Friday, July 5, 2024

GRICE ITALICO A/Z C9

 Grice e Carchia: l’implicatura conversazionale dell’ars amandi – signi d’amore – erotico del bello – comunicazione degl’amanti primitive -- filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication  (“nome e immagine”, “interpretazione ed emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc.  Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano: L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg & Sellier); prefazione e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, Torino: Rosemberg & Sellier); Erotica. Saggio sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida); Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen, Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari: Laterza);  L'estetica antica, Roma-Bari: Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin, Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura, Kant e la verità dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke,  introduzione a Walter Friedrich Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini. La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia. Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa. Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico. L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome. Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia: l’estetico. Paradigma, schema, immagine.  1 Ovidio. Arte amatoria. Chi peregrin nell’amorosa scuola  Entra , me legga, se vuol esser dotto.  Non usansi senz’arte e vele e remi;   Non senz’arte guidar si puote il cocchio;  Non senz' arte si può reggere Amore. Ben sapeva condurre Automedonte (i)   Co’ focosi, destrieri il caiiro , e Tifi r  Sedea maestro \sair emonia poppa. Ne’ mister} d’ Àmot me fece esjperto  V enere bella , e ben dirmi poss’ io  D’Aniore un altro Tifi e Automedonte.  Ch^ ei sia crude!, noi niego » e spesse volte  Contro me stesso si rivolta ; pure  Egli è fiinciullo , e l’immatuTa' etàde  Atta si rende al fren. Docile e mite  Rese Chiron l’ impetuoso^ Achilie (2)    (i) Automédonte, figlio di Dioreo,fu il Cocchierò  d*lAchille , Tifi condusse gli Argonauti in Coleo sul-  la nave Argo , che qui dicesi emonia , perchè era su  <mella Giasone figlio del Re di Tessaglia , e perchè la  Tessaglia si chiamala Emonia dal monte Emo.   (a) Chirone figliuol di Fillira fu il Precettore d’A’^  chille^il qual nen chiamato ^acides fia Eaep suo Avo,  Col dolde suon della canora cetra^   Ed ei, che fu il terrore e lo spavento  De^suoi compagni spessore de’nemici.  Dicesi che temesse il vecchio annoso;   E quelle mani , che dovean un giorno  Gettare a terra il forte Ettor , porgea, Quando Chirone le chiedea,alla sferza.   Ei fu d’ Achille, io son d’ Amor maestro;  L’uno e 1^ altro è fanoiul feroce, e traggo  L’ un e r altro da Diva i suoi natali • (4)  Come r aratro il toro, e come il freno  Doma il cavai focoso ; io cosi Amore  Render placido voglio ancor che il petto  Con r arco mi ferisca , e con la face  Tutte ro’ abbruci le midolle e T ossa.  Quanto più Amore hammi ferito ed arso.  Tanto più voglio vendicarmi . Apollo,   Non io, ché mentirei , dirò che appresi <  Da tl» quest’ arte, o che fui reso dotto  Dal canto degli .augelli A me non Clio,  Né le Sorelle sue , come al Pastore  Della valle d’ Ascrea , compatver mai ; Me un lung’ uso feMstrutto ; e fè pròstate  Air esperto Poeta . <Ió cose vere  Canto : Madre d* Amor.^, siimi propizia.  Gite lungi j o Vestali., e voi Matrone,   Che i piè celaté sotto lunga veste.    J3Ì Achilie uccise Ettore al assedio di Troja Achille nacque dalla Dea Tetide , Amore dalla  Dea Venere,   a Mentre Esiodo, cugino e quasi contemporaneo  nero , pascolava in Elicona le pecore di suo pa*  dre ^ fu dalle Muse condotto al fonte Ippocrene, e Col  hefer 4i quell* acqua divenne Poeta,  Come seguir sensa periglio Amore  Si possa, eA i concessi furti io canto;  Nullo i miei carmi chiuderan delitto.   Tu, che novel nell’ amorosa schiera  Entri soldato, le tue cure volgi  Prima a trovar de’ voti tuoi 1’ oggetto.  Indi a farlo per te amoroso, e infine  Onde lunga stagìon 1’ amor si serbi.   È questo il modo, è questo il campo, in cui  Scorrere il nostro cocchio debbo ; è questa  Del corso nostro la prescritta meta.   Or che il tempo è propizio , or che si puote  Andare a briglia sciolta , una ne scegli,  Cui dir tu possa ; a me tu sola piaci.  Questa dal Ciel non già pensar che scenda.  Ma qui trovar la dei con gli occhi tuoi.  Onde tender le reti al cervo debba.   Sa bene il caccìator , e non ignora  La valle , ove il cignal s’asconde : i rami  L’ UGcellator conosce, onde si gettano  61 ’incauti augelli, e al pescator son note  L’acque, che maggior copia hanno di pesci.  Tu , che d^on lungo amor cerchi materia.  Impara i luoghi, ove frequenti veggonsi  Le vezzose donzelle . Io non ti dico,   Che dar le vele ti fia duopo al vento.   Né córrer lunga e faticosa strada.   Perseo dall’Indie ne condusse Andromeda,  E .Paride rapì di Grecia Eléna. Ma in Roma , in Roma ritrovar potrai  Fanciulle, che in beltà portino il vanto  Più che del Mondo in altra parte . Come Gargaro, Castello sul monte Ida era celebre   V abbondanza delle sue biade , e Metinna , Città nek»   V Isola di Lesbo , per V abbondanza d^ suoi vini.  La gargara contrada abbonda in biade»   In uve la metinnia » in pesci U mare»   In augei il bosco s e còme nell* Olimpo  Splendono stelle; così in Roma ammiransi  Amabili Fanciulle : qui sua sede  Pose del grand’ Enea la bella Madre. Se a nascente beltà ti porta il genio»  Tenera donzelletta eccoti innante;   Se già formata giovine desideri»  Mille ti piaceranno » e fian costretti  A rimaner sospesi i voti tuoi;   Che se a te figlia più matura e saggia  Piaccia » ne avrai, mel credi, un folto stuolo.  De’ portici pompeii all’ ombra i lenti Pàssi rivolgi, allor che Febo i campi  Dall’erculeo Leon saetta ed arde,   O a quel che adorno de’ più scelti marmi  Da lontani paesi a noi venuti,   LaMadre aggiunseindonoa’don delFigHo.(8)  Nè quello lascerai » ohe tragge il nome  Da Livia, ornato delle pinte tele De’Pittori più celebri ed antichi;   Uno de'piU dtliziosi Portici di Roma ora cer^  tornente ^uet di Pompeo . Giaceva questo in vicinanza  dtl suo Veatro , « i Romani lo frequentavano moltis'^  simo in tempo d* estate,  OTTAVIANO (si veda) sotto il nome d’Ottavia fabbrica un  portico in vicinanza del Teatro da lui dedicato a Marcello figlio della medesirrsa  e però dice il Poeta , che  la Madre , cioè Ottavia , a^iunse il dono del portico  al don d^figlio , cioè al Teatro a lui innalzato d’OTTAVIANO,  R questo il portico che Livia moglie d* Augusto  fabbricò nella Via sacra ; ne fa menzione Svetonio , e  vien riputato da Strabono uno d^più be* monumenti  di Roma, Visiterai pnr anco i Inoghi, dove (io)   In atto di far strage de’ Consorti  Effigiate son P empie Danàidi;   E il lor Padre crudel, che nudo tiene  L’acciajo micidial nell’ empia destra;   Nè il Tempio oblia, u’ Venere la morte  Plora del caro Adon , nò il giorno Sabbato  Sacro al culto giudeo • Sarà tua cura  A’xneiifitìcì templi esser presente (ii)  Della liniger’ Iside ; seconda  I voti questa Dea delle fanciulle»   Che desian donne diventar, coni’ essa  Lo fu di Giove ^ Fra i clamori alterni  Del Foro strepitoso ( e chi mai fede  Prestar ci puote ? ) Amor rivolta trova  Atto alle fiamme sue pascolo ed esca.   In quella parte ove s’innalza al cielo (la)  L’ onda d’Appio » che giace appiè del Tempio  Di ricchi marmi adorno , a Vener sacro^  Prigioniero d’ Amore è 1 ’ Avvocato,   (10) Il portico d*Apollo palatino fabbricato da Au^  gusto in una parte della sua casa era adornato di fiin^   ts immagini rappresentanti la strage^ che de*pro-  prj Mariti fecero le Danaidi per comando di Danna  loro padre.   (11) Si adorala Iside figlinola d*Inaco in Menfi  Città d^Egitto, donde furono trasportati in Roma i  suoi sacrificj . Fu questa amata impudicamente da  Giove, il quale la cangiò per timor di Giunone in una  Giovenca j e poi la restitm agli Egiziani nella sua pri^  stina forma . B^la e i suoi sacerdoti andavano coperti  di lino e però si chiamava linigera.   (la) Appio Censore condusse V acqua nel Foro di  Cesare; e d* architettura d* Archelao fu ivi innalzato  a Venere un Tempio , che per somma fretta poi rimase  imperfetto. Che attento alla difesa altrui, se stesso  Guardar non sa • Oh quante volte, oh quante  In quel loco gli manca la favella,   E deir amor che V agita ripieno,   Non della caiìsa altrui, ma della propria  S’occupa solo ! Dal propinquo Tempio  Ride la Dea di Pafo, e il difensore  Trasformato veder gode in cliente.   Ma più che. altrove ne'curvi Teatri  Troverai da far paghi i voti tuoi:   Ivi mille bellezze lusinghiere  Si oifrìranno al tuo sguardo, e tal potrai  Per stabile passion scegliere, e tale  Onde Tore passare in gioco e in festa.  Come frequente la formica in schiera  Vanne al granajo a far preda di cibo;   E come Papi in olezzante suolo  Volan sul timo e sopra i fior ; le culte  Donne in tal modo in folto stuolo assistono  Agli scenici ludi * È cosi grande  11 numero di questo, cho sospeso  Mille volte rimase il mio giudizio.   Non a’ Teatri per mirar, soltanto,   Come per far di lor superila mosffa  Vanno non senza del pudor periglio.   Tu questi giochi strepitosi il primo, ROMOLO, instituisti; allor che il ratto NeW anno del mondo 3a3i. fabbricò Romolo  nei monte Palatino una Città o sia Fortezza , che dal  suo nome chiamò Roma. Per accrescere il numero dei  Cittadini ^ aprì un asilo fra il Palatino e il Campi*  doglio , in cui si ricevevano i Servi fuggitivi^, i De*  hitori y i Malefici . Siccome i Popoli confinanti , e per  conseguenza i Sabini nor^ volevano con tal gente col*  Segui delle Sabine • Ancor non marmi^   E non tappeti ornavano i Teatri,   Nè il palco vago era per piote tele;   Ivi semplicemente allor far posti   I virgulti eie foglie, che recava   II bosco palatino, e non si vide  Decorata la scena allor con V arte*   Sopra i sedili di cespugli infesti  Assistea il popol folto , uhe all’irsuta  Chioma di fronde sol cingea corona*   Col cupid’occhio ognuno intanto nota  Quella, che far desia sua preda, e molti  Pensieri nel suo cor tacito volge.   Mentre d’agreste flauto il suono muove  Grottesca danza, ed il confuso plauso  Ferisce il ciel, ecco che il Re dà segno  Onde alla preda sua ciascun sì volga.  Rapido il proprio loco ognuno lascia,  Fanne co’ gridi il suo desio palese,   E le cupide mani addosso slancia  Sulle Vergin d’insidie ignare , come  Fogge la timidissima Colomba  Dall’ Aquila , e de’ Lupi il fiero aspetto  Agna novella ; di spavento piene  Volean cosi le misere Sabine  De’ rapitori lor schivar gli amplessi;*   Ma da Ogni patte senza legge inondano^  Ninna serba il color , che aveva innante;  ' ' a z    lòcar U lor Donne , Romito gli ' inoitò insieme con Ì 0  sorelle ,'7e moglie e le figlie a unof spettacolo, che fe^ce*  ìebrare in onore del Dio Conso , ossia di Nettuno^ €  comandò d* suoi Romani che cigscun ri rapiste fr0  quelle femmine una Consòrte.    Digitized by Google     IO   Tutte assale il timore ^ e in Tarj modi:  Questa il petto peroote^ il crin si straccia;  Quella riman priva di sensi ; alcuna  Non {>er il duol fa proferir parola;   Altra la cara madre appella invano;   Chi quale statua immobile rimane;   Chi fugge, e chi di grida il cielo assorda.  Ma le rapite Oiovani condotte  Son via, qual preda geniale e cara.   Dì pudico rossoj tinsero molte  Le delicate guance, e vìe più piacquero.  Se troppa ripugnanza alcuna mostra,   £ seguir nega il suo compagno, questi  La porta fra le sue cupide braccia,   E si le dice : a che d’amaro pianto  Da begli occhj tu versi un fiume? teco  Sarò come alla Madre è il Genitore.  Romolo, fu il primiero a’tuoi soldati  Vera recar felicità sapesti;   Se tal sorte goder potessi anch’io, >   Io pur non sdegnerei esser soldato.   Però da quell’esempio anco a’dì nostri  Trovan le Belle ne’Teatri insidie..   D’esser presente ognor cerca e procura ^  Alle corse de’rapidi destrieri.   Di gran popol capace il ;Circo augusto  Molti a te rechei!à comodi ; d’ uopo ^   Onde spiegare i tuoi pensieri arcani  Non avrai delle dita ; nè co* cenni  Intendere dovrai. Franco t’assidi, Che ninno il vieta, alla* tua donna accanto.  Quanto più puòi t’accosta al di lei fiaheo\  lE procura che il loco a.nzi ti sforzi  A toccarla, quand’eUa ancor non ! voglia.    Digitized by Google     Onde seco parlar cerca materia,   E da’ discorsi pubblici incomincia.   Quando i cavalli appariranno, tosto  Di chi sieno richiedi, e quello, a cui  Dirige i voti suoi, tu favorisci;   Macon frequente pompaallor che giungono  Le statue degli Dei, fa plauso a Venere Quale a tua Diva tutelar. Se mai  Della tua bella sulla veste cada  Polve, la scoti con la mano , e fingi *  Scoterla quando pur netta si serbi;   E sollecito ognor prandi motivo  Da leggiere cagion d’esserle grato.   Se la sua veste strascinasse , pronto  Sii tosto a tòrla dalP immonda terra;   Per cosi tenui cure avrai in mercede,   Ch^ ella poi soffrirà, che le sue gambe  Tu possa riguardar. Sia tuo pensiero,   Che quei , che sono assisì al vostro tergo,  ^ ginocchi al di lei dosso,  Non le rechin molestia. I lievi ufBcj  L^alme fiscili adescano : fu a molti  Util Fa ver con destra man composto  Il coscino, agitar con piccol foglio  Il volubile vento, e saper porre  Sotto tenero piè concavo scanno.   Farà la strada al nuovo amore il Circo,  Solevano I ROMANI portar per ih Circo le Statue degli Dei e degli Uomini sommi , quando ivi da¬  vano lo spettacolo della corsa de^ Cavalli 0 d^ altri  giochi'. V* era fra aueste Statue ancor quella di Venere , cui vuole il Poeta che si faccia un gran plauso*  Si veda la seconda Elegia del Libro III, degli amori  scritti dgl modesimo Autore^     E la sparsa nel foro infausta arena*   Ivi pugnò spesso il Fanciul di Venere,   £ chi andò per mirar altri piagato,   Ferito pur rimase. Ah quante volte  Mentre un la lingua a ragionar discioglie^  HoWà. la mano , tiene il libro, e cerca  II; vincitore del proposto premio.   Il .volatile strai senti nel seno,   Gemè piagato , e accrebbe pregio al gioco!   fu bello il mirar quando con pompa  Solenne Cesare introdissse il primo (i 5 )  Non avvezze a pugnar in finta guerra  E le persiche navi e le cecropie!   Da questo e da quel mar vennero allora  Giovani vaghi, amabili donzelle,   E la Città racchiuse immenso mondo.   Fra tanta turba di leggiadri oggetti  Chi non tigvò da far paghi i suoi voti?  Oh quanti e quanti a forestiero laccio  Porsero il piè! Ma Cesar s’apparecchia (Cesare Augusto fece presso il Tevere rappre^  sentore una battaglia navale detta Ncumachia. Intro^  dusse in questa a combattere le flotte che Marc* An-^  ionio aveva raccolte contro di lui nell* Oriente ^e le  navi ateniesi denominate Cecropie da Gecrope primo  Re d* Atene y che seguirono il partito di M. Antonio^  Furono queste armate navali vinte tutte da Azio , e  servirono nella Neumachia d* un brillante spettacelo  a futta Roma.  OTTAVIANO destinò una spedi^àon per V Oriente   contro Frante, e vi mandò il suo Nipote Cajo nato  da Agrippa e da Giulia. Marco Crasso e Publio suo  figlio avidi delle ricchezze de* Parti intrapresero con¬  tro i medesimi una guerra, in cui furono poi essi  miseramente trucidati con undici Legioni . Per far a  Cesare un encomio, dice ora il Poeta , che deve Cajo  riportar vittoria di que* popoli , e riacquistar la  ^ne romane da loro tolte Crassi. Già il restò a sog^ogar del Mondo inter#^  E già Taltiino Oriente è nostro ancora.   La pena avrai dovuta , o Parto audace,   £ voi godete, ombre deaerassi estinti,   E con voi godan le romane insegne  Di barbarica destra a ragion schive.   Ecco il vindice vostro , ognun racclama  Invitto Duce nelle schiere prime;   Giovin sostiene perigliose guerre  Quasi invecchiato fra le stragi e Parmi.  Deh non vogliate, o timidi, il valore  Dagli anni loro argomentar de’Numi;   E la virtù ne’Cesari preepee.   Degli anni Suoi più assai rapido sorge  Celeste ingegno, e mal tollera Ponte  D’una pigra dimora. Era bambino Ercole allor che ì due serpenti oppresse.  Ed èra in fasce pur degno di Giove.   O Bacco^otu che ancor fanciullo sei, (18)   Essendosi Giove innamorato perdutamente d^Alc^  mena , si presentò a lei vestito delle sembianze d*An^  fitrione suo maritoy quando questi trovavasi alla guer¬  ra di Tehe.Da Giove e da Alcména nacque Ercole, che  fu allevato in Tirinta Città in Marea vicina ad Ar¬  go , e però fu detto Tirinzto . Intenta per ciò la ge¬  losa Giunone a vendicarsi delP infedeltà di Giove,  suscitò contro d* Ercole due serpenti ; ma egli li uc¬  cise valorosamente, benché fosse di tenera età,   (18) Bacco armato, d^ una lung^ asta , e seguito da  Ufi esercito d* Uomini e di Donne , corse intrepido nel*  VOriente,e soggiogò quVpaesi che allor tutti,si com¬  prendevano sotto il nome d* India . Essendo quelV asta  così acuta, che imitava la conica figurai del Pino, fu  detta dagli antichi Poeti il Tirso , giacché Thirza ià  lingua ebraica nuW altro significa, se non se un ramo  di Pino^ •Intrecciavano le Baccanti sul tirso V uve e  i pampini cotk P edera p perché Bacco insegnò affli  Qoanto fosti mai grande allor che i tuoi  Tirsi dovè temer l’India domata!'   E tu prode Garzon sotto gli auspiej (ly)  Del Padre , Tarmi tratterai vincendo.  Sotto un nome sì chiaro aver tu dei  I primi erudì menti, e come il Prence (ao)   uomini la maniera di coltivar la vite . Alcuni Eruditi  poi fChe ricercan la moralità nelle favole ^ pretendono  che dipìngasi sempre giovine questo divino coltivator  della vigna ^perche gli uomini si rendon col vino in  lor vecchiezza amorosi e lascivi , come lo furono in  gioventù ,. Mons„ de Lavaur con molti altri , i quali  hanno^ attentamente 'considerato le imprese di Bacco  e l* etimologia stessa del Tirso, porta verisimilmente  opinione y che sia questa favola tratta in origine da  que^libri della sacra Scrittura, che parlano di Mosè.  e di JVoè,   (19) Si rivolge il Poeta a Cajo,che fu adottatò   figlio da Cesare Augusto.   Romolo dalle tre Tribù, nelle quali aveva di^   stribaito il popolo romano y raccolse per ciascheduna  cento uomini, che fer nascita , per ricchezze, e per  altri pregi ^^^no i più riguardevoli. Furono questi  chiamati Cavalieri y perchè trascélse quésoli , che fes¬  ser meritevoli d* un Cavallo , su cui dovean combat¬  tere in difesa di lui ; e si distribuirono in tre Ceti*  turie, che conservando il nome delle Tribù, dov*erano  sfate raccolte, si chiamavano é/e^Rammensi da Romo¬  lo , dei Tasienzi da Tazio Re dé Sabini, e dei Lace¬  ri Lucomone JRe d'Etruria , che fu , come dicono.,  il fondatore della Città di Lueca . Da Tarquinio  Prisco, e da Servio Tullio vennero in seguito accresciati di numero y senza mutar però il nome di Cen*  iurte ; esercitarono poi varie luminose incombenze ; e  JU'denominato il loro ordine Senatus Seminarium,  perchè in esso scieglievansi i Senatori • i 5 . Lu*   Jglio facevano i Cavalieri ogni anno splendidamente  in lor rassegna, mentre dal Tempio dell’Onore, che  era situato fuori della città , andavano al campìdo*   coronati d* ulivo , cinti d^ una purpurea veste det-      Or de’Giorani sei, sarai col tempo  L’oroamento miglior do'rccchj Padri.  Vendica ofFesi i tuoi fratelli, e i dritti (ai)  Del Genitor sostieni : della Patria  £ Padre 6 Dlfensor Parcne ti cìnse;   Ed or che l’inimico i regni invola,   Cruccioso alla vendetta egli t’invita.  Scellerati di lor saran gli strali.   Pietà e Giustizia i tuoi vessilli, e Parrni  Della causa miglior sostenitrici.   ' ta trabea, t assisi sopra i loro cavalli . 0 §ni cinque  anni poi appena giunti al Campidoglio , scendevano  da Cavallo , e presolo per mano lo guidavano avanti  al Censore ivi assiso sopra una sedia curale ; ed egli  comandava di ritenere il Cavallo , se bene aveva il  Cavaliero adempiuto a* suoi doveri ^e di venderlo , se  aveva malamente eseguito le sue incombenze. Leg^  geva il Censore in tale occasione il catalogo de^ Cavalieri yC si chiamava il Principe de* Giovani o della  Gioventù quello che era da lui nominato il primo ; e  ciò non perchè fossero attualmente tutti gióvani , ma  perchè lo fàrono nella prima istituzione^ e perchè Veta  giovanile si estendeva pressò i Romani fino a qua¬  rantacinque anni.   Principe de’Senatori o del Senato ne*primi tempi del¬  la Repubblica si chiamava quello che il primo tra*Sena-  tori viventi era stdto Censorey poi quel che dal Censore  fosse stato nominato ili primo nel leggere il catalogo  d^ Senatori y e nell\ anno dalla fondazione di   Roma quel , che dal Censore era riputato degnissimo.   (al) Pompeo y domato il Re Tigrane y costrinse gli  Armeni a ricevere da* Romani in segno di servitù i  Rettori. Si liberarono essi da un tal giogo y ma Cajo  li obbligò nuovamente a soffrirlo , e vendicò in tal  guisa i dritti d*Augusto y che dal Senato e dal Po^  polo romano fu per mezzo di Valerio onorato del lu¬  minoso titolo di Padre della pAt<‘ia, ^   (^a) I Parti tentavano di farsi padroni delV Ar-  mersia  Ora il mio Duce alle latine aggiunga  L*eoe ricchezze. E voi j Cesare e Marte,  Entrambe Padri soccorrete il Figlio,   Che in difesa di Roma espon sua vita;  Come già Marte^or tu, Cesar, sei nunie Ecco raugurio mio; tu vìncerai;   Sciorrò co’ carmi allora il voto ; degno*   Tu allor fatto sarai d’alto poema.   Porrai le squadre in ordinanza, e all’ armi  Co’ versi miei 1 ’ esorterai : tenaci  Di me nel tuo pensiero i detti imprimi.  11 petto forte de’ Romani, il tergo (24)   Io canterò de’ Parti , e l’inimico  Telo, che vibran dal cavallo in fuga.  Mentre tu fuggi, o Parto , e cosa al vinto,  Oude sia vincitor, tu lasci ? Il tuo  .Marte recò finora infausto augurio.  Dunque quel dì verrà, Cesare, in cui  Tu di natura la piò amabìl opra  Di lucìd’ oro adorno andrai tirato  Da quattro^ candidissimi cavalli ?   Or mal sicuri nella fuga i Regi  Partici andranno innanzi , il collo carco  Dì pesante catena • Insiem confusi  Giovani lieti e tenere Donzelle,   D* un’insòlita gioja il cor ripieno,   Mireran lo spettacolo gradito. "   Se una di quelle a te richiegga i nomi  Di que’ Re, di que’ monti, di que’ fiumi,    (a3) Fu Cesare Augusto ascritto in aita fra i Dei ,  $d ebbe perciò onori diHni. ’   (a4) Avevano i Parti in ' costume di guerreggiar  fuggendo , ed anzi si rendevano formidàbili , mentre  ^ibravan le lor saette^ da wjt cavalle rivoltp in fuga.  Di que* paesi 9 a tatto ciò' rispóndi;   £ non richiesto ancora il; tutto narra,   E le cose puf anco a te mal note.   Cinto di canna il crin l’Eufrate è questo, (aS)  11 Tigri è quel colla cerulea chioma.   Ecco gli Armeni^, e Perside che tragge (a6)  Da Perseo il nome suo ; nell’ achemenie  Valli questa Città si giacque . Il nome  Dirai di questi e di que’Re, se il sai,   O almen 1 ’ adatta . L’imbandite mense  Facile danno ed i conviti accesso,   Ove da far contenti i tuoi desiri  V’ è cosa anc’ oltre i vini : ivi sovente  Calcò di Bacco l’orgogliose corna  Con le tenere mani il bel Cupido,   Di cui se intrise sien 1 ’ ali nel vino  Più non puote fuggir : grave s^ asside;   Tu umide penne , è ver, veloce Scote.   Ma non vola per questo, anzi novelli  Desta incendj nelP alme, che dal vino  Sono disposte e rese atte al calore.   Ogni atra cura e molce e fuga il vino;  Allora il riso ha loco ; allor l’abietta  Mendica gente pure il capo innalza;  Fuggon le cure, il duci ; le crespe fronti  Vengono liete ; e la si rara in questi  Tempi semplicitade i più secreti  Pensier dell’alma svela, che il Dio Bacco   (a 5 ) UEufrate ed il Tigri, avendo , secondo Vo^  pinione d*alcuni, la lor sorgente nei Monti armenii  si prendono qui dal poeta per li principali fiumi del»  V Armenia,   (a6) Persìde è una famosa città , che vuoisi fab.-»  bracata da Perseo figlio di Danae nelle valli persiar  ne, dette achemtiiie dal Re Achemene Ogni mistero svela e l’arte infrange • (27)  De’ Giovanetti il cor ivi ben spesso  Rapiron le Fanciulle ; Amor nel vino  Fu foco a foco unito • Ma non troppo  A lucerna ti fida ingannatrice;   Mal nella notte , e fra i bicchier ricolmi  Della beltade si può far giudizio.   Allo splendor del giorno, a cielo aperto  Paride rimirò le Dive allora  Che alla Madre d* Amor disse : tu vinci  L’ una e 1 ’ altra in beltà , Venere bella.   S’ asconde nella notte ogni difetto;   Ad ogni vizio si perdona , e allora  Ogni donna sembrare alPuom può bella;  Consulta il di guai gemme e quali lane,  Tinte di tìria porpora, sien atte  A fsLjp bella la faccia e il corpo ^ Come  Io delle Donne numerare il ceto  Di non ardua conquista ? E assai maggiore  Dell’ arene del mar . Come di veli  Di Baja. i lidi narrerò coperti.   E per calido zolfo acque fumanti?  Riportando talun ferito il petto  Da queir.onde, non son , ( come racconta  La fama ) dice , salutari ognora.   Ecco di Cinzia suburbana il tempio    Ì ayl Alludesi al pros^erhio latino in vino veritas.  Baja in Campania , o com'oggi dicesi in ter-^  ra di Lavoro i era un amenissimo Castello^ che con-  teneva entro di se degli ottimi bagni caldi, e alcuni  laghi in cui rrnvigavan gli antichi con diverse barche  variamente dipinte, sulle quali facevano ancora de^  gli allegri conviti.   Questa Dea, che si chiama Lucina in Cielo,  Eeate neW inferno, e Diana in terra , ha ancor fra      Silvestre» ed ecco ì conquistati Regni.  Perchè vergifte ella è » perchè ella in odio  Ave d’Amor gli 8tijali,.al popol diede»   £ mai sempre darà mille ferUè. ^   Fin qui Talia sopra ineguali rote( 3 o)  Come tu debba scer T amato oggetto»   E dove tender t’insegnò le reti.   Della tua Bella onde adescare il cére  Preparo or io delF arte opra speciale.  Uomini» voi chiunque » e donde siate,  Porgete al mio parlar docili menti»   E le promesse mie ptopizj udite. Tosto nell’ alma tua scenda la speme  Di conquistarle» e vincitor sarai;   gli altri nomi quello di Cinzia » perchè essa ed Apoi*  lo nacquer nelVIsola di Deio » ov^ è il Monte Cinto.  I popoli del Chersoneso » o com* ora chiamansi » della  Crimea » le immolavano gli ospiti ivi spinti dalle  tempeste, he femmine romane » dopo Vavere ottérsuto  ciò che htamavun co" voti, andavano a* d*Agosto   con le. faci ardenti in mano, e la corona eul capo\  al Tempio suhurbano di questa Dea situato in Arì^  eia. Quivi frequentemente i Sacerdoti succedevano gli  uni agli altri » mentre , non godevano di questa di*  gnità solamente gV ingenui, ma se la contrastavano  anche i servi e i fuggitivi in una guerra particola*  re » in cui chi riportava la vittoria , otteneva a un  tempo stesso il Sacerdozio » che apprezzavano come  un Kegno. Una tal Dea peraltro y quantunque sten*  desse dal cielo per godere del suo Pastorèllo Endi--  mione » fu sommamente gelosa della propria pudici*  zia, giacché trasformò in Cervo Atteone \ perchè osò  di guardarla quando era nuda in un bagno.   (3o) Talia è quella Musa » che presiede principale  mente a* Canti piacevoli e amorosi. Dice OVIDIO che  dia insegnò sopra inegnali rote ec. alludendo al diè  stico latino » il di cui Esametro ha » com* è noto ^ sA  piedi, e cinque il Pentametro^   Ma intanto tender dei T insidie : prima  Gli augelli taceran di primavera,   Le cicale in estate , e il can d^Arcadia  Incontro a lepre prenderà la fuga,   Che dolcemente Femmina tentata  A Giovine resista ; e quella ancora  Tu vincerai, che ti parrà ritrosa.   Come il piacer furtivo è grato alF Uomo,  £ grato alla Donzella . Asconde questa  Le brame sue, T nomo le cela invano;   Ma se tu possa* vincerla una volta,  Preverrà con le sue le tue preghiere.   Ne’ molli prati al suo Torello accanto  La giovenca muggisce ; e la Cavalla  Col suo nitrir fa lusinghiero invito  Al cornipede maschio . In noi pkt forti^  Ma non però cosi furiosi, sono  Gli stimoli d’ amor i lodevol fine  Ha la fiamma delP Uomo. A che di Biblì ( 3 i)  Ricorderò, che d’ un vietato amore  Arse pel suo Fratello , e pon un laccio  Vendicò da se stessa il suo misfatto?   Non, come Figlia dee,Mirra amò il Padre,( 3 a^   (3i) BiUi nata da Mileto e dalla Ninfa. Gianczf ,  amò perdutamente Canno suo fratello. Siccome non  Ve riuscì di renderlo à sitò riguardo amoroso ^ si die  in preda a un pianto così dirotto ( se si presti je e  al libro IX. delle Metamorfosi ) che fu convertita  VI un fonte yo( se si crede al libro presente ) si prò--  curò ella etessa con un laccio la morte.   (3a) Avendo Mirra concepito un immenso amore per  Cinìra suo padre , gli fu posta in letto da  me nutrice in luogo della consorte. Accortosi Cinira  del fallo , tentò di uccìderla } ma essa fuggì  bay ove fu cangiata in albero , e diede alla luce il  bellissimo Adone , che fU V ‘unico frutto d un st fu  nesto incestuoso accoppiamento. E oppressa ora si cela in chiasa scorza:  Delle lagrime poi, che dal suo tronco  Odoroso essa elice ^ ungiam le membra. Che s^ban quteste stille il primo nome,  Del frondos’Ida nelVombròse valli.  Era forse la gloria e la delizia  Deir armento un Torel candido , solo  Negro segnale avea fra corno e corno:  Una sol f^u la maccbìa, e latteo il resto.  Questo bramaron sostener sul tergo  Le giovenche ginosie e di Canea. Oodea di farsi adultera Pasifae (34)   Del Toro., e'nel ano ooj geloso sdegno  Nutria contro le amabili giovenche:   Io cose note canto; e ciò non punte  Creta negar, quantunque siai*iqendace.  Creta, cui son cpnto Città soggette.   Con r inesperta man ; Pasifae ali Totro  Dicesi recideste or verdi frondey S 1  Or r erbe tenerissime de’ prati.2  Erra compagna dèli’st>nentOì,;e invano-  Del maiitoy pensier T arresta j vinto.   Era Minos da-un hove ^ A rche* tu vesti, .  Donna , preziose spoglie ? Il tuo Diletto  Mà è un mont 0 ^ Creta ; nè deéù qui còn^  fondere cpl Monta, Ida^ pqiaao , ope seguii la famgsa  lite fra Venere y Pallade e Óit^none.   (34) Sdegnata Venere contro il Sole y perchè Vavea  fatta sorprèndete da^*Numi det letto con Marte ffe*  à che Pasifae figlia del .medesimo , e moglie di Mi-»  nos Re di Creta, ^ innamorasse ardentemente d* un  Toro. Essendosi questa racchiusa in una Giovenca di  legno coitmtta da Dedìdà y si congiunse col Toro  diletto, e diede al Sole, in nipote il celebre Minotaio-  To , che fu ucciso da Teseo nel famoso làbcrkito»   Di tai ricchezze non conósce il pregio.  Mentre vai di montano armento io traccia,  A che giova lo specchio , a che le chiome.  Lassa, adornar si spesso ? Ah I presta fede  Pare allo specchio 4 che bovina forma  Ti nega ; invan veder sulla tua fronte  Desideri le cornac Se ti piace  ' Minos, a che un adultero ricerchi P  E se brami ingannarlo , a ché noi fai  Con un Uomo? Per boschi e per foreste  Oià la Regina , il talamo lasciato, ^  Vanne quasi fiaccante , a cui furore  Spiri P aonio Dio . Oh quante volte  La giovènca «rivai con volto iniquo  Mirò, e fra se, perchè tu piaci, disse,  Al mio Signor ? Ve^com^* in facciala lai*  Scherza sull’erbe tenere , ed esulta,,   E tài fóIlié/-non dubito non credai ^   Per lei decenti : mentre in suo pensiero:  Volge tai còse , ordina che sia tolta* ^ •   Dal gregge immenso , è immeritevol venga  Al curvo giogo strascinata, o vuole  Di snperstizion sacrai * fra-l’are • •   Vittima cada;!e nella fi^ta dtwtr^ Gode tener .le.:.viscero fumanti — -Dell’uccisa rivai. AHI quante voke ?  Gon le uccise rivaV placando i NUìiii, ^  Disse, tenendo'visceri\-'piacete '   Al mio Dilettov e quante volte ancora  Chiese in Europa èsserconversa e in Io, (35)    (35) Europa figlia di Agenorg Re di Fenicia , ^  éorella di Cadmo , era dotata di^ sorprendente^ bellez¬  za. Aree Giòvo per Ui. di un amore così violento,  aS   Che questa è una Giovenca, e quella ìMotso'  Premè d’ un Bovo . Fè le strane voglie  Paghe Pasifae ascosa in lignea vacca,   Onde il parto alla luce uscì biforme.   Se sapeva piacere ad un sol uomo^ (36)   E foggia di Tieste il turpe amore  D’ Atreo la Sposa, non avrebbe Febo  Il cammino sospeso in mezzo al corso,   E rivoltato il carro, i suoi destrieri  Mossi incontroairAurora. Anco la Figlia,( 37 )  Che i purpurei capelli involò a Niso,  Coprì del corpo suo le parti estreme  Con la sembianza de’ rabbiosi cani.    thè trasformatosi in Toro, la portò sul suo dorso in  quella parte di Mondo , che dal nome della medesu  ma si chiama Europa.   Io y o Iside fu , come Si è detto al numerò ii.  epnoertita dallo stesso Giove in una Giovenca.   (36) Erope moglie d* Atreo giacque con Tieste fra^  tello del medesimo, e nacquer da essi due figlj, che  avendo Atreo dati a mangiare al lor padre medesimo  in un convito, il Sole per celare un tanto misfattò  tornò indietro , e corse incontro aWAurora. Scilla, figlia di Niso Re di Megara s^ inva^  ghì di Minos Re di Creta , che le assediava la pa^*  trìa, e a lui recò il purpureo capello del padre,  dal qual dipendevano i fati di quella Città. Essa fu  jj^i disprezzata harharamente dalV ingrato Minos , e  fu , secondo le metamorfosi, cangiata in uccello. Vi  fu però un^altra Scilla figlia di Eorci , la quale ,  avendo bevuto un^acqua per lei avvelenata da Circe ,  venne subito trasformata in un mostro, la di ciS  parte inferire era simile a quella di un Cane. Con-^  eepì la medesima tanto orror di sé stessa , che si get>»  tò in un golfo del mar di Sicilia , che ha preso da  ^ella il suo nome» Ovidio ha qui confuso fseste due  Il Figliuolo d^Atieo, che in terra e in mare (SU)  Di Marte e di Nettuno evitò V ira.   Cadde vìttima poi della Consorte.   Chi di Creusa sull’inìqua hamma (Sq)  Non sparse il pianto, e sulla Strage orrenda  Che fe* de’proprj figli un* empia Madre ?  Frivo degli occhi pur pianse Fenicio, (4o)  E voi, oarallì spaventati, il vostro ( 4 i)    (38) Agamennone è veramente figlio di Filistene ,  ma da Ornerò^ e da tutti gli antichi poeti gli vien dato  per padre Aireo suo aco come un personaggio più  celebre» Fu dichiarato Agamennone per le sue mira^  bili imprese il Re deTle di Grecia, e per tradimento  di Clìtennestra sua moglie ucciso da Egisto , dal  quale era ella amata impudicamente,   ( 39 ) Giasone j abbandonata Medea, sposò Creusa  figlia di Creonte Re di Corinto, Medea per vendicarsi  di tafe infedeltà , f^ strage di due teneri fanciulli  nati da lei 4 da Giasone, e ridusse con fuoco ariifi-  doso in cenere ì* infelice Creusa e tutta la famiglia  e la Reggia di Cleonte,   (40) Furono tratti gli occhi a Fenicio figliuol d^A^  mintore, perchè una concubina del padre Vaccusò  falsamente d'acerle tolto Vonore, Ricuperò egli la vi¬  sta per i farmaci a lui apprestati da Chirone , il qual  gli die poi in custodia il giovine Achille, con cui  andò aWassedio d,i Troja,   (41) Ippolito figlio di Teseo disprezzo Vamorosa  corrispondenza che gli esibì Fedra sua matrigna, Sde¬  gnata ella fieramene di ciò , disse al padre , che le  aveva il medesima insidiato V onestà ^ e Teseo lo ab¬  bandonò al furor di Nettuno, Essendo per ciò com¬  parso un orribil mostro marino^ mentre Ippolito se ne  andava sul suo, carro lungo la spiaggia del mare , i  cavalli per lo spavento preser la fuga, marciarono  il legno in pezzi ^ e trucidarono miseramente il lor  Cgxìdottii^o, >   Condottier tracidaste.E perchè» o Pinco, (42)  Gli occhi tu togli agPinnpcenti figlj ?   Ah che la atessa ^eaa. il tuo delitto  Un dì vendicherà. Tali infortunj  ^ Da uno sfrenato aq^or trasse sorgente  Delle lubriche donpe . Ornai t’ affretta,   £ non temer di ritrovar contrasto  Nelle Donzelle ; appena, una fra molte  * Ne incontreraiepe. a te neghi vittoria.  E r indulgènti e, le ritrose pure  lì Goì^qu esser pregata; pna ripulsa  I Non ti spaventi ^ è questa ingannatrice.  iMa perchè ingannatrice Y ognor pip grata  INuova per esse voluttà riesce.   |E l’alma loro adescan facilmente  |l novelli amatori ..'Il vici^ campp  Ci sembra più .ijber^^so ,^0 il gregge altrui     ^-,*• /• -   Vedi che a parte sia della Padroni    I    )    Ov, Arte (Tarn. b    (4a) Fineo figlimi Agenore Re Arcadia yO co¬  me ad altri piaqe, di Tracia , o di Paflagonia y spo¬  sò Cleopafi^a figlia di Bqrea, e‘. n*ehbe due figli.  O sia che questa morissero che fosse da lui ripudia¬  ta y prese il medesimo in moglie Arpài ice , e cornane  dò , che fossero ioltìr gli occhi a* due figlj della sua  prima eoniorte, perché temè che aiiesjser avuto un il¬  lecito commercio con Ija novella sua sposa. Fu da  Borea vendicata V innocenza do* nipoti con Vacciecof-  mento di Fineo , e Giunone e Nettuno gli mandaro¬  no sulle mense le Arpie y che a lui macchiavano tur¬  pemente quelle ‘ vivandé y che non mangiavano essa  stesse De’ nascosti consiglj, e de’ piaceri  Suoi più segreti. Con promesse e prieghi  Corrompi la sua fi; tutto otterrai,   Quand’ ella voglia, e non ti sia contraria,  Dalla facil. tua Bella • Il tèmpo scelga.  Come i Medici sogliono , propìzio.   Onde il tuo amor nel dodi cor le infonda.  Ella il tuo amor le infonderà nel core,  Quando per lieti eventi andrà giuliva  Come lussureggiare in pìngue campo '  Suole la biada. Quando r alma è scarca  Dalle pallide cure , e lieta esulta.   Si spande allora , e dà facile accesso  ÀH’arti lusinghevoli d’amore.   Mentre fra i neri affanni involta visse "  Troja , con V armi si difese ; e lieta (43)   Il cavai di soldati e insìdie pieno  Àccolèe entro le mòra. Ancor si tenti,   £ non rimanga inyendicata , quando  Si dorrà , chè riceve ingiuria e scorno  Dall* impudica Amante del Marito.   La punga a sdegno la fedele Ancella,  Quando col pettin mattutin compone  Gl* indocili capelli, ed alle vele.   L’ ajuto aggiùnga anco de’ remi, e dica,  Sospir seco tràehdo, in bassa vocè:   Tu noli potrai, cred’io » come si merta.  Rendergli la pariglia. Allor le parli  Di te con detti insinuanti , e.giuri  Che tu brugi per lei d’immenso amore.  Mentre il tempo è propizio , ella s’ affretti   ( 43 ) Alludesi al cavallo di Ugno ^cht il perfido  Sinone introdusse pien di soldati in Troja , quando  tra assediata da* Greci» Virgilio Endde IÀh»lÌ»v»  Che non cadan le vele, e cessi il vento.  Come sì scioglie il gel, V ira , indugiando^  Si dilegua così. Forse mi chiedi.   Se la servente innamorar ti giovi ?   Tai cose ammesse, il rischio é manifesto^  Una rende V amor più diligente,   L’ altra più tarda e meno attenta : questa  Alla Padrona sua ti serba in dono,   Quella a se stessa • esito dipende  Dalla fortuna, che quantunque arrichì  Agli audaci ^ a te do fedel consiglio.   Che d’ un’ impresa tal lasci il pensiero.  Non per scoscese perigliose strade  Andrò, nè, duce me, verrà ingannato  Alcun Giovine amante * Ma se poi,  Mentre riceve e assiduamente porta  L’innamorate cifrerà te non solo  Per la sua fedeltà piaccia, com’ anco  Per la beltà del corpo ; allor procura  Della Padrona in pria il possesso, e ch’indi  Questa la segua: l’amoroso gaudio  Non dall’ Ancella incominciar tu dei*   Se all’arte mia si crede, e i detti miei  Non portano pel mar rapaci i venti,  Questo consìglio mìo nell’alma imprimi:  Non mai tentar 9 se non compisci l’opra»  Se a parte ella verrà del tuo delitto.   Non la temere accusatrìce • Invano  Invischiato l’angel tenta la fuga.   Nè riesce già uscir dalle allentate  Reti al cinghiale • Il pesce all’ amo colto  Si scota invano ; tu la premi e assedia.   Nè la lasciar , se vincitor non sei.   Se a una colpa comune ella soggiace, Non temer tradimenti ; a te saranno  Note della Padrona opre e parole.   Se cauto celerai 1’ accusatrice.   Sempre, contezza avrai della tua Amica.  Folle è colui che in suo pensier si crede  òhe sol debban del cielo osservar gli astri  Della terra il cultore ed i nocchieri.   Non a’ campi fallaci ognor sì debbe  Cerere abbandonar, nè alle tranquille*^  Cerulee onde del mar la curva prora.   Ah 1 che non sempre assicurar ti puoi  Il cor di vincer delle Belle; spesso  Ciò s’otterrà, se il tempo sìa propìzio.   Se deir Amica il natalizio giorno (44)   (44) Era presso gli Antichi in gran venerazione il  giorno natalizio : e gli Amanti celebravano ‘ con feste  e con doni quello^ in cui eran nate le Donne che ama^  vano . Si dee preferir certamente questa lieta costui  manza a quella che hanno adottato i Messicani e i  Cinesi, i quali riguardano un tal giorno come infausto  e doloroso . Alcuni di essi invece di ricevere con ac¬  clamazioni di gioja la nascita d^ un figlio , gli rispon¬  dono ai suoi primi singulti , mio figlio tu sei venuto  al mondo per soffrire \ soffri ^ e t’acquieta . Si fab-  hrican altri di buon^ ora la tomba, e vanno ogni  giorno a renderle omaggio come al termine consola¬  tor é d^.lor giorni . Non poco influisce, a dir vero, un  tal uso a fomentare il barbaro costume d^ uccidere i  proprp figli in un popola ^ il guala non gli Ottimi suoi  libri classici illustrati dall* immortai Confueio e con  le savissime leggi, su cui ha stabilito il suo pacifico  Impero, cerca di rendersi virtuoso ed illuminato.   Èra presso i Romani nel suo pieno vigore P uso  delle visite e de* doni nel principio dell* anno, il qua-  le incominciava anticamente col mese di Marzo , le  di cui Colende eran consacrate al Dio Marte . Cele-  hravand in Roma nel primo giorno d*un tal mese  alcune feste dette matronali in memoria della pace Ricorra , o le Calende che seguito  Abbiaa quelle di Marte, a Vener piace,   O sia che il Circo sì rimiri adorno, (45)  Non come in altre età, di statue lievi.   Ma per le spoglie ivi de i Re deposte,   L’ opra differirai : sovrasta allora  Con le piovose Plejadi P inverno;   Allor nella marina onda s’immerge  Il Capro tenerello ; allora giova  Deporre ogni pensier . Chi al mar s’afSda  Del lacero naviglio appena puote  1 miseri campar naufraghi avanzi.   Tu se in quel dì incominci , in cui si vide    che le Sabine avevano appunto in tal di stabilita fra  i loro SpoH , ed i loro Padri , i quali volevano con  V armi vendicare il ratto delle medesime . Le persone  maritate avevano solamente diritto a queste feste /  ed OraT^io nell* Ode ottava del Libro III. si scusa,  perchè vi prende parte anch? egli , essendo celibe.   Siccome il mese d* Aprile è sacro a Venere , e suc^  cede a quello di Marzo dedicato a Marte , dice il  Poeta che Venere gode che abhian le sv^e Calende  seguito quelle di Marte per alludere alVamorosa cor^  rispondenza che ella aveva coi Dio della guerra . Le  Ihnne e le Matrone romane facevan nelle Calende  d*Aprile gran festa a questa lor Pea tutelare ; e gH  Amanti contribuivano alle medesime con le donazioni.  Non vuole il Poeta, che si studino i Giovani  per adescar le Donne nel lor giorno natalizio , nel  principio dell* anno , e in occasione de^trionfi celebrati  nel Circo , perchè essendo le medesime allora occupate  in adornarsi , incontrerebbono qiiP gravi pericoli , che  sono qui espressi con l* allegoria dell* Inverno , e con  quella delle Plejadi e del Capro , le quali stelle sorgon  sull* orizzonte nel mese d* Ottobre , che è un tempo  pieno di pioggia e di tempeste , e perciò non propizia  a* Naviganti.. Scorrer sanguigno umor la flébìl Allia Per le piaghe latine, o in quello in cui  Torna la festa settima, che è sacra  Al Palestin siriaco, e in cui s’ astiene  Ognun dalla fatica, avrai mai sempre  Culto superstizioso al di natale  Delia tua Bella ; pur funesto giorno  Sia quello , in cui tu offrir dono le debba;  Ma a te lo rapirà , se tu gliel nieghi,  Che a Femina mancar non puote 1’ arte  Per carpir le ricchezze a Giovin caldo.  Del Mercante il Garzon verrà discinto  Alla vogliosa ed avida Padrona,   E porrà le sue metti in vaga mostra,  Mentre tu giungi, e al fianco suo t’assidi.  Essa ti pregherà, che tu le osservi  Per additarne il prezzo ^ e liberale  Ti sarà di preghiere e ancor di baci,  Perchè le compri , e giurerà contenta  D’ esserne per molt’ anni , e che non puoi  Comprarle cosa che le sia più accetta.   Se poi ti scusi che non hai denaro,   Ti chiederà il tuo nome , e turpe fia  Per scusa addur , che tu firmar noi sai.  Rinasce poi, quando le fa bisogno,   (46) A ih. Agosto ebbero i Romani una sconfitta  da* Galli sul fiume Allia non lontano da Roma , onde  come infausto e di pessimo nome fu condannato un  tal giorno . Crede il Poeta , che debbano i Giovani  onorare il dì natalizio delle lor Belle , e vuole che  intraprendano V amorose loro conquiste 0 in que* ma--  linconici tempi qui figurati sotto il giorno alliense,  CUI aman le Donne d* esser rallegrate, o in que^giorni  festivi simili a* sabbati giudaici , ne* quali non è alle  medesime permesso 4 * occuparsi in alcun lavoro. Che dell* offerte natalizie il giorno  Rìeda y e di pianto sa bagnare il volto  Per la supposta perdita di pietra.   Che le ornava 1’ orecchio . D* altre cose  L’ uso ti chiedrà , che date poi  Renderle nega ; tu le perdi , e invano  Speri per ciò che grata ti si mostri.   No , quando avessi dieci lìngue e dieci  Bocche , io già non potrei dell’ impudiche  Donne n^^rare le sacrìleghe arti,  li guado tenti un ben vergato foglio;   E della mente tua la prima volta  Sia nunzio ; le carezze, e le parole,   Che imitino il linguaggio d’ un Aliante  Rechi , e fervide aggiungi anco preghiere.  Donò da’prieghi mosso a PriamoAchille (4?)  Di Ettor l’esangue spoglia; e Iddio sdegnato  A voci supplichevoli si piega. .   Prometti pur , che nuocer già non ponno  Mai le prorjaesse ; ognun può farai ricco  Con semplici parole. La speraD 2 $a  Data una volta , lungo tempo dura:   C' inganna , è ver , ma Diva utile è a noi.  Se liberal con lei fosti di doni,   Avrà ragion d* abbandonarti ; quello,   Che già le desti, è suo , nò può timore  Di perdita nutrir . Ognor tu devi    (47) Achille dc^ aper ttraseinato tre volte intorno  alle mura di Troja il corpo d* Ettore da lui ucciso  alV assedio di quella Città y lo rese finalmente y 0 a dir  meglio , lo vendè\ a- ^Priamo Padre del, medesimOy che  prostrato a* suoi pièdi > lo pregava di ciò caldamente^  Exanimumaue amo oorpns vendebat Achillea.   1 Virgil Finger di dar quel che non desti; spesso  Fu deluso così di steril campo  II credulo Padron • Così, perdendo  A perder segue il giocator, nè lascia  Per questo il gioco ; e il lusinghiero dado  Nelle cupide mani agita ognora.   Questa è Tiinpresa, e qui il Valore è posto;  Ascolta ; senza doni il suo cor tenta  La prima-volta, ancor che ì doni apprezzi;  Se lor liberal ti sia, 8«^rallo Ognora.   Vada dunque il tuo foglio , ma vergato  Con detti lusinghieri ; della Bella  La mente esplori ,*e primo il caihmin tenti.  Cidippe ingannò un pomo, in bui rincue(48)  Note leggendo, fu di queste preda.   O Giovani romani , io vel consiglio.   Deh coltivate le bell’ arti ; solo  Non utili Saran per la difesa '   De^ paurosi Rei ; ma dalla forza  Del facondo parlar, vinta la mano  A voi daran col Giudice severo.   Con lo scelto Senato , e ilPopol folto  Ancor le culte amabili Donzelle.    (48) Da Zea una delle Isole Clclàdì andò Acanzio  in Deio per assistere a* sacrifici di- Diana , che là si  celebravano splendidamente. Ivi ei concepì uìà^ immenso  amore per Cidippe, ma non ardiva di chiederla in is-  posa . Stette molto tempo dubbioso nello scegliere lin  mezzo per appagare la sua passione ^ ma in lui ces^  sarono i dubbj quando intese che vigeva in Deio una  legge , per cui restava concluso tutto ciò che si diceva  nel tempio di Diana ; è però gettò a* jùedi della sita  Bella un pomo y in cui erano scritti i versi seguenti*  Juro tibi sane per mystica sacra Dianae  He Ubi venturam comitem sponsamque futuram: Ascosa V arte resti, e da principio  Non sii eloquente. Da’vergati, foglj  Vadan lungi parole aspre e ricerche.   Chi mai, se non. di senno affatto privo»   In tuono volgerà declamatorio . < ;   Alla tenera Amica il suo discorso?   Oh quante volte fu giusta cagione  Di grave sdegno un foglio ! 1 detti tuoi  Meritin fede , e adopra usati accenti»   Ma sempre, lusinghieri » onde l,e sembri^   D’udirti ragionare . Se ricusa, •.   Di ricevere il foglio , e sena’ averlo , .   Letto a te lo rimandi » |a speranza  Però non t’abbandoni » e ,il mio consiglio ,  Serba in memoria , II. collo al giogo piega  Il Giovenco difficile col tempo»   E a soffrir s’ammaestra il lento freno  Col tempo anco il Cavallo. Un ferjreo anello  Dal cootinao nso si consuma » e il vomere*  Dal continuo rivolgere la terra  Che del sasso è più duro? e che più molle '  Avvi dell’ onda ? eppure il duco sasso  Dall’ onda molle vieu scavato . Ancora»   Se sii costante» vincerai col tempo  Penelope med^sma : » A vero» ,,   Caddero al suolo le trojatie.^muri^»   Ma pur caddero alfin 1 ìtiglj tuoi ,   Leggerà anch’ oasa » e non darà risposta»   Cui tu non debbi violentarla : solo  Fa che ognor legga lusinghieri accenti»   £ di risposta alba sarà cortese  A ciò che l^sse ; a gradi e con misura  Succedefansi questi ufficj ; Forse /   Verrà da. prima A tc foglio dolente»,   à a    Digitized by “Google     34   Con cui ti pregherà, che r amoroso  Linguaggio cessi ; nia desia il contrario  Entro il suo core, e vuol che tu prosegua.  Continua danque;e alfin resi contenti  Saranno ì voti tuoi . Quando supina  Vien trasportata sulle molli piume.  Fingendo indifferenza, ti presenta  Della Padrona alla lettiga ; e canto,   E in cifre ambigue quanto puoi favella.  Onde qualchfe importuno udir non possa  Il vostro ragionar 7 Sé’ volge il piede  Negli spaziosi portici , tu quivi  Trattienti fin eh* ella^ vi fa dimora.   Or la precedi ed or la segui a tergo:   Or lento movi il passo , ed or t* affretta.  Nè d^ inoltrarti iU ntezzb alle colonne  Abbi rossor, nè di sederle al fianco.   Non ne’ Teatri senza te si trovi,   E segnai póVti al teigo , onde la vegga.  Giacch* ivi il puoi, contemplala , e le dici  Quanto brami co’segni è con lo sguardo.  Alla saltante applaudisci l e sii  Favoirevole a quei che rappresenta  Personaggio amoroso . S* ella sorge,   Sorgi ; e ti assidi pur, s’ ella s’assida;   £ a suo ^piacere il tèmpo tuo consuma.   Ma non volere innanelìare il crine  Coiì’càldo ferro, e con lUordacè pomice '  Stropicciarti le gambe ; il che tu lascia  A’molli Sacerdoti di Cibale. ( 49 )    ( 49 ) Oj9e , o Vesta , che ancor dicevi Rea yC la Dea  Buona, è Madre degli Dei, e si chiama Cibale ; per^  che nel monte Gibele dU Frigia U furono la prima  Beltà negletta agli uomini conviene:   Vinse Teseo; Afianna » e la rapio  Disa.doroo le<t;onipie , il cria scompQsto;( So)  Arse pe}*:FiglÌQ:Fe.drtt., ed era incolto;  Cura e deli^^ia. della Dea ;d’. Amore .   Fu Adon ,:che fra le selve i di traeva.  S’ann^grin pur le membra al marzio Campo,  Ma si^o monde, e monda sia la ve8te.(Si)  Aspra non sia la lingua, e netti sieno.i  Dalla lug^e i denti; il mobil».piede . >  Non nuoti ih larga pollo ;^*ed ìne6perta    i>olta kelel^ati i sacrificj » T suoi Sacerdòti" éràtio ew.-  nuchi , e ogni giorno ,ger comparir moftdi , si raschia^  van membra, t   ( 5 o) Ari^nay figlia del Re Minos , s* innamorò per¬  dutamente di Teseo , che fu da* Greci mandato con al-  tri giovani in Creta per esser divorato dal Ii/Iinotauro~,  Etsa gV insegnò la maniera d*'uscir dal làbérinto quàn^  do avesse ucciso quel mostroe in compagnia di  dra sua sorella s*.iifcamminò con. VAmante^ che dpmato  il Minofauro y tornava in Grecia vittorioso . Teseo chi  nel viaggio orasi gik invaghito di Fedra ^ lasciò bar-'  Caramente in Nasso Arianna , .e andò con la sorella  Ì2i Atene sua patria . Ivi questa dioonne , come si è  detto, amante d*Ippplito nato da Tesele da Ippoli¬  ta Regina duello Amaz%oni.   Venere amò ardehtemente Adone ^figlio di Cinirq,  e di Mirra , quantunque vivesse continuamente né^ bos¬  chi intento a caccksre le fiere. Pianse ella amaramert’^  te perchè questo giovinetto fu ucciso da un cinghiale^  e nony avrebbe mai reso a Proserpina , se Giove non  comandava', che per otto mesi avesse Venere il posses¬  so d* Adone , e per gli altri quattro sei godesse Pro¬  serpina .   '( 5 i) Nel Campo martió d facevano in Roma al¬  cuni giochi, pe*quali i giocatori si snudavano intera¬  mente , « si dngevan le membra con degli unguenti,  che rendeano a* medesimi nera la pelle Forbice non ti renda il crin deforme t  Ma da maestra iuan^ ti sia recisa  E la chioma e la barba i $enza macchie  Sian r unghie, nè soverchinoi le dita;   Nelle concave nari non si scorga ^ ^   Alcun pelo; nè esali nn tris^to fiato* - '  La bocca; e il naso non rimanga olfeilO  „ Da che il fetido becco ognora sape^ '   A lasciva Fanciulla il resto lascia,   £ alla bardassa . Ma già Bacco òhiama  Il vate suo : soccorre ei pur gli amanti;   E, la fiamma che learde ei favorisce. „  Furente errava la creten.^ Ppnna (Sa)   Pcjr di Nasso ignota arena, .   Che flagellano ognor T onde dei mare»   Ella coperta con discinta veste  Come nel sonno , nudo il pjede e sciolte  Le crocee chiome, al sordo mar si volge;.  E bagnando di lagrime le gote,   Teseo chiamava in alto suòli : gridava,   E in un piangea la mìsera, ma in lei  Era tutto decente ; nè men bella  Fu di lagrime aspersa « di dolore.   Mentre di nuovo con le man fa ingiuria  Al delicato petto, a che fuggisti t  É cosa fia.di me, perfido? dice^   Di me che fia, ripete ; e intanto il lido  De* cìtnbali e de’timpani p^cossi'   Da un* attonita mano il suono assorda.   ( 5 2) Quando Arianna si vide aèhandonata nell*  sola di Dfasso^si diede in preda all* ultima dispera^  sùone . Bacco ivi accorso con le Baeeànti e Cón Sileno ,  sfio pedagogo, la prpse in sposa y e collocò la. di hi  chioma in Cieìp prenQ ad 4 rtur ^t \ v.t  Ca<l’ ella al suolo 4a timor sorpresa;   Le mbucaa le iparole ; e piik pon scorro  Per le;geliAe} oppresse membra il sangue.  S’ appreesan ile ^eoauti^ U<cfia disciulto^  Ed opQO;i liéyl 3iltiri soiio  Previa turbo del DiOi*;£coo sul dorso  D* uo< pasciuto asinel V ebrio Sileno  Carico d’ anoi.y^^che :si reggo appena,   E profiumo aspirare>i )brevi crini.   Meiìftr eglit seguei'le! Saeeanti, e queste  Lo cfaiadianp /oggende ; l’inesperto .  Cavaliere il qjUadrtipedo, suo si^za.   Deir aaiào orecchiuto al capo scorre,   E a terra cade : i Satiri griderò;   Sorgi V deh sorgi y o Padre . Intanto giunge  11 Dio ^ che d’ uva al carro adorno accoppia  Le tigri, a ouircoh le dorate briglie  11 freno regge, • Partì : Teseo , e insieme  D’ Arianna, fa voce ed il dolore.   Tentò tre volte di fuggir , ma invanoy  Chè il timor la trattenne, e inorridita  Tremò qUal steril spiga al vento,e com#  Leggiera canna in umida palude;   Allora il Dio le disse : * ogni timore,  Cretease 'Donna , dal tuo cer disgombra;  In me tu* vedi un più fedele amante;   Di Baceo anzi sarai la dolce sposa.   Tu spazierai nel ciel ; la tua corona  Lucida stella in ciel sarà di scorta  Air incerto Nocchiero in suo cammino.  Di^se , e dal carro scese, onde non debba  Seatir paura delle tigri, e il piede  Sulla docil arena impresse Torme.   Eapilla poscia, e se la strinse al seno>     Chè tentato avria id van forgi! contralto^  Mentre fonile a un Dio tutto si rende.   De’suoi segnacr imen cantd una parte,  L’altra ripetè in alto snon gli evviva.  Cosi al letto nuziale il 0io 4 la Sposa '  Furon guidati^ e s’annoSdaro insieme.  Quando tu sederai con donna a mensa,   E di Bacco a te offerti i doiii siedo, >   Tu a Bacco,èa‘*NunJi che^han fa cena in euri  Porgerai voti, onde (dal Vrn non venga  Offeso il capo ’ tuo ; Quivi* tu puoi ‘ ‘   Con ambigue parole a lèi far iloti’ " ;  I segreti del cor, ma per6^in modo '  Che ben s’ accorga esser a lei dirette.  Potrai tu ancor con gocmole di vino  Teneri accenti esporre, onde conosca,   Ch’ ella assolnto ha nel tuo core impero.  Co’ tuoi s’incontrin jgli oocbi suoi ,<ed il fòco  Che t’arde il sené , a lei foccian palese;  Parla talora col silenzio il volto.   Procura il primo di rapir la tazza.   In cni bevv’ ella , e dove i labbri impresse.  Bevi tn pur : qualunque il cibo sia  Bichieder dei, che tocco avrà col dito; *   E mentre il chiedi, a lei strìngi la mano.  Volgi i tuoi voti pure, onde tu piaccia  Della Bella, al Marito . Assai ti puoto *   Util recar, se a te sia fatto amìcoi  Se dai la legge al bere, a lui la mano Solevano i Rfìmarù appena posti a mensa eleg^,  gere il maestro della cena y che da Orazio {lib. i.od^  9. ) li chiama il Taliarco\ Prescriveva il medesimo  U leggi del convito e la manieM di^ becere y'e ordi^   Ce^i, e riponi dal tuo capo tolta  La corona sul suo. Sia a te inferiore,  Egual sia pur, si serva in tutto il primo;  E seconda parlando il suo linguaggio.   Col Telo d’amistà tessere inganno  È vìa sicura e frequentata , pure  Non è senza delitto. 11 Talìarco  Ancor che troppo generoso appresti  I moltiplici vini e le vivande;   £ benché creda di dover più assai  Veder di quel che fu ordinato, certa  Avrai nel ber da noi legge e misura.  Onde la mente e il piè si serbin atti  A’ loro ufficj : d’ evitar procura  Gli alterni detti e gV ingiuriosi accenti,   £ vìe più ancor se sien dal vin prodotti;  E troppo faeil non indur la mano    napa alle Polte Commensali che ognuno , bevuto il  suo bicchiere di pino, proponesse qualche amena que^  stione . Auguravansi spesso tanti anni quanti bicchieri  di vino bevevano, e spesso ne bevean tanti quante e-  ran le lettere che formapano il nome della Beliamo  deW Uomo insigne , a cui facevano un tale onore . Se  molti erano gli anrd augurati , o se molte erari le leU  tere componenti il nome della persona in onore di cui  heveano ; mescepano allora il vino in una tazza assai  grande , e compensavan così i molti bicchieri che apreb’^  ber doputo puotare . Era poi in uso al termine della  mensa il vibrare in aria con le due prime dita i semi  d* una mela fresca : si credepano fortunati in amore  quando toccapan con quelli il soffitto della camera  ov*era apparecchiata la tavola^ e si riputavano infe*  ìici quegli amanti , che non li facean sorgere a queU  V altezza, De^moÙi altri giochi ^ che i Romani usa^  vano in queste circostanze, non ne è a noi perve^  nuta che un* oscura notizia A perigliosa rissa. Al suol trafitto (54)  Euritone cadéo, perchè soverchio  Bebbe i vini apprestati. A* dolci scherzi  Atta è la mensa e il vìu: 8*hai bella voce^  Non ricusa cantar ; salta s’ hai molli  E pieghevoli braccia ; e finalmeute  S’hai doti onde piacer, piaci. La vera  Ebrietà nuoce ^ può giovar la finta.  Balbetti in tronco suon l’astuta lingua^  Onde di ciò che tu ragioni, o fai  Oltra ’l dovere , il vino sol s'incolpu  Augura alla Padrona ed al Marito  Una notte felice ; ma per questo  Fa tacito nel core opposto voto^   Tolta la mensa, allor che i Convitati  Saranno per partir, tra lor ti mischia ;   ( La turba e il loco ti daran T accesso )   A lei che fogge t’ avvicina, e il fianco  Le premi dolcemente , e il piè col piede •.  Abbia ora il conversar libero campo,   E tu lungi , o pudor rustico, vanne.   Che la fortuna e Venere propizj  Sono agli audaci. De’ precetti nostri  Or r eloquenza tua non abbisogna;  Principia pur che ben sarai facondo.  Imitare il linguaggio dell’ amante  Debbi , e mostrar d’ aver ferito il core;   E onde ti presti fede ogni arte adopra..  Ardua impresa non è 1’esser creduto.    {Sii^ ElurUone è quel Centauro^ che reso caldo dab  vino y tentò nelle nozze dì Piritoo di rapire Ippoda»^  mia : Teseo lo percosse perciò così fortemente , che fw  costretto y.come dice Ovidio nelle Metamorfosi, cu vo^  nàtar V anima e il vino Mentre Donna non v’ha, che sè non stìmi^  Sia, quanto imn^agìhar ài può, deforme.  Atta a piacer ; e aémprè inver non epiace.  Quante vòlte in^amor chi sol fingendo  Incominciò , d’ un vera amòr fu preda!  Siate indulgenti pur, vezzose Donne,   «Con questi menzogner, se voi bramate  Che in sincerò si cambi un falso amore.  Con accorte lusinghe ora si tenti  Di guadagnar le Belle, come Tacque  Sa penetrar la sottoposta riva.   Deh non t’incresca ora lodar la faccia,  Ora i capelli, i lunghi è ì rotondetti  Diti, ed il breve piè. Le più ritrose  E le più caste godono alle lodi  Della loro bellezza ; e son pur grate  ^T innocenti Vergini i anzi il primo  È la beltà d* ogni lor cura oggetto.   Percliè tuttora di rossor la faccia  Tingon Palla c Giunca volgendo iti mente  Le frigie selve ed il fatai giudìzio f (551  L’augel sacro a Gìunon le penne ostenta (56;  Se tu le lodi ; e le nasconde allora  Che tacito le miri» Anco il destriero.  Quando contrasta il rapido cammino.    (55) Péllade e Giunone ^vergognandosi d^essere stc^  te da Paride giudicate .met^ belle di Venere , tentare  Tono di ripagare una tate infamia col ^ procurare n  questa Dea vincitrice del Pomo tutti que*danni , eh%  sono resi ormai cèlebri' da' Virgilio e da Omero z   .... Manet i^ha Bueat# repo^tuiu'   Judicium Faridis spretaeqtte ipjuria fbrmae.   . i^rgiL Eneid.   (56) I Paooni ^(hrisi ^li at^elH di Giunone, pospr  che solcpano'essLHinàfe ibìqarroidi fonta Dea*,    Digitized by Google      4»   Gode vedersi il crine adorno , e il collo  Accarezzato. Franco pur prometti,   E tutti chiama in testimonio i Numi,  Che alle promesse pedon facilmente  Le tenere Donzelle. Su dal Paltò  D*un spergiuro amator Giove si ride,   £ comanda che sien per l’aria spersi  I giuramenti dagli eolii venti.   Solea per l’onda stigia a Giuno il falso  Giove giurar ; utile è un tale esempio.  Giova de^ Numi resistenza e giova  Che noi pur la crediamo ; incenso e vino  Lor su gli antichi focolari offriamo:   No, non è ver che una secura quiete!   A letargo simil gli occupi; i Numi  Veggon r opere nostre. Innocua vita  Si tragga adunque ; ad altri il suo si renda;  Sii religioso in consesrYar la fede,   Stia la frode lontana, ed abbi ognora  Vacua la dostra* dalle stragi. Solo  È permesso ingannar, se siete saggi,   Le donne impunemente. Abbi rossore  D’ogni altra frode pur , ma non di questa.  Le ingannatrici inganninsi, che sono  La maggior parte di profana stirpe;   Cadan ne* lacci , cbt^ da lor far tesi,  l^àrrasi che restasse un di l’Egitto ^  DelFacqua a* campi salntevol privo  Per ben nov*anni ; allor che al Re Busiri  Trasio si fece innante , e mostrò come  Possa Pira placar di Giove il sangue  D^un ospite; la vittima tù il primo  Sarai di Giove, a lui disse Busiri,   Ed ospite darai Pacqua all’ Egitto. Falarìde cosi nell’ infocato  Toro arder fè le membra di Perillo, ( 87 )   E T infelice autore il primo empiéo  L’opera sua. Fu 1’uno e l’altro giusto^   Nè vi puote esser mai legge più equa  Di quella y che a morir l’autor condanna  Del tormento inventato. La tradita  Donna si dolga che col proprio esempio  Spergiurando s’ingannan lé spergiuro  Meritamente. Utili a te saranno  Le lagrime; con queste anco il diamante  Ti ha dato ammollir. Fa , se lo puoi^   Che di pianto bagnate ella rimiri  Le guancie tue; se il pianto a te non scende,  Che non si versa sempre a grado nostro^  Tu con la mano inumidisci il cìglio.   Chi mai alle dolci parolette i baci  Saggio non mischierà ? S’ ella ricusa  Darli, tu li rapisci,In prima forse  Combatterà ; di scellerato il nome  Avrai da lei; ma pur ella desia  Pugnando che la vinca. Sìa tua cura,   Che da' rapiti baci i tenerelli  Labbri non sian offesi, o non si dolga  Che furon duri. Quei che i baci tolse.   Se il resto non procura, è degno invero  Di perder ciò che a lui fu dato. Quanto    (87) Perillo fabbricò un Toro di bronzo , e lo dor  nò a Falaride crudelissimo Tiranno de'Grigeati in  Si cilia , perchè collocandolo pieno di rei sopra il fuo*  co ) potesse intendere d^ lamenti simili a' muggiti  de'booì. Falaride accettò il dono y e volle che subito  w entrasse Perillo per incominciar da lui il proposto  esperimento»  Mancò a far paghi dopo i baci i voti!   Ciò non pador, rusticità s’appella.   Benché si chiami forza, è questa grata  Alle donzelle ) che amano sovente  Esser forzate a dar quello che giova.   1 piaceri d’amor, se sian rapiti,   Gode la Donna, e la franchezza ha il premio.  Ma quella che poteva esser forzata.   Ed intatta rimase, ancor che in volto  Mostri allegrezza, ha mesto in seno il core.  Soffrir violenza Febe e la sorella, (58)   Ma fu grato ad entrambe il rapitore.   La donzella di Sciro ìnsiem congiunta ( 59 )  Con l’emonio Guerrier, favola è invero  Nota , ma degna pur d’esser narrata.   Dopo la lite della valle Idea  Per la lodata sua bellezza il premio  Già la Diva avea dato. A Priamo giunta  Dall’ opposta regio Deaera la nuova,   E già viveva nell’ iliache mura  Come un’argiva sposa. I Greci”tutti    ( 58 ) Castore e Pollice rapirono le due sorelle Fe-  be e ilavra, che Leucippo padre delle medesime aoea  date in spose a Ida e Linceo,   (59) Venere per premio del Pomo da lei ottenuto,  promise a Paride Èlena moglie di Menelao ^ e Pa^  rìde la rapì , e la condusse in Troja sua Patria. Sia-  come i TVojani ricusarono di render Piena Greci ^  che la richiescr più volte, questi intrapresero contro  quelli un formidabU assedio. Tetide adendo inteso ,  che il suo figlio Achille sarebbe morto se andava al*  la guerra di Troja, per assicurargli la vita lo man¬  dò in abiti femminili a Licomede Re di Sciro. Ivi   s* innamorò perdutamente di Deidamia Princi*  possa reale, ed ebbe dalla medesima in figlio il ce*  Icóre Pirro. Deir offeso marito avean giurato  Di vendicar V oltraggio, e fero allora  D^'un sol uomo il dolor causa comune.  