vuole, che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi foſſero, così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare curci que'fiſici principi, che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono. E ciò ben ne diedea conoſcere il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo, allor che con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati; e provani peripa terici, fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale. Il qual arti ficio dopo il Digbi, molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono. Ma laſciando ciò al preſente ſtare, non iſpie gando mai Ariſtotele ciò, che in fiſica ſia quello, a cuive ramente poſſa adattarſi quella generale, e confuſa ſua difi zione della materia, e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene. E nel vero, chemonta per Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce, e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi? ed ecco la gran maraviglia, naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli con tante bel faggini millantando innalza, chiamandola privazione; più ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe. Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe, cioè a dir materia, e forma, ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta dell'univerſo va fabbricando? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio, e ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria delle coſe cſser po 1 tel  tenza, overo in potenza a divenir tali coſe, e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto, che dandoalla materia perfe zione, la mandi avanti, e la faccia eſfer propiamente tale. E queſto è quel, che con tanti riboboli, e aggiramenti, e lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona. Ma per Dio, ſe non fi fa in che conſiſta la fiſica natura della mate ria, cioè a dire iti cui cada cal potenza a divenir quefta, o quell'altra coſa., come potrà mai ſaperſi poi la fiſica natura della forma, e ciò che abbia afarſi, acciocchè la materia imprender poffa o queſta, o quell'altra diterminata coro per informarſi? e ſe queſte pur non ſi fanno, comepotrā. mai ſaperſi le qualità, l'opere, e le paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano? Se a giovane, il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli,dopo molte, e molte vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro: attendi figlio, e nota ben tutte mie parole, ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da compor gli oriuoli: egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo fabbricaſ d'una cotal coſa, che non è mica già oriuolo; perchè ſe oriuolo ella già foſse, non potrebbe divenir oriuolo;ma agevolmente ella può venir oriuolo per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente,che udédo cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato, Goaffe direbbe, maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io,era qual coſa è quel 12 cotal materia, che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale; e quali ſono quelle coſe, per le qua lidivien tale; ma non ritraendone alla fin riſpoſta, fe pri mieramente di faſso, o di legno,o di ferro,od'altro l'oriuol fi debba comporre; e poi con quai mezzi, e lavorj ſi fac ciz, ſchernito, ed ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura. Or così appunto ſcherniſce, e beffil Ariſtotcle. i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi ſcolari d'Aristotele, ponendo in non cale l'autorità del maeſtro, çome in altre coſe già fatto aveva, diſse la materia delle natura li coſe eſser vero, c propiamente corpo; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo, e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe, pur non ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe, reſtò di farſi più avanti, e l'impreſa in ſu'l buono abbadono. Nemenopotè ſeguirſi il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna; il qual diſſe doverſi aſſegnare alla materia, comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non potendoſi a niun partito ſcufare ciò, che dice Ariſtotele intorno alla materia ', ne men riparando in par te gli errori di lui, con iſtorcere, e piegar le fue parole in altri, e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima, e'l proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do: ſe la materia d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è, ne: che, ne qualc, ne quanto, ſarà certamente ella, come S.. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta: cioè a dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele, che in sì fatta maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili; e pone egli i quattro volgari elemen ti, come ſecondi principj decorpidiquaggiù; ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (come avea fatto in prima Empedoclc, Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi corpicciuoli) natu ralmente procedendo, la vera eſſenza diquelli; perchè gli va diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità; maegli poi, come a natural filoſofo conveniva fare, le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar briga ſi vuole d'in veſtigarle; ed appenadeſcrive, rozzamente narrando al cunipochi loro effetti aperti, e manifeſtiad ognuno; ed'in quegli anche talora sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più; ficomeallor, che francamente egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie no; e pur dovea egli avviſare, che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento all' acqua, chenon le facea calare a fondo, ſepara quelle coſe, che non convengono nella gravità, e.che di diverſo genere ſono. Così parimente erra Ariſtotele allor chedice, il caldo fceverar le coſe, che di diverſo genere ſono,, da quelle, che convengono inſieme nel genere medeſiino; imperocchè uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre, cut te le coſe,, che ſiano di qualunque genere, comechè talo ra (il che ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do, non vieri, che le coſe più gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi. Manon meno fallar {i vede Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido, definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del genere; dicendo: ma l'umido è quello, che dileggieri ricevendol'altrui termini, non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè, tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or. E no ha dubbio, che una coral definizione non avvegua al di fcorrente, di cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica, ſe non ſe quel.corpo, il quale diſcor re, s'inſinua, e penetra agevolmente, compreſo cede's e non fa reſiſtenza; perchè non eſſendo da ſe terminato prende dileggieril'altrui termine. Ma l'umido, oltre a queſto s'avviticchia in sì fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile; laonde altro.nonè, ſe non che una ſpecie di diſcorrente. E fe l'umido pure è tale, quale il ci.deſcrive Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec,.co.il fuoco.con Ariſtotele, maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio, ed Antonio Perſio converrebbe chia marſi. Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo Zabarella, l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco, no già per ſe, eſſendo il fuoco ſecco per fe, ma per accidente: cioè ricevere agevolméte il fuoco il termine altrui,non già per la ſiccità: non convenendo il ciò fare a tutti i corpi fece chi: ma per la tenuità delle parti di quello; anzi contra ſtando la ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe, avvien, ch'egli non riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono, il termine altrui. Ma ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò, che dice il Zabarella, adattandoſi aſſai più dell'acqua, cdell'aere il Iiii fuoco a quel termine, che da altri corpi preſcritto'gli vie ne: oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano cfler aſſai più dell'acqua, e fominaméte umida l'aria, perchè ſe la ſomma umidità conviene al fuoco, egli non aurà certamente parte niuna in quello la ſiccità; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo, il ſecco eſſer quello, che ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo, c malagevolmente prende l'altrui termine: Engordà, no evóerson pèr cireiw opw, duodessor dè, egli non può con venire in modo veruno al fuoco. Or come adunque il Za barella oſa affermare, che'l fuoco fia per ſe ſecco? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue, ſarà anche per fe umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele,è ſpecie dell'u mido, e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue, ma nella tenuità l'aria, non che gli altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la dottrina d'Ariſtotele, per fe,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il fuoco. Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella, e da Ar cangeloMercenario, che volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde, e come potraſli giugnere mai a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti? ma ond'è, che il folc, per tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo, comechè produca calore? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità; come nel ghiaccio, ne'metalli, einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo, o pure i più di eſſi,fi poſſono fondere in vetro, chi ardirà di dire, che'l fuoco non ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe, o la maggior parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro, non di rebbe ciaſcheduno, che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro? oltre a ciò allora quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina, vien dal fuoco cambiata in aria, certamente quella maggior umidi à, per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco. Ma forſe ſarà ſecco il fuoco, perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi ſente da noi ſecco? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re; ma eſſendo propio del calore, comc Ariſtotele dice, il rarificare, certamente da ciò umido più coſto, che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri, Ariſtotele non l'umido, ma il diſcorrente aver definito; e che fi legge umido nelle fue opere, per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi libri; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata definizione, che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére, or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel, che tra corpi diſcorrenti tien vigore do umidire, e chehumidum, vien detto da’latini. Eglino non bene intendendo i ſentimenti d'Ariſtotele, immaginaro no aver fui l'umido definito;perchè foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza, e di co traddizione; perchè d' talora dica,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida dell'acqua. Ma quanto poco, anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò, che fingono coſtoro, chiarainente ſi conofce; imperocchè Ariſtotele in coſa appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua, il che appena mi ſi laſcia credere, che aveſſe potuto avvenire, eſſendo ella così ric ca, e copiofa divoci, non gli avrebbon mancati modi, e vie di chiaramente fpiegare ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe rocchè, per tacer d'altro, dice egli una volta, che la tera ra ſi trovi in tutti i miſti, perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi, che terminare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote. le definir voluto l'umido, o pure il diſcorrente; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote, e non comunea verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte contro quel,ch'altre volte detto egli avea, viene a determinare l'acqua ſola, eſcludendone l'aria, eller o umida, o diſcorrente, M,a nella ragione, che Ariftotele di ciò indi a poco rapporta, ſi vale ſenzafallo della parola vypov a denotar l'umido; e dice eſſer quello, il quale ha, forza dicontenere, riſtrignere, e coaglutinare la terra,la quale ſenza l'acqua verrebbe a diſſiparl.; perchè eſſer:cgli.conchiude, l'acqua parimente neceſſaria alla compoſizio. ne de'miſti, con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη δύναθα συμμένειν. άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare, che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta; ma di ciò ad altri laſciando il diviſare, es Jaſciando ad altri eziádio la briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura di ciò ch'egli dice freddo, e umido: caldo, e ſecco: e così poi far anco di que', che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che fa parole del tenue, in dicendo, che il tenue compoſto fia di picciolo parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε. pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa, che detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue; il che dovea certamente c'fare, anche dell'altre qualità. Ma vediamo ora come Ariſtotcle a ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento, in cui non ha dub bio, che conllte cutta la nzural filoſofia. Primieramente cyli cgligiúdica eſfer ilmovimento un cotal genere,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento, la diminuzione, la generazione, e’Imovimento, che chiaman locale. In di diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica, in cotal guila: rov Suv áués.