Se noi forzava^ le materne preci.   Eterna infamia coprirebbe Achille,  Perchè con lunga veste ascose Tuomo.   , Che fai, nipote d^Eaco ? Non sono  Atte a filar le mani tue la lana.   Con arte ben diversa ora tu dei  Volger la mente alla palladia gloria.   A che questi cestelli ? Il braccio tuo  Deve portar lo scudo; e in quella destra.  Per cui un giorno cadrà Ettore, io veggo  Or la conocchia ? Del filato stame  I fusi carchi getta , e Pasta impugna.   Un letto sol la Vergine reale  E Achille accolse ; ed ivi ella conobbe  Che di femmina avea solo la gonna.   Con la forza fa vìnta ; almen sì crede;  Soggiacere alla forza a lei fu dolce.  Quando soverchio s’affrettava Achille,  Che altr’armi avea che la deposta rocca.  Spesso gli disse : per pietà t’ arresta.  Qual valore or dov’è ? Perchè trattieni  Con lusinghiera supplichevol voce  Li’autore,o Deidamia,di tua sconfitta?  Di pudico rossor copre la gota.   Se dee la donna far la prima offerta,  lilla Tè grato il soffrirs*altri incomincia.  Ah I nella sua beltà troppo si fida  Quel giovine, che aspetta che primiera  Ella lo preghi. Deve sempre 1* uomo  Essere il primo ad accostarsi a lei;   Ju uom le sue preci esponga, e le sue r   Riceverà cortesemente. Fréga   Che ti voglia accordare il suo possesso;   Ella ha piacer d’ esser di ciò pregata.   Fa lor palese il tuo desio, che Giove  Supplichevol si fece ognora innanzi  AlF antiche Eroine, e non fanciulla  Offrì preghiere , benché grande , a Giove.  Ma se t’ accorgi che alle tue preghiere  Si fa vie più superba, allora l'opra  Abbandona, ed il piè rivolgi altrove.  Molte amano chi fugge ^ ed odian quello  Che troppo le frequenta; impara dunque  A non tediarle. Nè chi prega sempre  Dee del delitto palesar la speme,   Ma sotto il manto d’ amistà velato   insinui Amor. Con questo mezzo vidi  Deluse rimaner ritrose e fiere  Donzelle, e divenir T amico amante.   Non dee il nocchier, che le marine spume  Solca soggetto alla solare sferza,   Candido avere il volto , e pur disdice  Al cultore de* campi, chfe rivolge  Col vomer curvo , e con pesanti rastri  Le dure zolle , e per te turpe fia  Candide aver le membra , che il tuo crine  Cerchi adornare del palladio ulivo.   Sia pallido ogni amante ; è questo il suo  Proprio color ; tinto di questo il volto  Sarai creduto infermo. Fra le selve  Pallido errò per Lirice Orione (6o),   (6o) Giops, Mercurio , e Nettuno furono henisd*  mo accolti in casa d* Iréo uomo assai povero* Aven¬  do questi domandato medesimi un figlio , che non  dovesse ad alcuna donna la nascita, i tre Ospiti di- E per ritrosa Najado fu Dafni (6i)   Pallido L^almà discopra il volto  Estenuato ; nè a schifo; avrai di pórre  Sulla nitida ^chioma un pìcòiol manto ( 6 a).  Le cure ^ il duolo ^ le vegliate notti.   Che origin traggon dà nn Violento amore,  I Giovanetti estenuai! ; non tf incresca  Comparire infelice , se tu brami  Di far paghi-ì tuoi voti,'onde ognun dica  Che ti rimirà : è (Questi unWeto amante.  Mi dorrò fbrsè , 0 pur' ti farò dk>ttò  A usar rarti pt^rmessé e le vietate?   Ah che amicizia è fè^^on^nòmf vani i  Lodar quella , che adori, al tuo ^compagno,  E perigliosa imprésa , ché se crede  Alle tue Iodi , gli verrà vaghezza  D'entrar nél posto tuo. L'atto rea prole (63)  Non cercò profanai* d-Achillé 11 letto vini hagnàti^no della ptopHa ofina la pelle del Toro  da lui ucciso per Viàrio loro in cidoy é assicurarono  che da mtella nascerebbe un fanciullo: JVé nacque  infatti Orione ^ che fu un ottime Cacciatore. Non si  sa chi sia Lirico da lui : amata Vedansi le note faU  te a questo libro dal Ckier Néiruio.^   (6i) Dafni figlmel di Merèurio rtacque in Sicilia,  ed k VAutore de^virsi buìieeliei. Amando egli una'  Ninfa , da cui era ^matà egualmente, ottenne dal  Cielo, che divenisse cieco chi di loro oiolasse il primo  la fede giùtata,Immemore Dafni del voto fatto,  j* mnémo rò d^ uha ritrosa Nomade , e divenne cieco.   (6a) Q uando i Romard soffrivano qualche incorno^  do di sai ute , si coprivano il capo con un piccol maa-  to da loro iifè/to Piu li alani.   ( 63 ) Patroclo nipote d^Attore € figlio di Mentàpo  fu amicissimo Achille. Non cercò Fedr^ di sedar T amico (64) .  Di Teseo Piritoo ;aè in altra guisai [  Pilade la consorto af«(ò à' Oreste , ( 6 S) 3  Che come Fcho Palla ^ od il tuo  O Tindaro ,gemeUo amò ia suora^ ( 66 )   Ma non sperato rionofvatì spesson J (o r )  Sìmili esempi, se non spe^ri ancora ;  Veder spuntar dal tramarisco i pomi,   E in mezzo al huine ritroTare ,il mele. . >  Quello che è turpe :giova > e ognun ricerca  Il piacer proprio > che divien più grato.   Se altrui costa dolor . Do^e, 8 !:intese  Scelleraggin piA grande ? Pel nemico  Non debhi .amante: paventar .soltanto,   Ma fuggir dei, se vuoi viver, sicuro,; .  Quei che credi fedeli, e siimi amici. <   Il Fratello, il Cognato ,, ed il diletto ;  Compagno temi ; questa tufba tutta; , ;   Vera ti recherà cagion d^ angoscia.   Già toccavo la meta ; ma diversi.   Sono cosi delle Fanciulle^ \i i ^ ^ ’u   Che varj mezzi ancora usar si 4enno,   (64) Piritoo e Teseo concepirono V uno per Poltro   una stima si f^rànde, ohe giurarono di non àhhan^\  donarsi giammai , o itifMi si prestarono vicendevole  mente soccorso in tutte U occtìrrettoo^ Pirotop ^ querie  tunque frequentasse taaasa di Teseo, limita sèmpre  la sua beneoolenaa per Fedra a* sentimenti d* amìci"\  aia e di stima.Pilade figliuolo di. Strofa ^ ehbé per Oreste   un*amicizia con sincera^ ^le.nonjo abbandonò nel-  le più pericolose circostanze a rischio di perder anche  la vita. ’   (66) Castore e Polluce figli di Tindaro amaron la  lor sorella Elena con quell* amore, con cui debbono  i fratelli amare le sorelle.    Digitized by Google     49    Per adescarle. Non la stessa terra  Ogni cosa produce ; atta alle viti  £ questa ; quella vuol gli olivi ; e in altra  Lussureggian le biade. I nostri affetti  Varian come nel mondo le figure.   Piegar si sa chi ha senno ad ogni umore;  E come Proteo , si farà nell’ onde ( 67 )  Sottile ; ed or sarà leone, ed ora  Àlbero 9 ed or cinghiale irsuto. I pesci  Altri si piglieran col dardo, ed altri  Con r amo ^ e alcuni ancor saranno tratti  Àir ampie reti con la corda tesa.   Nè giova ad ogni età lo stesso modo;   La vecchia cerva scorgerà da lungi  Le insidie . Se s’accorge l’ignorante  Che tu sii dotto, e ardito una modesta,   Si porranno in difesa, onde avvien spesso  Che quella che di darsi a un uom d’ onore  Ebbe temenza , fra gli amplessi vili  Giaccia d’ un servo . Parte avanza ancora.  Parte ebbe fin dell’ opra intrapresa ;  Fermo qui tenga l’ancora il naviglio.    Arte ^am. c    (67) Proteo figliuol di Nettuno era un Dio mari-^  no , che si solwa cangiare in ^alsivoglia forma y e  di qui ha origine il proverbio : Proteo mutabilior.   I3ite e ridite lodi al delio Nome:   La desiata preda è alfin caduta  In queste reti. A’versi miei ramante  Lieto conceda rigogliosa palma;   Al Vale ascreo ed al meonio Omero (i)  Son Dreferito. Tal di Priamo il figlio (a)  Con la rapita^ a Menelao consorte  Trionfante spiegò le bianche vele  Dair armifera Amìcla, e tal pur era   (i) Il Vate ascreò è Esiodo ^ e ph si è veduto al»  V annotazione 5 del Lib, /. perchè gli venga dato uts  tal nome. Critei de , ad onta della custodia che ne ave¬  va Vargivo Creonte^ senza divenir moglie d*alcuno^  divenne madre d^un figlio, che chiamò Meletigene  dal jwmt Me]e«^ in vicinanza del quale parton. Si  sa , che essendo Melesigene accieeato , fu sopranno¬  minato Omero, perchè i Cumani chiamavan con tal  nome tutti i ciechi ; ma non si sa se questo inimita»  ìfil Poeta dicasi meonio perchè Meone fosse suo pa»  dre , o perchè da Meone Re de^Lidj fu poscia adot»  tato in suo figlio.   (a) Paride figlio di Priamo rapì Elena moglie di  Menelao nella Città d*Amicla, donde la condusse  trionfante in T^oja sua patria Pelope allox che te vinta traeva (J)   Sul carro peregrino, o Ippodamia:   Perchè, o giovin t’afFretti ? in mezzo alPonde  Naviga il tuo naviglio, e lungi è,il poxto  Più dt quello ché bramo* A te non’basta  Che tratta t’abbia la fanciulla innanzi  Io tuo poeta: presa fu con l’arte;   Con l’arte ancora conservar si debbe.   Non vi bisogna già niìnor virtude  Perchè non fu^gan^ritroVatè : è quella  Opra del caso , e questa sol delParte.  Siimi propizio , o Amore , e Citerea;   E tu , Er^tp pur V qhe* il ncfme pqrti ' :  D’Àmor , m’assisti» pra a cantar m’accipgo    (3) Enomao Re Elìde e^ di Pisa senti  coloy, ohe sarebbe eglt-uodid nel ygiorno^  da avesse presoi in isposa la sua figlia Ippodan^a^  Per allontanare dalla medesima à molti giovani , che  ambivano d'acquistarsi una 5 I belici fttnóiulia in con^  sorte , gV invitò tutti un giorno a far ^secè il gioco  d'una corsa , col patto che. sarebbe^ irpmancabilmente  trucidato chi fosse rimasto vinto da lui , e che do-^  vesse > chi aveva la fortuna di vincerlo^ sposare Ip->  podamia. Pelope fu vincitore con Vajnto di bfirtilo ,  a cui promise , che. nella prima notte de^ suoi spon¬  sali gli avrebbe in ricompensa accordato }L dolce pos¬  sesso 4dla sposa novella. Immernorè egli però della  data parola, e del segnalato servigio a lui reso ^ con^  dusse sul carro vincitore in trionfo la bellissima Ip-  podamia , e quando Mirtilo gli richiese Vadempirnento  delle sue lusinghiere promesse , lo gettò barbaramente  in .mare. . .   . (4) Da EpMT« , che in greco idioma significa Amo-,  re , ha preso il suo nome la Musa Erato. Fu essa,  madre di Tamita ^ che cantò il primo di tutti i versi^  amorosi , ed a lei si attribuisce da alcuni greci ùom-^  mentatòri V invenzion della Éiusica c del BaUf^  Cose stupende : con qual arte Amore  Tener si possa io vi dirò, bench’ abbia  In Vasto mondo ei di vagar diletto.   Egli è leggiero , © doppio p^rta al tergo *  OrdÌB‘'*di'jpènbo , Onde' riniporgli legge  È difiScfr impresa. Àvea'aMa fuga  DelP ospito Mibos ckiusa Ogni via, (5)   Ma ntì'àmdace sentier trovò con Tali.  Poiché Dedalo chiuse il Minotauro,  Giustissimo Minos, disse, abbia £ne  Ora'il’mio esilio , ed il paterno suolo  11 ceder mio riceva. Io non potei.  Perseguitato ogUór da iniqui fati,   Vivore in patria, almen morir vi possa.   Se a me ricusi un tal favor , che sono  Carico d*anni ^ lo concedi al figlio,   E se al figlio .noL vuoi ^ lo dona al padre.  Queste e molt^ altre ancor cose dicea, •   Ma a lui Minos hón permettea il ritorno.  Di sua eVentura cèrto», a se medesmo  Allor Dedalo disse, hai tu materia  Onde mostrar Pingegno; e terra e mare  È in poter di Minos : e mare e terra  Or ci vieta la foga ; a me rimane  Il cammino del ciel ; questo si tenti*   — l^tdato , come già si è accennato , fabbricò irs  Creta il celebre Labirinto, in cui fu racchiuso il  Sfinoiaiiro. A^endògli' Minos vietato d* uscir da quel^   ' io' f non trovò altro mezzo per ritornare alla patria y  se non se di fabbricar dell* ali congiungendo insieme  varie penne d* aòcelii , ed accingersi in tal guisa a  ' 'Volar per il cielo in compagnia d'Icaro suo figlio.  Questi per altro innalzò troppo il suo volo, e preci^  pkò miseramente in quel mare , che prese da lui ii  nome Icario.    Digitized by Google      54   Sommo Giove *, perdona ^ questa impresa:  DelP Empireo stellato non aspiro  Già le sedi a toccar ; sol questa strada  Onde fuggir dal mio Signor mi resta*   Se Io stìgio sentiero a me si mostri,   10 r onde stigie varcherò • Debh’ ora  I dritti rinnovar di mia natura.   I mali aguzzan 1* intelletto. E quando  Si avrebbe dato fà che un uom potesse  Premer le vie del cielo.? In ordìn vario  Dispon le penne , che per V aria sono   11 remo degli augelli ; e unisce insieme  Con del ritorto Un 1’ opera lieve.   Con cera al foco sciolta insieme accoppia  Le parti estreme ; e già della nuov’ arte  Era venuta la fatica a fine;   Ma intanto che trattava e penne e cera.  Rideva il figlio , ignaro che quell* armi  Sarian la sua difesa al tergo unite.   Con tal naviglio, a lai diceva il Padre,   Si può alla Patria far ritorno ; in questa  Guisa fuggir Minos, che ogni altra chiude  Fuor che T aerea via « Tq che lo pupi,  Con questa ch’io inventai arte novella^  Fendi gli aerei spazj ; ma la vista  Della Vergin tegea, e del compagno (6)   (6) Calisto i Licaone Ra d* Arcadia ^ è   soprannominata Tegea, da una Città di tal nome  soggetta alV impero del padre della medesima. DaU  V illecito commercio , che ebbe essa con Giope , diede  alla luce un figlio chiamato Arcade , e fu da Giu¬  none per ciò tra^ormata in Orsa ad oggetto di ven*  dicarst deW infedele suo sposo ^ il quale la collocò in  oielo fra le stelle col nome , che ancor oggi conserta,  d’Orsa Maggiore. Di Boote Orion cinto di spada --—   Tu dei fuggir • Con V apprestate penne  Mi segui ; io ti precedo, e sia tua cara  Batter^ V isteasa via ; da rae guidato  Incolume sarai, li’aeree strade  Se calcherem troppo vicini al Sole,   Al suo caler si scioglierà la oera;   Se al mar propinqui batterem le pennei  Da’ vapori del mar saran bagnate.   Spiega il tuo voi fra ^1 Sole e il mare; i venti  Pur anco temi, o figlio ; e all’ aure in preda  Dà le tue vele allor che sian propizie.  Mentre in tal modo V istruisce ^ ài figlio  Il lavoro dispone, e mostra come  Muover lo debba : in guisa tal la madre  La pennuta ammaestra inferma prole.  L’àJe poi di sua man per se costrutte  Accomoda al suo tergo, e nel novello  Cammin timido libra, in aria il - corpo..  Allor che al volo si accingeva, al figlfo  Diò molti baci, e le paterne gnauce  Furon di calde lagrime bagnate.   Sorgea sul piano un colle assai minore  Del monte, e quivi V uno e l’altro corpo  Si diede in preda a perigliosa fuga.  Mentre le penne sne Dedalo move.   Quelle osserva del figlio, e ognor sostiene  In aria il corso • Icaro si diletta  Del novello sentiero, e ornai deposto    Orione figlio Ireo ( annot, 6o del Lib, I. ) Untò  di dare un disonesto assalto alla casta Diana ; ma  essa lo fece uccìdere da uno scorpione , e poi mossa a  pietà lo trasmutò presso a Boote in una costellazione  fatta a guisa di spada Ogni timor ^ con arte audace vola  Più ibrtemente. Un che insidiava a’ pesci  Con la tremula canna, alzato il guardo,   Li vide in ariane abbandonò P impresa.   Già da sinistra avean passato Samo,   E Nasso e Paro e Delio al clario Dio  Sommamente gradita ^ ed alla destra  Si lasciar dietro Labioto, e Calìnna  Per selve ombrosa, e Stampaglia di guadi  Feraci in pesci cinta, allor che il figlio  Temerario con troppo incauto ardire  Spiegò senza ìL suo duce in alto il volo*   S’allentano i legami ; al Sol vicina  Liquefassi la cera , e i .tenui venti  Male sostengon le commosse braccia.   Dal sommo cielo spaventato il guardo  Rivolse al mare, e dal timor già sorta  Si offro al suo sguardo tenebrosa notte.   Si liquefò la cera, e i nudi braco!   Dibatte ; trema ; e ìnvan ricerca il modo  Di sostenersi *« Cadde , e o padre , o padre  Gridò cadendo, via son tratto , e T onda  Cerulea chiuse al suo parlare il varco.   Ma Pinfeiice Padre.(ah non più padre!)  Icaro , grida , Icaro , dove sei?   Sotto qual asse voli ? Icaro grida,   £ nuotanti sul mar mira le penne*   Copre P ossa la terra , è prende il mare  Il nome suo • Minos già non poteo  D’ un uoni frenarle penne ,ed io m’accingo  Un Nume alato a trattener? S* inganna  Cfii fa ricorso all’ arti emonie, e appresta  Dalla tenera fronte del cavallo  Lo svelto a forzalppomane. Non Verbe ( 7 )  Pon di Medéa far viv*?re l’amore;   Non 1 Tharsfejj^ncàntesmi . Se potesse  Una tal'arte ptolàligàrto , avria '   Medea Giasbn', Cfrcfe teénto Ulisse . ( 8 ^   Nè i pallidi apprestati* éill%*dónzelle  F'iTtri* Valséro { aU’alrne Son nòcivi, ( 9 )   Ed inspirai) farot .'Ogni delitto  Vada put lungi ; se attti essere amato,  Amabile ti- ttióstraf I a: ciò^ nTort giova *   Solo’ le^ menibtk àlve'r’by^^ e là-faècia. ^  Sii pur Nireó tfaro^ ^11’ aiitibd^ Omero ; ( io)   ' ^. t L ; >( 7 ) Q^^àevano gli an tichi , e fra questi ancora Pii-   nio ea Aristotile , che si potesse còncìliar l*amore per  mezzo éAl^lppòinsLne, cioè di qtàel pézzetté rotondo  di carrie .nera ^ che han\ sulla , fronte iì cavalli nati  di fres^qp, Jfa Mars^ figlio^^efia/venefica Circe^^ t^aj-  ser l a lo ro orig ine i M ar si. Abitarono questi popoli m  lidlia non fontani ,àa Uòma ^e Jfùrorio~reputati , èc-  celleràPneWarte dellc^ ' niagìq: “ * '   (8) ,iÌÌe«/èa \e Circe fdronp dii^ ihsiAni Ma^he ^ je  insieme due a^passioriaté 'mài. cohisposte dmànii\  poicHè 'fiorì pótérono có'loro magici incanti trattenere  Ùiasoné\d Utisse i che amavano tèneramente, ‘ ’   (^) t Filtri preparati dalle Maghe , eran composti  di fichi salvatici ^ éP uòva e di penne di civetta, di  * sangue e di. pòlfnone di ranocchie , e d*os5Ì di cani e  'di serpenti'Sventrati. Lèggasi ài Libro quinto V Ode  'd*Orazio cprìlró Canidia. * ^   (io) Nireo], nafo dd Aglajd e dal Re Cecrope,  andò alt*assedio di Trojq ; e vien da Omero nel Li-*  hro secondo dell*Iliade lodato per la sua sorprenden^  te bellezza. Ercole amò sommamente Ila figliuol di  ‘Teodamahte , c lo condusse con se, quando navigò  alla volta di Coléo. MetltP era iri viaggio lo mandò  un giórno ad attinger Vacq.ua dal fiume Ascanio nel’»  la Misià ma essendo ivi disgraziatarkente caduto^  han finto i poeti , che fosse rapito dalle Nufadi Dea  de*fiumu O il tenerello un giorno Ila rapito  Dalle callide Najadì : se brami  Conservarti Y amor della toA donna,   E non vederti abbandonato , aggiogni  Deir alma i preg) alla beltà del corpo.   È la beltade un ben caduco e frale,   Che con gli anni decresce, e a un fisso tempo  Fugge mai seiupre • Le violette^ e i gigij  Non fioriscono ognor;Ia spina , ^ cui  Colta la rosa sìa , rigida viena*,^ ^ '  Vago garzon , i tuoi capelli un giorno  Verranno bianchi, e il corpo tuo le rughe  Ti solcheranno . Formati ed aggiungi  Alla beltade un animo che ^uri:   Sol ei riman fino agli estremi roghi*   Ni sia rultima ina cura con Farti  Ingenuo Padornarlo ^ e di due lingua  Renderlo dotto . Non fu bello Dlisso,(ii)   (il) Colisse t figlia , come credono alcuni, delVO*  etano e dì TeHde, accolse cortesemente il naufrago  Ulisse nell* ìsola Ogigia , ov* essa regnala. Dimorò  questi per sette anni con la Ninfa suddetta , da cui  ebbe varj figli , e poi fu costretto a dividersi da lei  per comando de*Numi , quantunque non lasciasse elìa  alcun mezzo intentato per ritenerlo sempre appresso  di se. Reso Re dei Traci detto odrisio perchè cornane  dava alla Traqia nazione degli Odrini, e sitonio^  perchè anticamente la Tracia ^si chiamava Sithon ,  fu ucciso da Ulisse e da Diomede, mentre andava  con un esercito in soccorso di Troja. D* ordine de*suoi  Troiani si portò Dolone ad osservar gli andamenti  dell*armata de* Greci ; ma incontratosi con Diomede  td Ulisse , che pure osservavano la condotta del cam^  po Trojano , svelò a*meiesimi , dopo d*aver preso Vim^  punita y tutte le più segrete determinazioni de* suoi  concittadini. Volendo egli poi per premio i cavalli  emonj d*Achille , fu ba^aramente trucidato da Ulio^  se e Diomede uccisori di Reso Ma facondo ; c per lui ferito H petto  Portar* r equoree Dive. Oh quante volte  Di sua partenza si lagnò Calisso^   E dicea che non atte erano a* remi  L’onde del mar! Oh quante volte udire  Bramò di Troja i casi , ed ei sovente  Narrò lo stesso con diversi modi I  Stavan sul lido insiem , quando la bella  Calisso ehiese la dolente istoria  Del Duce odrisio; ed ei con tenue verga  ( Mentre a caso la verga in man teqea )  Finge Popra richiesta in sull’arena.  Questa» le^disse, è Troja (e fe’sul lido  I muri) . È questo il Simoe,e queste fingi  Che« sieno le mie tende . Il campo osserva  (E intanto lo disegna) che col sangue  Sì sparse di Dolon, quando gli emonj  Cavalli scaltro d’ involar procura.   Fur del sìtenio Reso ivi le tende;   In questa uotte da i deitrier rapiti ^  Fui strascinato . Dipingea più cose,   Ma improvvisa del mar onda furiosa  Via trasse Troja , e col suo Duce ancora .  Le trinciere di Reso. Allor la Diva,   Vedi quai nomi s’inghiottiron Ponde^   £ vuoi che al tuo cammiò sieno propizie?  Ardirai dunque di fissar tua speme  In fallace fij^ura? e più del corpo  Altro tu non avrai solido e degno?  L’accorta compiacenza a noi concilia  Gl’ animi, ma l’asprezza e le severe  Parole contro noi muovon lo sdegno.   Si ha in edio lo sparvier , perchè tra V armi  Traggo sua jriU, e i lupi che assalire Hanno in costume il timoroso gregge.   Mite è la rondinella , e innocua vive  Dall’insidie dell’uomo ; e l’alte torri  Abita là colomba a lei gradite.   Vadali lungi le liti e i detti amari;   Con soavi parole amor si nutre.   Stia la discordia tra marito e moglie;   Si faggan questi, e credano a vicenda  Di difender lor dritti • Ciò conviene  Alle tnògli/che ognor funesta dote  Recan di lìti . Il dolce suono ascolti  Degli • accenti bramati ognor V amica;  Legge non havvi per gli amanti ; in loro^  Ìj amore è legge • Parolette grate  Reca , e dolce lusinga à lei 1’ orecchio.  Onde alla vista tua lieta si faccia.   Non io d^ Amor maestro a’ ricohì parlo.  Che chi pnote donar > dell’ arte mia  Non abbisogna • Chi quando a lui piace,  Prendi j può dir, non manca mai d’ingegno.  Cedere a Ini dobbiam, che più gradito  Sarà dell’opra nostra. Il vate io sono  J>e’ poveri, dhe ognor povero amai.   Dar doni non poteva, e diei parole.   Cauto ognor sìa povero amante , e tenga  La lìngua a freno, e soffra quel che un ricco  Non soifrirebbe . l^el ponsier mìo torna,  Che irato aia di delia mia Bella feci  Al crine oltraggio . Un tale sdegno ah quanti  Giorni mi fe’ passar pallidi e tristi I  Noi credo, e noi compresi , che la vesta  Io le stracciassi allor, ma lo diss’ ella,   £ comprarne altra a me fu d’ uopo. O voij  Che avete ingegno, del Maestro vostro    Digitized by Google     6i   Fuggite il fallo, e né temete i danni.   J8ia la guerra co’ Parti , e ognor la pace  Con l’Amica diletta'. Usa gli scherzi,   E tutto quel che favorisce Amore.   Se a te che l’ami, docil non si mostra  Qual vorresti e cortese, il suo rigore  So^ri costante , e diverrà benigna.   La forza usando, il curvo ramo frangi,  Che con dolcezza addirizzar potevi.  Varcasi 1’ acqua cón pazienza, e malo  Vìnconsi i fiumi, se pigliar tu tenti  Contrarie Tonde rapitrici k nuoto.'   I numidi leon , le fiere tigri  Pan le lusinghe mansuete e miti;   Ed al rustico aratro la cervice /   A poco a poco sottopone iJ toro.  Dell'arcade Atalanta e chi più fiera.(ia)  Mostrossi mài? Eppur quella crudele  Soggiacque anch’essa al mèrito d* un uomo,  Narra la fama , Melamon piangesse, (i3)  Sotto un arbor giacente all’ombra, spesso  Suoi tristi casi e la crudel Fanciulla.  Spesso* portò le ingannatrici reti  Sul vinto collo, e con spietato ferro    (la) L’arcade Atalanta, figlia di Jasio o d’Aban^  te , fu un.’eccellente cacciatrice ,e si fe* compagna di  Diana per consertare illibato il candore della sun  verginità, Finta essa p<ù dalla fedele e lunga servitù  prestatale da Meleagro o da Melanione , si abbando^  nò finalmente in braccio ni medesimo , ed ebbe in fi^  glio il celebre Partenopeo,   ' (i3) Sono tra loro cod diverse le memorie .a- noi  lasciate dagli antichi scrittori riguardo a Melanione  0 aid Atalanta , che è impossibile il dar de’ medesimi  «Hit distìnta notizia Uccise spesso i barbari cinghiali.   L’arco teso d’Ileo soffri piagato,   Ma conoscea più ancor 1’ arco d’ Amore.  Non vo’che armato le menalie selve  Tu salga, e che le reti al collo porti;   Hò già t’impongo il petto alle vibrate  Saette espor • Dolci più assai saranno,   Se udir mi vuoi, dell’ arte mia le leggi.   A lei che è ripugnante , ognora cedi;   E vincitore partirai cedendo.   Eseguisci fedel ciò eh’ ella impone:   Biasma Quello che biasima, ed approva  Quel che le piace , e il suo parlar seconda.  Di rider ti ricordo al riso suo.   Di piangere al suo pianto , e i moti ancora  A suo piacer del vento tuo componi.   Se giocale nella man P eburneo dado ( 14 )  Agita , tu ancor l’agita, e lo getta    (14) Oltre il gioco de* dadi era presso i Romani in  uso quello dclVAlìosso detto da loro Talut, che con^  sistema in piccoli quadrati d*osso j ne* quattro lati de*  quali erano notati separatamente i numeri uno, tre,  quattro, sette. Doleva pagar senza lucr^o una mone^  ta chi avesse gettato l* uno, che chiamatasi Ganis o  Òanicula. Guadagnata sei monete e ciò che ateta  perduto nel gettare il Cane chi scoprita la parte op*  posta all* uno ^ cioè il sette che ateta il nome di  * Yenns o Gons,* ne guadagnata tre chi gettata il  Seniofper cui intendetasi il tre, e quattro chi ates^  se rappresentato U Ghio, che esprimeva il numero  quattro. Si rileva da**latini Scrittori che fu VAliosso  giocato anche ditersamente ; ma basta per la chiara  intelligenza di questi versi U sapere che erano i Cani  dannosi ^ mentre esprimevano l* ano ^per cui si dote^  va senza lucro pagare una moneta. Il Gioco , ohe  rasfvmbra a guerra , è , come facilmente ri QQtnprew*  dp ^ qugllo degli Scacchi,    Digitized by Google     In modo cV«lIa vinca. L’Àliosso  Se trae, farai in maniera cbe la pena  Non soffra d’ ^sser vinta, e tuoi saranno  Sempre i dannosi cani ; e s’ ella' pone  Opera a gioco « che rassembri a guerra,   Fa cbo perisca dal nemico vinto  Il tno soldato. Sulle verghe steso  Tieni r ombrello , e, nella densa folla  Per dove idee passare , il varco l’apri;  Vicino al letto non t’incresca porre  Lo scanno, e fai piede dilioato togli  E riponi la scarpa .iDei sovente.   Benché ti prenda orror , della Padrona  L’algente,mano riscaldare al seno.   Non creder turpe, henchè a te rassembri.  Con destra ingenna sostener lo specchio,   Se a lei ciò piacerà. Chi ’l fiero sdegna (i5)  Otaneb.della matrigna in domar mostri.  Che ora è nel Ciel , ohe primo egli sostenne.  Si crede , tra Ife joniche Fanciulle  Che tenesse il cestello, e che filasse  Rnstiche lane . Si l’Eroe tirinzio  Servi all’impero d'una Bella ; or dnnqne   Dubiti di soffrir ciò eh’ei sofferse?   Se ti comanda esser presente al Foro  -Previeni 1’ ora del comando , e sempre   ^eoU ' mnst valorosamente ( Annoi. 17. del  Lib. I. ) tutu s mostriyche contro di lui suscitò la  tua rnatngna Giunone, e sostenne sulle sue spai-   ad Atlante affa-  incarico. Innamoratosi egli poi dH)n-  '‘iff reale della Lidia, vestì abiti femi-   mh, e m qualità d’ancella iella medesima filò vil¬  mente l»inne con quella man valorosa, con cui per  le rmrabilt sue gesta s’ era colmato di gloria. ^    Digitized by Google     Ne partirai più tardi • Se ^t* impoiàfe  Di gire in altro loco’, ogni altra cura  Lascia da parte , corri ^ uè la turba ''  LMutrapreso cammìti trattenga , e còma ‘  Servo, sé vuol, tu Taccompagna a Casa^-  Tolte le mense , e^già sorta^ la liOtte; > *   Se fosse in villa,*e tf dicesse: vr<eni> ^ ^  Col piè premi la via , se manca il eocebiò,  Che Amor odia gl’inerti . Il btiitasoosò  Tempo nè la Canicola assetàtai ^ ' n /  Nè per scaduta nòve il sentìev biénco - ^  p’ ostacolò ti aien ^ Simile a gòfei/ra * ^  E r amore , da cui vadano lungi ' ‘ ^ '•   I codardi . Nò , sotéo tali itìsegné*   II timid’ uòmo guerreggiar tiòu' debbe*   La notte, il verno, disastrose strade, ' ’  Dolor cocenti, e ogni altr’aspra fatica  Racchiudono que’mòlli ttccampaihetttli*   Di pioggik dalle untole tìiscioitu'^ * ‘ ‘ *   Ben spesso intrisa avrai la -veste,-è‘Spesso  Gelato giacerai sul nudo suolo." ^   Dicesi che dì Cinto il'Nume' nu giorno (i 6)  Pascesse le ierée vacche d’ Admeto,   £ s’ascondesse in umil capanna.'   A chi non converrà ciò che coriTenné ‘  Apollo, che dicesi i/-Nuine- 4 ì'Cinto fper^hè  ( Ànrvot. 1^9. del Lib, /. ) nacqueove giace  4 in tal monte y sentì il pin, intenso, dolere ^ quanda  Giove fulminò Esculapio di , lui figlio , perchè faceva  rivivere i morti con V ajuto della -Medicina. Per veti^  dicenrA pertanto in qualche maniera d* una tale ingiur-  ria , egli uccise i. Ciclopi y che fabbricavano le saette  a quel Nume supremo , il quale lo spogliò per ques to  della divinità, e lo costrinse a pascolar le vacithe  4 * Admeto Re de* Ferei in te staglia^    A Febo ? O ta, che in lungo amor ^impegni,  Il fasto lascia • Se un cammiii seeuro  £ facil ti si nega, e se alla porta  Ritrovi impedimento, allor t’insinua  Dal precipizio d’ùn aperto tetto,   O da ascoso sentier d’ alta finestra.   Lieta ne fia, quando del tuo periglio  Intenda la cagion ; di certo amore  Sarà per la tua Bella un grato pegno.  Spesso potevi dalla tua Diletta  Star lontanerò Leandro, ma varcavi ( L’ onda del roar, perchè le fosse noto  L’ amante core • Guadagnar l’ancelle  Non abbi a vile, e in special modo quella.  Che sarà favorita , e ancora i servi.   Non temer d’ avvilirti : ognun saluta  Col proprio nome, e alle lor destre umili,  Ambizioso , d'unir cerca la tua;   Ma al servo che ti prega ( è lieve spesa)  Porgi piccoli doni, ed in quel giorno  Pure air ancella, in cui restò ingannata Leandro amò Con tal forza Ero Sacerdotessa  di venere , che spesse volte varcò VEllesponto per visi^  tarla. Essa accendeva Una fiaccola sopra una torre,  affinchè potesse il suo Amante camminar piu sicura^  mente , e quando intese , che era il medesimo misera^  mente annegato , si diede in preda aW ultima dispe-*  razione , e slanciossi intrepida nel mare,   {ìÒ) Ai q di Luglio celebravasi in Roma splendi--^  damente una festa, a cui concorrevano le Servé‘ ve^  stile a Matrone romane , in memoria delV util servii  gio che avevano esse in tal giorno prestato alla Pu^  tria. Ecco ciò che ne dice il Macrohio, Post Urbe in  captam , cum aedatus esset gallicus motus, res vero  publica esset ad tenue reducta, Finìtimi opportuni-    Digitized by Google      66   Da veste maritai gallica truppa,   E che pagò d’ un folle ardire il fio.   Ti fida a me ; fa tua la plebe, e sempre  Sia fra (juesta V ascierò , e quel che giace  Sulla porta del Talamo . Io non voglio  Che ricchi doni appresti alla Padrona;  Piccioli sian, ma convenienti e accorti.  Mentre è ferace il campo , e mentre i rami  Piegan pel peso di mature frutta.   Porti fanciullo in un cestel gli agresti  Doni , e dir ben potrai che da una villa  Suburbana ti vengano, quantunque    tatem invadendi romani nominis aucupati praeferant  sibi Postlmmium Livium, Fideoatiam Dictatorem ,  qui, mandatis ad Senatum misis, postalayit , nt si  yelleut reliquias suae ciyitatis manere , matres fa*  Hiilias sibi et yirgines dederentur . Cumque Patres  esseat in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla no¬  mine Phìlotib teu/ Tutela , poilicita est se cum cae-  teris ancillis sub nomine Dominarum ad hostes ita-  ram : habituqae matrnm familiat et yirginum sumpto,  hostibas cum prosequeatium lacrjmis ad iidem do¬  lorii iogestae sunt. Quae cum a Livio in castris di-  stributae faissent, viros plurimo vino proyocarunt ,  diem fbstum apud se esse simulantes. Quibus sopo-  ratis , ex arbore caprifico, quae castris erat proxima,  signum Romania dederunt, qni oum repentina incur¬  sione snperassent ; memor beneficii Senatus, omnet  ancillas manu jùssit emitti, dotemque eis ex publico  fecit, et ornatum quo tunc erant usae, gestare cou-  cesfit, diemque ìpsum Nonas Gaprotinas nuncupa-  yit ab illa Caprifico , ex qua signum yictoriae coe-  perunt, sacrificiumque statuit annua solemnitate ce<-  lebrandum, cui lac, quod ex Caprifico manat, propter  memoriam facti praecedentis adhibetur. Questa è la  fedele esposizione del fatto, d cui non pare che si  uniformi il Poeta Tu gli abbi compri nella laera via. ( 19 )  Rechi pur Tu ve » e le aastagne care  Un giorno ad Amafilli, e che ora a vile  Parehè dono legger avrebbe anch* esso,  Co’t^rdi pure e con ghirlanda mostra  Che memor vivi della tna padrona.   Si compra turpemente con tai mezzi  D’orbo vecchio l’affetto, e la speranza  Di godere i suoi beni. Ahìperan qnelli  Che Così vii disegno a donar move.   E che ! t’insegnerò teneri versi  Io diluviar Fa me lo credi, i carmi  Non ton molto graditi ; e benché Iodi  Ottengano talor, maggior lusinga  Han gli splendidi doni : Un ricco piace  Ancor che nato in barbara contrada.   Questa è per vero dir l’età dell’oro^  Giacché con Voto compransi gli onori,  Criacchè con V oro piegatisi le Belle.   Se tu medesmo con le Mute, Omero,  Venga privo di doni, ab ! tu seaeciato  Sarai di casa. Di fanciulle dotte ^   Havvi turba rarissima , ed un’altra.   Che sé reputa tal benché ignorante,   L’une e l’altre s’encomino co’versi^   Che ottengan dal lettor lodo pel suono  Facile e lusinghiero \ a queste e a quelle  Tenue e da aVersi a vii sembrerà dono  In loro onore vigilato carme. ^   Usa in maniera ché V amica ognora    (19) VendéQasim Ronia ogni torta di frutti e d*al^  tri generi nella Via sacra, che acquistotti un tal nó¬  me , perchè furono ivi conclusi con gran^ sagrifizf i  patti fra Romolo e Tazior     68   A far ti preghi quel che util ti sembra,   E che far già volevi. Se promessa  Abbi ad alcun de’ Cuoi' la li ber Cade, (ao)  Fa pur elisegli la chiegga alla padrona.   Se ta rimetti al servo il suo delitto,^   Se le catene sue dure disciogU, ;   Te ne sia debitrice. ^ A lei la •gloria>   A tediatile venga. Sul:tuo eore  Mostra ohe elFabbia un prepotènte impèro^  Ma illesi serba ognora i dritti tuoi.   Tu che nutrì desio della tua cara ' ^ ^   Consfetvarti V amor , fà oh’ ella pensi  Che tu getonito sei di sua Heltade.*   Se le sue menàbra in vtiria veste avvolga,  Le sii largo (U lodi, e se le doe ' .  Cinge, dirai che accrescono i suoi Veazi.  Se poi s* adorna con aurata veste, *   Dille che più splendente èli’è dell’ oro.   Se prende la pelUcela , e tu T approva; *  Se la tomita lieve , allora, esclama '   Che, desta incendj, e con ièmmes^a voce  Pregala che schivar proeuii il. freddo.   Sia il orine in duo diviso, oppur da oaldo  Ferro ritorta, tu dirai : mi piace.   Di lèi, se.danai, ammirerai le,braccia,   Di lei, ^ canta, 1* armoniosa voce,. •   ' E a lei dimostra con dolèntii note^   Perchè fpresto diè fine, il tuo scontento.  Loda gli abbmcciamenti ,:e in suon piètoso  E querulo ie mostra con KJUéiI foraa ..   (ao) Presso i Homani eruno cortamente i servi in  una condizione sì miserache (^iputavansi fortuna^-  a , quando i padroni per un effetto di^somma cUmon^n  accordavano loro la liberty, ^ -,    Digitized by Google    6p   D’insolita jilaowrfe: il. cor t’inonda.   Gon questi- un4incoc che-|}iù. violenta  Foss’ ella di Medusa ^ e indite: e giusta (ai)  Dìvetrài.co», l’ ansante,* Sia .tua cura -  Di non sembrane -iagantiatore ; e il volto  Kon distrugga i tnoi> detti. Ascosa Térte  Giova j e svelata la vergogna apporta,   E Ii^ tfe. 00» ragiOp j toglie per. sempre.  Spesso Sotba l’ÌAu)tjnA0tì,( iiti quella bella  Parte dall’sanitOf,-^ cui vosaeggia Priva  Del purpureo, lioór ; rieolnta » quando  Il freddo,«cura la?f»reiuej ed era il «aldo  La soioglie,). Pìncostante. aere d cagione  Di languore, alle-metubra,* Elhi^pur viva  Sana, masO'.inat giaceja-in, letto in ferma.  Soffrendo. ..drd tmaligqogciol V Infinstoi  La tua pìetade:;ecP AQt^ctW> palese  Sia alloca .alla fanqiullaj^ fi getta il aenae  Di ciO .cbe mieter, debbi, a larga falce.'  Nè del liingaauo mal poja',ti, prenda^ ,   E faccia» le tue man cid che permette.  Te rimiri piangente, ed i .tuoi baci :   Non r.inore«qa;S<^l-Ìr,;'flon arse labbia ,  Beva il tàO ;piantp,. 4 Ì» .ciel voti farai.   Ma ognor,.palesi,,e di narmr: ti .piaccia  Be» spesso,fausti' sogni..:Àn| sua'magione  Guida la-ivacohiarella , che con ?ìolfo iaa)   (ai) ]ffedasa figlia di Forci^'ed ufl'a delle tre Gorgoni, incontrò-lo tdogn» di Minerva , perché à prestò  all’ impudiche iooglie, di Nettuno • nel Tempio della  medesima* Questa Dea le trasformò^ pertanto i capelli  in serpenti, e fece si che fosse convertito in -sasso  chiunque ardiva di riguardarla.   (ìa) ponducivàn gli antichi le vecchiarelle nello  àuse d^gV frifermi , affinché con le lor preghiere di Purifichi la stanza e insieme il letto,   E con tremola man T ova le rechi.   Di tua premura avrà cosi 1* amica  Kon dubbj segni, e con tai mezzi molti  Far dalle Belle istituiti eredi.   Ma deir inferma per soverchia cura  Deh non volerti procacciar lo/sdegno;  Àbbian tuoi dolci uffioj il lor confinej  Non le vietare il cibo ; il tuo rivale, •   E non la destra tua* pòrga la tazaa  Colma de* succhi amari. Or che n^ll* alto ^  Del mar solca la nave, usar non dei  Lo stesso vento, con cui già dal lido  Le vele hai sciolto. Mentre Amor va errando  Novello ancor, con Taso forza acquisti;  Stabil verrà, se lo saprai ' nutrire.   Ebbe vitel le tue carezze il toro,   Che or è de'tuoi timori oggetto, e Talbore,  Sotto cui posi , un di fu tenue ^etga.  Nasce povero d'acque il fittnré , e forza  Acquista nel suo corso, e dà Ogni parte  Gli vien tributo di novello umore.  S’accostumi con te, che nulla puote  Più di tal cosuetudiue giovarti.   Mentre l’adeschi, a te grave* non sia  Di soffrire ogni tedio • Abbia te sempre  Dinanzi al guardò ; ognor tuoi détti ascólti;  La notte e il di le pinga il volto tuo*   Ma quando poi sicura avrai fiducia  Di poter esser ricercato, allora   Scacciassero Sa quelle, gli spettri. Epicuro deve soffrire  i rimproveri degli Stoici, e VOratore Eschino quei di  Demostene , perchè avevano le lor madri Ulk   simile impiego che riputavasi vile*    Digitized by Google    7 ^    Vanne pur lungi, che la cura sua  Sarai benché lontan . Prendi riposo;   Ciò che s’afBda al campo riposato  Bende ei ben generoso e l’arsa terra  Bey e l’acqua del ciel. Finché pxesente (a 3 )  Fa a Filli Demofonte, il di lei seno  Senti mediocre amor , ma in vasto incendio  Arse allor che le vele ci diede^’ venti.  Mentre vivea lontan l’astuto UÌìsse (a 4 )  Penelope soffriva cura mordaeCr  Tu ti dolesti pur, Laodamla, (aS)   Lontan Protesilao. Brieve tardanza  £ mai sempre sicara. Allevia il tempo  11 dolor dell’assenza ^ e dal pensiero   > e dà loco a nuovo amor 1’ assente*  Mentre tu , Menelao, stavi lontano (26),   (a 3 ) Fillidt, figlia di lÀcurgo He di 'Tracia , rice*  Vè cortesemente nella Reggia e nel letto il naufrago  Demofoonte figlw di Teseo. Quandi egli partì per %  Città d* Atene ., colera chiamato dalla cupidigia di  regnare , le diede parola di ritornarsene a lei dentro  un mese . Aspettò Fillide lungo tempo il suo caro  sposo, e poi afflitta e disperata per la tardanza di  lui , si tolse da se stessa crudelmente la vita.   È noto il verace affetto che aoea Penelope pet  Ulisse suo spesole però si può facilmente compren¬  dere quanto fosse vivo il suo dolore per la lunga di¬  mora che fece fi medesimo alV assedio di Troja.   ^uS^ Laodamia amo sì ardentemente Protesilao detto  in latino Phyllacides daFilaco.4uo avo, che fu sem¬  pre occupata dal più vivo dolore mentre era esso al-  V assedio di Troja , e fece far del medesimo dopo la  sua morte , una statua di cera , che ogni notte pone-  vasi nel letto quando vi andava a dormire.   Menelao trovavasi in Vreta , ove .l* aveano ri¬  chiamato i suoi affari , quando Paride di lui confi-  mcpte gli rapì la bellissima E.lena pia consorte Sulle piume giacer sole non volle  Siena, e nella notte al caldo seno  l)eir ospite fu striata. E chi mai puote  Di ciò nutriremo Menelao, stupore?   Solo partivi, e nel medesmo tetto  Era la moglie e T ospite. In custodia  T,ii folle le colombe al. falco fidi,   Ed al montano lupo il pieno ovile?   Siena non ha colpa, e non commise  L’adultero delitto ; ei fece quello  Che tu faresti, e che farebbe ognuno.   Ad esserti iiifedel la donna sfórzi^.j   Se il tempo e il loco a lei concedi. Quale   Oonsiglio ella usò mai se non il tuo?   Che dovea far ? Il suo marito è lungi,   Ed un amabil ospite presente,   E giacer sola teme in vacuo letto.   Ciò a Menelao era noto. Io dal delitto  Siena assolvo ; usar volle di quella  Libertà, che il marito a lei concesse  Cortese c umano. Non così feroce  Flavo cinghiai si mostra in mezzo all’ira  Contro i rabidi cani, allorché il dente  Fulmineo rota , nè così lionessa  Che a’cari figli suoi porga le mamme,   Nè da piè ignaro vipera calcata ;   Coni’ àrde e mostra 1 ’ agitata mente  Donna che la rivai trovi nel letto  Del suo consorte : e corre , e dà di piglio  Al ferrò e al foco, e ogni decor deposto,  Rassembrà una Baccante. La spietata (27)  Medea nel sangue vendicò de’figlj  ^-   fay) Vedaii V annotaz. 89 del Lib Del marito il misfatto ^ ed i violati  Dritti di sposa. Àltr^empia genitrice, (28)  Mirala in rondinella trasformata.   Or di sangue macchiato il petto porta.  Tali delitti sciolgono V amore  Meglio composto e più costante ; e cauto  Gli dee r uomo fuggir, gli dee temere.   Nè ad una sola donna io ti condanno;  Portin migliore augurio i sommi Dei !   Così rigida legge appena puote  Seguir sposa novella. Abbiano pure  Loco gli scherzi, ma celar ti piaccia  Sotto furto modesto il fallo tuo.   Da cui già non voler cercar la gloria.  Altra non mai conosca i doni tuoi;   Nè prefigger tu dei 1 * ora medesma  Agli amori furtivi, e in un sol loco  Condur le belle, onde non le sorprenda  La donna tua ne’ noti nascohdiglj ;   E quante volte scrìvi , i fogli osserva;  Che molte leggeran più assai di quello  Che tu loro scrivesti. Amante offesa  Move bene a ragion Tarmi, e sovente  Come a lei desti, a te di duol dà causa.  Mentre il figlio d'Atréo fu d’ una sola (29)  Ov. Arte d^am. d    (a 3 ) Progne figlia di Pandìone, e moglie di Teseo ^  fu dagli Dei cangiata in Rondine, perchè vendicane  dosi deW ingiuria recata da Teseo a Filomena di lei  sorella , uccise Iti suo figlio ^e lo apprestò al Padre  barbaramente per cibo,   (39) Agamennone rapì Criseide figlia di Crise  cerdote d*Apollo , il quale in abiti sacerdotali si portò  inutilmente dal medesimo per ricuperarla j tolse Bri*  seide ai Achille ; e condusse poi in Grecia Cassandra  Contentò e pago, quella visse casta.   Ma per i vìej del marito poi  Divenne infame. Inteso avèa che Crise,  Le fasce in capo e il lauro in man portando,  Ottener non potè 1* amata figlia.   Inteso avea il tuo ratto, il tuo rossore,   O Briseide, e per quai turpi dimore  Fosse la guerra prolungata. Queste  Cose la fama a lei narrava. Vide  Con gli occhi prhprj poi la figlia stessa  Di Priamo : vincitor fosti ad un tempo  E preda, o Agamennon , della tua preda.  Nel cor , nel letto ricevè ella poscia  Il figlio di Tieste, e vendicossi  Così de’falli del marito infido.   Gli amori tuoi tener cerca nascosti.   Ma se fian noti e manifesti, sempre  Però li nega , nè ti mostra allora  Nè più sommesso o più giocondo : reo  Ti fa ria ciò scoprir. Novelle prove  Le dà deir amor tuo. Queste il sostegno  Son della pace. La tua prima amante  Fa che di ciò non abbia unqua contezza.  Havvi chi la nociva erba consiglia  Santoreggia di prender; ma ciò stimò  Atro veleno. Mischian altri il pepe  Nel seme dell’ortica , e nell’ annoso  Vino tritano il callido pilatro. ,   figlia di Priamo , la qual fu a luì concassa nella di*  Vision della preda. Clitennestra sua moglie, e figlia  di Tindaro non potè reggere a tanta infedeltà , e /?«-  rò accolse nel letto Egisto figlio^ di Tieste , da cui '  { Annotaz. 88 del I*) uccidere il suo   marito. La Dea che sul ombroso Érice monte ( 3 o)  Ave il suo tempio, no , soffrir non puote  Che siau forzati i suoi piacer. Si prenda  Pure il candido Bulbo che a noi manda  La Città di Megara, e la salace  Erba che cresce ne’giardini. L’ova,   L’imetto mel, del pin le acute noci  Si prendan pur. Perchè alla medie’ arte,  Erato , or tu ti volgi f II cocchio nostro  Debbe più da vicin toccar la meta.   Tu che celavi per consiglio mio  Poc* anzi i tuoi delitti , or altra strada  Batti, e per mio consiglio i furti scopri.  Nè di volubil già merto la taccia:   Non col medesmo vento i passeggieri  Porta la curva nave ; ora si corre  Col tracioBorea, ed or con Euro, e spesso( 31 )  Dal Zeffiro si fan goiihe le vele,   Talor da Noto. Osserva come in cocchio  L’auriga ora le brìglie allenta , ed ora  Frena con l’arte i rapidi cavalli.  Compiacenza servii le rende ingrate,   E amor senza rivale illanguidisce.   Se la fortuna sia propizia, Talme  Divengono lascive , e faci! cosa    ( 3 o) Venere aveva un magnifico Tempio in Sicilia  sul monte Erice , donde fu detta firicina. ,   Sotto il nome di Bulbo iniendonsi tutte^ le radici  rotonde come agl) e cipolle , che i Romani facevan  venire dalla Città di Megara fabbricata da Alcatoo  figlio di Pelope.   {jòi) Il vento Borea f spirando a Settentrione , vien  qià dette treicio perchè la Tracia è più settentrional  della Grecia y e dell* Italia, Euro spira da Levante  [ Zeffiro da ponente, e Noto da Mezzogiorno,    Non è serbare in mezzo allieti eventi  IL cor tranquillo. Come lieve foco,   Che perduto abbia a gradi il suo vigore,  Ascpndesi , e nell’ ultime faville  La cenere biancheggiale se v’unisci  Zolfo , Testinta fiamma manifesta,   E a splender torna il consueto lume;   Così ove pigra e torpida si giaccia  L’alma, destar cop forti e lusinghieri  Stimoli è d’uopo in essa allor Tamore.   Fa che di te paventi : ognor riscalda  L’intiepidito core, e impallidisca  Al, solo udir che tu infedel le sia.   Oh quattro volte e quante io non so dire  Felice quei, di cui si lagna offesa  La sua fanciulla, e che giugnendo annunzio  D’un tal delitto alle sue triste orecchie  Cade, e il color le manca e la favellai  Ah foss’io quello, a cui furente straccia  Il crine ! ah foss’ io quello a cui con l’unghie  Sgraffia le gote, che or piangente mira  Or con bieco ciglio, e senza cui  Vorria , ma non può vivere ! Se chièdi  Il tempo , onde di te la lasci offesa  Lagnarsi, io ti dirò : sia questo breve.  Perchè lo sdegno suo forza maggiore  Con dimora soverchia non acquisti.   Con le tue braccia il bianco collo cingi^  E piangente nel tuo seno l’accogli;  Asciuga co* tuoi baci il . pianto suo,   E i piaceri di Venere concedi  A lei che piange. Già la pace è fatta;  Con questo mezzo sol cessa lo sdegne.   Se feroce divenga, e a te rassembri  Veramente nemica » allor le chiedi  Un dolce amplesso , e la vedrai placata.   Ivi déposte Varmi è la concordia^   £d in qael loco » a me lo credi , nacque  La tenera amistade. Le colombe.   Che già fecero guerra , i rostri insieme  Dolcemente congiungono ; di quelle  11 mormorio son voci, e son carezze.   Fu il mondo in prima una confusa mole;  Non ordine regnò, non vi fu legge ;   £ stelle e terra e mar solo una faccia  Mostravan ; sulla terra il ciel fu posto  E fu dal mar la terra circondata,   £ diviso cessò l’inane caos.   Presero ad abitar le fiere allora  Entro le selve ; a star gli augelli la aria;  £ s’ascosero i pesci entro dell* onde.  L’uomo errò allor ne^aoUtarj campi.   Ma rozao 9 inerte corpo, e senza genio*   T'u il bosco la sua casa ; il cibo l* erba;  Lie frondi il letto ; e già per lungo tempo  Visser fra loro sconosciuti. Dicesi,   Che le feroci loro alme piegasse  La dolce voluttà. Lo steiso loco  Abitarono insiem Tuoibo e la donna;   Non da maestro furon fatti dotti  Di ciò che dovean far ; Venere loia  La dolce opra compì senz’arte alcuna.  Trova da amar Paugel dolce compagna,   E in mezzo all’acqae pur con chi s’accoppj  Non manca al pesce. Il maschio ainato segue  La cerva, ed il serpente a’dolci inviti.  Della femmina cede. Insiem congiunta  La cagna al can s’annoda. Il suo montone   Soffre lieta Tagnella; la giovenca  Gialiva è col torello, e la stizzosa  Capra 1* immondo becco non disdegna.  Parenti le cavalle i maschj segnono  Per lungo spazio , e varcan fino i fiumi  Che li tengon divisi. A che più tardi ?  T’affretta dunque , e alla sdegnata porgi  Il bramato sollievo ; questo calma  L’ atroce suo dolore, e questo vince  I succhi d* Esculapio • Il fallo tuo  Dei con ciò cancellar , tornarle in grazia.  Mentr’ io cantava queste cose, Apollo  apparve » e mosse dell’ aurata lira  Col pollice le corde • In man tenea  L’ alloro, di cui cinta avea la chioma;  ^Queir ammirando vate allor mi disse:   O de’ lascivi amor maestro , guida   1 tuoi scolari alfine al tempio mio; (3a)  Ivi sta incisa la famosa legge,   Che conoscer se stesso a ognuno impone.  Amar solo potrà prudentemente  Quegli che se medesmo appien conosce,   E alle sne forze sa adattar Tìmprese.  Procuri che la Bella ognor Io guardi  Quel cui Natura diè leggiadra faccia.   Si mostri spesso con le spalle ìgnude  Chi candide ha le membra ; parli pure  Quei che lo fa soavemente, e canti,   E beva quel che a bevere e a cantare  Con arte apprese, ma non mai interrompa      (3a) Alludtd al Tempia consacrato in Delfo ad  Apollo ove era scritta a caratteri à* oro qaest^ aurea  legge: nosco te ipiam L’altrui discorw P eloquente, e in mezzo    Al ragionar non reciti importuno  I suoi carmi il Poeta . In questa guisa  Febo i^egnomnii, e. voi di Febo adesso  Seguit^e i precetti. Ah no ! non ponno  Mancar di fe gli oracoli d’ Apollo.   Or son chiamato a più'vicini oggetti.   Chi sagace amerà ; chi la nostr’ arte  In uso saprà porre f avrà vittoria.   Non sempre i campì rendon con usura  Le biade seminate, e a dubbia n^ve ,   Non sempre fausto è il vento. Ah! sono brevi   I piaceri d’ amor , lunghe le pene.   Onde Amante a soffrire il cor disponga:  Quante in Ato son lepri , e quante in Ibla  Pascolan api, quante olive accoglie   II verd' arbor di Palla, • quante il lido  Del mat conchiglie ; tanti son gli affanni  Che soffrenti in amor , tanti gli strali  Jlal felo intrisi che ci passan V alma.   A te diran che usci fuora di casa  Quando con gli occhi tuoi forse la vedi.  Ma creder dei che uscì, che vedi il faUo.  Mella notte promessa a te la porta  Forse chiusa sarà ; soffri, e le membra  Riposa e adagia sull’immonda terra.  Mendace ancella forse in tuon superbo  Dirà; perchè le nostre porte assedjf  Cortese e supplichevole stropiccia  Il limitar della crudel Fanciulla, ^   E al capo tolte ivi le rose appendi.  Quando vorrà, t'appressa, e quando il vieta  Tu vanne lungi. Uomo non dee sincero  Di sua presenza far soffrir la noja.    Digitized by Google     8o   Non sempre con ragion ti potrà Jirer  A me fuggir costui non è permesso*   Non creder turpe di soffrir ingiurie,   Nè d* esser dalla tua Bella battuto,   Nè sul tenero piè d’imprimer baci.   Ma a che mi fermo nelle tenui cosef  Or subietto maggior m’agita l’alma.   Io canterò prodigj ; il volgo attonito  Ascolti i detti miei, mi sia propizio.   A difficile impresa ora m’accingo.   Che nel difficil sol glòria si merca.   Dall’arte una si chiede ardua fatica.   Soffri il rivai pazientemente ; teco  Starà vittoria , e n’otterrai trionfo.   Non già un mortai, male pelasghe querce(33)  Ti dieron tai precetti . Ah i iio, non puote  Dir r artè mia di ciò cosa maggiore.   Farà un cenno amoroso al tuo rivale,   E tu lo soffri ; sctiverà , e t’ astieni  Dal toccar le sue carte ; e venga e tomi  Senza le tue doglianze ove le piace*   Con legittima moglie usi il marito  Quest’indulgenza pure, alior che notte  Le tenebre distende, e il sonno regna.  Non io, Io debbo confessar, non sono  In quest’arte perfetto. E che far deggiof  Io de’ precetti miei minor mi trovo.   Io soffrirò che, me presente, un segno  Si faccia alla mia Bella, e il freno all’ira  Io potrò por ? Ah mi ricordo ancora   ^3) Fabbricarono i Pelasgi un Tempio dedicalo  a Giovò , in vicinanza del quale era situato un bosco  di querce , da cui davano le colomba risposta umana Che il suo marito nn di le diede un bacio,  Ed io del bacio a lei feci querela;   Abbonda il nostro amor di crudeltade.   Non una volta sol mi fu nocivo  Un vizio tal ; piti dotto invero è quello  Per cui, lieto il marito, in casa ingresso  Hanno altri amanti. Ma saria più grato  L’esser di questo ignari. Ah lascia dunque  D’amore i furti ascosi , onde non fugga  Dal vinto labro, confessando i fallì,   Lungi il pudor. Deh risparmiate, o amanti.  Di sorprender colpevoli le amate.   Schetzino pur , ma almeno a se medesme  Perauadan che il fer’ solo in parole.  Sorprese, in esse pel rivai maggiore  Si fa r affetto ; e dove egual la sorte  Fa di due, 1* uno e Paltro son costanti  La causa in sostener del danno loro.  Favola iu tutto il elei nota si narra:  Venere e Marte dagP inganni presi  Pur di Vulcan. Ferito il petto avea  Marte per Vener da un apaore insano,   E divenuto di guerriero amante.   Nè rustica o difficile mostroàsi   (Non v’è di questa Diva altra jpiù molle)   Venere al suppliéhevole Gradivo (34).   Oh quante voltè la lasciva risé ^   da    (34) Marte si Marna Gradivo da apa/vav, ehe si^  grufiea in greco linguaggio vtbraziorfe d'AVta. Aven^  do Giooo preeijntaio Vulcano in Lenno 'per 1 la defar-^  mità del suo corpo, si tuppè questo misero Diojin  tal caduta una gamba ^ e così divenendo zoppo ^ di^  canne ancorst mSgiortncnU deforme.    Digitized by Google     Sa ^   Di Valcano pei piedi e per le mani  Nere e incallite pel lavoro e il foco.  Contraffaceva pur di Marte in faccia  Sempre piena dì grazie il suo marito^   Ma solean ben celare i primi amplessi,   E coprian col pudore il fallo loro;   Ma il Sol che tutto vede ( e chi ingannare  11 Sol può maif ) fece a Vulcan palesi  L’ opre della Consorte • Ah quai ne porgi  Funesti e perigliosi, o Sole, esetuplit  Perchè del tuo tacere a lei non chiedi  Un dono , eh* avrebb* ella il tuo silenzio  Potuto compensare in mille modi.   Vulcan sopra e d’intorno adatta al letto  Un* invisìbil rete , e finge a Lenno  Di far viaggio : a’ noti abbracciamenti  Tornan gli amanti, e nudi entrambe sono  Ne^ lacci avvinti. Quegli i sonimi Dei  Convoca, e fanno L prìgiohier di loro  Vago spettacol. Potè appena il pianto  Venere allora trattener sul ciglio;   Non alla loro nudità potere   Oppor la mano, e non coprir la faccia*   Uno de’ numi allor ridendo disse :   O fortissimo Marte, in me que’ lacci  Deh trasferisci pur^ se ti son gravi.  Nettuno , appena per le tue preghiere  Ebbero i prigionier le membra sciolte.  Chela Dea in Pafo, e Marte andonne in tracia.  £cco,o Vulcano, il tuo profitto: in prima  Celavano il Ipr fallo ; or senza freno  Lo commetton, fuggito ogni pudore.  Sovente, o stolto , confessar dovrai  Che tu dj^rasd da pazzo, e già ( la fama    Digitized by Google     83    Karra.) dell’ira tua ti aei pentito*   Quest’ io vietai. La 6glìa dionea (35)   Or vieta a voi di tender quelP insidie  Ch’ ella stessa soffrì. Nè voi cercate  Por ne’ lacci il rivai, nò legger quello  Che vergato ha^la bella in cifre arcane.  Faccian questo (se lor piace) i mariti  Che legittimi rese e T onda e il foco. (36)  Io'di nuovo, raffermo: in queste carte  Nulla vietato dalle leggi chiudo»   Nè a pudica Matrona i nostri scherzi  Recano ingiuria. Chi a’profani i riti  Osò di Cerere svelare, e i sacri ( 87 )   Misteri nati nella tracia Sanio f  Non nel' silenzio per coprir gli arcani  Gran; virtude abbisogna è colpa grave  Però dir'qnfello che (tacer si dehbe^ t  Ben a. ragion da Tantalo «loquace (38)  Venere , sepondo alcuni , eifbe in madre Dio^  ne 9 e però si chiama la Figlia dionea.   (36) Solevano i Romani nelle nozze solenni offerii   re alla Sposa V acqua ed il foco \ 'perchè pensavano  che si genesUts^ il tutto dall* umore -e dal icàhre ^ ed  anzi lavatiri^ Inacqua f stessa i piei^ Sposa  ed alla Sposo^ ' , I   (87) I Sagrifiz) di Cerere t)ea delle biade, ehe  furono , secondò Dtodoro , ' inventati Heltà' Samotrd»  eia , si celelfravanà dagli aw^ìd con tal \ segretezza g  che acqmdurono il nome di mister   (38) Tqntalo , figlio della Ninfa Piote , palesò agli  uomini le' supreme, determinazioni, che si manìfesta^^  reno scambievolmente gli Dei in un Convito, cui  fu ammesso e^i*pare.da^Giolve.,peTiitaleiempH-^  tà joacpiatO riell^ infermo , iOfl^ à cofitidftaeqMate ,cfudar^  io da una barbara fape, e^   chè è ,eireondatò dàìVacqua e da diversi ' phmi, ékà  fuggono àgnor shp'suòl Idìlli i^qmndo *viol*pré*a'^  arsene*    Digitized by Google     64 .   Fuggono i pomi; o all*assetato labfo  L'acqua mai sempre. Citerea comanda  In special modo di tener celate  Le sacre cerimonie. Io v’ammonisco  Che alcun garrulo'a quelle non s’accosti*  Se sepolti non restano fra’cesti  I mister] di Venere, se i bronzi  Per furiose percosse non risuonano,   Usi abbiam noi pih moderati, e in mòdo*  Che si voglion però tenére ascosi. /  Quando le vesti Venere depone,   La nudità con la sinistra copre.   Nella pubblica via spesso 1 * ugnella.   Si unisce al suo compagno, e la fanciulla^  Da tal oggetto altrove il guardo volgew  Atto è il talamo chiuso a’furti nostri  E a non mirar ciò che la veste > ascóndo* i  Non le tenebre noi, ma nube opacUi ì;  Cerchiamo, e i luoghi ove 1’ aperta luce -  Minor risplenda. Fin d’allor ché il tetto  Non difendea dal Sol, non dalla pioggia,  £ dava il cibo e in un la quercia albergò.  Gli uomini non gustar’ palesemente.   I piaceri di' Venfet ma negli antri ^ ' •   f i ne^bosqhi; cosi dell’onestade *   i preudea cura quella ro^sza gente** \  Ora gli atti si celebraa notturni, ,   £ nulla più si compra a caro prezzo  Che di poter’ parlar: or le donzellò  Ovniique cercherai solo onde dica Qiinsla ancora fo. nostra, ed onde .posniA ^  Mòsttktla ò' dito , e &r ohe sia deb vol^ , '  Dc^^b li pòssèsso^tuòVfev;òIa ^   r.«r. poco «iwiihe ^ini «dolSP* aU>Ì ,   Òose che nègherebbono accadute*   £ di favori vantatisi non veri ;   E se invàn di toccar, cercare il corpo.  Cercano àlmen d’offenderne P onore,   Che le accusi la fama ancor che caste.  Chiudi, o custode rigido , le porte ;   Guarda la tua fanciulla, e cento spranghe  A’durissimi stipiti ora opponi.   Cosa havvi di sicuro in faccia a questi  Adulteri di nome, che creduti  Esser desian ciò che tentare invano ?  Parchi in parlar noi siam de’veri ainori^  E fedelmente ognor tenghìam celati  Col velo deP mistero 1 furti nostri.   Deh non voler rimproverar giammai  Di nati^ra i difetti alle donzelle.   Che fù dissinìularli utile à molti. ^   Perseo che al piè portò le gemìn’ ali (3g) ,  Tlon del color d* Andromedà lagnossi.  Comparve a tutti Andromaca maggiore  D’ uim giusta statura , ed Ettor solo   (3g) iXèrcurió adatfò *U idi Ud ambedue i piedi di  J^érseo^ iluo amiiéo y e fi^ió di Danae e di Giope,  de qu§$iix AndrovaeduslegaiOKyad uno scoglio per  ra'deillcNeTcìdi,^e,\c]^pe, che dovea^esser dioorata da  Ceto mastro marin^, ,perchè Cassìope, madre della  medesima ebèè la vanagloria di dire ^ che la sua fi-*  glia vinceva > ir^ bellezza le stesse Nereidi, Mosso  Perseo a pietà, della' sventurata donzella , uccise il  mostro col jmrgli. davanti agli cicchi la testa di Me^  dusa f è dopo d^aveHa in tal guisa saLveta da un  tanto pericolo y V ottenne in isposa , he mai le riìf  fàpciÒ[ suo fosco colori, essendo ella nata in Etiopia,   " Andromaca è figlia di Elione . Re di Tebe e mo*  glià di Ettore j il qual chiamava medìo^e la sua  statura quantunque fosse veramente sproporziqnatq.    Digitized by Google     86   Mediocre la dicea. Quel che or ti lembra  Darò a soffrir, deh soffri; e verrà uà giorno  Che lieve impresa ti sarà il soffrire^  Mentre ogni pena raddolcisce il tempo.  Nuoyo arboscel che in verde scorza cresce^  Cade, se vento placido lo scote ;   Ma indorato dal tempo arbor diviene.  Resiste a* fieri Noti ^ e alfin s’ adorna ,  Degl* innestati fratti. Un giorno spio  Paò la bruttezza cancellar del corpo,^ ,   £ sempre il tempo fa sembrar minore  Ogni difetto. L* inesperte nari  Mal da principio pon soffrir 1* odore  Della pelle del toro, ma dalTuso  Dome non più risentono mólestia. ^   I vizj ricoprir con dolci nomi  Fa di mestier : bruna chiamar si debbo  Quella che piùehe pece ha negro il sangue»  Se ha gli occhi loschi, a Vener l!as 8 omiglia^^  E se bianchi, a Minerva. Sia 9 Ì scarna ( 40 ) ,  Che appena in piedi sostener si possa.  Gracile la dirai. Nana rassembri,   E tu svelta la chiama, e piena quellf .,.  Che è turgida oltremodo g, e asconder tenta.  Col bene non lontano il vizio ognora.   Gli anni mai non cercar , nè sotto quale \  Consol sia nata : al rigido Censore .   Tai cure lascierai. Maggior riguardo .   Usa per quelle che passate il fiore  Hanno di giovinezze » e i più bei giorni,   (4.0) Non si sa paacepire corno Ooidio chiami loschi  gli occhi di Venere , quando essa fu lodata da Pari^  de. Dubitano alcuni pertanto y che nelF originale la^,   ' ripe si 4tiba leggere leu invece di peU»    Digitized by Google     E cui incomincia a incanutir la chioma*  .Utile è questa o più matura etade,   0 giovani ; e aarà ferace in biade  Questo campo » ed arar però si debbe.  Mentre gli anni il permettono e le forze,  Soffrire la fatica. Ah già la curva  Vecchiezza con piè tacito s’accosta!   O il mar co’ remi solchisi, o la terra  Col vomere, o s^impugnin Tarmi fiere,   O si usi il fianco, T opra , e la forza  Con le fanciulle^è questa una milizia,   E con ciò pur s’ accumulan ricchezze.   S’ artoge a ciò che la prudenza in loro  Maggior sempre delT opere risiede,   E l’esperienza sol può far maestro.   San compensare dell’ etade i danni  Con la mondezza, e in opra e studio ed arto  Pongon per ricoprir la tarda etade.   Come più brami accarezzarti sanno  In mille guise ; in più diversi modi  Pittor non puote colorir le tele.   Non irritata voluttà per loro   Si gode , e danno e gustano il piacere;   10 se non è scambievole Tho in odio,   E però fuggo de’garzon P amore.   Odio il furor di quella che il concede.  Perchè a darlo è forzata, e pensa solo  All’ ntil proprio. A me non è gradito   11 piacer che mi dan sol per dovere;   Da questo io violentier le donne assolvo.  Godo ascoltar le voci che il diletto  Mi palesin di loro, e di frenarmi  Mi preghino ora, ed or perchè mi affretti.  Godo di rimirai languidi gU dicchi . Della mìa bella , che mi dica : è assai.  Questi favor natura non concede  Air inesperta gìoventCì ; si godono  Quando il settimo lustro ornai si compie.  Chi soffre sete, il nuovo mosto beva;   Di vecchio vin ricolmo a me s’ appresti  Vaso che sotto i Consoli vetusti  Sia fabbricato. Al sol resiste vecchio  Il platano, ed offesi i nudi piedi  Sono da’nuovi prati; e chi potria  Ad Elena preporre Ermione? Altea (Era forse miglior della sua madre ?   Se tu t’ accosti a una noi^, giovin bella,   £ sii costante, avrai degna mercede.   Già riceve i dae.amanti il conscio lètto;  Fuof delle chiuse porte ora rimanti,   O Musa ; senaa te sapran ben essi  Trovar di che occuparsi, chè lor porge  Amore i mezzi. Il valoroso Ettorre (4a)   Di cui fu il brando a Troja util cotanto,  Giacque pur con Andromaca, ed Achille  Con la lirnessia giovine rapita,   Allorché dal nemico affaticato  Prese ristoro sulle molli piume.   Da quelle man di frigio sangue tinte  Ricevevi , o‘Brhcide , le carezze,   E perciò forse à te più assai gradito  Fu alla vittfice destra unir tue meuibra.    (4 A Ermione è figlia della famosa Elena moglie  di Menelao,   (4a) Achille # aseedìafa la Città di Lirnesso , uc¬  cise barbaramente Minete marito della bella Briseide^  che si prese egli stesso in isposa, e che dal noma  4 M(k iiMk Pàtria soprannominata iÀtuwia*    Di Venéfe i piaceri » a me lo credi ,   Non SI deniio affrettar; ma a lunghi torsi  Berli. La donnà , se vedrai diletto  Che abbia d’èsser toccata , a te non freni  Pudore allora inopportuno. Gli occhi  Suoi scintillar d*'un tremulo splendore  Mirerai , come dalle liquìd’ onde ^  Riflette il Sole i suoi splendidi raggia. ^  Udrai nn lamento e uh dolce mormorio^  Gemiti grati , ed amòtose note.   Quando thtte le Vele avrai spiegate,   Tu abbandonar non dei la tua diletta.   Nè preceder ti debbe ella nel corso.  Correte insieme alla prescritta meta.   Che il piacer vostro diverrà perfetto.   Se giacerete a un tempo stesso vinti.  Queste leggi seguir dovete quando  A voi concessi siano 02 ] tranquilli,   Nè ad iin furtivo oprar timor v* astringa.  Quando Tindugio è mal sicuro, allora  Tutti forzar si denno i remi, e il fianco  Premere del cavai d’acuto sprone.   L’opra è condotta al fin. Giovani grati,  A me la palma concedete , e il crine  Odoroso cìngetemi di mirto.   Non presso i Greci Podalirio tanto  Fu per la medie’ arte in pregio , Achille  Per il valore, e Nestor per pi'udenza;  Non fu Calcante così esperto e grande  Nel conoscer le viscere, nè Ajaco  Nel maneggio dell’armi , e Automedonte  Nel condur cocchj ; compio sono espCito  E grande nell’amor. Me celebrate,  Uomini tutti ; a me si dian le lodi;    Nel mondo intero il nome mio ti canti.  L* armi io vi porsi come già Vulcano  Le diede a Achille. Or con tal doni voi  Vincete pur, com’egli vinse un giorno;  Ma chi col brando mio potò le fiere  Amazzoni atterrar, sopra le vinte  Spoglie scriva: Nason ci fa Maestro.  