Övr. ÉVTE. dexaci, ģTovorov, cioè endelechia di quella coſa, la quale è inpotenza, in quanto ella è tale; ed altrove: aivos, évtené.. geta toī XIVSTOU, xuvytor, cioè, il movimento egli ſi è endelechia della coſa, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta potenza. Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato, e uccellato da: Ariſtotele?maſſimamente, che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione più mani feſta, e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè diceGiovanniMagiro, famoſo peripatetico, eſſere cotal definizione biafimevole', e vizioſa: atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit. Ma. Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa, e quaſi divina; ſpiegandoli, emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la natura del movimen to. MaCicerone, e Porfirio affermano ', effer quella voce ŁYTENÉXAtjun vago, e artificioſo ritrovato d'Ariſforele, per uccellar le genti; e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele, non ſolamente per ifpiegare il moviinento, ma l'anima ancora, e quella ſua nuova mtura: anzi ilmedeſimoIddio (coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee' ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo: Entelechiæ fue Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia; e reſti a quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore, inveſti to in dore il rcametutto della filoſofia; e che più? 'perdonili anche a lui ', che contro le regole della dialettica con voci equivocoſe, e oſcure le definizioni formar fi poſſano:'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto,non già per perfezione acquiſtata, e compita, mache tuttavia fi vadi acquiſtando, comepar che e' voglia: o per me”di re, per la ſtrada p la quale la perfezione s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne; perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa, comechè imperfetto; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto, cioè a dir alla forma, in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to può ella effettualmente imprenderla. Or dove eglino ſono, dove conſiſtono quelle tante, e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum tanto feretbic promiffor hiatu? Parturient montes, naſcetur ridiculus mus. Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa, l'eſemplo dei rame, il quale comechè poffa divenire ſtatua, nondiincno quel movimento, col quale egli poi vienead acquiſtar la perfezione, e la forma di {tatua, non appartic ne punto al rame, in quanto, ch'egli è rame, ina folame te in quanto egli può divenire, o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς, και κατα τον λόγον, ω αν και του χαλκού, και ganzes, ÉV TERÉNHO, xívyos, Mache montano alla filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole, echiè per Dio, cheno ravviſi,e non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco, la ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi ciò mai ardà a negare? Ma dell'atto, e della potenza, non ſolamente ſervir ſi voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento; anzi in molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire: Magnos mehercule Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe, actus potentiave diſtinctioni gratias debet;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat; il che parimente venne avviſato da Antonio Perfio. E nel vero Ariſtotele ſpelle volte ſi ſerve dell'atto, e della potenza per rattoppare, e rabberciar le ſue Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma lagevoli,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente definir mai voleſs Ariſtotele quel movimento, che chiaman locale, certamente egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale. La qual coſa: ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire; comeeper raffermar la ſua ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione, così definendola: l'alterazione, è atto di quella coſa, la quale ſi può alterare, in quanto ch'ella alterar fi puote: αλλοίωσης μεν γαρ, και του αυλοιωτού ή αλοιωτών, εντελέχω. Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo vimento del luogo la definizione: egli è il movimento del luogo, endelechia, cioè atto della coſa, che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura del movimento locale, dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele, che in trattando del moto locale, a valer non ſe n'ebe be. Matacer non fi dee certamente quì, che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa, genere anche delle ſpecie di quella, perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo, così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta,fed abfoluta exprimitur; &ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni d'Ariſtotele, rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives; il quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo, impertanto ebbe a dire: Ari Stoteles eſt in definiendo vafer, occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in ejus philofophia incerta, da perplexa, parum etiam vera; dum magis curat quem in modum reprehenfionem ex cludat, quàm ut afserat verum. E perciò funneanche da Attico, eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato. Ma tanto e tanto Ariſtotele dell'oſcurezzaſi compiacque, e così ſo vente in iſcrivendo uſolla, ch’ebbe a dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi: Summa laus Ariſtotelis ob fcuritas fuit. E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele, dicendo Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza, lo ſtudio, non per altro, ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere dagliſtudi della filoſofia, e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo, e baſſo intendimento; il che ſi pare, che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in quel la lettera, fe pur fu ſua, e non da' ſuoi ſeguaci finta, ch'e gli ſcritta l'aveſſe ad Aleſſandro, che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata s'ngoja nixovs libros, quos edi tos quereris, non perinde, ut arcana abfcondiros,neque editos ſcito effe, neque non editos; quoniam iis ſolis, qui nos au diunt, cognobiles erunt; impertanto sì malamente venne fatto ad Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente, che fu ravviſata da ognuno in gui ſa, che non poſſon far dimeno i medeſimi peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio, diTemiſtio, e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo averlo ſtrabocchevolmente commenda to, alla fine purdice in facendo parole delle ſue oſcurez ze: Accedebatad hæc ingenium viri te&tum, & callidums, &metuens reprehenfionis, quod inhibebat eum ne proferret interdum aperte, quæ fentiret; inde tam multa per ejus ope ra obſcura, & ambigua. Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto,ſei eſſere le ſpezie del moto: cioè generazione, corruttura,al terazione,accreſcimento,diminuimiento, e moto locale; ma a chiunque bene, e ſottilmente la coſa ragguarda, niuna altra forte di movimento ſi fu avanti nella natura, ſe non ſe locale; e nel vero tutte le ſpecie addotteperperAriſtotele, altro non ſono,ſalvo che movimenti locali; e ſi pare,che'l medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli; concioſliecoſachè dica egli una volta, che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello, che dir ſidebba propriamente moto. Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento, il quale è ſempre mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto,e circolare;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte pariméte,e circolari; la qual ragione,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi a conſiderare, Il moto çircolare, il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è perfetto, e regolare; vuole Ariſtotele eller quello, che fi få intorno almezzo; ma il retto allo incon tro eſſer quello, che faffi in ſuſo, ed alla in giù, Mataçé do, che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti, ch'egli immagina farſi intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari ', ma ellittici, follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice nell'univerſo, che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo, cheſi muove convien certamente, che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino; perchè ſarà mai ſempre ogni ſuo moto ret to, e formerà mai ſempre col muoverſi linee rette; laonde i moti obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco men, che infinite linee rette; laonde niun moto del mondo farà circolare; imperciocchè niun moto, che in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre potrà dal centro ugualmente lontano; il che richiede Ariſtotels nel inoto circolare. E quinci ſcorgeragevolme. te li puorc, quanto dal ver ſi diparta ciò che appreſo Ari ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri della diviſione, dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere: l'una di quello, che ſi fa intorno al mezzo, o lia centro: l'altra diquello, che ſi fa dal mezzo; e l'altra di quel, che ſi fa almezzo; ma degna ſenza fallo è d'aſcol tarſi con grandiſſime riſa la cagion,che di sì fatta diviſio ne cgli reca,françamëte affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti; concioſliecofachè abbiano i corpi tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa, e vana del pari la menzionata diviſione del moto d'Ariſtotele; enon aver moto veruno nell'univerſo, che compoſto eſſendo del retto, e del circo Jare, miſto con Ariſtotele dir veramente ſi poſſa. Ma trapaſſando a quella diviſione del moto, così cele bre ne’libri d'Ariſtotele, in naturale, e violento:veramen te in iſpiegare i membri di quella oltremodo vario, ed in conſtante e ' li moſtra; perciocchè una fiara dice, il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato; il che ſe vero fofſe, vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto, giuſta Ariſtotele, altronde procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea detto,egli afferming comechè da altri cagionato effer poffa, trondimeno alcun movimento eſſer naturale. Vltimamente Ariſtotele vuole, che quel moto djr ſi debba violento, il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo, che il ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è, fe non cambiamento di luogo, e al corpo non meno è natural queſto, che quell altro luogo: certamente al corpo niun moto ſarà mai vio lento; e ogni qualunquemoto, che nell'univerſo ſi faccia, dovrà dirfi naturale. Ne la terra, o altro corpo dique'che chiamanli gravi da ſe, comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in alto, quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi, che la ſpingono giù, e fan ch'ella ripugni il ſalire. Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo famofo detto, ch'ogni coſa, che ſi muove, per alrri ſi muova, la diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to, in quel, che vien fatto da fe, e propio chiamato, e in quel, che da altri faſli, e per accidenteè detto. Ma una cotal diviſione mi fa ſovvenir, come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire, che'l generante muova ancor quando è lontano; anzi ancor quando più non è; e che le ſue intel ligenze muovano moralmente; il che ancora di colui che'l tutto muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero, quanto dire, che le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate. Ma dovea Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca dell’Vniverſo è molto lontana, e differéte da quella, che'l più acuto umano intendimento poſſa vnquemai im-, maginare;e comeegli già traſſe dal nulla le corporee ſoftá ze colla fola volőtà, colla quale potè dar loro il moro anzi gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di toccamento veru no; e che Iddio ancora fa, che gli Angioli parimentes. comeche inviſibili fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze; e laſciando di riferire, che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo, e altrimae Ari in divinità, iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a' particolari: Io vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in quella gui ſa per avventura, colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che muove il ſuo corpo; la quale certamente altro nā fa allorche muove qualche membro, ſalvo che dar altra determinazione per opera della volontà a que' rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli, che continuo dal fangue vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò dall'oſservare, che ficome ſcema, o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento, così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso; non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma, come è l'anima del corpo, muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi corpicciuoli,ch'en tro lor fono, o pure que' dell'aria, o dell'etere, che gli penetra,e gli circonda; e'n quella guiſa, che'l vento soľ acqua muover logliono le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto, e a quel corpo; ed eſsen do il moto delle particelle, che l'etere compongono, rapi diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a un'altro,comechè lontaniffimos icorpi. Ma laſciando queſta curioſa digreſſione a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando, lo dico,che no men, che s'aveſse fatto del moto, ſcioccamente falla in di viſando del luogo: imperocchè egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo, ove la coſa allo gata ſia; la quale opinione, comechè egli la toglieſse di peſo comealcun giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle, e da altri deriſa, pure egli sì disfor mata la ci reca, che nel vero ſembra, che più toſto egli ab. + bia 630 Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo, il quale non fa diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini; e sì ſciocca, c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro; e nel yero ſe'l luogo, comeragion perſuade, e Ariſtotele medelimo inſegna, appartiene a qualſifia minima particella del corpo locato, dovrà ſenza fallo il luogo aver parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da quella ingombrare dimaniera; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il luogo, ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo, la quale a cir condare, e ad abbracciar viene il corpo locato, ed è affat to fuora di tutte le particelle di eſſo corpo; perchène ſegui rebbe, chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut te le parti di eſſo, per tacer d'altre; e d'altre ſconvenevo lezze a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute. Ma per nulla dir di ciò, che dice Ariſtotele del tempo, il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire, e di numerar il movimento; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe: chen ti,per Dio ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura, e alla propietà del corpo? E laſciando ciò ad altri cô ſiderare, accennerò ſolo quanto egli vanamente s'aggiri in yolendo filoſofar, oltre alle qualità menzionate, della ra rità, e della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa egli follemente a credere, mora ſo da leggeriſſime ragioni, poter un corpo rarificandoſi in grandire, e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior luogo, di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10, e ſenza entrar l'une delle ſue particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera, Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce, come de' colori, come de? (1 pori, come degli odori, comedell'altre ſenſibili qualità.: Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare, certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo, dell'a. nima, e delle ſue operazioni, dell' aere, de' venti, delle piove, de'fulmini, dellaneve, del tremuoto, dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola mento, della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non iſpiegate certamente da lui naturalmente, fi come facea meſtieri: chenti, ſono le diviſioni, chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice, che ne meno eb be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in Ariſtotele mi par da notare, ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua loica d'avviluppar mai ſem pre la verità, e di crollare, e mandar a terra i buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio venn'egli chiamato:ftudiofus impugnāde veritatis;ç molto avātidi lui per le medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica d'Ariſtotele:artificē Aruendi, &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam in co jecturis duram, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam fibi ipfiomnia tractantem, ne quid omnino tractaverit. Ma non ſo come fuggito mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento, ch ' Ari ſtocele fa delmondo. Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto, avendo egli larghezza, lunghezza, eſpel ſezza;dalle quali dimenſioni in fuora, altra grandezzaw, non v'abbia, dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove fiano due, allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre, allora in prima diciam tutti; il che effer di sì fatta maniera, la natura il ci inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli, non per altro, ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole: d'Averroe in dico, il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti iſecoli, e per addicar ne l'ultimo sforzo, e l'intero compimento d'ogni umanaj perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro ajuto; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli error alcuno ri trovare; e in fine ch'a miracolo Natura il fece, e poi ruppe la ſtampa; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe, fe ad Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè, qualor difle aver Moisè dette molte coſe, ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer d'altro, quell'altra beſtemmia; che coloro, i quali affer mano Iddio ritrovarſi per tutto, ſian fanciulli, e che di ſtruggano, e mandino a terra l'ordine tntto delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo, e ballo intendimento: impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono le dottrine d'Ariſtotele; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i ſeguaci di Macometto,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima apparare; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele, o pure quella, che ſi contiene ne' libri, che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori. E veramente alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele, come p teſtimo niāze di Tullio,di Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio, e di Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare; nondimeno però nei, co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere, che portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori, l'iſteſſo modo di filoſofare: portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro: Mala ſciando ciò ſtare al preſente, chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede, non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per primicro filoſofante; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine, e ſciempiezza del loro intendimento, gli altri tutti corſero lor dietro Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro: non con fermo, e ragionevole avviſo, perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio, e avveduto, è da dir con Bac cone, coitio, non confenfus; e come dice il Ciampoli, copia comune, non già opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce; e mat fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele: cd a ciò anche fare i ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo;perchè non ſenza ca gione fu detto dc' peripatetici da Lorenzo della Valle, il quale veramente fu ilprimo, che liberò la filoſofia da quel cieco,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot topoſta:Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos, &jurejurando adigendi, nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos: genus hominum fuperftitiofum, atque vecors, defe ipfo malè meritum; cum ſe facultate fraudent indagă då veritatis; quos fi reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi legem impofuerunt, qua tandem infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli, avvegnachè innumerabi le, alligna; ma più dalla qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe, che dalla copioſa ſembraglia del popolo è da ſtimare; perciocchè, come teſtimonia il Romino Ora tore, la filoſofia, dipochigiudicatori s'appaga, cabello L111 ftudio ſchifa la moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis contenta judicibus, multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi, & fufpe ta, & invifa; eragionevol mente in verità; imperocchè, come ſaggiamente avviſa il Baccone: nihil multis placet, nifi imaginationem feriat, auf intelleétum vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele folamente in favellando la parte maggio re, ma nel giudicar poi la minor parte doverfimai ſempre {eguire. Ma ciò, che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora diviſato, deſli ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali tutti ebbe a dire quel valent'huomo, noneſſer credenza infra’filoſofi così ſtrana, e rimoſſa dalla ragione, che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì abbondevole fu nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce, e inveriſi mili opinioni, che non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus quicquamfomniat Tam infandum, quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi filoſofi i fallimenti; de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti, ſe a noi foſſero pervenute tutt'altre opere di coloro, dicui Già lunga notte involve i nomi, e l'opre. Maavendovi, come di ſopra avviſammo, infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone, e d'Epicuro in filoſofando delle coſedel la medicina, nõ farà per avventura fuor del noſtro propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la ſtoica, ed epicurea filoſofia. E per cominciar dalla ſtoi ca: grande certamente ſi fu la follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro, e fondatore, il quale avendo ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i greci filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re, volle nondimeno più coſto gir dietro alla traccia di co loro, che apertamente avean da quella traviato; e Com? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in iſpiegar le coſe della natura, non però di meno egli ancora nelle maggiori ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio, ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla. tone,e Ariſtotele; della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico; eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la forma nõ cagione, ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo, che coſa veramente la formalia, e in che conſi ſta la natura del corpo, e come formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità, mani feſtando, e dichiarando chente fia la lor natura, ecomes ingenerino: è da dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in prima detto abbiamo eſ. ſer Platone, e Ariſtotele vergognoſamente caduci. Ma non ſembra vero ciò che Cicerone, e altri fcrittori riferiſcono di Zenone, che egli aveſſe per efficiente cagio. ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce, o tutte, olamaggior parte dell'operazioni natura. li, comech'egli in ciò poco felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima, come certamente conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le, che ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere allor ch'egli dice, eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia. Dice ben egli Zenone, che ſon due i primi principi delle coſe: paſ ſivo l'uno, cioè la materia, ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità: Paltro attivo, quale ingenera ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol Zenone, ch'altro non fia, ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione, e di ſapienza, il quale per tutto diſcorra, il tutto abbraccj,il tutto penetri; e che dalle varie, c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere. E Lill 2 nel vero ſe mai Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar, comeché rozzamente la natura del fuoco,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle, e pazza opi nione; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca: ex illisfempiternis ignibus,quæſidera, acflellas vocamus,, veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe, atque alieno loco exiife. Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli, o sferici, o piramidali,non pofſa ne ſentire, ne in tendere, ne far niun'altra operazione, che l'anima far ſuo. le; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef fer mortali, e quelle dappoco, e baffe, qualieſſere giudica l'animne degli ſciocchi, e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme attutarſi, emorire; e quelle de’dotti fo lamente che, fon più vigoroſe, dover durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere, come fiaccole acceſe in tenacemate ria fino all'ultimo ſcoſcio del mondo: fi ut fapientibus pla cet, dicea Tacito di Zenone, e degli ſtoici, non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ; il qual luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio: nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur, & fatuæ pereunt,aut non diu manent. La quale opinione motteggiando l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam cornicibus: dia manſuros ajūt animos, ſemper negant. E quinci follemente temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque; imperocchè ſtimava no, che l'aniine, come quelle, ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque. Ma cotal crcdenza ella mi ſembra, che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe; imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe, d'Aſia ter rore, e'l fagace Vliſe, e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il morir affogati nell'acque: ingemit Æneas, dice Servio, non propter mortem, fed pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio, quia anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma piacevole è nel vero a udire il di viſamento's ch'eglifa Zenone, intorno alla generazion del mondo; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo raccolto, il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0; e che indi poi la materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle; e che ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente nell'ae: qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe; e che pri mieramente ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi, cioè il fuoco, l'acqua, l'aria, e la terra; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero. Il fuoco ſecon do Zenone è caldo, e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra è arida; ma l'ordine col quale, c lic ſtelle, e gli altri ragguardevolicorpi dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa. Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco, il quale per la gran fua: ſottigliezza vien detto ctere; e che in lui pri micramente naſceſfero le ſtelle fiſſe; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo l'acqua; e ultimamente la terra, la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte, e altre sì fatte empiezze, che ci vuol dare ad intendere Zenone. Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio; perchè cantò Lucano, per tacer Se neca, Fileinone, e Manilio: Sive parensrerum, quum primum informia regna, Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens, & fecula jufa ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum. E prima di Lucano, quel greco poeta, così traslatato da Cicerone: Quod fore paratum eft,id fummum exfuperat lovem; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato; ne lui medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa ſuis currunt cauſſis. E a ciò ponendo mente Luciano, piacevolmente deriden do,come è fua usāza, gli Stoici, fa,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove, e gli Dii tutti, non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano deſtinate; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del mondogli Dii, per menoma,ch'ella ſi foſſe, che dalle Parche non foſſe in prima ordinata, e lun gamente compoſta. Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri, e ſergentidelle Parche, o per mc' dire ſtrumenti di quelle, come la ſcure, e'l trivello. E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove; il quale oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero. Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile Parchemedeſime, che Giove da pre gare, ſe lc Parche per prieghi pur ſi moveſſero; poichè al le Parche, e non a Giove l'imperio tutto del mondo, c'1 primo reggimento de' fatiè da attribuire. Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando anche l'aſtutiſlimo Macometto,per nulla dir di Lutero, e di Calvino, eſſer corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti, preſela, ed inſegnolla nel ſuo Alcorano, acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli, ponendo giù ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo, pole in bocca al valo roſo Rede'Turchi, Solimano, Giriſ pur Fortuna O buona, orea, com'è laſsù preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a ' peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più, ne meno falli colui, che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre, di colui, che allor, che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le. Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole, chenon altrimenti, che ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando,no’l muova amore,non ira,non odio, non timore, ne qualúque altra più violéta paſſione. Senti menti in verità, per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco; ed Io per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella, ch'un huomopoffa viver nel mondo libero, e Sciolto da tutte qualitati umane. Manon queſti ſolamente ſono,ma altri, e altri i falli che Zenone, e iſuoi Stoici prendono, alla noſtra fede, ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non pocomimaraviglio, come cotato preſſo alcuno ſiano commendate, e in pregio tenute quelle memorie,chedi loro rimágono; e ſpezialmé te l'opere di Seneca; imperciocchè non è punto, com 'egli follemente s'avviſano le genti, quell’ aſtuto Stoico, re ligioſo, e dabbene; concioffiecoſâche, ſe ben fifamente vi fibadi, in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo ogni coſtuma dipietà, e direligione; comechè faccia ſembiante nelle ſue dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta, e poco men, che di perfettiſſimo Criſtia no; e a prima faccia appaja, qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone, Virtutis verd cuſtos, rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone, egliſi parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle coſe naturali; come quando egli per iſpiegar la maniera, nella quale faſli la viſta, diſſe l'occhio valerſi della aria teſa, co med'un baſtoneper conoſcer le coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle Carte. Com nobbe ancora Zenone, comeche a durar non viaveffe mols ta fatica,, effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti non eſser altro il ſole, ſe non le fuoco; ma da quelli certamente avviſar non ſi puote, come egli immagina', eſser quel fuoco, ond' è forma to il ſole,ſincero, e puriſſimo. Ma non ha dubbio,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo. Zenone s'ingannò grandemente, immaginando participar la luna aſsai più dell'altre erranti ſtelle, della natura della terra: per eſserella più di eſso loro alla terra vicina; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó v'ha ragion alcuna, la quale perſuader ci poſsa, che la lu na differiſca púto dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli antichi filoſofi, i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati, le ſtelle erranti, e fiſse, e la terra: afferma, che le ftelle, co me quelle, ch'animaliſono, dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento; e venir il ſole nutricato dal mare, la luña dall'acque dolci, e l'altre Atelle dalla terra; m2 perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu egli oltremodo manchevole, checoltivò molto più di quel, che certamente a natural filofofo fi conveniva, gli ftudi della Loica, onde conveme, che i ſeguacidilui, for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili fortigliez ze dialettiche intrigati, vennero ragionevolmente da Ga lieno contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura; onde ebbe a dire il medeſimo Galieno, che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati, ma rozzi poi allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano. Malaſciando Zenone, trapaſseremo a ragionar d'Epicuro.. Primieramente per mio avviſo mai fi par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi, che, da pallionati luoi ſeguaci, c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon dire jufra l'altre millanterie, ch' Epicuro non huom mortale, ma Iddio ſi foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza; e chc Epicuro anche fi foſse Quel, che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè, per tralaſciar ch’Epicuro altro in verità nõ faceffe, che traſcrivere le ſentenze di Democrito: i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe: anzi ſe mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti, incorſe in graviſfimi falli. E gliporrò opinione Epicuro, che da una infinita, ed immenſa corporea ſoſtanza, qual ſecondo lui altro non è, ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli di varie, ¢ varie grandezze, e figure, e da uno ſpazio parimente im menfo, qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede,fia copoſte l'univerfose che fenza regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo, ed a ventura, dalmoto, dall'accozzaméto,e dall'or dinamento, ſolo di que'corpicciuoline fian nati,non ſola mente queſto, in cuinoiabitiamo, ma più, e più mondi, Aggiunſe egli al diritto movimento de corpicciuoli (che apparò da Democrito) di ſuo altresi quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello poteſſero cotante coſe ingenerarſene: e cocal movimento torto, eglidiffe naſcer dalla chinacura de' corpicciuoli, quali movendo per diritto, ed in altri corpiceiuoli incop pando, neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le noſtre anime, come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis. Ma fe noi riguardiamo, non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo, ma anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada, ma all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata: non può in niun modo da ciaſcun comprenderli, come a riſchio, per caſo, ſenza ſottiliffima macaria di gran maeſtro debba effer formata; e per non trarre argomenti dalle ſtelle, dad ſole, dall'huomo e da altre,e altre opere maggiori d'Iddio, mi contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti, come ſono le moíche, le zanzare, le formiche, l'Api, gli Acari, c altei afſai cotanto menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio, tanto quanto, cavviſar li poſſono; e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle, così ben compoſto, e formate, come nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono. Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene; e nel capo è anche loro il cervello, le glandole, le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini; da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e comparte. E che dirò lo dello ſtomaco, delcuore, e d'altri fomiglianti me bricelli? che dell'offa, e delle vene, e dell'arterie, e del facco latteo, e de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle, chente, e quali a ben fornito corpo ſi ri chieggiono? e che delle loro piccioliſſime anime, le quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano, e ri fvegliano i ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri maraviglioſi effetti in quel lo adoperano?Ma ſopra tutto è da por menteal loro indu ftrioro ingegno; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar ſommamente dell'induſtre, e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca alfreddo verno Ripon la ſtate, ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i giorni algenti, Neghittofa non ceffa,e non s'allenta La negra turba,, anzi ſe freſsa avvezza Ne le fatiche, e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen, che l'ore,e'lgiorno, Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto. E avendo forſe quella per pruova appreſo effer la ſementa, onde poſcia germoglian le piáte, no altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte, e riſtrette, per ceſſar l'aſprezza del verno: come apertamente col microſcopio noiveggiamo: avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie propie, incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca, el bel tempo fereno Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è certo. Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe, e poi la ſerba, e parte Cuſtode, e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E quelle più ſerene, e calde nutti Tolte al dolce ripoſo, al queto ſonno Aggiugneal travagliar continuo, e lungo. Ne è da traſandare ciò che delle formiche oervò Clea te. Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for micajo il cadavero d'una formica, e portarlo a un'altro vi cin formicajo; e quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche, e andar loro incontro, e accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne; e indi a poco ritornarſene quelle ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire,e ri trovar le foreſtiere,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle alle lor compagne; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi ritornate a patteggiarne la riſcoſſa: e ciò due, o tre fiate facendo, alla fine dopo cotante aggirare, quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla buca, e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual prendendoli quelle di fuora, e laſciando il patteggiato cadavere, n'andar via; ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover quello ſotterrare. Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica, la qual ripoſtali in guato, non altrimenti, chei'ragnuoli ſi faccia no, preſe per lo piede unamoſca, la qual forte dibatten dofi, e ſcooendoſi, indarno di fuggir slargomentava; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo un'altra formica partiffi.di preſente, e ricornò con alire formiche a condurli a forza la prcda dentro dal lor formi cajo. Ma perchène G faccia maggiorméte manifeſto,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E picuro,e quanto fia grave l'ingiuria, che per quella vien fatta all'autore dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque, che una ſoſtanza fia quella, onde cotanti aſpetti, e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in queſto gran Teatro dell'univerſo, eſle re egli ſtato parere, in cui non pur Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (il qual più,.chalari fa ve duta diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono. E tanto par che coſtui voleſse dire colà: nell'ottavo libro della metafiſica: ove feriſse eſsere una, medefima coſa l'ultima materia, e laforma; e fimilmente non eſser differenci nelfubbietto la materiais e la privazio. ne(del chc.a torto altrove egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le diſtinguaje nel ſecondo della fiſica; ſcrivendo, che la forma non maipoſsa dalla, materia fceverarfi, ſe non ſe in mente noftra,ficome a niū modo può fepararſi la ſchiacciatura dal naſo;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa;ſicome non è da elami. nare, fe la figura, che imprende la cera, fia da quella di itinaa. E finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando, la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella:ovegià perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando le forme (le quali ſe-veramente altro foſser, che ka materia, folla creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza, di cui ragioniamo,altro,non ſia che corpo inminutisme particelle di grandezza, difigura; di fito, di moto, e d'ordine diverſe,sbriciolaco', e diviſo, fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè Democrico, più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse. Maqueſta ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza, e ſapienza valevole a dir ſporre, e ordinare in tante guiſe, e comunicare ivarſ mo vimenti alla già dettämateria. E ciò ben conobbe da pri ma, per quel ch’lo ſappia, il fapientiflimo Greco Filolo. fante Talete Milefio; e confeſsollo manifeftamente, di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum:Derim autem eam mentem, quæ ex aqua cuneta fingerei. E da lui l'appreſero poi Ippone, e Ippia,.e cotant'altri antichi filo fofi, i quali tutti concordevolmente giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo,e fceve rando queſta maſsa comune, e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in cotante guiſe, quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora, che dalla materia lua ſimilare, comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del mondo: comcchè a torto poinefoſse egliprover biato, e biaſimato oltremodo da Ariſtotele, cola ove diſ ſe, ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse voluto: ſcioccamente ſervire, per dar ragione dell'apparenze nas turali: non altrimenti, che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre i nodi più inviluppati del le favole; edelimedeſimo ſentimento di Talete furonoan che Platone, o Timeo'; ed è da credere pure, che dal fon datore dell'Italiana filoſofia, Pittagora, e damolt’altri fa * mofi,.e ſaggj filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata. Ma però tutti i sì fatti filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore, dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna. E forſe non guari illoro errore fu avāzato da quel d'Epicuro,o di De mocrito;i quali ciò checoloro alla mente operatrice afcrifo ſero, attribuirono al caſo; imperocchè la divina, ed eter 1 li e ne be 12 2 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe della già eliftéte materia varie machinazioni formar ne; e così attribuendole il poco: ilmolto, anzi il tutto negaronle, com'è il poter criare dal niente; perchè dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do, tutta la materia nell'opera conſumaſſe; e quinci avve niſſe poi, che un ſolo e'ne formafle. Ma ritornando ad Epicuro: non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe; imperoc chè egli nonmeno ſciocco, che empio, immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano, come quello, ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio corpo altrimenti, ina quafi corpo: ne aver Iddio ſangue, maquaſiſangue: Dice Epicuro,oltre a ciò, che gli Dii ſian vaghi, adorni, e riſplendenti, e che le membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno; e che l'al bergo degli Diilia in quello ſpazio, che vuoto rimane in fra que’tanti, e tantimondi per luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia,e la provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani della volubile, ei cieca fortuna,con iſcioccaggine, e ſcempiezza eſtrema le attribuiſce De la terra, e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più diviſar di queſte, e d'altre fimili em piczze d'Epicuro, ad ogn’un conoſciute: Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè, quantunqué menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano, ben potranno dividerſi da uno, o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli fia no; ne fa punto luogo il dire, che non avendo nell'atomo vuoto alcuno, 110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo, ne dividerlo in parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere, e partire ilvoglia, con replicati colpi a poco a poco penetrarlo, e dividerlo, ma ſi può creder 1 1 1 1 impertanto, che ſia queſta una quiſtione vana, e che o no mai; o rariſſime fiate avvenir poffa, che un'atomo per al tro ſi fenda, e ſi divida; concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo, che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli altri atomi avviticchiato, e congiunto, ſicome a chiun quedirittamente ragguarda la cofa, egli è manifeſto: gli riuſcirà aſſai più agevole in ricevendo i colpi cedere, e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni, a fe vicini, che'l romperhi.S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino,dal vedere, che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano, i quali per qualunque forza, che l'arte, o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li tutti, che gli compongono nella figura, e'nella grandez Za non guari diſſimili infra effo loro, e dal non venir que gli mai rotti, e in particelle diviſi. Ma non mi par, che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa; co mechè valentiſſimi filoſofi cerchino pure farla apparer vera; poichè per tacer altri imbratti, concedendoſi ilva. cuo,converrebbe, cheli toccaſſero, e non fi toccaſſero l'u nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto. Oltre a queſto, fe infiniti gli atomiſono, ſe condo Epicuro: faran ſenza fallo ripieni di corpi tutti gli fpazj;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo; in cui, comechè iinmenfo egli il faccia: Io non veggio lo, come infiniti corpi, e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro. Ma non in ciò ſolamente fallar ſi vede Epicuro: maal tri, e altri errori ancor egli commettc;infra i quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per aver troppo creduto a’ſeñfi, come Cartefio crede, maperfuafo da troppo fievoli argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto, o poco più, o poco meno grande di quel, ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò, che Epicuro immagina della figura della terra, del -0 vo 1 i 648 Ragionamento Ottavo - del naſcimento, e aell'occaſo dellole, della luna, e dell'al tre erranti, e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan, ſecondo egli penſa, allorche noi veggia mo, e immaginiamo, le coſe;matroppo.tedioſo diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire: maſſi mamentequei, ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia; perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele, e di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole: ſe l'invenzione della veri sà, come d'accordo ciaſcua vuole, è ilfine della filoſofia, Io non lo come coſtoro, i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che la greca filoſofia, a riſchio, e per ventura, come alcuni vogliono, ſuole rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende lievemente, e alla sfuggita,ſenza troppo minutamenteconſiderarla; e come altri poicredo no, crae ella ſua origine dal Diavolo; edopo altri biafimi, conchiude egli alla fine, efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro, i quali appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano. Ma certamente troppo a lungo, e più diquel,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie;ma non ſi dee impertanto pe rò inutile, e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia, Ga ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci filoſofiaveſſero fco perto, e compreſo tutto ciò, chenel vaſtiſlimo reame del la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano; ne per aloro certa.nente, che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con ragio ni le coſe naturali, fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano ſtati iveri ſentimenci, o di queſto,o di quel to zuore; perchè dicea il Signor di Montagna: car les opin mions des bommes font, recevesà la fuitte des creances an ciennes, par authoritè, &à credit, commeſi c'eſtoit religion Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu:on reçoit cette veritè, avec tout for baſtiment, de ato telage d'arguments, odepreuves, comme un corps ferme; ſolide, qu'on n'esbranle plus, qu'on ne juge plus. Au contraire, chacun à qui mieuxmieux, va plaſtrani, &con fortant cette creance receuë, de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple, contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde, feconfit enfadeze; den menfogne. Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint lepied, où gitlafaute, älafois bleſſe: on ne debat, que ſur les branches: onne demande pas fi cela eſt vray, mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno, la quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto loro, e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti, e ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora, che fiyantaggin nella buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo, ed in al tri molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della filoſofia d'Ariſtotele, non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire: ne in cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche, çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus, ut ad verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint. Anzi Ariſtotele medeſimo, leggendo i volumidegli an tichi filoſofi, concepctie alcuno di que'ſentimenti onde, inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc,perché ca gioni in noi ſentimenti di dolcezza, tratto anch'egli dall' altrui errore, !! c a ciò punto badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare, giudicando la dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità veramente nelle coſe, e non ne’ſenti menti confiftere. Che fe egliaveffe: avvilato, il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce,e foa ve: a un'altro poi amaro, e diſpiacevole parere, come la colloquintida amariſſima a noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire: certamente egli non così improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe ne' cibi foſſer corali particelle, dital forma, e così ordinate, e moſſe,, che in diverſi palati, or di dol cezza, or d'amarezza faceſſer ſeinbiante. Enella medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele potrei lo quì rapportare, le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti. Ne ciò è maraviglia; perciocchè p iſtudio, e fatica, che vi ſi logori', non ſi poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano. Cosi avvien appunto ad una botte, o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o -inagrito, la quale av vegnachè forte fi’rada, eſilavi: non però dimeno non ſi puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta, concioſliecoſachè quantunque bennetto, e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime particel te ancora ſi naſcondono, le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino, o altro ſomigliante liquore, che vi ſi pone, trameſtandofi loro, agevolmente vi nuotano per entro, per opera della fermentazione poi creſcono",intanto, che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono. Così avvenir ſuole nell'anima,la quale priva, e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche introdurre; eri porre; poichè le nuove ſpezialmente, ſea ciò ſpinte ſono da quelmovimento, chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa, eccitano, per qualche ſomiglianza, che è tra loro, alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta, ma celata viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono. E comechè ciò baſtantemente, per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto, pur d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò, che nella memoria artificiale fortir ne ſuole Sogliono coloro, che all'arte,veramente maraviglioſa del ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai, e oltre a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no ricordare; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna coſa appiccata, dipreſente rinven gano; e le coſe già alla memoria preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca, o di forziere, che in noſtra caſa ſia, ne fov viene tolto di libro, o di veſtimento,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre, ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab bricarono, o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno, io nominandolo ne ſovviene. Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca, il ſolomovimé. to dell'aura, dolcemente faceva venire avanti madonna Laura, eltempo ch'e' da primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens, che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì dolci je profonde; E'l bel viſo veder, ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o geloſia celato temme. Ma veggio, e per avventura con qualchevoftra noja eſ. fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti fine, mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque, che non giová punto,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica, in medicina, e in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i loro ſtudi egli Nnnn: 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie, e alle maniere, che vengon tenute nel medicarle; e qual pro,e qual danno ricevan daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante, che non ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare, il quale con fedi autentiche, e con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole, a ciò deſtinati, in tutte le coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica; la qual cotanto dicemmo effer a' medici neceſſaria, e di tanto riſchio a co loro, chepienamente non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore, ligati con facramenti, econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello fcolare converrebbe, che minutamente fi ricer caſſe, acciò per ogni capo s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal meſtiere comporta, i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne riſtorerebbe; ne da altro cer tamente naſce, ſe non fe dal non uſarhi queſte diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari, che così fortemente vengano elleno talora biaſimate:approba jiones,dice il Primeroſio, fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem, & neceffaria, fed deberent diligentius obſervari. At jam omnia negliguntur, nam quibuslibet guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam Academiisredeant ductores parum da fti, nihil minus, quam apti ad medicinam, aut docendam, aut faciendam. Ne perciò giudico lo convenevole, come alcuni vogliono, che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono conventati, fian di nuovo daeſami nare; imperciocchè baſtar dee quell'eſaminazione, allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati, accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi liberamente medicare. Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno, ove per legge comandò non poterſi il pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati; e l'Imperador Federi go pur v'aggiunfo, chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer teſtiinong, che colui, che aw medicare inprenda, da tanto ſia; perciocchè parlando de gli Impirici, folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono; ne vollono eſſere da eſaminar coloro, a’quali la cura d'efaninare altrui era per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle bollettes delle licenze: Doctor medicinæ practicabitfine literis, quia fuitexaminatus, quando fuit doctoratus, &approbatus; for cut ibi diximus de Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre oſſervato, che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta, per tutto il noſtro Regno, poſlan liberamente andarmedicando:ne altrimenti effer mai avvenuto: eft fciendum,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore, in cujus contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum, quod magiftri medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege, vel vicerege medieandi in Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti; e larebbe certamente un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina; cioè a dire, di dar licenza di liberamente me dicare; ſenzachè non ſapreiIo certamente, quali medici farebbon da eſaminare; perciocchè egualmente i giovani, ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne richiedere a parlamento. Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine giammai riu. fcire, fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli, i Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche eſaminazioniinſtituite. Sogliono re carſi per eſemplo coloro, che queſta novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono, i legiſti; i quali da non mol to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati:maben dovrebbono avvertire, che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale eſaminamento: eleggendo anzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi foggia ceffero, a'quali, o alcun governo, o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo di dover eſa minarſi almeno i noſtri medici in Chiinica; da che la Chi mica cotanto neceſſaria alla medicina eſfer narramıno;per ciocchè da cotali eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al noſtro comun ne feguirebbono, per molte, e mol te cagioni, le quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba ftantemente, a ciaſcun manifeſto; ſenzachè i vecchj anco ra, anzi con maggior ragione, che i giovani, farebbon da eſaminare; richiedendoſi.comunemente a ciaſcun medico la chimica, ed eſsendo aſſai meglio i giovani, che i vecchi medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe da prendere, ſe pur si potesse, strettiſſima cura, acciocchè per lordappocaggine al cun nocimento al noſtro comune non ſiegua; e comechè intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la detto, pure fi dee por mente a ciò ch'avviſa Galieno, allor ch'eglidice, che il curar qualunque, avvegnachè leggeriſſimomale, d' altri non ſia, ſe non ſe ſolamente di coloro, i quali di tutta la medicina pienamente fian inteſi; concioſliecorachè uns male foglia ſovente con altro male eſſer congiunto; e ſo glian talora, o per.cagion delle medicine, o peraltro sì fat to accidente ſopragiugnere: cheda colui, ch'un ſol medi camento ſappia, non ſi poſſa dar compenſo. Oltre a que fto, nel conoſcerſi delle malattie, aſai ſovente glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio ſcioccamente una per al tra, e contrarj rimed, talora imponiendo; nella qual mala ventura, comedicemmo, cadono talora, anche i più ſcie ziati medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti volgari Empirici il medicare;e miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime to del Senato di Parigi, fe del tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito, e non permeſſo loro il farlo lol coll'ap prova poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo, che all’onta di tut te le proibizioni eglino il capo alzaſſero; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè daʼmedicijnõoſtante il gran male, ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio: in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia, fi quis borum nebulonum feme: dicummentiatur, mox raptus in afinumftrigofum, fiin venitur fcabidum, ſublimistollitur, averfus, urbe tota cir. cumducitur,Scommatisundique incefitur, conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima:poftremo expiata urbe ejici tur, illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al preſente de gli Speziali,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente chimici; il quale fu il ſecondo capo, onde mofle il noſtro ragionamento. Veggiam dunque brevemente, quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia van taggiarſi in sìnobilmeſtiere. Immagina il volgo, che age volitima faccenda fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere, edipoca licva ado perar ſi rimira. Mio quanto di lungo certamente coſtoro ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men, che tutte altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza, che lo troppa fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ', dovrebbe almen chi deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba, almeno della latina, c della greca lingua inteſo, per dover poi intendere i varj, e diverſi ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta, e apparecchiata la conoſcenza, non folamente di que’vegetabili,o minerali, o animali, che maneggiar fo vente coſtuma, ma di quelli ancora, che nelle ſtrane, enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico venirimpofte. Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora, che alcu ni di quelli han co’ſemplici, de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee. Ma ſopra tutto convien, che la propietà, e la natura del fuoco egli perfettamente ſappia; acciocchè poi comprender appieno,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni, che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano; alla qual coſa certamente aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica; ſenza la quale Io non veggio, come bene, e lodevolmente per huố li poſſa un sì malagevole meſticre adoperare; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento all'uman genere farebbe, ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i medicamenti li lavoraffero; perciocchè, quanto a me, lo non ſo a niyn modo comprendere, comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa, il qual non abbia in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali, oltre alle ſopradetre coſe, avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina, ed in qualche ſpedale co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato. E ſcorgendofi omai in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti, non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po eſser della Chimiea baftevolmente inteſo, e ſperto, In quanto alle Chimiche medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato, che il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza, o non fanno, o non poſsono invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici, rei, ch' a' ſoli speziali, e a tali, quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura; ne altra privata perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna; male compoſizioni de'più pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi dovrebbero, o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici. Ne è da dir con alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano, come dir ſi ſuole, le ſpezierie; concioffie coſachè vana ſenza dubbio, e inutile cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai, per ſogno niuno, lorvir tù, e lor forza baſtantemente avviſare. Echi mai ne' bof foli delle botteghe, la bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico, delbelzoardico minerale, e d'altri, e d'altri sì fatti medicamenti d'odore, e di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be, e l'eccellenza, e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande, che cziandio de'più me nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere; imperocchè i fali fiſi, per nulla dire del fa pore, che in tutti il medeſinio appare,ne alle varie manie re, chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte, ſoglion figurarſi: ne a' varj colori,de'quali veſtono il precipitato colcotare, ne ad altro ſegnale può niuno macſtro, comęchè ſperto, e ſaggio in chimica, certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta, di qual animale ſieno; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo loro,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura, e del color medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare; ma onde ciò avvegna, non fa iuogo ora, che lo imprenda ad inveſtigare, eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei ragionamenti, che mi convien riſerbare, più d'una coſa al nostro proposito appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità; la quale ſe miverrà mai, come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro, il quale lo ora ſto intero a comporre.  DI CAPUA, Leonardo   Nacque a Bagnoli Irpino (prov. Avellino) il 10 ag. 1617, da famiglia agiata. Nella sua Vita di Lionardo di Capoa, l'Amenta ci dice che il D. si dedicò agli studi con passione, tanto da esibire all'età di undici anni una appropriata conoscenza dei fondamenti della fede, un retto uso della retorica e dello scrivere in latino. Seguì una sua sorella a Napoli, dove frequentò la scuola dei padri della Compagnia di Gesù, studiando per sette anni filosofia e teologia. A diciotto anni si dedicò agli studi giuridici e quindi alla medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà critico precoce. A ventidue anni, carico di libri e di progetti di ricerca, fece ritorno a Bagnoli, con l'intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali e anatomiche. Negli anni seguenti prende forma il suo pensiero critico intorno al giudizio dei sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle apparenze e quindi alla inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci riferisce di una certa attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile petrarchesco, composti nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G. Della Porta, Il martirio di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune commedie; una favola boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti andati perduti a causa di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per Napoli.  Non sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché, comunque, ciò non accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può ragionevolmente ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal ritorno di Tommaso Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a Firenze, Bologna e Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e un contatto col Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e alla nuova scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di matematica e poi di medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca scientifica nella linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era senz'altro a favore di quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava introdurre all'interno di una cultura legata al passato e organizzata politicamente. Ai primi degli anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi da controversie e da uno spirito polemicistico per nulla produttivo. Particolarmente ostile la medicina ufficiale nei confronti dei "moderni", essa arriverà a far sopprimere la divulgazione di un libro di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di chimica e la difesa di essa quale scienza fondamentale per il rinnovamento della medicina.  È il periodo della lettura dei grandi filosofi contemporanei di Europa, da Bacone a Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà di emulare quei grandi e di fondare anche a Napoli la "nuova filosofia" condusse il D., con il Cornelio, F. D'Andrea, P. Lizzardi, G. A. Borelli ed altri, a dar vita all'Accademia degli Investiganti. Di ritorno nel 1649 da un viaggio a Roma, il Cornelio aveva portato con sé a Napoli, anche per esplicita richiesta del D., quanti più libri possibile sui nuovi orizzonti filosofico-scientifici. L'Accademia veniva fondata l'anno successivo; fu poi disciolta nel 1657 a causa della peste e poi ricostituita nel 1662 sotto la protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena. Essa ebbe un ruolo specifico nella vita intellettuale e civile napoletana, orientata negli anni Cinquanta ad un risveglio culturale. Si tenevano rapporti letterari e scientifici con sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società reale di Londra e con l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti, alcuni dei quali specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era frequentata in particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da giovane, frequentò la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli appartenenti al partito capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680 intorno alla natura dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti che contribuì a caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima delle controversie tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il Parere.  L'opera è del 1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia naturale e razionale, il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana, quanto priva d'ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p. 94). Questo è il punto centrale della disamina critica del D., nonché il motivo primo delle future polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua Autobiografia. Il Parere manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di pensiero. Vi si dichiara di condividere le idee dei "modemi nostri filosofanti", quali Copernico e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio, Gassendi, Boyle, nonché il "dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi, stimati per la loro opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito e la ricerca scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità" e a "far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E queste rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la cosa più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce sulla incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva, ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare, aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva, invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo stesso Parere non rimase esente.  L'Amenta ci riferisce che la pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina. Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea.  Il De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei Discordanti, seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate nel 1694 con lo pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti durava già da sei anni), tacciava di "libertini" e "ateisti" i seguaci della nuova filosofia con i suoi due allettamenti: la "novità" dell'opinione e la "libertà" dell'opinare (Benedetto Aletino, Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco Spinelli principe di Tarsia, Napoli 1694, pp. 256, 258, 267). Egli presentava il D. e i suoi amici, quali il D'Andrea e il Grimaldi, come giansenisti, sebbene quelli avversassero il giansenismo ed ogni rigorismo morale, oltre al fatto che solo dopo la morte del Vico il giansenismo fa la sua comparsa a Napoli, e più nella forma dell'atteggiamento antigesuitico e regalista che come dottrina teologica. Tuttavia questi erano i principali capi d'accusa rivolti al D. e ai capuisti, colpiti indirettamente attraverso i loro allievi o simpatizzanti nel processo svoltosi a Napoli tra il 1688 e il 1697 per volere della Curia di Roma.  Già nel 1671 la congregazione dell'Inquisizione aveva scritto al cardinale I. Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo in guardia dai pericoli derivanti dalla propagazione delle idee di Cartesio. Veniva consigliato di stroncare la diffusione di quelle idee e di comunicare alla congregazione il loro apparire. Alla lettera del cardinale fece seguito a Napoli la dispersione degli Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano aderire alle nuove idee. Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di G. Burnet a Napoli, erano rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che, a detta del Burnet, venivano rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali erano "vus de mauvais oeil par le clergé, qui les traite d'athées et de disciples de Pomponatius" (cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnuola..., Napoli 1934, p. 202). Il processo agli ateisti fu visto da molti come un processo alle stesse idee propagatesi a Napoli in favore dell'atomismo, del gassendismo, del cartesianesimo. In tal senso lo intese il Valletta, il quale vide nella opposizione al pensiero aristotelico e in una nuova riappropriazione della tradizione platonica, non esclusi Pitagora e Democrito, il mantenimento della integrità della fede stessa. Il Valletta arriverà a sostenere che la filosofia aristotelica è l'unica causa e origine di tutte le eresie, opinione che venne sostenuta anche dal Vico nella sua Historia filosofica del 1714. Le affermazioni del Valletta facevano invero da eco a quanto scriveva D. nel suo Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di Aristotele, ma si esige che essa sia convalidata e suffragata dall'esperienza.  Sullo stesso piano si manterrà la Risposta del D'Andrea alle Lettere del De Benedictis: essa, infatti, difendendo il pensiero del D., si profila nell'orizzonte di una polemica intesa in senso antiscolastico e non in senso antimetafisico. Il che equivale a dire che il vero oggetto della controversia era il "metodo" dell'indagine scientifica e non i fondamenti metafisici del conoscere umano. In aperto conflitto erano non singole dottrine ma due modi di vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la polemica sorta, immediatamente dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che la polemica, tra i fautori del naturalismo e i conciliatori del meccanicismo con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento orientato nel senso di un moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti del D., oltre le confutazioni dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto riguarda il processo agli ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente, sebbene imputati, quali un Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver appreso da lui le prime nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi del processo intaccarono la memoria del D., morto ormai da due anni.  