Le tenere fanciulle a m^ le preci  Ecco che porgono, onde lor cortese  Sia de’ precetti miei. Ah t sì, sarete  Cura primiera de* futuri carmi porsi contro lo guerriere donne   A’ Greci 1’ armi ; or dare a te le deggìo^  Pentesilea, e alle Amazzoni seguaci.(i)   Ite alla guerra uguali, e vincan quelle  Cui son propizi Venere e il Fanciullo,  Che in tutto il mondo ha di volar diletto.  Giusto non era il combatter nude  Contro gli armati ; e vincerle per voi.  Uomini , turpe mi sembrava. Alcuno  Dirà fra molti : perchè aggiunger cerchi   11 veleno alle serpi ? e perchè in preda  Lasci alle lupe rabide 1’ ovile?   Di poche il fallo non vogliate in tutte  Diffonder ; pe’ suoi merti ogni Donzella  Considerar si dee . Se Menelao  Ha di dolersi d’ Elena cagione^ (a)   (i) Pentesilea Regina delle Amazzoni andò contro  i Greci in soccorso d^ Trojani ,e fu dopo varie glo^  riose azioni uccisa da Achille. Sotto il nome di Greci  P intendono però- dal Poeta quegli uomini , che ^  cingono a conquistare le donne qui figurate sotto il  nome di Amazzoni.   (n) Vedasi V Annotaz, 5 q del Lib. I. e l*Annotaz,  ueuSdelldb.If.   Ved. Vannot. 38 del Lib. /. eVannot. ao del Lib. II.  £ se di Clitennestra i rei costami  SoQ gravi ad Agamennon ; se d’Ecleo (3)   Il figlio scese co* cavalli vivi.   Dalla spietata Enfile^ tradito,   Vivo egli stesso a Stige^havvi pur anco  Penelope che pia serbossi e fida (4)   Al suo marito, benché senza lei  Due lustri errasse , e per due lustri ancora  Passasse i giorni suoi sempre alla guerra.  Protesilao rimira e la consorte, (5)   Che , come narran , pria degli anni suoi  Vide Testremo fatele scese a Dite  Ombra indivisa del marito . Mira  La Sposa pegasea dall*empia sorte (6)   (S) Anfiarao figlio di EcUo ed eccellente indovino  ^ ascose in un luogo segreto per non esser costretto  a portarsi alla guerra di Tebe, in cui sapeva di do-*  ver certamente morire* Eri file sua moglie allettata da  un aureo monile promessole, da Polinice, insegnò a  questo ov'egli sfava, celato* 4 n 4 à pertanto Anfiarao  forzatamente alla guerra^ ma appena giunse in Te¬  be , gli si spalancò sotto i piedi la terra , e rimase  in quella sepolto.   (4) Penelope è V esempio deWamor con fugale* Si  conservò essa sempre fedele al suo sposo Ulisse , ben*  che vivesse egli lontano da lei per lunghissimo spa*  zio di tempo , e benché fosse ella continuamente as¬  sediata da mille fervidi amanti.   (5) Protesilao andò aneW egli all*assedio di Troja,  e fu il primo tra* Greci , che vi perdesse la vitapoi*  che Ettore lo ferì mortalmente , nientre scendeva dal*  la sua nave. Desolata Laodàmia sua moglie da una  tale sventura , ottenne con le sue lagrime da* Numi  di poter veder V ombra del suo amato consorte , e  neWabbracciarla morì*   (6) Soffriva Admeto una malattia coà grave , che  secondo la risposta dell* oracolo ^ era necessario per  salvargli la vita^ che un uomo o una donmft^ morisse Admeto liberare , onde famoso  Rese il suo nome . Evadne a Capaneo ( 7 )  Disse : m* accogli ; il cener nostro insieme  Si confonda ; e slanciossi in mezzo al rogo;  È la Virtude d’abito e di nome ( 8 )   Femina, nè stupore è, se propizia  Si mostra e favorisce al sesso suo.   La nostr’arte però queste non chiede  Alme sublimi 9 e con minori vele  Naviga il legno mio • Per me soltanto  S’imparano a trattar amor lascivi.   Io insegnerò in qual modo amar si debba  La donna, che non face ed arco scote  Sempre crudeli ; agli uomini quest’armi  Nuoccìon più parcamente 9 io ben lo vedo:  Gli uomini più spesso ingannano di quello^  Che ingannin noi le tenere fanciulle;   E poche troverai , se cerchi , xee  Di perfido delitto. Il traditore (9)   Giason Medea lasciò già madre 9 e in braccio  Gittossi ad altra sposa. Oh quante volte  Per te 9 Teseo 9 Arianna abbandonata (io)    per lui4 Alceste sua moglie^ che dicesi sposa pagasea  dalla città di Pagasa in Tessaglia , volle essa stessa  liberar gen^osamente il caro suo spoeo, ed incontrò  con intrepidezza la morte. Quando Eoadne intese che era stato ucciso a/«  la guerra di Tebe il caro suo sposo Capaneo ^ conce»  pi nell*animo un dolor sì fiero ^ che corse valorosor  mente a morire sul rogo dell* estinto consorte.   (8) Adoravano i Romani la Dea Virtù vestita in  abiti femminili.   ^9) Annotaz. 89 del Lih. /•   (io) Arianna fu da Teseo abbandamata {Annoi.  So. del lÀb» I. ) nell*isola di Nasso j e però avrà te»  muto gli Augelli marini provenienti da quella pcffte di  mare, in cui viaggiava il suo perfido amante la solitaria t sconosciuta riva  Temè gli auge! marini ! E perchè Filli (ii)  Calcò per nove volte il sentier stesso.  Cerca, e perchè, la chioma lor deposta,  Piansero Filli le dolenti selve.   L’Ospite, che concetto ha di pietoso.  Porse la cauta e il ferro alla tua morte, ( 12 )  Misera Elisa. E che I narrar vi deggio  Delle vostre sventure io la sorgente?   Voi non sapeste amar ; mancò in voi l’arte,  Mentre con l’arte solo amor si eterna.  Sariano ignare ancor, ma Cìterea  Vuol che per versi miei sien fatte dotte.  Mentr’ella stessa innanzi al mio cospetto  Si fermò, e disse: di qual fallo mai  Si fecer ree le misere fanciulle.   Che inermi si abbandonano agli armati?  Tu con gemini libri bai resi questi  Nell’arte esperti ; or co’ precetti tuoi  Tu devi ancora ammaestrar le donne.  SteSicoro ohe in pria cantò i delitti (i3) Impaziente FUlide per la lontananza del suo  Demofoonte eorse per nooe volte al lido , dà cui do^  vetfa egli passare nel ritorno ; e alfine disperata cd  afflitta per la tardanza di lui ( Annoi, a 3 del Lib,  li.) si tolse da se stessa crudelmente la vita. Le  fabbricarono i suoi parenti un sepolcro , in vicinanza  di cui nacquer degli alberi , che in un certo tempo ,  secondo quello che han scritto i poeti , deposte le lor  foglie , piangevano la morte della medesima.   (la) Enea , che vien soprannominato il Pio, di^  sprezzando Vamore , che è il nome proprio di   Didone, fu causa cVella si precipitasse sulle fiamme  ohe ardevano la eittà e la reggia di Cartagine.   (i 3 ) Stesicoro siciliano è un poeta lirico ^ che doto-'  Sto ne* suoi versi Elena detta tersnoea dal castello ìa D* Elena, poi con più felice lira  Disse le lodi sue. Se V indol bene  Io tua conobbi, no ^ non sei capace  offender Tamorose e culle donne.   Per fin che vivi a te tal grazia chieggo.  Disse, e di mirto (poiché avea le chiome  Di mirto ornate quando a me comparve )  A me una foglia diede e poche bacche.  Ricevuti i suoi doni, io mi sentii  Invaso dal suo nume, e Paer più puro  Splendermi intorno , e facile l’impresa  Comparirmi al pensier. Mentre l’ingegno  E desto , a me i precetti richiedete,   Che a voi, donne, ascoltarli ora è permesso  Dal pudor, dalle leggi e da ogni dritto.  Siate memori ognor della ventura  Vecchiezza, e per voi il tempo ozioso mai  Non passerà. Scherzate ora che lice,   Nè si consumi invano il fior degli anni,  Che come 1 onde fuggono veloci.   Tornar non puote alla sorgente il fiume.  Tornar non puote la passata etade.   Cadete dunque, che trascorre il tempo  Con frettoloso piè, nè lieto mai  Come il primiero siede. Or bianco miri  Questo stelo , su cui già in prima vidi  Io rosseggiar le viole, e questa spina  Grata al c^pe mi porse un di corona.  Stagion verrà che tu , che "fchivi adesso  L’amante , fredda e abbandonata in letto   cui, nacque y perche^ da essa ebbe erigine la rovina di  Troja. Ma i fratelli della medesima , Castore e Polluce  Vacciecarono crudelmente ; ed ei per ricuperare la  sta , fu costretto a comporre un poema in sua lode»    Digitized by Google     Giàf&ttsi vecchia giacerai. Notturna  Rifsa non fia che la tua porta atterri,   Nè sul mattino troverai di rose  II limitar della tua casa asperso.   Misero me ! come corrotti presto  VeggoDsi i corpi dalle rughe , e, come ^  Langue ih nitido volto il color primo!  Quei che sul capo tuo bianchi capelli  Si miran* or,che fin da’di più acerbi  Giuri che furon tali ; ah che ben tosto  Si spargeran per tutto il capo. Méntre (i 4)  La sua spoglia sottile il serpe lascia.  Ringiovanisce ; e rinnovando i cervi  Le corna, non rassembrano^ mai vecchi.  Fuggon senza speranza i nostri beni;  Cogliete il fior, che se non colto vegna,  Cadrà miseramente. A questo aggi ungi  Che fan più breve giovinezza i parti;  Invecchia il campo per continua messe.  Non di vergogna a te , Cinzia , fu causa (i5)  Il latmio Endimion , nè già doveo  Per il rapito Cefalo arrossire (i6)   I Serpenti si spogliane ogni anno della luto  scorza* I Cervi cangiano ogni anno le qorna ; ma ne *  rimangono privi se sian castrati mentre le hanno de~  poste , e più non le varifino, se soffrano una tale ope*  razione phma di deporle. Impiegano i medesimi cin^  que o sei anni nel crescere, e però tioono’ solamente  circa trentacinque o quarànta anni , ttd ortta di tutte *  le fuoole, che gli antichi hanno scritte sulla lunga  ìor vita. Buffon nella sua Storia naturale.   (15) Cinzia ( Annoi, del Lih, I. ) scendeva dal  cielo per godersi Endimione, che qui dicesi latmio per^  chè s^ascondeva ifi Latmo spelonca del monte, di Caria.   (16) S* innamorò la rosea Aurora di Cefalo figlio  di Mercurio, e però lo rapì « Prgcri sua moglie La rosea Diva. Adori si lasci a parte,  Tuttor di pianto a Vetieré^ cagione,  Com’ebb’olla Antonia, cotii* ébbe Enea ? (r 7 )  Seguite" tiiir P esémpid delle Dive,   O bellezze tóót^aK , é a^ desiosi '   UomìAì noilitìegate il favor vostro.:   Siano essi ingannatori ; e che perdete?  Mille vi godan pur<;‘tutto rimane  Nello stato pritòiér. Gon Fuso il ferro*   Si consuma e la‘ pietra ; in Vói non pudte  Cosa alcuna peirir , ricever danno.   Chi ^vieterà cW dal vicino lùme*^   Il lume non si prenda ? e chi nel vasto  Seno del mar V onde serbar procura?   Tu mi dirai che non convien che a un uomo  Si dia la donna in preda ; ma che perdi  Altro che l’acqua che ricever puoi?   Non vogliono i mìei carmi o la mia vocb»  Al libero dell* uom commercio esporvi^   Ma vietanvi temer le cose inani;   Non posson soffrir danno i doni vostri.   Me un’aura lieve , mentre siamo in porto»  Spìnga, che ,al soffio dì più forte vento  Sono per cominciar maggior viaggio.   Dalla cnltura io do princìpio. Il vino  Ceneroso dan sol le calte vigne,   £ sol né’campiVcoltìvatì miri  Lussureggiar le biade. £ la bellezza  Dono del cielo , e come ah vien superba  OQ.Arteà'am. e    (17) La Dea Venere éhhe à(jL Arichise il figlio Enea ,  e da Marte la figlia Anmónia, Bastano . tàli esemp)  per provare che ella permise a molti di possederla .    Digitized by Google     pJbeU^z<i ogui danpa 1 1Ja «ran parte  Di voi prirs rù^.A quf»to 4ouo. .  Con U coltura la beiti ai 4CqWti   Cile si perdo nfgfct^ ^ apci^r cjio eguale  A gueili fosse dpU'idalia Diy*. (i8) ,   Se Io prische fasullo, il corpo Joì;a  Non coti custodirò ^ se gli autieri  Uomini incolti vissero , se cinse ;    Pesante gonna.AndroiMCjayìo non yeggo>(f 9 )  Bagjon 4i,,ayiglia^I es^SA d’un rezzo ,  Guerrier fu^^mpgli^. Fprsé a Ajace incontro  Adorna andap dpvea la sua consorte, (ao)  Se a Ini la^ pflle .poi di sette bovi  Servia di veste ? Ne^ primieri tempi  Rozza regnò semplìcitade, e immense  Ricchezze Roma del soggetto mondo  Ora possiede. Osserva quale adesso (ai) ^ \  Sia,il OampidogUo, e gual no’giorni andati^  E dovrai dir c]lie ,fa d'un altro Giove.  Ventre dicesi idalia dal monte Idale in Cif^ro  a lei consagrato,   (19) Andromaca fa moglie A*Ettore Capitano deU  VArmata Uroijana, Annótàz, 89 del Lih, li.   (ao) AJaae figli^di Telamone è oelebràto daOm'e^'  ro nella sua Iliade come uno piu valorosi Prine^  che andarono all*assedio di Trofa. Sposò egU an*an^  cella nominata Teemessa; e però dice Or ozio  Movit Ajacem Telamone natura ’   Fórina captiTflB Dominuin Teemessa.   La Curia fu anticamente , secóndo F’arrone,  distribuita in due parti, in una delle quali custodi^  vano i Sacerdoti le cose diwine , ’e neWaltra tratta^  vano i Senatori le cose umane. TaaUr fu un Re de*  Sabini così accorto 9 che seppe ottener da Rpmelaiina  parte del Regno dopo d*aver perduto un'atroce bai»  taglia. La Curia, che di tanto ora' rasaembra  Concìlio degna, fu di Tazio a’tempi  Di rozza paglia intesta. Qoe'palagi-  Ch# ora risplendon sacri a Febo e a’Ooci;  Che furon maì^ se non pascolo un giorno  Agli aratori buoi f Piacciano ad altri  Le cose antiche ; io meco stesso godo  D* essere in questa età nato conrorme  A’ miei costumi, non perchè si tragga  Dalle vìscere cieche della terra  11 dutil oro, o perchè venga a noi  Scelta conchiglia da diverso lido;   Nè perchè i monti facciansi minori  Per i marmi scavati ^ o perchè altere *  Sorgano moli ove giaceva il mare;   Ma perchè regna or la cultura , e a’nostri  Tempi rusticitade agli avi antichi  Cara non giunse. non fate carchi  1 vostri orecchi di preziose pietre,   Che in mar lo scolorilo Indìan raccoglie;  Nè comparite già gravi per Toro  Tessuto sulle vesti, onde ben spesso  Le ricchezze cercate e le rapite.   Dalla mondezza noi sìam vinti. Il crine  Si disponga con legge; un pettin dotto  R dona e toglie a suo piacer bellezza.  Non r ornamento stesso a tutte giova;  Quello scelga ciascuna , in cui più splende^  E si consigli col fedel suo specchio.  Chiede una lunga faccia che sul capo (za)   {2.2) Augusto fabbricò nel suo palazzo un Tempio  consacrato ad Apollo Palatino. 1 Duci ^ a* quali ^ dim  cesi sacro il palazzo medesimo, sono Augusto e Tim  bario, mentre quegli vi nacque , e questi vi abitò»  loe   Siati ben divisi non velati i crini;   Così avea Laodàmia le chiome adorne*  Voglion le piene e ritondette guance^   Che della &onte sul confin vi lasci  Piccol nodo onde veggansi, gli orecchi,   D’an*altra il orin flagelli ambe* le spalle,^  Quale al canoro Apollo allor che in mano  Piglia la lira. Come Pagi! Diana  Altra gli .abbia legati, alLor che al bosco  Peiseguita le fiere pau^ròse.   Convien che questa abbia i capelli gonfj;  £ strettamente quella il crine implichi*  Altra s’adorni in guisa tal la ehioma,^   Che alla cilleuia cetera assomigli (aS);  Questa V increspi in modo ohe rassembri  Onda marina. Numerar non puoi  Quante sulla ramosa elea sian ghiande.  Quante in Ibla sian api, e quante fiere  S’ascondano nell’alpi, io pur non posso  A te narrare le diverse fogge  Di dar la legge al crin , mentre ogni giorno  Ne sorgono novelle. A molte giova  Che sia negletto : crederai che il capo  Quelle jerì s^ornasser , che con nuova  Cura testé si pettinar’la chioma.   Studia con l’arte d’imitar Natura.   Era Jole così, quando la vide Mercurio inventò la Lira fatta a gedsa di te»  staggine , e questa dicesi cillenia ^ perchè egli nacque  nel monte Cillene in Arcadia, Se Ooìdio tornasse a  vigere in questo secolo , dorrebbe certamente veder con  Rubilo che le nostre Dame seguono con la massima  esattezza i suoi proietti nell* adornarsi i capelli. Amò Èrcole ardentemente Jole figlia di Eu»  riio, il qual rìcue/ò di dargliela in isposa, quoMtun»  Ercole ; presa la cittade » e disse :  lo ramo; e tal Pabbandonata ; donna  Quando sai carro sosteneala Bacco»   E i Satiri gridare : evviva » evviva.   Quanto in favor della bellezza vostra  Fu Natura indulgente» o donne I Voi  In mille modi ricoprir potete  Z vostri danni. Invan noi ci asix^ndiamò;  Cadono per 1* etade i capei nostri  Come le foglie allor ebe Borea soffia.   Con le germanicb’ erbe asconder pnote (aS)  La donna la canizie » e può con Parte  Miglior del vero altro cercar colore.  Vanne la donna con la chioma folta    f 'glUVaotsu solennemente proméssa, frritmto  gli pertanto da una tal negativa, debellò la Città  d^Occatia » 09 e questi regnava » e gli rapì la sua di¬  letta denteila.   :(a&) si sa veramente auali si fossero quell^er-  he germaniche ^ del di egù amore eUrattivo compone-  vano gli antichi un medicamento » col quale i capel¬  li bianchi si riducevan neri o biondi. Si Sono però,  trovate a’ nostri tempi molte ricette, ohe compensano  largamente una tal mancanza. Cosi se i capelli sìan  bianchi, si posson ridut neri col far uso d*una po¬  mata, a cui siasi aggiunto una piccola porzione di  nero d*aoorio ben macinato » oooero di sughero bru-  glato unito all* azzurro di Berlino. Resta pm assai  difficile di ridurli biondi » se non si vogUono adope¬  rar polveri d^amido leggiermente torrefatte. La mi¬  glior ricetta che si può per quest* effetto accennare »  é la seguente : si faccia una forte liscioìa di cenere di  sarmenti ; vi si unisca una piccola quantità di ra¬  dice di brionia e di celidonia; si faccia il tutto bol¬  lire; ed in fine vi Raggiunga altra più piccola pdtr-  zione di zafferano dell* Indie , di fiorì di stecaae e  di ginestra. Si coli per tela, e si laoino con una tal  acqua piu volte i capélli.      fOft   Per i compri capelli , e col denaro  In mancanza de* saoi porta gK altrou  Nò il coidprar ciò palesemente teca  Ve^ogna i noi vediam che son venduti  D* Ercole in faccia e del virgineo coro. (a6)  Che dirò della veste f Oro ed argento   10 non ricerco ^ o che rosseggi tinta  La lana in tiria porpora. Se mille  A prezzo più leggier vi son colori,   ,, É qual è dì follia segno piò espresso  Che di portar sul corpo i propr} censìf  Ecco il color delFaria allor che searca  Si rimira di nubi, e il tepid*au8tro  Non apporta la pioggia : eccone un altro  Simile a te che sostenesti nn giorno  Come si narra, e Frisse ed Elle quando (27)  Fuggir* le frodi d* Inoe. Imita questo   11 cernleA mare ^ da ciò traggo   Il proprio nome, e di tal veste 10 credo  Si coprisser le Ninfe. Altro è simile (28)   Si rUeva di qui, che in faccia mi Tempia  fMrtcata in onore d'Èrcole e delie Muse , avevano  i Romani una bottega 9 in cui vendei ansi i capelli.   ' (a^) Frisso ed Elle figli dì Adamante Re di Tebe  fuggir dalle frodi d* Inoe loro matrigna, salirò*  no' sopra il montone ornato del Vello d^oro^ che  Mercurio diè in dono a Nefale madre d^ medesimi.  Frisso fu da quello felicemente portato in Coleo , ma  Elle'precipitò in quel mare , che prese da lei il nome  d^ Ellesponto. Con ^esta favola vuol però dire il Poe*  ta 9 che era presso i Romani in uso ( e lo è pure cd  di nostri ) il colore che si assomiglia a quello dell* oro^  - (aQ) Essendo il giovinetto Croco impaziente di poe*  cedere Snùlaoe sua dUetta amante 9 fu trasformato in  un fiore che dicesi volgarmente ZefBivano , o che da lui  Ica preso il nome di Croco.   £t Grocam ia parros yersam cum Smilace flore».   Ovid, Metam.  TOS   AI Croco, e qàaiido accoppia i Ittraihbsi  Destrier, con cròcea reste pur' si rela  La rugiadosa Dea. Di'Pafo a’mirti '  Questo assomiglia , e quello alle purpuree  Amariste , alle rose biancheggianti (29)  Uno‘^ ed tin altro aÈa'straniera grue.   Le ghiande tuè ti sod pure, o Ainarilli,  Nè ri tnancanr le mandorle, e il suo nome  Diede alle lane per la eera. Quanti  Fiori produce la norella terra ~   Allor che fugge iUpìgro rCrnò, e stilla  Gemme la rite ^ tanti beo la lana  Color dirersi, e quello scei tu dei>   Che col tuo rolto Si confà. Ogni reste  Non conriene a ciascuna. I neri ammanti-  Fan risplender le bianche. Assai più. bella  firiseide, allor che fu rapita, apparre,  Perchè le membra accolse in negra reste*.  Odora alle brune donne il color bianco:   E tu piaceri, o di Oefeo, ( 5 o)   In bianca resta allor che di Serifo  Passeggiar! le rie* Io diei consiglio  Che del capro il fetor sotto V ascelle  Non passi, e che non sian per duri peli  Aspre le gambe,. Ma non io già deggio  Delle caucasee rupi le £snciulle  Far dotte, o quelle che di Caico misio {ìi}   (29 ÀmaUsta è una gemma , il di. oui colore è-  quasi simile a quel della porpora.   (So) La figlia di Cefeo à Andromaca: avrà essa  probabilmente passeggiai per le vie di Serifo > perchè  è questa una piccola Isola del mare egeo , nella quàU  fu edueato Perseo suo liberatore.   ( 3 r) Gli abitatori del monte Caucaso furore antica--  menteiCome lo sono tuttora, ferocissitni. FI Caico-è unfiu^  me della Frigia e della Lidia ^ che proviene dalla JS/Lsia.  Bevano all*onde. Che non siano i denti  V*ammonirò per hidblenza foschi,   E che si lavin sul mattin 1 ^ guanoe  Con man dell’onda aspersa. Voi sapete  Pjocacciarvi il candor con distemprata  Cera; e con Parte divien rossa quella.  Cui non colora il sangue suo la. faccia:  Voi con Parte il confin nudo del ciglio  Fate ripieno, e voi con tenue pelle  Ricoprite talor |e vere gote.   Stropicciar gli occhi poi non è vergogna  Con la cenere tepida „ o col crocb  Che nasce presso te , lucido . Cinno. (3a)  Tengo un libretto picciolo, ma grande ^  Opra per il pensiero , in cui i rimedj - '   Qià v’insegnai per la bellezza vòstra»    ( 3 d) Con felice successo adoperarono le Dame Ro^  mane la cera distemprata per far fianca la peUe ; e  con faUe^ ti Adopera ancora in questi tempi   dalle nostre Dame . Ecco il modo di prepararla : ad  una parte di cera bianca di Venezia si uniscono otto  parti d* acqua , a cui si aggiunge una piccola porzione  d*alcali vegetale y e si di^cioglie il tutto finché non si  abbia una sostanza consimile al latte* he Dame ro^  mane solevano ancora adornare co* colori , e riempire  co*peli ben disposti quello spazio ài pelle nuda che é  fra il ciglio e il sopracciglio, s ! •   Il le •apercìlium magaa faligine tinctum  « Obliqua producit acu.   Giovenale.   Dalla Cilicia che è irrigata dal fasme Ciano fa»  cevano esse venire il zaffarono ed altre céneri atte a  purgar gli occhi dagli umori soverchp; e a renderli  per cònseguenza maggiormente^vivaci. Ha scritto Opì-  dio un piccolo libro de medicamiue faciei quale   inségna alle Donne tutti i rimedj, che possono contri»  buire a far bella la lor faccia e le loro membra. Quindi riparo alla figura offesa  Cercate, che non è per gli usi Vostri  Inefficace Farte mia. L’apiaìite  Non miri apertamente i vasi esposti.   Che Tarte ascosa giova alla beltade.   A chi non spiaceria mirar sul volto  Stendere quella feccia , e lentamente'  Cader pel peso suo nel caldo seno?   Quàl dall* immonda lana dell* agnella ( 33 )   €2    ( 33 ) Fahhricavasi in Atene con In lana sudicia e  molle un medicamento che i Greci chiamavano Etipo.  Le Donne facevano uso di questo per mollificare le  ulceri di qualche delicata lor parte. Vedasi Diosco*  ride y Plinio il Mattioli nel suo erbario ; che ne  parlano a lungo , ed insegnano la maniera di fabbri^  cario,   ' Non d può accennare qui il modo , con cui prepa^  radano gli antichi i midolli della Cerva yper averne  un composto atto a far bianchi i denti, era i molti  medicamenti che hanno per quesV effetto inventati i  nostri Chinùci , ci piace di riportar qui la polvere ,  V oppiata i e le spunghe ; di^ cui dà Mons, Beaumé la  ricetta nella sua Farmacia,   Ad un*oncia di pomice, di terra sigillata^ e di  corallo rosso s*aggiunga mexz*oncia di sangue di Dra^  go, un* oncia e mezza di cremar di tartaro^ se ne fac^  da una polvere sottilissima , e vi si unisca una pie-  cola porzione di garofani e di cannella.   Per compor quindi V oppiata > si prenda un* oncia  della polvere suddetta, due once di lacca rossa da  Pittori, quattro di mele di Narhonne, due di siroppo  di more ; a queste ù uniscano due gócce d* dio essen--  ziale di garofani, e si avràr un* oppiata , che S4^à op¬  portuna , come la polvere , a ripulire , imbianchire , e  preservare i denti da molti incomodi.   Una stessa virtà hanno le spunghe preparate , e  intrise in una tintura fatta con lìfibre quattro a^ua,  in cui abbina hoUUo quattVonce di legno del Bras^*  Daraiìne ing^rato odòrè- il 'sugo estratta^  Benché da Atene a noi si mandi t Inverò^  Lodar non so cl^ alla presenza altrui  Della cerva i midolli insìem mischiati  Piglinsi, e che palesemente i denti  Si faccian netti* Utili alla beltade  Sono. tai cose , ma deformi troppa  Agli occhi nostri* Molte cose fatte  Piacciono, e turpi son mentre si fanno»  Le statue di Mirone opre famose, ( 34 )  Furono inerte peso e dura massa,   Per farsi anello , Toro in pria si frange,   E quelle vestì, onde vi fate adorne,,  Furon. sordide lane* Era aspro marmo,.  Mentre erano a scolpirla intenti, quella  Statua nobile in cui Venere nuda  Trae fuor dall* onde gli umidi capelli. (35)*  Fa che pensar possìam che dormi allora  Che tu Vadornì, Io lusingl>ieTa forma  Sarai mirata se alla tua cultura   le, tre dramme di cocciniglia soppesta , e quattri) di  alume di rocca . Quando queste spunghe si sono, im¬  bevute d* una sufficiente quantità d* una tal tintura,  si fanno asciugare, si pongono per alcune ore nello-  spirito di vino, a cui siasi aggiunte una porzione di-  olio di cannella y di garofani,.e di spigo ec.; quindi  si spremono, e sì conservano per valersene al bisogno,  ih vaso di Oetre ben ehiuso.   (34J Mirone discepolo d^ Ageladé seppe formare in  bronzo còsi perfettamente le statue , che Petronio dite  aver egli compreso nel bronzo V anima degli uomini  e delle bestie Alludesi alla famosa statua di PrassiteU , che   rappresenta Venere nuda neW atto d^ uscir dal mora.  Fu questa collocata in Roma nel Tempio di Bruto  Callaico insieme col Colosso di Marte pvesso - il Circ¬  eo ffaminio»  Diligente darai T ultima mano.   Del talamo le porte ben raccbiudi.   Perchè vuoi far^ palese un’opra rozaaf  Molte COEC' ignorar gli uomini danno.   Di. cui gli ofiendón molte, se non copri  Ciò , che & d’uopor di tener , celato.   Vedi quelle che pendono^ da un culto>  Teatro aurate statue, a osserva bene  Qual lieve foglia il legno lor ricopra..   Ma come quelle al popolo* non lice  Veder ae non sien poste in vaga mostra^  Così se non elea gli uomini lontani,   Non si procuri d’acquistar bellezza.   Non vieteiò cbe al pettine abbandoni  Palesemente 1 tuoi capelli, quando  Scender potran per tutto il tergo aspersi.  Di non esser procura allor molesta, •  Ne aciorre spesso le mal calte chiome.  Sicura sìat quella che il crin t’adorna;  Odio colei che le ferisce il volto  Con l’un ghie liCi con rapito ago le punge  1 ( braccia Allor d’ancella là detesta.   Le tocca il capo, e sull’odiate trecce*   Col piaotn suo scende mischiato il sangue*  Quella che il capo.ha.quaai calvo ,ipoDga^  Sulla porta il oustode , o della Dea  Gibele al ten^pio ad adornar si vada. ( 56 )    ^ ( 36 )’ CibéU aveva in Roma un Tempio, in cui non  potevano aver gli uomM V accesso :   4 Sacra Bona maribas non adeunda Des.   Tibullo,   Insinua pmttauio Ovidio con questa frase Me Donne  di non pettinarsi alla pretenza^ degli uomini^ se non  so» Mli i ìorq capelli fui annunziato airimprovviso un giorno   A una -donzalla; e torbida i non suoi  Velò capelli. Uo tal ro 88 or > ricopra  La faccia alle nettiicbe, e questa^ infamia  Fra le particele Nuore abbia soggiorno.  Turpe è Tarmento senza corna, e turpe  Senza gramigna è il campo, Tarboscello  Senza le foglie, e senza i crini il ^apb»  Non-vennero ad udire i miei precetti  Semele, Leda ^ o la sidonia donna (37)  Che via portò pel tnar fallace Toro,   O la tua sposalo Menelao, cW chiedi  Bene a ragione, e che a ragion si tiene   11 Rapitor Trojano^Ecco una turba*'   Di belle donne e dì deformi a un tempo  ( Ahi sèmpre il ben dal male è snperato ! )  Che chiède i miei precetti, ma non tanto  Cercan questi le belle , e men dell^rfe  Procurano rajoto. Han quelle in dota  Beltade senza Parte assai possente.   Quando tranquillo è il mar, sicuro bessa^  Il nocchier dal lavoro, e mentre è gonfio  Si asside, e in opra pone ogni socConk).  Rara è beltà che senza macchie Sia; ^   Le cela , e i vizj del tuo jcorpo ascondi   {37) Semeie figlia di Cadmo He di TeÒe e.madre^  di Bacco , Leda figlia di Tindaro, e sorella di Ca-  stare e Pollice, Buropa figlia di Agenore He di Fe¬  nicia ove giace la città di Sidone , da cui élla vieti  detta Sidonia, furono dotate d*una tal bellezza , che  innamorarono vivamente lo stesso Giove, il quale non^  ebbe à vile di prender per esse le più strane sem^  hianze. Queste con Elena mogUè 'di Menelaosi pro» ^  pongono qui dal Poeta , come eiélnpi troppe rari dì:  perfetta bellezza. Quanta più puoi'« Se di statura breve  Tu sei, t’assidi, onde seder non sembri  Allor che in piedi stai. Se oltre misura  Però lo fo^si^ allor ti porca , e ascondi  Con le vesti su’piedi un tal difetto.  Quelle che sono gracili e minute  Debbon di grossi drappi ornarsi, i quali  Sciolti cader si lascin dalle spallo.   Tocchi il suo corpo con purpurea verga ( 38 ^  Chi è pallida ; e chi è nera abbia ricorso  Al fario, pesce. Un piò lungo e deforme  Sottu candida alunda pgnor si celi, ($9)  Nè secche gambe .sciolgansi da* lacci.    (38) È certo , gU onticfd aoéoano de* medica^  menti , co* quali ti coloravan la faccia ^, benché non d  sappia di qual natura^ quelli si fossero . Il belletto >  che si usa pretentemente è composto di rosso e di  biancone sarà forse pià efficace di quel che adopra*  vano le Daàte romane. Si è per qualche, tempo im-^  piegata Cernita il magistero di Bismuto^ detto  altrimenti bianco di spanna com« quello, che avendo  un leggiero color d* incarnato, era pià analogo aHa  pelle ; ma sì l* una che l* altro anneriscono e guasta¬  no la carnagione, mentre tutte le calci metallici^ ri¬  prèndono una parte del loro flogisto , e, si ripristinano*  Si è pertanto sostituita alla cerussa ed al bismuto  la pomata di spermàceti^e l* olio di mandorle dolci,  unendovi una porziànè di falco'biancò finissimo. Col  talco bianco ùmilmente barico ,della parte coloranto  de* fiori di Cqrt^mfi j a, ,cui si aggiungono poche goc¬  ce di olio di Beri, per renderlo pastoso è molle, si  compone il roiso y che ancor chiamasi-rosso di porto-  gallo o roSso'vegetale. ‘   Il /arto pesce é il Coccodrillo y degl* interiori e della  sterco del quote sh servivano i Homani e(f i Greci per  fare un composto atto a render bianca e splendida,  lo pellé.   (39) X’Alauda b una pelle moUissiuia,  Tenue eoscm conviene ad alte spalici  E se il petto sìk turgida, il circondi  Fascia, e lo stringa. Se le dità pin^ui^   E scabre T ùnghie avrai, allor di rado  Accompagna congesti i detti tuoi.   Chi grave dalla bocca esala oddte ' •  Digiuna mai non parli ^ e dalla bocca  Deir uom stia lungi. Negri, e troppo grandi  Se i denti siéno, o in non belFordin natii  Massimo il «iso allora apporta danno.   Chi ^1 crederiaMiC donne apprendon pure  Le. maniere del ti80 ,'e in qùesta parte  Nuovo per lor procacciano òtnatoeùto.  Non troppo-larga apri la bocca , e brievi  Sian le pozzette in ambedne le. gote,   E le radiche ognor copra de’denti  L’estremità de’labbri , e non bisogna.  Affaticar con smoderato riso .   Il fianco, mentre deve ancor nel riso. -  Dar proprio, delle donne urf dolce sùono'.  V’ è pur chi in mille guise il volto-  Con male acconce risa*, ed altra credi  Piangere allor che tutta allegra ride$  Quella tramanda un, rauco suono ; e stride  Cosi inamabilmente, che ^assembra ;  Asìnella che ragli, allor che intorue s 5  Alla macina gira.^E'do Ve l’arte ^   Non giugno ? Coù decòro itnpajfan )   A lacrimare, e come, e qhandò sembra, ^  Loro opportune. E che dirò di quelle.   Che niegano agli accenti intera forma,   E fan con studio balbettar la linguaf ^  Credon che sia lìa grazia ancor nel viziò^.  E pronunciano mal varie paròle^ •    Digitized by Google     rrii   E con arte studiata altre ne lasciano.   A tutto ciò, che ben giovar vi puote^  Ponete cura, e con femineo passo  Imparate a portare il corpo vostro^   Havvi nel portamento anco il decoro.   Con cui si fan fuggir , con cui si allettano^  Gii uomini ignoti. Muove questa il fianco  Con arte , ed ondeggiar lascia le gopne  Air aure in preda, e stesi i piedi porta  Con maniera superba. Altra cammina  Qual deir umbro marito la consorte (4o).  Rubiconda, e con piede in dentro volto  rapassi move smisurati •y in q^uesto  Serbisi, e in altro pur giusta misura»  Rustici ha questa i moti, e troppo quella^  E molli e ricercatk LMraa* parte  Della spalla, e r estrema ancor del braccio  Di nuda, onde chi posto è al manco lato  Veder la possa. -Hi special modo a voi  Gioverà che qual neve avete bianca  Ina pelle. Quando questa io mira, sem-pr^  Sulla spalla scoperta i bacci imprimo.   Col dolce suon della canora voce  Fermàr le navi più spedite al corso  Le Sirene* del mare iniqui mostri. (41)    {40) Condanna Ovidio a ragione come rozze le mo¬  gli degli Ultori popoli forti e a un tempo stesso /«-  voci f che abitarono in Italia sul monte Appennino,  (41) I>c Sìrerse sono tre barbari mostri che dimora¬  rono nel mar di Sicilia, Col suon lusinghiero deWar¬  moniosa lor voce'allettavano queste in tal maniera i  naviganti , che si lasciavano essi predar facilmente.  Ulisse per evitare un tanto pericolo , chiuse con la cera  ^^^cchie suoi compagni^ e si legò strettamente'^  M albero della na^e ^da cui si disciolse dopo    jia   Udite qneste, se medesmo sciolse  DalParbor della nave, e con la cera  Chiuse Ulisse accompagni ambe le orecchie.  È lusinghiero il canto . Le fanciulle  Apprèndano a cantar ; la voce a molte  Senza bellezza conciliò gli affetti.   Cantino quel che udirò ne’ marmorei  Teatri f ed or versi costrutti in metro (42)  Niliaco; e culta femina tenere  Sappia per mio giudizio or nella destra  11 plettro , ed or con l’altra man la cetra.  Il tracio Orfeo con la sua lira mosse ( 43 )  Le fiere, i sassi, le paludi stigie,   Ed il triforme Cane . O della madre  Giusto vendicatore al canto tuo  Cortesi i sassi fabbricar’ le nlura.   Benché sia muto, il pesce ( è nota al mondo  Favola) al suon del arionia lira( 44 )   sentito il dolce cànto di quelle . Le donne imparino  dunque a cantare ,se ooglionsi conciliare, come dice  Otfidio , P qmore degli uomini,   ( 4 ^) E!ran famigliari a* Romani le canzonette ame^  rose , e spesso lascile , ahe si cantavano in Egitto , ove  scorre il celebre fiume Nilo,   (43) Orfeo nato in Tracia da Apollo e da Calilo •  pe col suono armonioso della sua Lira fece sì che gli  corressero dietro per ascoltarlo , gli alberi , i sassi , i  fiumi , e le beloe feroci : Quand* egli intese la morte  d* Euridice sua moglie , scese con la lira all* Infernot  e con quella intenerì talmente gli Dei infernali, che  a lui la restituirono , purché non ardisse di riguar--  darla prima d* uscir dall* Inferno, Non p9té l* amo^  toso consorte obbedire a tal legge , e però ella dovè  involarsi a* suoi sguardi subito ch^ ei la mirò   ( 44 ) Anfione figlio di Giove e d*Antiope indusse le  pietre col suon della Lira a fabbricar le mura della  città 4i Tebe. Picesi vendicator della madre, perchè.  Si fe* pietoso . Anco a toccare impara  Con Tana e l’altra man le dolci corde  Del Salterio ; son atte a* cari scherzi*   Di Callimaco a te smn noti i carmi.   Quelli del eoo Poeta , e quei del tejo (45)  Vinoso Vecchio. A te Saffo sia nota  (Son più degli altri i carmi suoi lascivi)   E quel per cui viene ingannato il padre (46)  Del servo Oeta con la callid’ arte.   Del tenero Properzio i versi leggi,   O quei di Gallo, o quei del buon Tibullo,  O i velli insigni per le bionde fila (47)   insieme fratello Leto la vendicò dall* ingiurie ,  che recatale Ideo di lei marito y col trucidarlo nel  letto y ove lo sorprese con Dirce sua concubina y a cui  pure tolse la vita.   Atwne nacque in Metinna , e fu im eccellente Po&^  ta lirico , e nel tempo medesimo un ricco mercante.  Ufosid alcuni suoi comùttadini dal desiderio di godere  delle sue ricchezze fissarono di gettarlo in mare, men*^  tre egli se ne tornala alla patria. Accortosi di ciò  Arione cantò intrepidamente una canzonetta , ed un-'  Delfino , allettato da una sì dólce melodià , Vaccai^  se sulle sue spalle y e lo portò in Tanaro promontorio  della Laconia,   (45) Accenna ora Òoidio i Poeti che piacevano ai  suoi tempi , e per lo stile e per le materie galanti ,  come a* dì nostri piacciono Ariosto , Passo , Guaritù ,  è Metastasio ec.   Fiteta fiorì a* tempi d*Alessandro Magno per li suoi'  versi elio^afici , e dicesi eoo Poeta y perche Coo /if ia  sua patria. Anacreonte nacque in TeJo , e scrisse mol^  te canzoni veramente leggiadre in onore del buon vi¬  no , delle donne y e del giovinetto Batillo.   (46) Terenùo compose una commedia, in cui il  padrone , ed il fratello sono ingannati da Geta asti^^  to lor servitore.   .'(47) ^^^^one Àttacino cantò ne* suoi versi la spe^  dizione in Coleo degU Argonauti. Il vello d* oro , che    jbyGoo'gle      ii 4   Che far fanesti, ó Prisso ^ alla tua aaara  Cantati da Varrone, q il pio Trojano  Di coi non y’ha nel Lazio opra più chiara.  Ma forse un dì con 'questi andrà conginnto  H nome nostro, nè i miei scritti in Leta  Saran dispersi/Dirà aldino : leggi ,   I culti versi del maestro nostro^   Con cui poteo far dotti uomini c donne.^  Fra’suoi tre libri che hanno infronte scritto   II titolo d* amor 9 scegli que^ verai ( 4 j 3 )t  Che legger tu potrai con docil bocca  Più mollemente ; oppur con ferma voco ,  Canta P Eroìdi , ignota opera agli altri  Ch’egli compieo. Ahi cosi piaccia aFebo^  Pel corno a Bacco insigne/ ed allò Muse,  Numi che son propizj a noi Poeti.   Chi dubitar potrà ch^ìo la fanciulla  Non voglia al ballo istrutta, onde poi toltq  Il vino dalla mensa » ella le braccia  Volga in composte ed ordinato moto?  Amansi i danzator che della scena  Sonò spettacol, perchè san con arte :   V Saltare y e con decoro. Io mi vergogno  Di doverla ammonir di tenui cose, _   questi ivi andarono a conquistare , fu funesto ai Elle  sorella di Frisso y perchè ella , come si è accennato y  cadde miseramente in mare , mentre il Montone ador^  no d* un tal vello la portava insiem col fratello ih  Coleo,, Tl pio Trojsno h, come è noto y Enea, sulle  aùoni del quale ha scritto Virgilio quell* aureo Poe»  ma che porta il nome d* £aeidb.   {èfi) Ovidio fra l*altre sue opere annovera ancora  ire libri d* Elegie intitolati gli Amori, ed un libro  - intitolato V ^roidi , perchè comprende ventuno lettere  amorose y che fa scrioère scambievolmente dagli Eroi  all’Eroine^ e dalfEroioe agli £roi.  P’istruirla a gettare or l’aliosso,   £ a conoscer de’ dadi anco il valore.   Or tre numeri getti, ed ora accorta (49)  Pensi qual parte segua acconciamente  E qual richieda. Canta in finta guerra (5o)  Muova i soldati, che da duo assalito  Nemici uno perisce. Il Re sorpreso  Senza la sua compagna ^ si difenda  Da se medesmo , e f’emulo ritorni  Per lo stesso seotier.' La tasca è aperta^   E ornai son sparse le pulite palle; (5 i)  Quella che prendi sol muover tn dei.  Ravvi un: gioco diviso in tante parti (Sai  Quanti numera mesi il luhric^anno.   Breve tabella prende da ogni parte (S3)-  Tre tenni pietre, e il vincere consiste  Nel disjpor queste in una dritta  Mille giochi vi SOI» che turpe fia  A una donzella d* ignorar ; col gioco  Si può l’amore conciliar. Leggiera  Fatica è appreodero a giocar ; maggiore  Opra é il compmrre allora i suoi costumi.    C49) Non sappum Diramente per qual ragione si~  éovesse procurare tempi, in cui vivcóa Ovidio di  gettar tre numeri nel gioco d^ Dadi.   ^ 5 “^ •S£r»/erÌjco»o questi versi al gioco degli Scacchi.   (Si) questo un gioco, di cui non possiam dare  tucuna notula.   Sembraci f che sia questo il gioco, che r pure  * *** dell» Dama.   ( 53 ) Alludeu (d gioco del Filetto, che . or gioeano'  nule campagne i ragazzi. Così b decaduto un gioco -  0^ formava la delizia delle Dame romane, e coi»  aecaderanno ancor quelli che si hanno in pregio a‘ dk  nostri, ® '    Digitized by Google    Mentre s’applica al gioco, incanti siamo,   E i reconditi sensi alloc dell’ alma  Facoiam palesi. Ci deforma il volto ^ j   Il cieco sdegno, e sono ognot col gioco  Il desio del guadagno , le .pontese, »   11 sollecito duol, le stolte tìsse.^ j   Rinfaccìansi i delitti ; di clamori *   V aere risuona, e in sno favor s’invocano  Gl’ irati Dei. Non v’ è fede nel gioco  Il qual co’ voti non divìen secondo;   Vidi le gote ognor molli di pianto:   Da voi che amate di piacere all’uomo,  Giove tenga lontan questo delitto.   Diè la pigra natura allo fanciulle   Silaili giochi ; ad altri pii sublimi   S* applica l’ uom : per lui sono il paleo» ( 64 )   I dardi, 1 ’ armi , le veloci palle;   E il cavallo costretto a gire i^^no.   Voi non acosf^il’-campo.o'ra gelata ( 55 )  Vergin , nè voi sulle sue placid’ onde j  Porta il toscano fiume* Ah ! voi potete  Gire all’ ombre pompeje, anzi vi giova ( 56 ) 1  Quando i destrier del Sole ardono il capo    (5 4 ) H Paleo i urto strumento fatta a guisa Jt  trottola, eoi quale giocaoano i fanciulli romani fa-  tendalo con una sferza girare intorno.   ( 55 ) Nel Campo Marzio si esercitavano »  romani in tutti que’giuochi cU potevano «P***^"'^*   • renderli valorosi guerrien. Era ivi   ta Vergine dalla fanciulla che ne scopri la sorgente,   ed in quella si lavavano i giratori le   di polvere e di sudore. Il Tevere e qui detto fannie   tascsno, perchè dall’Appennino   la Toscana nel f<u-t il siSo corso alla wta di tioma.   ( 56 ) Annoi, q. del fàh. I, ^    Digitized by Google     Alla vergin celeste. I sacri a Febo (5^)  i’alagi visitate ; egli sommerse  In alto mar le paretonie navi.   I monumenti ancor» che fur costrutti»  Dovete frequentar, da Ottavia e Livia ( 58 )  Una suora del Ehjce, altra consòrte,   E quelli pur del valoroso Agrippa,   Che ha cinto il capo di navale onore.  Della menfitica Iside agli altari (69)   Siate frequenti , ov^ ardesi P incenso,   E ne’luoghi cospicui a’tie teatri.   Di caldo sangue le macchiate arene  Ite a mirare, e la prescritta meta.   Rapido intorno a coi si volge il cocchia.  Quel che si cela ò ignoto , e ciò che è ignoto  Nessun desio risveglia ; è lungi il frutto  Se manca il testimone a un bel sembiante.  Benché nel canto superi Tamira (60)   ( 5 ?) Dicé con Ovidio ancora Virgilio, che Apollo  nella guerra Azziaca prestò il suo soccorso ad Augu^  sto y il quale aveoagli innalzato un ternpio nel pro^  prio palazzo . Apollo in conseguenr^a , ^Hcondo questi  poeti , sommerse le navi egiziane deste paretonie da  Paretonio città marittima d*Egitto , che Pompeo avem  va armate contro d*Augusto.   ( 58 ) Ved^i l*annot, 8 e g del Libro /. Augusto  decorò A grippa suo generò della Corona navale dopo  d^aver debellato Pompeo ^ ed innalzò al medesimo un  portico y che fu chiamato il Portico d’A^rippa.   (59) Annoi, li del Lib, /. Dice Sirabone che gia¬  cevano tre superbi Teatri in vicinanza del Campa  Marzio.   (60) Fu Tamira un poeta tragico che ardì con la  sua lira di provocare le stesse Muse ^ credendosi a  quelle superiore nella dolcezza del cantoma\dalle  medesime fu vinto , ed in pena della' sua arrogwiza  gli furono tolti gli occhi.    Digitized by Google      ii8   Ed Àmebeo , sarà priva d’ onor«   L’ ignota cetra» Se di Coo il Pittore  Vener ritratta non avesse^ immersa  Sare^bbe ancor nelle mailne spume.   £ che ricercan maggiormente i sac^i  Poeti che la fama ? E questo il fine  Cui tendon tutte le fatiche nostre.   Fur de’Numi e de'Re delizia un giorno.  1 Poeti , ed immensi ottener premj  I cori antichi* Venerando allora,   £ d’ una santa maestà ripieno  Fu questo nome, ed ebbero sovente  Larghe ricchezze. Ennio che il suo natale  Trasse ne’monti calabresi , degno  Si fé’ d’esser unito al gran Scipione. (6i)  Or giaccion senza onor Federe, e il nome  Ha d’inerte colui, che i sacri studj  Cari alle Muse a coltivar s’accinge»   Giova cercar la fama, e chi d'Omero  Contezza avrebbe , se in obblió sepolta   Ateneo^ Plutarco ed altri parlano con somma lo^  de d*Amebeo ateniese , perchè sonava eccellentemen-  te la cetra, Apelle nativo di Coo dipinse Venere nel-  ratto di uscire dalVonde marine \ ed Augusto coliocè  una tal pittura nel Tempio dì Cesare suo Padre,   (6i) ÉrUiio è tra i Latini un poeta che si può da-  gV Italiani paragonare a Dante.   Ennius ingenio maximus , arte xudis.   Owd. Trist, Ub. IL EL I,   Fu egli, nativo di Rudia in Calabria , e visse som¬  mamente caro a Scipione Affricano il vecchio , ed a  molti altri insigni Cavalieri romani. Morì in età di  anni settanta , e dicevi che fu collocata la sua sta¬  tua di marmo nel sepolcro degli Scipioni. Cicerone  ^ro Archia Peata , così parla di ciò : Garas fuit Af-  iiricano superiori ngster Ennius ; itaque in tepulcro  ScipioQum putatur is esse constitutus e marmore.   L'Iliade o^ra imxnortal foase rimasa? ^  Chi Danae conosoiata avr^a , se ascosa (6a)  Posse étata mai sempre^ e «e già vecchia'  Si fo8a''ella lacchiusa eptro la torre?  Utile è a voi , bèllé e vezzose donne,   Di porre oltre le soglie il vago piede<   La lupa a molte agnello insidie tende  Per predarne una, e sopra molti augelli  Vola 1 Augel dj Giove. Il volto mostri  Sposa_ leggiadra ^1 P®poI<>> o fra molti  Un solo appéna rimai^rà sua preda.   In ogni loco ove si tro^ , attenda  Sempre a piacere; ed abi>ia special cura  Di sua bellezza. Puote in ogni incontro  Sempre molto la sorte. Getta l’amo,   Chè in quel gor^o, ovemen lo pensi, il pé^co  t alor SI trova . Erran sovente indarno  Per boschi montuosi i cani , e il cervo  Cade fra’ lacci, mentre uinn l’insegne.   D Andromeda l^ata a un duro scoglio ( 65 )   Il niT*** *Pf far, che a un uom piacesse   Il pianto sue ? ài cerca spesso un uomo  Ne funerali del marito ; i crini  Sciolti portar conviene, e sian la gote   Di lagrime bagnate . Ma fuggite   Gl, uomini che d’aver le ^mbra adorne   hi fanno un pregio ; della lor beltade   Vanno superbi, e portano le chiome  Con ricercata simmetria, disposte.   Ciò che dicono a vói, dissèro a m{llé;   D’ uno in un altro àmot Tàgando vanno ,  Senza restarsi in dmha "parte mai.   Che d’un tal uomo effemi,nato., a cui  Forse molti non mancano amatori.   Dee fer la donna ? 11 crederete appena.   Ma credetelo'pur , Troja' àncor ferma ( 64 )  Starebbé,se di Priamo avesse ih uso\ ‘  Posto gl* insegnamenti . H'a^yi di quelli  Che sotto il mantó di fallate amore ^   ■V* assalgono , e tiòèrcan coh‘ tai mezzi  Vergognosi guadagni . Ntìn la chioma  Per il liquido nardo nitidissima ^  V'inganni, o breve fascia con cui stringa  Le pieghe della veste ; nè v’ illuda  Toga che sia di tenue,fil tèssuta;^   O anel con cui s’adorni uno o più. dita.  Chi fra questi è più colto, è forse un ladro,  E d’ amore arde per la ricca veste.  Gridano spesso le spogliate Donne;   Il mio a me rendi, e il suon per tutto il foro  Rimbomba, e s’ode ; a me deh rendi il mio.  Tu da tuoi templi d’oro adorni miri  Con le femmine d’ Appia indifferente, ( 65 )  Venere, queste lìti , Ancor vi sono  Pessimi nomi'pei^'non dubbia, fama-.    ( 64 ) Priamo iruinuava «’ tuoi Trojatti di rtrtdtr   ^( 65 ) àoeva nella via appia   tomo al quale abitarono molte donne   sacrifici che queste rendevano a quella lor   lare , consistevano in prestar liberante tl lor corpo   alle voglie sfrtnatt desìi uomm Iwrnnio  E molte che rimasero ingjinnatp  Da molti amanti, or d’ un egual delitto  Si trovan .ree. Dalle quetele altrui;  Imparate a; temer le^ vostre ; chiusa,   Sia mai sempre la porta ad uom fi^lace.  Donne ateniesi, uon prestate fade (j66)‘   A Teseo ancor, che giuri • In testimonio»  Come invocolli nn giorno, i Numi invoca.  Tu del delitto, oJDemofonte , erede.   Di Teseo più non meriti credenza, (67)  Perchè ingannasti Fillide . Se molto  A te pròmetteran, loro prometti j *  Con eguali parale . So di doni,   Ti siano liberali, lor concedi   I promessi piacer, ma se gli nìeghi   II dono ricevuto, ancor potrai.   La fiamma estinguer deUa vìgil Vesta, (68)  Rapir da’templi dTside gli arredi,   E air uom porger T. aconito mischiato  Con la trita cicuta«tll mio desire ,   Mi spinge ora a ;fcenarmi, e: tu ritieni.  Musa , le brìglie : nè le mosse rote  * Ti dian.terror» Tentino in prima il guado  Ov..Arte d-am.    (66) Teseo abbandoni Arianna in Nassa,   (67) Demofe^nte non serbò a Fillide la premesti^  di ritornarsene a lei dentro due mesi,   (68) Con questi versi vuol significare il poeta che  è capace di commettere ogni sceUeratezza quella don~  na , che nega il favor suo a quegli uomini da* quali  ha ricevuto de^ doni, Riputavasi in fatti da* Romani  un enorme delitto il rapire il fuoco custodito dalle  Vestali, o i .sacri arredi del tempio d* Iside; e da  ogni nazione si è creduto sempre colpevole colui che  porge alVuQmo /^aconito con la cicuta , cioè il vet^no. Xrli scritti fogli, e T inviate cifre  Riceva accorta ancella . Apprendi e vedi  Dalle stesse parole che tu leggi,   Se finga, o par se son sinceri i prieghi.  Dopo breve dimora ognor rispondi^   Mentre , se è bre;i^e, è stimolo agli amanti.  Deh non prometti al giovin che ti prega  D’ esser docile mai, ma in duri accenti  Non.gli negar ciò che dimanda . Tema  E speri a un tempo^ e ognor che tu il licenzi  Sia minore il timor, maggior la speme.  Scrivi culto parole e consuete,   Che un famigliare stil più eh’ altro piace.  Ah quante volte arse per dólci note  II cor di dubbio amante , e fu nociva  Una barbara lingua a bella Donna!   Benché voi siate nell* ònor perdute.   Tutte le cure vostre or son dirette  A ingannate i Mariti . Idonea mano  D’esperto giovin, di fidata ancella  Rechi le dolci lettere , e tai pegni  Non sian fidati ad un novello amante.  Vidi ben spesso impallidir le donno  Per tal timore , e vìvere i lor giorni  Miseramente in sehìavitudin dura.   Perfido è quei ohe tali doni serba.   Che qual fulmine etnèo sono in sua mano.  Si può tener, se al vero io non m’appongo,  Lungi la frode con la frode ognora;  Contro gli armati impugnar 1 ’ armi, logge  Nissuna vieta . A imprimer sulla carta  S’accostumi la man diverse cifre.   Ah ! peran quelli contro cui vi deggio  Avvertir di tal cose. In foglio mondo    Digitized by Google     123   La risposta si scriva , onde non sembri  Da due mani vergato . Al suo diletto  Scriva la donna, .come un uòmo amante  Scrive air amata » ed usi V uom V opposto.  Ma da lieve materia innalzar V alma  Ora a me piace a più sublimi cose,   E le vele spiegar gonfie dal vento.   Opra è del volto i rabidi trasporti  Saper frenar : candida pace all* nonio  Convien come alle belve ira crudele.   Si fan per Tira tumide le guancie;  Vengpn nere le vene, e inocchio splende  Più truòemente del gorgòueo ‘fòco. (69)  Vanne lungi da 'metromba importuna^  Disse’Pallade ^ allór che il volto suo (*^0)  Mirò )iel fiume . Se voi iii mezzo all’ ira  Riguardate lo specchio ^ alcuna appena ^  liistinguére pbtm W figura. '   Nè dannosa a Voi supérbr^^ facòià j  TurgidJ il voltò ; có^ be^nigiii sguardi  Deèsi a^es9ar 1 ’ amóre ‘J Odiahio ( e voi  Già 1 fó^cre((efé che. ìie siete esperte) ‘   I fasti inambderatl^e spesso chiude  Deir odio 1 sómi taciturna faccia. /   Guard^ ^uel che ii mira , e ùi olle mente  Sorrmi 'a^ueì cjhe rid^ e se à te un cenno   §ia .   Gorgoni étart t^e mostri \^enimente orribili  per ìaHesta ^circonddia di serpi , e per Vocchio spaven^  tegole che ateoanò in: mezzo alla fronte . Chi fissava  occhi in faccia*'alle medesime , rimaneva di sasso,  (70) Pallàde / sécorido^alcuni y gettò via la tromba,  perdhè ^s’accorse chè ih sonarla si faceva troppo gòHf^  la faccia. ‘ ' Con tai preludj il favcitilletlo Amor»   Pose i rozzi da parte, e diè di piglio  A! dardi acuti della sua faretra.   Vadan lungi da noi le donne meste;   Ajace ami Tecmessa t noi sol puote  Tener ne’lacci suoi lemina allegra. (71)  Non fa giammai che a voi porgessi preci,  O Andromaca o Teome^sa , onde a me foste  O r una o Valtra amiche. Appéna posso  Creder che in letto maritar giaceste,  Quando, a crederlo astretto io son da^iiglL  Fprse ad Ajace la dolente sposa ‘  Avrà detto : mia luce, e gli altri accenti,  Cari agli uomin|^ tanto f £ chi mai Vieta,  Applicar gravi esempli a tenni cose,   E di guerrier non paventare il npmef  Cento soldati a questo^ il Duce esperto (72]^  Diè a regger cop la vite ,|è a quello cento  Cavalieri, e lasciò'T altro in custodia ^  Delle l^andiere A; qual vedete impresa  Atti noi siamo ; e^nel suo posto'o^gntipo ^  Venga locato. Un ricco a voi dia doni^ '  Vi sia propizi o, il Giudice , e ; il facondo ‘  Difenda i dritti vostri .'|loi poeti ,   Donp possiam far solo di carmi.   3a più degli altri amare il coro nostro;   (71} Andròniaca dopo ìa rnòrté ^&toré amato sud  sposo , r dopo V incendio di-Trofa-fpssssò for i rn i s uns nm  ti alle nozze di Pirro ^ e però vìsse con ^uosto/s^ssai  malinconicà. Teemessa , moglie di Ajace, er^ una  schiava y e però, secondo Ovidio y. doveva aver sempre  Vanirne occupato da una grave, tristezza*   (711) Da/ Comandante solevansi affidile^cento sol-  dati al Centurione il quale aveva per sua insegna U 9  ramo di vite. Uua grata beltà cott ampie lodi  Sappiamo celebirare , e va fainoso  Dì Nemesi per noi, di Cinzia il nome. (78)  E dove nasce, e dove muore il Sole  Conobbero Licori., e chieggon molti  Chi sia Corinna nostra. Aggiungi a questo  Che son T insidie ignote a" sacri Vati,   Che giova V arte nostra a^ lor costumi.  Kpa ambiziosa voglia, e non desio  D’aver ci punge . Noi sprezziamo il fòro  E son graditi a noi V ombra ed il letto.  Facili amiamo ognor con certa fede,   £ in vasto incendio, il nostro core abbrucia.  Con placid’arte docile T ingegno  Facciamo , e ben s* adattano co* nostri  Studj i postumi. A* Vati aonj, o donne.  Siate indulgènti, che gl^inspira un Nume,.  E lor son fauste le pierie uive. (74)   Ci agita un Dio.; abbiam col Cièl commercio;.  Ci vien lo spirto dall* eteree sedi. *  Chiedere il pre^o è scelléra^in grande  Ad ottimo Poeta . Oh me infelice.   Che scelle raggio tal piti non si teme  Dalle jauciulle • ALmen dissimulate,   Nè vi fate veder tosto rapaci.   No , non cadrà nella prevista rete  Un novèllo amatore . Il Cav^aliero    (y3) Nemesi fu amata a celebrata da Tibullo, Cia*  zìa da Properzio , tdcori da Gallo , a Ovidio ha^da^  to ne^ suoi versi alla propria amante il nome, di  Corinna.   (74) Le Muse si chiamavano le Dive pierie , 0 per^  chi abitarono nel monte Pierio in Tessaglia , o per--  che vinsero e trasformarono in gazze le figlie di Pierio.Non reggerà T indomito cavallo  Al par di quello che già al freno è avvezzo*  Nè lo stesso sentier batter tu dei  Per adescar la verde gìoventude,   E le menti già stabili per gli anni*   QuelP inesperto, che la prima volta  Sotto si pone all* amorose insegne.   Che preda nuova nel tuo letto giacque.  Te sol conobbe, e a te sia unito ognora;  Si cìnga d’ alte siepi una tal messe.  Schiva d’aver rìvjaì;ta vincerai,   S* ei r amor suo con altra non divide;   1 regni e amor non vogliono compagni.  Quel che invecchiò nell’ amoroso agone.  Con prudenza amerà, saprà soffrire  Ciò che invan soffrirla guerrier novello.  Non frangerà le porte, e non furente  Fiamma v’ applicherà. Non dell’ amata  Farà con 1’ unghie ingiuria al delicato  Volto ; e non straccerà della Fanciulla  Le vesti, e non le proprie ; e per dolore  Non svellerassi i crini • Questi eccessi  Convengon solo a’ Giovanetti acerbi  Caldi per poca età, per troppo amore.  Tranquillo ei soffrirà la cruda piaga;   Qual face inumidita a foco lento  Abbrucìerassì, o quale in giogo alpestre  Fresco ramo reciso : è quest* amore  Più certo , è quel più breve e più fecondo.  Con sollecita man cogliete i pomi  Che fuggon. Tutto ormai s* insegni; schiuse  Son le porte al nemico ; e siate fide  Mentre ingannate altrui. Facil Donzella  Puote mal conservare un lungo amore.  Sla la ripulsa rara » e venga sempre  Da lieti scherzi accompagnata • Giaccia  Alla porta nrosteso , alto gridi:   Porta crudele ; e molte cose umile  Faccia 9 e molt^ altre minaccioso. Il dolce  Noi mal soffriam ; ci sana il succo amaro;  Pere spesso la nave » e fausto ha il vento.  Ecco perchè non amansi le mogli;   Seco stanno i mariti a grado loro.   Chiudi la porta 9 e in aspro suon TuBciero  Gli dica f entrar non puoi ; escluso, in seno  Di lui per te si desterà l’amore.   Deh riponete i rintuzzati brandi;   Con gli acuti si pugni, ch^ io con l’armi  Mie già non temo d’ essere assalito.  Mentre ne^ lacci un amator novello  Cade, gli fa sperar xhe del tuo letto  Solo godrà ; poscia il rivai conosca  E i divisi piacer ; senza quest’ arte  Amor illanguidisce • Il generoso  Destrier,se venga dal suo career schiuso.  Corre velocemente , se il preceda  Altri nel corso, o se lo segua . Estinto  Ancor che sembri l’amoroso foco  Con nuova ingiuria si riaccende, ed io,  Lo deggio confessar, soltanto offeso  Nutro r amor . Non troppo manifesta  Sia la causa del duolo ; e ansioso creda '  L’ amante che maggior fia ancor l’offesa  Di quello che gli è noto ; ed or l’inciti  L’aspra custodia di fallace servo,  n geloso rigore or del marito;   E men grato il piacer senza contrasto Èeiichè tu sii di Taide più. }asciya,(75)  Fingi timpri ; e ancor che per la porta  Meglio il possa introdar , fa eh’egli venga  Dalla finestra, e nel tuo volto i segni  Mostra di Donna da timor sorpresa»   Venga l’ancella frettolosa, e dica:   Ah siam perduti 111 trepido Garzone  Allora ascondi; col timor si debbe  Mischiar piacer sicuro, onde 1’apprezzi»  Come il marito accorto e il vigli servo  Si possano ingannare i’avea taciuto*   Tema una Sposa il suo Consorte^ e viva  Certa che altri la guarda ; è ciò decente;  Vuol ciò il padoi:, la legge, e F equitade.  Chi soffrirà che custodita sii  Tu , che or la verga del Prétor redense? (76)  Odiose vuoi ingann^kT, miei sacri carmi»  T’ osservio puro occhi miglior di quei (77)  Ch’ebbe il guardiano d’io , sii risoluta,   £ tesserai l’inganno • E puote invero  Chi t’ ha in custodia a te vietar che scriva  Se non si vieta a te di gire al bagno?   E se potrà, de’tuoi segreti a parte,    (75) Terenzio ha dato il nome di Taide ad una  donna lasciva, che forma la parte principale della  sua Commedia intitolata /^Eunuco.   (76) Parla qui il poeta delle donne schiave y che  divenivano libere quando il Pretore aveva toccato al»  le medesime il capo con una vèrga detta yindiqta ,  e che occupavano nelle case delle Matrone Romane  unposto corrispondente a quello delle nostre Cameriere.   C77) (Giunone diede, cento occhi ad A^go custode  d'io, perchè potesse soddisfare esattamente al suo  incarico, ma il Dio Mercurio Pàìsdpì col suono del*  la lira , e gli recise la testa Recar V ancella i foglj ricoperti  Nel caldo seno da una larga fascia^   O nasconderli avvinti infra le gambe,   O sotto i piedi f Se a tè ciò il custode  Vieti , P ancella porgerà le spalle  Di carta invece, e porterà su queste  li^amorose tue cifre impresse. Un foglio  Con fresco latte scrìtto inganna 1’ occhio^  Con la polve l’aspergi del carbone, *   £ legger lo potrai • Del paro inganna  Lettera pura in cui sia stato scritto  Con la punta del lino inumidito,   E le note ‘segrete incise porta . (jB)  Intento Acrisie a custodir la Figlia, (*^ 9 )  In opra pose ogni più esatta cura:   Eppur col suo delitto il fece eli’ avo.   E che farà il Custode, se cotanti  Sono in Roma Teatri, e se a suo grado    (^8) Non mancano a^dì nostri degli inchiostri sìrw^  patiei y che superano ne^loro effetti la virtù degli  antichi. Con un^ oncia di Ut or girlo y e cinque d^ace»  to stillato si fa un composto , che chiamasi aceto di  Satarno. Con questo si scrioe sulla carta bianca , e  quando è asciutta non si scorgono in alcun modo i  caratteri. Si sparge quindi sopra la carta una picco^  la porzione d* un liquore fatto con un* oncia d* or pig¬  mento e due once di calce viva sciolta nell* acqua ;  éd allora compariscono i caratteri d*un coloraperfet’-  tamente nero.   Il calore e la luce coloriscono altresì i caratteri  scritti con alcune soluzioni metalliche allungate con  Vacqua , cioè con quella dell* oro , dell* argento , e  principalmenie del bismuto. La tintura di galla è  pure ì^n inchiostro simpatico , purché si faccia passar  sopra di essa una qualunque marziale dissoluzione,   ( 79 } Annota (a del lÀb. Presente Può rimirar le corse de* destrieri f  Quando nel tempio d’Isi assister puote (8c)  Al concerto de* sistri, e p^pte in altri  Lochi ella gire » ove l’ingresso poi  È vietato a’ compagni ? Se da’ templi  Della Dea Buona può fuggir gli sguardi (8i)  D’ogni uom fuor di quel eh’ ella desia f  lyientre il Custode fuor del bagno serba  Gli abbigliamenti della sua Padrona,   Se può mrtivo nel; sicuro bagno  Celar 1* Aàotante ? Se ove 1’ uopo il chiegga  Per finto morbo giacerà 1’amica, ,   O se per vero , a lei cederà il letto? .  Quando la chiave adultera col suo  Medesmo nome cosa far c’insegna^   Nè sol la porta dà il bramato ingresso?   S’inganna pur con molto vin la cura  Di vigile Custode , ancor che colte  Vengan l’uve nell’aspro ispano giogo. (8a)  Vi sono ancora i farmaci che al sonno  Aggravan le pupille quasi vinte  Dalla notte letea • Nè mal trattiene  La non ignara ancella l’importuno  Con le tarde delìzie, end’ ella possa  Star col suo vago quanto più le piace.  Che far tante parole, e cosi lievi  .Gli uomini non potevano interpénire nel Tenu»  pio d'Iside , quando le donne celebravano le sue fo»  ste col serbarsi , almeno apparentemente, easte per  molti giorni,   (81) Era agli uomini vietato V ingresso nel Tem»  pio della Dea Buona o sia di Cibele.   (8fl) Denota il Poeta il vin poco generoso, che i  Romani facevano venire dalia Laleiania in  gna provincia di Spagna*    Porger precetti , se con picciol dono  Si corrompe il Custode ? A me lo credi.  Gli Uomini e i Dei guadagnansi co’doni,  £ i doni placan pur lo stesso Giove.   Che farà il saggio , se de’ doni ancora  Gode lo stolto ? Ricevuti i doni,   Si farà muto anco il marito istesso.   Per tutto Panno guadagnar si debbo  Una volta il Custode , e quelle mani  Che un di vi diede, vi darà sovente.   Feci querela , e l’ho ferma in pensiero  Che temer si dovessero i compagni;   Nè diretta soltanto all’ uomo è questa.   Se credula sarai, carpirann’altre  1 tuoi piaceri, e avrai cacciato il lepre  Per esse. Quella, che t’appresta il letto,   E che officiósa a te concede il loco.  Giacque più. volte , a me lo credi, meco.  Nè troppo bella sia l’ancella tua;   Sovente meco fe’della padrona  Ella le veci. Ah ! dove ora mi lascio  Io stolto trasportar ? Perchè contrasto  Col petto inerme contro il mio nemico,   Ed io da me medesmo mi tradiscof  Come pigliar si debba al cacciatore  L’auge! non mostra y ed a’ nocivi cani  Come inseguirla non la cerva insegna.   L’ utll vostro mi piace : io fedelmente  Vi spiegherò i precetti , ed alle donne Di Lenno io porgerò contro il mio fato   Lè Donne di Lenno in una notte, uccimo i  loro mariti , e però Ovidio sotto il nome di  tende quelle che con gli uomini sono troppo severe Sà   Da me stesso il coltello. Ahi fate in modo  ( Ardua non è V impresa ) che crediamo  D’ esser amati , mentre ogutìno crede  Farcii ciò che desia. La donna miri  Con infocato sguardo il fido amante,  Tragga dal sen sospir profondo, e chiegga  Perchè sì tardi venne. Aggiunga il pianto,  E finga gelosia della rivale,   £ gli percota con le mani il volto.   Tosto vivrà sicuro, e nel suo petto  Facile nutrirà per te pietade,   E dirà fra se stesso : ah si consuma  Questa per me d*amore i e specialmente  Se lo specchio consulta, e colto sia, ^   D’innamorar ei penserà le Dee.   Ma a te chiunque sii, grave disturbo  Non arrechin le ingiurie, e sbigottita  Non ti mostrar, della rivale il nome  Allor che ascolti, e facile credenza  Non presta aMetti altrui. Ah quanto nuoccia  Il creder facilmente, a te lo dica  Quello che adesso narrerò di Proori. ( 84 )  Scorre vicino del fiorito Imetto ^   A’ be’ purpurei colli un sacro fonte.   Di cui le sponde ognor fan grate e molli  Verdi cespnglj . Ivi non alta selva   (84) Procri figlia d* Eretteo Re Atene per sos-  petto di gelosia si portò segretamente nelle selve e  né* boschi ad osservar Cefalo figlio di Mercurio , sua  Sposo , ed ottimo cacciatore . Mentre egli prendeva ri-  .poso in un ombroso colletto , essa celandosi dietro alle  siepi , mosse disgraziatamente le foghe degli alberi»  Credè Cefalo che s* ascondesse fra quelle una fiera y e  però vi scagliò una saetta che gli uccise la lua dì*  letta consorte. Un l^co forma; gli arboscelli l'erba  Ricoprono, e un soave odore esalano  II rosmarin, l’alloro, il negro mirto.  Non il tenne citiso, il colto pino,   E il fragil tamarisco ivi già manca^   E non folto di foglie il busso. Scosse  Da dolci aeffiretti « e da salubre  Aura treman le foglie mnltiformi,   £ le cime dell^ erbe. Ama la quiete  Cefalo. Abbandonati i servi e i cani.   Ivi stanco il Garaon spesso s’adagia;  Solea cantar : mobil auretta , vieni  Onde t’accolga nel mio seno, e allevj  Il cocente càlor. Le intese voci  Da un malaccorto far recate intere  Alle timide orecchie della moglie.   Tosto che Procri il nome adì dell’aura,  Qnal fosse uua rivale, a terra cadde;  Ammutolissi pel dolor ; nel volto  Impallidid^ come le tarde foglie.   Se colte sieno dalle viti l’uve.   