Il D. aveva superato già i quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane Annamaria Orilia. Abitarono nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri battesimali fu registrata nel 1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella loro casa si discuteva anche di letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia, confermando il giudizio dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.: "L'eruditissinio signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria" (p. 21).  Invero, il D. diede il suo contributo per il superamento delle forme parossistiche del marinismo esasperato, che a Napoli aveva assunto la forma di un "secentismo del secentismo". Il D. darà egli stesso il modello d'una teoria letteraria con la sua biografia storica su Andrea Cantelmo, che ben presto fu assunta come manifesto letterario dai capuisti: ritorno all'aureo toscano del Trecento e del Cinquecento, quale necessità basilare d'un retto formarsi in prosa della lingua e dello stile di uno scrittore.  Il processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche di certo non mitigate, quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a mancare. Fu sepolto nella chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu tenuto un "elogio funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e cristiana, ma anche la statura intellettuale di maestro e di guida.  La prima e più complessa opera è senz'altro ilParere del Sig. Lionardo di Capua. Divisato in otto ragionamenti, nei quali partitamente narrandosi l'origine e il progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si manifesta, pubblicato a Napoli nel 1681; ristampato nel 1689 a Napoli, dove vide una terza ristampa nel 1695. L'ultima edizione, accresciuta delle Lezioni intorno alla natura delle mofete, in tre tomi, in 80, fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso ebbe molta risonanza nella cultura del tempo; contro di esso scrisse il già ricordato De Benedictis. Muovendo dalla tesi secondo cui Aristotele ha ignorato la prova sperimentale, il D. intuisce la necessità di orientarsi verso una nuova filosofia della "mente". Invero, il D. pensa la mente come realtà connessa con il processo della natura, non allontanandosi con ciò dai ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi Progymnasmata physica del 1663 circa la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è per il D. il discorso intorno agli aspetti chimici della materia e ad una implicita metafisica, inerente alla originaria forza interna alla materia, ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle mofete. Il punto di partenza è la questione dell'"aria", sviluppata secondo la teoria dei corpi eterei. Questa è pensata come condizione di possibili attività implicite in ogni punto dell'universo così che la stessa cartesiana "res cogitans" conosce solo in quanto sollecitata dalle "sensazioni" provocate dal movimento materiale delle cose, necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna dire che il D. non riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e vitalistica del Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima sede, alla "prova sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che soprattutto gli impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è profondamente radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno. Consentaneamente al modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta importanza alla chimica, alle scienze sperimentali e mette al primo posto la matematica. Nel Parere egli asserisce che per essere medico bisogna prima essere filosofo, ma per essere filosofo bisogna in primo luogo sapere di "geometria" (Parere..., Bologna 1714, II, p. 73). Ilmedico, dunque, deve essere ricercatore e teorico della scienza; a causa delle incertezze della medicina, cui fa riscontro la "oscurità" della filosofia, il medico deve prepararsi in tutte le scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise in rilievo più la sua crudizione che una qualche originalità di pensiero) rimanda alla sapienza degli antichi, i quali si accontentavano del "solo probabile" nello spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il Parere è teso a dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti dell'esperienza e della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D. trova le maggiori difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra esperienza e ragione.  Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno alla naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689, obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T. Donzelli, a Napoli, nel 1695. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a Napoli. L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti tra virtù e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e natura.  Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia; G. B. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari, Riccio, Cenno stor. delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap., Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie, Bari, Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico,  Bari, Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano, Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino, in Riv. stor. ital., Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Roma, Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua. Keywords: filosofia romana, Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca, comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carabellese: l’implicatura conversazionale dell’arena e la pietra -- la sabbia e la roccia – il segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Molfetta). Filosofo italiano. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and the sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic on the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the day! Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali spiccano Kant e  Rosmini. Elabora la dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già asseriva Vico, "è" e non "esiste").  Difese l'oggettività essenziale dell'essere e la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico. L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme. L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo C.. Il problema dell'io in C.. Metafisica in C.. Kant e C.  Dizionario Biografico degl’italiani. Autolimitazione della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama “lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty, Sens et non - sens, Paris, Nagel; It. trans. by  Caruso, Senso e non senso, Milan, Il Saggiatore. La ontologia di C., così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei valori e dei significati dell’essere. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano, secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive Semerari citando C., scendendo sino ai suoi presupposti: ciò significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia, a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia, esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro. Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità. L’alterità di ciascun io è, come scrive C., «l’insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità.. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea C. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione del C., elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo. C. sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per C. si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla C., in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» C. rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto. L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per C. che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere – osserva C. – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il problema teologico come filosofia C. afferma, polemizzando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io, per C. non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema C. sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazionealterazione è riferita da C. all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti. L’uno di cui parla C. è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per C. invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo. La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia originalità». Per C. l’amor di sé ha insita l’esigenza della relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto. Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico. L’altro per C. è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per C., sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri “me”. C. individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale relazione, di cui parla C. è apriori, non si identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per C. l’assolutizzazione della. Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di Mirri, Armando, Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana. Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per C. c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io, Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano. Secondo C. si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in C.. Cfr. in proposito C., La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti. La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24. C. contrasted the rock of concrete, temporal, plural, relational being in the light of which the problem of the origin, of the foundation, of validity cannot be given up, with the sand of historicist becoming, of the historicist succession of the facts in which law and value coincide with the succession itself. The metaphor of sand and rock used by the same C. in his later writings is taken up by Semerari in the title of an essay dedicated to critical ontologism. This metaphor gives us a good idea of the fundamental theoretical instance relating to the problem of history. Such a theoretical instance is asserted by Carabellesian ontology in its opposition to historicism through the ontological recovery of time and of existence and by contrast as well with the interpretation, traceable in Heidegger, of time and existence as the outside, as the not of meta–temporal and meta–existential Being, that is, as its decayed phenomena21.”La responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e questo aver SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER SCAMBIATA LA SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE”  -- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia, l’ieri, l’oggi, e il domani non sono separati ne successivi – la copula S EST P – non S FUI P --. La responsabilita profonda e di questa coscienza storicista, che si resolve appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA [on sand, not on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista di Croce, che spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo ultramondano degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia della semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita consapevole. CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la greta), che sono i successive e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira forse cosi di ritrovare il fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non sia quello datoci dal SABBISO SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna costruzione noi uomini pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro PENSARE NON TOCCA LA ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro pensare no ha LA ROCCIA A SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna costruzione fare SE INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano sorgere o tramonatre con la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce. Si COSTRIUCE SOLO CON PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA E L’ESSERE SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.”  24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra petram.  25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra petram. 26 Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto, qui aedificavit domum suam supra arenam.  27 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit, et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia e la roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl, intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione, azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati, l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” – The Swimming-Pool Library.

 

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