Sogliono impallidir dal verno offese,   O i maturi cotogni, i di cui rami  Piegansi, o le corniole ancor non atte  A* cibi nostri. Tosto che; rinvenne.  Straccia dal petto suo le tenui vesti.   Con V unghie impiaga le innocenti guance.  Jndugie non conosce, e qual Baccante  Mossa dal J'irso , furibonda vola  Per le pubbliche vie, sparsa i capelli.   Ma già vicina, in una valle lascia  I suoi seguaci ; intrepida e furtiva  Nel bosco con piè tacito s’innoltra.  QuaPera il tuo consiglio, allor che stolta O Procri, t’ascondeyi ; e quale ardore  NelPattonito séno allor ti corset  Già tu pensavi di sorprender l’aura  Qualunque fosse, e di mirar co’proprj  Occhj P infedeltà del tuo Consorte.   Quivi d’esser venuta ora Rincresce;   Or la rivale di mirar ti piace,   Ed or ti penti ^ opposti affetti in seno  Destan tumulto. A creder la costringe  ( Che quel che tenie ognor crede l’amante )  L’accusatore, il loco , il nome. Quando  SulP erbe vide impresse Torme umane,  Balzolle il cor nel pauroso petto.   Già T ombre brevi aVea il meriggio strette,  E in spazio egual giaceva l’Occaso e l’Orto,  Allor che di Mercurio il figlio Cefalo  Dalle selve ritorna, e T innainmate  Guance delTacque di quel fonte asperge.  O Procri, tu t’ascondi ansiosa ; ei giace  Sull’ erbe consuete, e vieni disse,   ZefHro fucile, o molle curetta vieni.  Quando conobbe il dolce error del nome,  AlT infelice il cor tornò nel seno,   E il primiero color sul volto suo.   S’alza, movendo il corpo e move ancora  Le frondi circostanti ; e fra le braccia  Va per gittarsi del marito • Mosso  Credendo quel rumor da qualche belva,  Imprudente la man slancia sull’arco.   Ed ave i dardi già nella sua destra.  Infelice che fai? non è una fiera,  rw Deponi ì dardi.... Oimè la tua consorte  Dalle saette tue giace trafitta.   Oh me infelice i eéclamà ; in petto amico   Vibri il tuo dardOi o sposo. Ah che fa sempre  Da te questo trafitto! Io pria del tempo  La morte trovo « noa offesa almeno  Da un rivale .^h farà ciò la terra,   Ov* io riposi, a nae cara e leggiera.   Fra quest’aure ^ che odiai sol per un nome.  Già spazierà il mipspirto.. oh Dio!•• vacillo...  Mi chiuda i lumi quella destra amata.   Le membra moribonde egli sostiene  Nel mèsto seno, e la crudel ferita  Con le lagrime asperge^ Ella già spira,   E la bocca del misero marito  Lo spirto accoglie che dal petto incauto  Deir infelice, Porcri alfine eeala.   Ma sul sentier si torni. lo debbo adesso  Agir palesemente , onde il naviglio  Indebolito tocchi i porti suoi.   Ch* io ti scorga a conviti aspetti forse, e ch’io ti guidi in questo pure attendi? Non t’affrettar; vien tardi, e già sia posta  La lacerna i e decente i passi volgi. Grato è a Vener Findugio, e molto giova. Benché bratta tu sii, sembrerai bella, che coprirà la notte i tuoi difetti. Prendi co’ diti il cibo; havvi pur l’arte nel modo di cibarsi; con l’immonda mano cerca non ungerti la faccia; nò mangiar prima in casa, ma t’astieni dal farlo allor che avrai mangiato meno di quel che il ventre tuo capè, e tu brami. Paride, se veduto avesse Elena cibarsi avidamente, avria per lei nutrito sdegno, e detto fra se stesso: Ah fui ben stolto nel rapir costei! Meno disdice a donna il ber, che Bacco  £ di Venere il figlio uniti vanno. Sì beva pur fin che il permetta il capo,  E Talma e ì piè siaxi atti a* loro nfficj , nè raddoppiati sembrinti gli oggetti.  Donna che giaccia per soverchio vino,   £ turpe, e di soffrir merta ogni assalto.  Sparecchiata la mensa, è gran periglio cadervi per il sonno; in mezzo a quésto  Molte si soglìon far cose impudiche. Io di stender più innanzi i^niiei precetti  Sento rossor. La figlia dionea  Mi disse: utile è a noi quelPòpra ìstessa che in se desta vergogna. A voi si sveli. Donne, ogni fatto. I varj atteggiamenti  Noti vi sien, che a tutte non conviene la medesma figura. Tu che sei pel volto insigne, giacerai supina quella che ha bello il tergo, il tergo mostri. Recava Melanion sulle sue spalle le gambe d’Atalanta; se sian belle. Si dee imitare allora un tale esempio. Porti il cavai pìccola donna ; avéa  statura immensa la tebana sposa; Suirettoreo cavai però non giacque. Quella che può mostrare un lungo fianco prema con le ginocchia il letto e alquante ritorca la cervice chi le membra  Ha giovanili, e senza macchie il seno mentre l’uomo sta in piedi, ella corcata  giaccia obliqua sul letto nè già turpe  Credete scioglier qual Baccante il crine.  (OS) XeSpoifk tsUoa ^ 4fl4rQmcé mQglk E ondeggiando i capei, piegate il collo.  Tu pure, a cui la pronuba Lucana macchiò il ventre di rugh , imita il l’arte Quando combatte sul cavai fugace, Ben mille son di Venere le foggie, ma la piò facil, di minor fatica  È quella, in cui semisupina giace  Sul destro fianco, I Tripodi febei, O il cornigero Ammon cosa piò vera Non conteran di quel che or la mia Musa-  se Parte , che ci costa un lungo studio, merita fè, credete, ancor che i carmi  Nostri eccedano forse ogni credensà  Venere abbrugi le'midolle e l’ossa delle donne, e sia caro ad ambedue  Lo scambievol piacer. Un mormorio dolce, e parole lunsinghiere e grate  non manchino, nè tacita si stia in mezzo ascari scherzi unqua la donna, tu , cui d’amor negò natura il gaudio, finger lo devi con mendace suono; Lucina è un nome di Giunone, la quale presiede a matrìmon) ed apparti,  i Greci dopo d^ a^er ointo i Persiani nella  battaglia di Platea, levarono una decima suUe spoglie per fare un Tripode d’oro eonsagrato ad Apollo,  Ateneo lo chiama il tripode della verità perchè si  ritrovavano verissimi gl’oracoli di questo dio, Ammone è un soprannome di Giove, Quinto Curzio fa menzione del magnifico Tempio che gli fu edificato nella Libia, La sua statua avea la figura d’a-  liete , e però si chiama cornigero Ammone. Dava essa  de certi oracoli a chi la consultava , ed era a guisa  d’un automa, che crollava la testa per additare a sacerdoti la strada, che dovean fare quando la portavano in processione. Ben infelice e miseranda donna  È quella, che a sa stessa ìnntil tragga unutile pèr l’uomo i giorni suoi. Mentre e#ò fingerai, che non ti scofira  Cerca, é col moto, fin con gl’occhi stessi  procura d’ingannar. Faccian palese un frequente respiro e dolci accenti quello che giova. Termini novelli  Sa la donna inventare in quegristanti quella, che chiede dopo il gaudio i doni, non sia molesta almen con le preghiere.  Nè il pieno giorno introdurrai nel talamo chè giova a voi tener del corpo vostro molte cose celate. Ha fine il gioco. È tempo ornai di scendere da’Oigni che sul collo guidaro il nostro cocchio, e come fero i giovanetti un giorno, così la turba delle donne scrìva sulle spoglie, Nason ci fu maestro. Gianni Carchia. Keywords: ars amandi, erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi, Ovidio, arte amatoria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cardano: l’implicatura conversazionale del valore civico di Melanippo -- Caritone -- the tasteful Milanese maschi – prospero -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo italiano. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic by Cardano is what he calls, well, his Italian translators call – recall that Italian philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which is what conversation is – what is conversation is not a game of azzardo? But Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud – Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli (“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan equivalent to ‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a little medal of Cardano: not so much for his very Roman nose (charming as it is) but for the backside, which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica figura del Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità, coefficiente binomiale e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale invenzione dell’ implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache permette il moto libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del funzionamento del giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos scio esse immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito come funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella matematica tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di geometria.  Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara Micheri (o de Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con la famiglia del defunto marito, una relazione clandestina che porta al concepimento di un quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega un suo amico di Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara come governante nella sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli morirono quasi contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire, senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto nella sua autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi sono stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari. Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.  Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente, pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del filosofo.  Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate. Ottenne la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di Francia e della regina di Scozia.  Colpito da un doloroso avvenimento riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, C. fu messo in carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno infamante (coram congregationem). Si sottopose docilmente alla abiura promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non pubblicare altre opere.  Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina, scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli, che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della numerologia, del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il contenuti moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato. Vuole arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così che la nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di elaborare  Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei "miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a Cristo.  Il contributo in matematica  Noto soprattutto per i suoi contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente questi sostenne che C. aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. C. sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La soluzione della equazione cubica è detta comunque di C.-Tartaglia. L'equazione quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di C.. Nella prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva contestato l'anatomia galenica, spinse C. a definire Galeno un cattivo interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca: eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un personaggio molto simile a C. ed inoltre una prova della sua perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta inoltre svariati meccanismi tra i quali:  la serratura a combinazione; la sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate  in una illustrazione navale. L'invenzione di questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di C.. Altre opere: Della sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma – segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae” che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni empiriche e delle sue speculazioni occultistiche.  Della sua produzione filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:  De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia (medicina). Practica arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta  (politica).  Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero raccolte e pubblicate a Lione  in 10 volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto  "G. Cardano" della sua città natale, nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese.  La blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di terzo grado"  Il Rinascimento. Omeopatia e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della "Tempesta”  somiglia tanto a Cardano in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita” (Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano, Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume 1  Frontespizio  Lettera dedicatoria  Praefatio  Vita C. per Gabrielem Naudaeum  Testimonia  Elenchus generalis  Index librorum tomi primi  Previlege du roy 1De vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia De ludo aleae  De uno Hyperchen. Dialectica Contradictiones logicae Norma vitae consarcinata, sacra vocata Proxeneta De praeceptis ad filios De optimo vitae genere De sapientia De summo bono De consolatione Dialogus Hieronymi Cardani et Facii C. ipsius patris Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione Dialogus Tetim seu de humanis consiliis Dialogus Guglielmus seu de morte De minimis et propinquis Hymnus seu canticum ad Deum De utilitate ex adversis capienda De natura Theonoston seu de tranquilitate Theonoston seu de vita producenda Theonoston seu de animi immortalitate Theonoston seu de contemplatione Theonoston seu hyperboraeorum historia De immortalitate animorum De secretis De gemmis et coloribus De aqua De vitali aqua seu de aethere De aceti natura Problemata Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto Discorso del vacuo  De fulgure De rerum varietate De subtilitate In calumniatorem librorum de subtilitate (Archivio)  Indice rerum De numerorum proprietatibus Practica arithmeticae Libellus qui dicitur, Computus minor Ars magna Ars magna arithmeticae  De aliza regula Sermo de plus et minus Geometriae encomium Exaereton mathematicorum De proportionibus Operatione della linea Della natura de principii et regole musicali De restitutione temporum et motuum coelestium De providentia ex anni constitutione Aphorismorum astronomicorum segmenta septem In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum De exemplis centum geniturarum Geniturarum exempla  De interrogationibus De revolutionibus De supplemento almanach Somniorum synesiorum Astrologiae encomium Medicinae encomium De sanitate tuenda Contradicentium medicorum De usu ciborum De causis, signis ac locis morborum De urinis Ars curandi parva De methodo medendi De cina radice De sarza parilia Disputationes per epistolas liber unus De venenis In librum Hippocratis de alimento commentaria In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria In septem aphorismorum Hippocratis commentaria In Hippocratis coi prognostica commentaria In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria Examen aegrorum Hippocratis Consilia De dentibus De rationali curandi ratione De facultatibus medicamentorum De morbo regio De morbis articularibus Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen Avicenna  Vita Ludovici Ferrarii Vita Andreae Alciati De arcanis aeternitatis  (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber unus Elementa Graeca inventione De naturalibus viribus De musica Artis arithmeticae tractatus de integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini In libros Hippocratis de victu in acutis commentariaIn libros epidemiorum Hippocratis commentaria De epilepsia De apoplexia De humanis civilibus successionibus (Paralipomena)  De humana perfectione (Paralipomena) Peri thaumason seu de admirandis Paralipomena De dubiis naturalibus (Paralipomena) De rebus factis raris et artificiis  humana compositione naturalium De mirabilibus morbis et symptomatibus (Paralipomena) De astrorum et temporum ratione et divisionibus Paralipomena De mathematicis quaesitis Paralipomena Historiae lapidum, metallicorum et metallorum (Paralipomena) Historiae animalium Historiae plantarum De anima De dubiis ex historiis (Paralipomena) De clarorum virorum vita et libris (Paralipomena) De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente (Paralipomena.  De vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata, sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione. Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium. Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva. De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus. Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De naturalibus viribus. De musica. Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In libros Hippocratis de victu in acutis commentaria. In libros epidemiorum Hippocratis commentaria. De epilepsia. De apoplexia. Paralipomena. De humanis civilibus successionibus. De humana perfectione. Peri thaumason seu de admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus factis raris et artificiis. De humana compositione naturalium. De mirabilibus morbis et symptomatibus. De astrorum et temporum ratione et divisionibus. De mathematicis quaesitis. Historiae lapidum, metallicorum et metallorum. Historiae animalium. Historiae plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De clarorum virorum vita et libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente. Melanippus and Chariton Italy Greek athletes  Lovers separator. Hieronymus the peripatetic says that the loves of youths used to be much encouraged, for this reason, that the vigour of the young and their close agreement in comradeship have led to the overthrow of many a tyranny. For in the presence of his favorite a lover would rather endure anything than earn the name of coward; a thing which was proved in practice by the Sacred Band, established at Thebes under Epaminondas; as well as by the death of the Pisistratid, which was brought about by Harmodius and Aristogeiton. "And at Agrigentum in Sicily the same was shown by the mutual love of Chariton and Melanippus - of whom Melanippus was the younger beloved, as Heraclides of Pontus tells in his Treatise on Love. For these two having been accused of plotting against Phalaris, and being put to torture in order to force them to betray their accomplices, not only did not tell, but even compelled Phalaris to such pity of their tortures that he released them with many words of praise.  "Whereupon Apollo, pleased at his conduct, granted to Phalaris a respite from death; and declared the same to the men who inquired of the Pythian priestess how they might best attack him. He also gave an oracular saying concerning Chariton - 'Blessed indeed was Chariton and Melanippus, Pioneers of Godhead, and of mortals the one most beloved. M/M: Chariton and Melanippus, Blessed Pair: Athenaeus, Deipnosophistae. Like the Athenian couple Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as symbols of political freedom. Felix & Chariton & Melanippus erat, mortalium genti auctores coelestis amoris. εὐδαίμων Χαρίτων καὶ Μελάνιππος ἔφυ, θείας ἁγητῆρες ἐφαμερίοις φιλότατος. Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by Iohannes Schweighaeuser Chariton & Melanippus were blessed;  Pinnacle of holy love on earth. ATHENAEUS MAP: Name: Athenaeus Works: Deipnosophists    REGION  4  Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans BIO:  Timeline:   Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis (modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of otherwise lost authors, including the poetry of Sappho. ROMAN GREEK LITERATURE  ARCHAIC; GOLDEN AGE; HELLENISTIC; ROMAN; POST CONSTANTINOPLE; BYZANTINE:M/M: Melanippus and Chariton, Two Lovers of Freedom Athenaeus, Deip. XIII.78 Like the Athenian couple Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton are also seen as symbols of political freedom. ut ait Heraclides Ponticus in libro De Amatoriis. Hi [Melanippus & Chariton] igitur deprehensi insidias struxisse Phalaridi, & tormentis subiecti quo coniuratos denunciare cogerentur, non modo non denuntiarunt, sed etiam Phalarin ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt, ut plurimum collaudatos dimitteret.   ὥς φησιν Ἡρακλείδης ὁ Ποντικὸς ἐν τῷ περὶ Ἐρωτικῶν, οὗτοι φανέντες ἐπιβουλεύοντες Φαλάριδι καὶ βασανιζόμεναι ἀναγκαζόμενοί τε λέγειν τοὺς συνειδότας οὐ μόνον οὐ κατεῖπον, ἀλλὰ καὶ τὸν Φάλαριν αὐτὸν εἰς ἔλεον τῶν βασάνων ἤγαγον, ὡς ἀπολῦσαι αὐτοὺς πολλὰ ἐπαινέσαντα.   --Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by Iohannes Schweighaeuser. According to The Lovers by Heraclides of Pontus, [Melanippus and Chariton] were caught plotting against Phalaris. Even when they were tortured to provide the names of their accomplices, they refused. Moreover, their plight moved Phalaris’ sympathy to such an extent that he praised them and released them. ATHENAEUS  MAP:  Name:  Athenaeus Works:  Deipnosophists     REGION  4  Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans    BIO:  Timeline:   Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis (modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of otherwise lost authors, including the poetry of Sappho.  ROMAN GREEK LITERATURE  ARCHAIC; GOLDEN AGE; HELLENISTIC; ROMAN; POST CONSTANTINOPLE; BYZANTINE. KrisArmodio, che viene riparato dal braccio sinistro del compagno più adulto. Quel gesto inavvertito o solo genericamente descritto dalle letture critiche, tese più che altro alla considerazione dei principali contenuti politico-encomiastici del gruppo si fa segno leggibile invece di una categoria interiore trasversale a tutte le epoche e alle geografie e tanto presente nello spirito antico quanto nel nostro: l'omoaffettività. Un uomo della fine del VI secolo a.C., chiamato Aristogitone, che aveva affrontato un rivale, oggi potrebbe chiamarsi Marco, Francesco o Giovanni, e compiere un medesimo atto, allungando poi un braccio come uno scudo su altri Armodio, dai nomi di Mario, Alessandro e Franco, per la reciprocità, l'attaccamento, il calore e il mutuo soccorso che il sentimento di essere in due sempre realizza. Quel gesto del braccio, inventato da Nesiotes e Kritios, fissa dentro un modello di valore civico per la retorica libertaria il segno di un amore.  Armodio e Aristogitone tirannicidi ateniesi Lingua Segui Modifica Armodio e Aristogitone (in greco antico: Ἁρμόδιος, Harmódios e Ἀριστογείτων, Aristoghéitōn) furono gli ateniesi tirannicidi che cercarono di porre termine al potere personale della famiglia di Pisistrato.   Statua di Armodio e Aristogitone, Napoli. Copia romana di originale greco perduto Sono noti come "i tirannicidi" per antonomasia, che assassinarono il tiranno di Atene Ipparco, ma vennero a loro volta uccisi dal fratello di costui, Ippia.  AntefattoModifica Pisistrato riuscì nel 534 a.C., dopo vari tentativi (meno riusciti) negli anni precedenti, approfittando delle tensioni che laceravano la città di Atene, ad assumere su di essa un potere personale. Pisistrato fu un tiranno,[1] prese il potere con la forza, ma, a giudizio unanime degli storici, fra i quali Erodoto, Tucidide e Aristotele, non ne abusò per modificare le istituzioni di cui la città disponeva e governò più da cittadino che da tiranno.  Quando morì nel 527 a.C.-528 a.C., i suoi figli Ippia e Ipparco gli succedettero. Ippia, il figlio maggiore, tese a continuare nella politica paterna, mentre Ipparcoebbe un ruolo minore nella tirannide, ma l'atteggiamento del regime mutò profondamente in seguito alla fallita cospirazione.  I fatti si svolsero a quattordici anni dalla morte di Pisistrato. Tucidide racconta che a far scattare la messa in atto della congiura vi furono motivi personali di tipo sentimentale. Ipparco s'invaghisce del giovane Armodio che, secondo quanto racconta lo storico Tucidide, "era allora nel fiore della bellezza giovanile", dal che si deduce che doveva avere 15 anni. Armodio era l'eromenos(giovane amante) di Aristogitone, descritto da Tucidide come "un cittadino di mezza età" - probabilmente aveva 35 anni - e appartenente ad una delle vecchie famiglie aristocratiche.  Le relazioni sessuali fra un uomo più anziano (l'erastès) e un giovane non erano di costume sanzionate ad Atene ed altre città greche, sebbene tali rapporti non fossero omosessuali nel moderno senso della parola, ma pederastici. Certe relazioni erano governate da severe convenzioni, e le azioni di Ipparco per cercare di rubare l'eromenos di Aristogitone erano un deciso affronto alle regole (Tucidide dice aspramente che Aristogitone "era il suo amante e lo possedeva").  Armodio rifiutò Ipparco e raccontò ad Aristogitone cos'era successo. Ipparco, rifiutato, si vendicò ottenendo che la giovane sorella di Armodio fosse esclusa dalla cerimonia di offerta alle feste Panateneeaccusandola di non essere sufficientemente nobile. Questa offesa fu così grande per la famiglia di Armodio che egli decise di assassinare, con la complicità di Aristogitone, sia Ippia che Ipparco e rovesciare la tirannia.  L'uccisione di IpparcoModifica Il piano - che doveva essere portato a termine con pugnali nascosti nelle corone di mirto cerimoniali - coinvolgeva anche un certo numero di cospiratori, ma vedendo uno di questi salutare amichevolmente Ippia il giorno fissato, i Tirannicidi pensarono di essere stati traditi ed entrarono subito in azione, senza rispettare l'ordine che si erano dati. Riuscirono così ad uccidere Ipparco, pugnalandolo a morte mentre stava organizzando le processioni delle Panatenee ai piedi dell'Acropoli, ma perirono per mano delle guardie del tiranno senza scatenare ribellioni.  Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, tramanda una tradizione che vede la morte di Aristogitone avere luogo solo dopo una tortura volta alla speranza che questi indicasse il nome degli altri cospiratori. Durante la sua agonia, personalmente sovrintesa da Ippia, questi finse benevolenza affinché egli tradisse i suoi cospiratori, sostenendo che la sola stretta di mano del tiranno sarebbe bastata per garantirgli la salvezza. Nel ricevere la mano di Ippia si dice che Aristogitone l'abbia criticato per aver stretto la mano dell'assassino di suo fratello, al che il tiranno cambiò immediatamente idea e lo uccise sul posto.  Allo stesso modo, una tradizione dice che Aristogitone fosse innamorato di una etera dal nome di Leaena(leonessa) che era ugualmente tenuta in tortura da Ippia - in un vano tentativo di costringerla a divulgare i nomi degli altri cospiratori - finché questa morì. Si diceva che era in suo onore che le statue ateniesi di Afrodite furono da allora accompagnate da leonesse [secondo Pausania].  L'assassinio del fratello portò Ippia a stabilire una dittatura ancora più severa che fu molto impopolare e che venne rovesciata, con l'aiuto di un esercito proveniente da Sparta, nel 510 a.C. Questi eventi furono seguiti dalle riforme di Clistene, che stabilì in città la democrazia.  La fama successivaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Gruppo dei Tirannicidi. La mitologia successiva venne così ad identificare le figure romantiche di Armodio e Aristogitone come martiri della causa della libertà ateniese, e divennero noti come i Liberatori (eleutherioi) e Tirannicidi (tyrannophonoi). Secondo scrittori successivi, ai discendenti di Armodio e Aristogitone furono concessi privilegi ereditari come la sitesis (il diritto di mangiare a spese pubbliche al palazzo del governo cittadino), l'ateleia (esenzione da certi doveri religiosi), e la proedria (posti in prima fila a teatro). Visto che non si sa se Armodio abbia avuto discendenti (è inverosimile che li abbia avuti anche Aristogitone), questa potrebbe essere un'invenzione seguente, ma illustra la loro fama postuma.  La storia di Armodio e Aristogitone, e come venne trattata dai successivi scrittori greci, è dimostrativa dell'attitudine nei confronti dell'omosessualità al tempo. Sia Tucidide che Erodoto dicono che i due erano amanti senza commentare il fatto presumendo la familiarità dei loro lettori con tale pratica sessuale istituzionalizzata senza trovarvi stranezze.  Nel 346 a.C., per esempio, il politico Timarco fu perseguito (per ragioni politiche) per il fatto che si era prostituito. L'oratore che lo difendeva, Demostene, citò Armodio e Aristogitone, così come Achille e Patroclo, come esempi degli effetti benefici delle relazioni omosessuali.  NoteModifica ^ Con la celebre spiegazione di Cornelio Nepote, nel mondo greco veniva chiamato tiranno chi era signore di una città precedentemente libera Voci correlateModifica Omosessualità militare nella Grecia antica Omosessualità nell'Antica Grecia Pederastia greca TirannideAristogitone e Armodio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Armodio e Aristogitone, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.La storia di Armodio e Aristogitone. Da: Projet Androphile.  Portale Antica Grecia Portale Biografie Portale LGBT PAGINE CORRELATE Ipparco (tiranno) tiranno di Atene, figlio di Pisistrato  Ippia (tiranno) tiranno di Atene, figlio di Pisistrato  Leena di Atene etera ateniese --se Sive Oeconomia omnium Operum Hieronymi Cardam, forum.  Signum  t prifixum, ea  denotat, qui modo in Iuccm prodeunt. PHILOLOGICA, Logica, Moralia.Vita propria, Libet. Ephemerus, de Libris proprii». SPe|[)K  De  Libris propriis,  eoruaaquevfu.exeditRovilliji   IV.  ltMriijs'  De  Libris propriis et eorum usu, ex  edit. Henricpetr. V Aeca De Socratis (ludio. Oratio ad Cardinalem Alciatum,  (ive  Tricipitis  Geryonis , aut Canis Cerberi. In Theffalum Medicum, Attio secunda. Encomium  Neronis. Encomium  Podagri.  Mneroofynon. De Orthographia. De  Ludo  alel. DIALETTICA. Contradictiones logici. De  Vno. Hyperchen. Norma viti confarcinata.facra  vocata.  Proxeneta,  feude Prudentia  ciuili. De  Priceptis  ad filios. De Optimovitx genere, De Sapientia. De Summo bono. De Consolatione. Dialogus Hieton. Cardani, et Facij Cardam patri».  Dialogus Antigorgias, feu De retta vivendi ratione. Diaiogus Tetim, feu De humanis confiltii. Dialogus De morte, feo Guglielmus. De Minimis & propinquis. Hymnus, feu Canticum ad Deum, Moralia quidam, Physica. Vtilitate ex adversis capienda. De Natura, Thconofton de Tranquillitate. Dialogus de Vita producenda, feu Thconofton Thconofton. dc  Animi  immortalitate.  Thconofton feu de Contemplatione.  MTheonofton  seu  Hyperboreorum.  De Immortalitate  animorum. De Secretis. De  Gemmis,  & coloribus.   De Aqua. Dc Vitali aqua, seu  aethere. De Aceti natura. Problematum  fc&ionesfcptcm. Discorso del Vacua. Se la qualita puo trapaliare di subbietto in subbietto. Dc fulgure. Physica. De subtilitate. Aftio prima in Calumniatorem librorum dc Subtilitate. DcKcrum varietate. Arithmetica, Geometrica,  Mufua. t 1 A E Numerorum  proprietatibus, Pradtira  Arithmetica. Computus  minor. Artis magnx, sive de Regulis Algebraicis. Liber Artis  magnx, five  quadraginta  capitulorum, Si quadraginta quxftionum. De Aliza regula. Sermo de plus  fcminus. Exxreton mathematicorum. Encomium Geometnx. Operatione della linea, De Proportionibus numerorum, motuum, ponderum, f onorurm, Delia natura deprincipij, e regolo  Muficali. AJlronomica, AJlrologica, Onirocritica, DE Reftitutione temporum & motuum cacleftium. De Prouidentia ex anni conftitutionei Aphorifmotum Aftronomicorum fegmenta feptem. Commemarij in Ptolcmxum, de  Aftrorum  judiciis. De  feptem  Erraticarum  ftellarum  viribus. De  Interrogationibus. De ludiciis geniturarum. De Exemplis cdhtum geniturarum. Liber duodecim  genurarum. De Revolutionibus. De fupplemento Alraanach. Somniorum Synefiorum libri. Medicinalium  primus. Ncomiutn Medicini, De Sanitate tuenda. Contradicentium Medicorum Ubii duo, olim' impreffi, nunc audtiores. Contradicentium  Medicorum  Libri  o&opofteriores,  nunc  primum in lucem emergentes. Medicinalium fecundus.  LVfu ciborum. De Causis, Signis, ac locis morborum. De Vrinis. Ars curandi parva. De Methodo medendi, fettiones tres priores.dempta quarta que Confilia quidam  continebat, fuo loco redituta.  De Radice Cina- De Cyna radice, seu de Decodis magnis. De Sarza parilia.  De Oxyinelicis usu in plcuritide. De Venenis Commentarij  in  librum  Hippoc.  de  Alimento. Medicinalium  tertius. Commentarij in librum Hippocr. De Aere, aquis, et locis. Commcntarij in Aphorismos  Hippocratis. Conclufiones  de  Lapidibus  Galeni  in  explicatione Aphorifmoru. Apologia ad Andream Camutium. Commcncarij in lib. Prognofticorum Hippocrati. Medicinalium quartus  & poliremus. Commentarij  in  lib. Hippocr. De Septiroeftri partui   Examen  agrorum  Hippocr. in Epidem. Lonliha varia partim  edita,  partimhaidenusanecdota. Opufcula  Medica  lenii  ia, (eu  de  dentibus   De  Dentibus, liber cjuintus, seu de morbis articularibus. Floridorum s ive Comtnent. in Principem Hazen.Vita Ludovici Ferranj, et Alciaci. Miscellanea, ex  Fragmentis, & Paralipomenis: L fragmenta.  EArcanis xternitatis,tractatus. Politica, seu Moralium, Laber vnus. Elemehta lingua: Grscx. De Inventione.V.  t De Naturalibus viribus, traftatus. De Musica. De Integris, traftatus Arithmeticus. Expositio Anatomix Mundini-Commentarij in libros Hippocr. de Viftu in acutis. Commentarij in duos libros priores Epidem.Hippocr. De Epilcplia, traftatus. De Apoplexia. PARALlFOMENON Itbri. De humanis ciuilibus fucceffiombus. De humana perfectione. HI. tn«o', feude Admirandis.De dubiis naturalibus, De rebus  faftis  raris  ,&  artificits.M.S.  De  humana  compolitione naturalium. De mirabilibus  morbis  Stfymptomatibus. Deaftrorum & temporum  ratione et divisionibus. De mathematicis quxlitis. Historix lapidum, metallicorum et metallorum. Hiftorix  animalium. Hiftorix  plantarum. De anima. De dubiis ex hiftoris. De clarorum virorum  vita  Selibris. De hominum antiquorum illuftrium judicio. De vfu hominum, et dignotione eorum, tum cura Sc errore. De sapiente. Hieronymus Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio – maschile, Prospero, De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum, ten volumes of “Opera omnia” analytic index – he wrote about almost everything – including logic, dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia, same-sex, he criticised Galenus for not realizing the distinction that at 14, a puer becomes an adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity studies – masculinity Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese males were ‘tasteful’ and underrated compared to Milaenese or Florentine males – he lived all over the place – he had many tutees, whose names survive – he was possibly paranoid – Silvestri was his best known tutee –analytic index of “Opera Omnia” --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Cardano: l’implicatura conversazionale del Pietro della Lombardia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lumellogno). Filosofo italiano. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called Harborne, and Petrus Lombardia!” --  Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste una lapide su di una casa che risorda il luogo della nascita), all'inizio del XII secolo. Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì una perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Si recò a Reims e poi a Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo si recò alla corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per incarico di Eugenio III. Quasi certamente è uno dei teologi che nel sinodo parigino presero posizione contro Porretano.  Dopo un breve episcopato morì. Il suo epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione francese. ALIGHIERI (si veda) lo nomina in Paradiso. Oltre ai commenti all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber Sententiarum (Libro delle Sentenze), per la quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità, diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e l'elaborazione letteraria nello stesso campo. Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi che normalmente non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide ortodoxa di Damasceno.  Con la sua opera il Lombardo tenta di sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze non appartiene alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia esegetica.  Il testo si divide in quattro parti:  la prima tratta di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato originale; la terza dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia; la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o stile letterario col quale egli opera una volontaria mimesi.  Il testo venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò contrastava con la determinazione di origine boeziana per la quale la natura cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di divino ed umano. Note  Per approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Abbagnano, Storia della filosofia, Torino, Pomba, e Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998)  Nicola Abbagnano, Storia della filosofia,  II, pag. 37 e seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia  I, II, III, quarta edizione, Torino, Pomba, e Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba); Colish, C., Leiden, Brill; C. Atti del Convegno: Todi, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull'alto Medioevo, Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di "Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia) C. su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Pelster, Pietro Lombardo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su Enciclopedia Britannica, Siri, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia; C., openMLOL, Horizons Unlimited, C.,  Les Archives de littérature du Moyen Âge; C.  Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Rovighi, C., in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, C., Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici analitici.Chisholm, C., in Enciclopedia Britannica, Cambridge; Illustrare 'k iSlosofia di C.  finora casi trascurata dagli' storici della filosofia è im lavoro del tutto  nuovo spedialmente per lltalia. Protois affe!rim»a decisamente che C.  non è un filosofo, Thaureau ch'egli è il principe degl’indifferenti in materia fìlosofica. Entrambe le asserzioni  sono affrettate. Solo in Germania C. venne studiato con maggior serietà e con particolare attenzione! Kogel pubblica a Lipsia una monografia su C. Questa però parve confusa ed inesatta ad Espenberger che intraprese un studio acuratissimo della filosofia di C. e della posizione sua nel Beitràge zur Geschichte der Philosophie  des Mittelalter diretti da BàumJcer e Herttìng. Di tale pubblicazione mi servii in special modo [Notre auteur ne fui donc pas un philosophe.] De la philosophie scolastique — Paris, [Cesi lui qua notes reconnaissons corame le chef des indiffèrents en matière de philosophie.  C. in s. Stellung z. Phil. d. Mittelal, Leipzig. Die philosophie des C. und ihre Stellung im  vwblften Jahrhundert. Aschendorffschen Milnster] per questi miei appunti sulla filosofìa di C. sebbene mi pervenisse al momento di stenderli e troppo lardi  per farne Fesaane minuto che essa si merita. Poiché è veramente questo il primo saggio che si occupa con severa  e profonda indagine critioa della filosofia  del Maestro delle Sentenze. L'autore dimostra una profonda conoscenza delle opere patristiche e delle scritture sacre  colle quali esercita opportuni raffronti. Egli non si è poi  solo limitato all'esame del Libro delle Sentenze, ma ha  giustamente esteso le sue indagini alle altre opere meno conosciute di C. e pure ricche di impvortanti digressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei  Salmi detto anche Salterio, ed i Commentarli alle Epistole di S. Paolo. Solo non ha tenuto conto dei Sermoni che sottio tra le cose più interessanti se non più belle del Sentenz.iario, pur nel severo giudizio di Hanreau e Bourgain, di cui Protois ha tratto dai mss. degli utili  estratti mentre se ne trova l'intero testo con poche varianti  nelle Opere Omnia del vescovo Ildeberto. Essi sono utili  per completare la figura intellettuale di C. Del quale a questo punto ripeleremo le parole: sed  terrei immensitas laboris. In verità quantunque grande  sia la nostra buona volontà non ci dissimuliamo la vastità  del lavoro intrapreso : onde lo restringeremo entro i limiti  a noi concessi, raffigurandoci un poco a quello spigolatore  che move fidente sulle orme dei più abili mietitori pago di  fare un piccolo fascio delle spighe dimenticate.  HAUREàU Not. et Extr. t. Ili p. 49.  BouBGAiN. La chaire firancaisc au XII siede Paris,  cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol.). I Padri della Chiesa iniziarono la filosofia oristiana,  ma in forma espositiva, avendo ripugnanza a sottopome troppo minute dimostrazioni le verità rivelate. È secondo il pensiero di Gregorio una profanazione fassoggettare il verbo divino ALLE REGOLE DI DONATO. Ma quando, prima chei si diffondessero per tutta Europa le  opere di Aristotile, si attese a studiare con amore i libri dell’Organum tradotti da BOEZIO, si accede quella tendenza già iniziata nei secoli antecedenti a fortificare il dogma col sillogismo e l'autorità della ragione. Da questo connubio della teologia colla dialettica del LIZIO nasce la scolastica la quale se ha i suoi precursoiri  nei primi secoli del cristianesimo non riconosce i suoi veri  fondatori che nel secolo di Abelardo e di C. Essa nasceva per una necessità di rendere più conformei la  fede al sapere più progredito. E se da una parte non cessa di fiorire la .scuola dei mistici con Bernardo e gli    Ai tempi di Abelardo e di C. non si possede altro d'Aristotile che la logica, cioè ciò che si chiama l'Organum e  comprende: le Categorie coll'introduzione di Porfirio, l'Ermeneutica, gl’Analitici, i Topici, la Sofistica nella traduzione di Boezio,  (Cousm — Fragments philosophiques Paris)  abati Ugo e Riccardo di S. Vittore, da un'altra il mal compresso bisogno di libertà di pensiero apre la via ad  interminabili dispute quali giungevano talvolta ad intaccare il dogma, come accadde per Abelardo. C.  apparve come moderatore tra le due opposte tendenze: la  mistica e la speculativa, e valendosi dello stesso metodo dialettico usato dagli avversarti eerli si propose di dimostrare come le apparenti contraddizioni che si rileivano nelle Scritture sacre e patristiche rischi'arate dalla ragione riconducono a rinvigorire maggiormente te verità  della fede. C. però nel Prologo delle Sentenze si scaglia contro coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la ragion sommettono al talento, traduce ALIGHIERI, e vogliono  fare credere per verità, i sogni di lor mente inferma. Qui non irationi voluntatem subiiciunt, nec doctrinae studium impendunt, sed his quae somniarunt sapientiae verba coaptare nituntiu, non veri sed placiti etiam  sectantes. C. è dunque tenuto dallo stesso compito che egli si era pronosto, cioè di dimostrare cHte nelle  scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni ragionamento umano si riduce in ultima analisi a dimostrarne la veracità assoluta, a non imporra egli stesso nuove e diverse dottrine le auala lo avrebbero condotto fuori della sua serena imparzialità. Se ciò si possa chiamare indifferentismo io non so, poiché il Maestro delle  Sentenze non sdegna di entrare e di approfondirsi nelle più minute distinzioni e controversite fìlosofìche, cosi care  ai suoi tempi, sforzandosi con passione di ricavarne le verità da lui srià piresupposte. Nella sua umiltà che diventò poi lefir-srendaria esrli preferisce lasciar la parola affli altri,  a Gerolamo, ad Ambrogio, e specialmente ad Agostino che è il stio autore preferito come quello che suipera  tutti srli altri padri per profondità di vedute e copia d’argomenti nelle questioni fondamentali del dogma. Ma non  è vero che il Maestro rimanga empire nascosto e non ap-  [Questi ultimi conobbero oltre Aristotile anche Platone a cui  sembrano dare la preferenza e non furono del tutto stranieri alle  vedute dei neoplatonici. V. Bòbba La dottrina dell’intelletto in  Aristotile e nei 8140Ì pie illustri commentatori; paia di tratto in tratto a mostrarci la via da seguire, per  non perderci nel djedalo inestricabile delle questioni.  JJei «resto i più che hanno parlato di C.  si sono aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze: non  hanno letto i suoi lunghi e lucidi Commentarii alle Epistole  di Paolo, e neppure quelli ai Salmi che egli riunì sotto  il titolo sintetico di Psaterium, nom^ i sjuoì ispirati Sermoni  che si trovano manoscritti alla Biblioteca Nazionale di  Parigi, e stampati tra quelli del vescovo Ildeberlo. In tutte  queste opere C. non è solo un puro e disadorno  espositore di dottrine. Certamente il Maestro va considerato precipuamente mei suo saggio delle Sentenze, il quale  lormò testo nelle scuole ed è letto e commentato più della  Bibbia mentre le altre opere vennero più presto dimenticate. Ma anche qui se egli non espone dottrine nuove, ha però il merito grande e riconosciuto da  tutti gli storici della filosofia di distribuirle con metodo razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle altre. Metodo già sperimentato con altro intento d’Abelardo, ma  dal Nostro condotto a singolare perfezione. Egli slesso sull'autorità d’Agostino, espone l’ordine col quale si deve disputare.  (Sent.): Gaeterum, ut in primo libro de Trinitate Augustinus  docet, primo secundum auctoritates Sanctarum Scriptura-  nim utrum fides ita ee habeat demonstrandum est. Deinde  adversus gamilos ratiocinatores elaliores magis quam  capaciores, rationibus catholicis et similitudinibus congniis  ad defensdonem et assertioneim fidei utendum est; ut eorum  inquisitionibus satisf<icientes, mansuetos plenius instrua-  mus et illi si nequiverunt invenire quod quaerunt, de suis  menlibus polius quam de ipsa veritate vel de nostra assertione conquerantur. . Il Deniflb in Carivi, Univer. Paris IntrodttcHo Methodus Abaelardi in IHo etiam opere quod in schoh's Theologiae  per aliquot saecula adhibebatur usurpata est, dicimus Sententias  Magistri C.Per queste come per le altre numerose citazioni delle opere  di C. ci serviamo della Patrologia  dil Migne, Paris. Fu in apecia»! modo ai metodo da mi usato che si  deve J'eaiorme diffusione del libro delle Sentenze nelle  scuole. Esso nel mentre veniva a soddisfare la naturiate  curiosità del conoscere ed a dare la spiegazione di molte credenze poneva dei limiti alla libertà del raziocinio. Ma  vienne sempre lasciato un cantuccio alle discussioni intermmabili sulle questioni minori, dalla risoluzione delle quali in un senso o in un altro poco aveva a soffrirne l'ortodossia. yui si esercitavano le intelligenze, inquisitionibus  satisfacientes, SMANIOSE DI SOTTILIZARE e di sillogizzare, con  tanta maggior sicurezza, quanto minore era il pericolo di  intaccare la fede. Lo stesso C. nel suo  saggio non si trattiene dal diffondersi nell'esame di questioni che a noi sembrano del tutto FUTILI e vane come quelle  ad esempio che riguardano la natura degli angeli.  E  non è raro anche il caso che le lasci insolute. Cosi nel  libro I, laddove domanda perchè mentre amare è lo  stesso che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo non  sono in essenza costituiti dell’amore col quale si amaaio  scambievolmente, CONFESSA MODESTAMENTE CHE LA QUESTIONE GLI SEMBRA TROPPO DIFFICILE e che egli si propone più di riportare le dottrine dei Padri che di accrescerle: Diffìcile mihi fateor hanc quaesti onem,  praecipue cum ex praedictis oriatur quaei siniilem videntur  habere rationem quod meaei intelligentiae attendens infirmitas turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre. Il De Vulf, Hist, de la phil. Medievale, Louvain, come  il Dknefle da un troppo reciso apprezzamento. Ces sinthèses thèologiquea, dont la premiere idee semble appartenir  à Abelardo ètaient appellées a un succès immense. Il faut en chercher le secret dans le besoins de la classification et d' orgànisation  qu^on eprouvait devant la masse des materiaux rassemblès, bien plus  que dans l’originante de ceux qui ont appose leur signature a ce  travail de mise en oeuvre. Cosicché il libro fatto per conciliare ogni controversia sembrò  sortire l'effetto contrario. Erasmits in Mattaei I, iP (cit. Da Fabricius,  Bib. m. aevi) e Siquidem apparet illum hoc egisse ut semel collectis  quae ad rem pertinpbant, questiones omnes excluderet. Sed ea res  in diversum exiit. Videmus enim ex eo opere nunquam fìnìendarum  quaestionum non exanima sed maria prorupisse. Flettrt, Hist eccl. Paris]  ri   quam uff erre >k E limsce col coaicmiDa^e.  Eam tameu quaestionjeon leolorum ddligentiae plenius dijudicandam atque absolvendam ireiiinquimus ad hoc minus sufficientes. Perciò l'opera del Sentenziario ha un intento assai  modesto, né presume di sciogliere ogni dubbio e di dirimere ogni questione. Qui il Maestro risentei della scuola  di Abelardo il quale (nel trattato Sic et non riconosceva  ai pastori il diritto di emendare le opere dei dottori della  Chaesa (Migne) « Hoc et ipsi eccleisiastici  dactores attendentes et nonnulla in suis operibus corri-  genda esse credentes posteris suis emendaindi vel non se-  quendi licentiam concesserunt ».   E il nostro C. così dice di sé :   (Sent. in prol.):  In hoc aulem tractatu, non solum  pium leolorem, sed etiam correctionem desidero, maxime  ubi prolunda versatur veritatis quaestio, quae utinam tot  haberet inventores quot habet contradictores ! »   Il libro delle Sentenze dove così riuscire più accetto  giacché il giogo del dogma era imposto alla libera riflessione del pensiero con assai più illuminata larghezza che  non fosse abitudine del passato. Tanto che parve a più  d'uno dei suoi contemporanei la sua dottrina pericolosa e  Giovanni di Goimovaglia potè chiamarlo uno dei quattro labirinti della teologia ponendolo allo stesso livello di Gi-  jDerto Porretano, Pietro di Podtiers, Abelardo.   Scopo di C. è di fare un trattato che  risparmiasse al lettore tempo e fatica. È per rispetto ai  suoi tempi un volgarizzatore della scienza teologica dispersa ne^ libri canonici e negli scritti malagevoli dei Padri  e incompiutamente contenuta nei libri di Abelardo, PuUeyn,  Ugo di S. Vittore. Egli compila una specie di Enciclopedia  teologica ove il lettore avesse a trovare senza sforzo tutto  quanto gli facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo. « JNon igitur debet hic labor cuiquam pigro vel multum  docto videri superfluus, cum multis impigris multisque  indoctìs, inter quos etiam et mihi, sàt necessarius: brevi  volumine complicans Patrum sentias, appositis eonim te-  stimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numero-  sitatem evolvere, cui brevitas quod quaeiritur oBert sine  labore».   E cosi nel distribuire la materia egli seguì un nuovo  ordine sistematico e compiuto non seguito né da Ugo di S. Vittore, né da Roberto PuUeyn, né da Abelardo {Am quali  pure trasse assai dalle sue doltrine) e pose a ciascun ca-  pitolo un titolo per facilitare le ricerche (Sani, in prol.) Ut autem quod quaeritur facilius oc-  currat, titulos quibus singnlarum capitula dislingumitur  praemisimus.     Relijiiooe e scieoza.     Giovanni Scoto Erigena afferma che la teologia e la  filosofia sono una sola e una medesima scienza (1). Ma  giustamente si poa&ono fare a questo punto delle riserve  perché la scuola e la chiesa si accodano nel dire che  l'ordine della ifede non é Tordine della jnagione e che sia  pei filosofi come per i teologi vi sono dei limita al proprio  dominio. Con lutto ciò la ragione e la fede non riusdroTio  mai a vivere completamente separate. Ed a torto credano  alcuni che si cominciò propriamente dalla scolastica a coffiy  ciliare colla scienza la religione. Anche ai primi Padri  della Chiesa piacque di giovarsi di entrambe e Clemente  Dragone, Agostino, sono nello stesso tempo filosofi e  teologi. L'opposizione alla filosofìa come indegna di essere  applicata ai veri divini, non fu più propria e peculiare  dell'età patristica che della scolastica, le quali non sono  già in opposizione, ma Funa é naturale svolgimento del-  l'altra. Questo sforzo di comporre il dissidio ira Taulo-  rità e la speculazione filosofica si continuò per tutta i se^  coli fino al nostro SERBATI che parlando dell età dei Padri  e dei Dottotti scrive. L'uomo allora sentiva altamente che la teologia non  era divisa da luii, e che, sebbene ella travalicasse, per  l'origine e la sostanza, i limiti della natura, passava dal  ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco in*   (1) De praedestinatione (Collection de Mangin). Coniicitur inde veram esse philosophiam veram religionem, conversimque veram religionem esse veram philosophiam, cit. in Coasin Cours  de la phU, I p. 344. feriare ad un altro superiore dello slesso palagio delia  mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli.   La teologia in quell'età era senza contrasto  la conduttrice e la custode di tutte le altre scienze, la signora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato che sarebbe venuto un altro tempo in cui alcuni pensassero doversd la teologia dividere interamente dalla FILOSOFIA? Vediamo ora in quale rapporto si tirovassero le verità  teosofiche colle verità filosofiche nel pensiero di Pier  bombardo.   11 Maestro si attiene in massima alle parole d’Agostino (sup. Joan). Credimus ut cognoscamus, non  cognoscimus ut credamus. E nella distinzione XXII del  libro III, là dove esaminia si Christus in morte fuit homo, e risponde che benché Pietro morì come uomo, tuttavia  era in morte Dio ed uomo, non mortale e non immortale,  e tuttavia vero uomo, dice a coloro che voglioo io troppo  sotìsticare sulla ragione di ciò. Illae enim et Jiujusmodi  argutiae in creaturis locum habent sed fidei sacramentum  a philosophicis est liber. linde Ambrosius (De. fide): Aufer argiimenta, ubi fides guaeritur. In ipsis gymnasìis suis dam dialectica taceat, piscatoribus creditur, non  diaileoticis. Ma questa fede da pescatori però, C. aggiuge più oltre, non è cosa a noi lutto affatto estranea,  peirchè essa non può essere di ciò che l'animo ignora. E qui  egli sente rinllusso del misticismo del suo- protettore. Bernardo e dei Vittorini che primi lo accolsero a Parigi (Sent. Ili dist.). Cum fides sit ex auditu  non modo exteriori sed etiam interiori, non potest esse  de eo quod animo ignoratur. Ancora è necessario fare con Agostino una distinlone. Alcune cose non sono intese se prima non si credono. Ma è pure vero che alcune cose non si possono credere se prima non sono intese, come la fede in Dio che [Opere edite ed inedite di SERBATI Introd. alla Filosofia Casale Tip. Casuccio p« 48 sgg. Per maggiori notizie sul tei-  smo degli scolastici vedi : P. D'Ercole — Il teismo filosofico cristiano Torino  — Pbantl - Geschicte  d. Logik] viene dalla predicazione, e queste pai per la fede intendono di più. Uoc. cil.). Ex his apparet quaedam intelligi aliquando etiam antequam credanlur al nunc eliam per  tldem ampiius intelligìintur linde colligdtur quaedam non credi nisi prius intelligantur et ipsa per fidem  ampiius inleJlegi. Quanto poi alle cose che mima sono credute che  comprese esse non sd ignorano ael lutto perchè anche si  amano (Sen.). Nec ea quae prius creduntur penitus ignorantur tamen ex parte, quia non sciumtur. Creditur ergo quod ignoratur non penitus sdcut etiam  amatur, quod ignoratur. Pensiero ripetuto in AQUINO ed in ALIGHIERI.   In conclusione C. si libra Ira un misticismo ed un razionalismo temperato non sfuggendo alla  contraddizione, ma affronlaaidola. Il suo concetto è quello  che informa in gran parte il cattolicismo. La fede  non distrugge la ragione ma al contrario le da ali più  potenli per sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna  mtendere le parole d’Agostino: Intellectum ualde cana,  e quelle d’Anselmo: Fides quaerens intellectum. Principia rerum inquirenda sunt prius ut earum  notitia plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea). Dell’arti e delle scienza del trivio e del quadrivio,  secondo la celebre classificazione data da Marciano Capella e riprodotta da BRIUZI e da Isidoro, LA DIALETTICA ovverosia la logica che da principio parve una scienza preparatoria avente per ogge'tio più le parole che le cose, acquistò nelle scuole un  tale sviluppo che fini col proporsà i più alti problemi metafisici e diventare la prima delle scienze. Tra questi problemi, il più importante, anzi il fondamentale che sembra  raggruppare sotto di sé tutti gl’altri, ed agitò potentemente l'età di cui parliamo, è il problema degl’universali,  quale LA FILOSOFIA si è posto innanzi in tutti i tempi. Protois scrive che la questione degl’universali ha a suo autore Roiscelino. Ma ciò è per lo meno detto  male. Già Aristotele nel LIZIO si è posto innanzi il problema nelle “Categorie” ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione  della Isagoge di Porfirio tradotta da BOEZIO, esso è pure [Haurbaux — De la philosophie scoi. Paris] enuniciato, ma non risolto, parendo esso al commeintatore  d’Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le parole  Ui Porfirio. M Cosi tralascierò di dire SE I GENERI E LE SPECIA SUSSISTONO o sono soltanto e puramente nei pensieii, se come  bUSbisleaiti sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppure entro le cose seìusibili e con esse coeistenti: essendo troppo grave una tale impresa e rictiiedendo maggiori ricerctxe   Porfirio divide cosi il problema nelle sue III questioni  fondamentali e iu in tal modo che esso è segnalato ai  primi scolastici.  I I generi e le specie sussistono per sé o consistono semplicemente in puri pensieri ? II Come sussistenti, sono essi  corporei od mcorporei ? Ed infine: III sono essi separati dagl’oggetti sensibili o sono contenuti negli oggetti stessi formando con essi qualche cosa di coesistente?  A ragione Porfirio reputa queste questioni di somma difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è condotti nell'alto mare della speculazione, ed ognuna di esse  sembra pod risolversi nelle suprema questione della quaile  tutte dipendono : Che cosa è l’essere?   JNuUa di più naturale che gli scolastici inoltrandosi a  disputare di un tale argomento con molto ardire ed acutezza d mgegno, ma non con pari preparazione filosofica  sollevassero infinite e tempestose discussioni che molto spesso non approdavano ad alcun risultato. Tre furono le scuole principaU che si avviarono ad  una diversa soluzione del problema: quella dei REALISTI, dei NOMINALISTI, dei CONCETTUALISTI. Il nome di realisti è dato  a coloro che  affermano che i generi e le specie -- gli universali insomma -- sono una realtà sostanziale, una vera entità distinta  dall’altre. NOMINALISTI sono detti coloro che negano la realtà di questi universali, e li ritenevano come semplici concezioni astratte del soggetto ricondotte ad una  idea comime per mezzo della comparazione. Ma poiché  questa conclusione, dovendo ammettere che tutto ciò che  v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di significato, flatus vocis, porta alla negazione di ogni  scienza, sorsero i CONCETTUALISTI i quali aggiungeno che  un tale suono, im tal nome rappresenta un pensiero, un  concetto il quale proviene dalla somiglianza  delle  cose diverse: il che non è sostanziale ma è percepito dall’intelligenza umana come inerente a una natura individualmente deiterminata. Dopo che Scoto porta agl;estremi  il realismo, venne Roscelino che parve dirigere la dottrina  del nominalismo contro lo stesso dogma sollevando un grave scalpore nelle scuole.   Poiché, se nulla esiste che non sia individuale, il dogma del divino, uno in tre persone vienne dalla ragione  ricalzato nelle sue basi. È bensì un errore l'uso stesso d’armi dialettiche prò e contro i misteri della fede, perchè  l'ordine della fede non è quello della ragione, ma d'altra parte è un errore rimediabile. Ed a difesa della realtà univereale si leva AOSTA (si veda),  prima abate di Bec in Normandia poi arcivescovo di Cantorberv e Guglielmo di Chamoeaux, il fiero  avversario d’Abelardo. Ed è quella del primo propriamente un realismo mistico, quello del secondo un realismo  scientifico. Abelardo poi è il capo riconosciuto, a volte vincitore,  a volle vinto, del CONCETTUALISMO, col anale si possono trovare molti riscontri nella filosofìa moderna. Quale dove essere l'opinione dei Dottori della  Chiesa in tanto contrasto di idee? Evidentemente nessuna  delle suesposte- se e quando lo notevano. I realisti confondeno le cose con la generalità delle idee, i concettualisti negano il reale fondamento delle idee universali, i nominalisti le idee stesse. I dottori non possono appartenere a nessuna di queste dottrine pericolose. Essi doveno essere tratti a trovare un criterio conciliativo, né  ciò è diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E quale  è questo criterio? La specie non è solamente un concetto. Essa è altresì una cosa, non una cosa in sé, a parte  dell’oggetto sensibie, ma nna cosa facente parte con essi,  formante con essi qualche cosa di co-esistente.  Tale a un dipresso la posizione dei dottori tra le  scuole che divideno i logici disputanti,  corrispondenti sotto altro nome alla scuola dell'idealismo  critico ed alla scuola dell’idealismo trascendentale. Tra questi dottori concilianti che l'Haureau non propriamente chiama indifferenti si trova il nostro Maestro delle sentenze, il quale pero non si occupa espressamente  della questione, ma solo ne tratta per incidenza, ragionando della Trinità nel 1 libro delle Sentenze. Per C.,  l'universale non è come per Guglielmo di Champeaux un  solo essere dappertutto identico  e però difficile a comprendere, ma al contrario colla moltiplicazione numerica dell'individuo diventa anche in essenza tante volle accresciuto. Se l’animale è il genere, dice il Maestro, e IL CAVALLO la specie si avranno III CAVALLI ed anche tre ammali (Sent. I d. XIX, 8) CVM SI ANIMAL GENVS ET EQVVS SPECIES APPELLANTUR III EQVI IIDEMQVE ANIMALIA.  Perciò, quando la specie può dirsi triplice devono  anche essere III gli individui. Tutto dunque si raccoglie  nell'individuo. Ma egli poi aggiunge : SMITH, JONES, WILLIAMS -- Abramo, Isacco, Giacobbe sono  tre individui. Ma, nello stesso tempo, anche tre uomini e  tre animali. Specie e genere non sono quindi forme soggettive, ma un oggetto che è nelle cose poste al difuori di  noi. Ma non si dirà che l'essenza divina è una specie  e le persone individui, come è specie Tuomo e sono individui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché se l’essenza  divina fosse una specie come l’uomo, come non si direbbe  che Abramo, Isacco e Giacobbe sono un sol uomo cosi  non si direbbe una essenza essere tre persone (Sent.)..Sicut enim dicuntur Abraham,  Isaac, lacob, TRIA INDIVIDUA ITA TRES HOMINES ET TRIA ANIMALIA 10: Nec speoies est essentia divina et persona  individua, sicut homo species est, individua autem Abraham, Isaac et lacob. Si enim essentia specìes est ut  homo sicut non dicitur unus homo esse Abraham, Isaac  et lacob. ita non dicitur una essentia esse tres personas. Il Maestro quindi, a mio parere, non nega all’universale un fondamento reale in quanto però va unito  all’oggetto sensibile, ma distingue nettamente le cose  temporali dalle cose divine alle quali NON convengono i  nomi di universale e di partìcdare e le distinzioni della  logica. Abael hist. cai.:Erat antem in ea sententia de communitate universaliam, nt eandem essenti ali ter rem totam simtil singulis  suis inesse astrueret individuis. cfr. Espenberg — Die phil. d C. EsPENBEROER. « Art nnd Gattung sind dem-  nach nicht subjektive Gebilde, sondern objektiv in der una mngebenden Auszenwelt begrìindet »,  Teoria della coi>osc^i>za.     i\el Gommenlario delle Epistole di S. Paolo C. -venendo a parlare delle visioni le distingue 'n  tre generi: corporali, spirituali, intellettuali. E le ultime  sono le. più perfette perchè vedono non cogli occhi corporali ó colla immaginazione, ma per sé stesse. Qui il Maestro viene a toccare sebbene in modo indiretto della conoscenza che noi abbiamo coi sensi corporali, ei di quella  che acquistiamo colla memoria, la quale ci ripresenta immagini vere quali abbiamo già apprese coi sensi o finte  quali rimmagin azione forma secondo il suo potere (Collectanea in epist. ad Cor. II, 12). In bis tribus generibus (scil. visionis) illud primum manifestum est om-  nibus quo vid'etur coelum et omnia oculis conspicua. Nec  illud alterum quo absentia oorporalia cogitantur, insi-  nuare difficile. Coelum enim et terram et quae in eis videre possumus, etiam in eis constituti cogitamus. Et ali-  quaiido nihil videntes oculis corporis* animo tamen corporales imagines intuemur vel veras sicut ipsa corpora  vidimus et memoria retinemus vel fictas sicut cogitatio  formare potuerit. Aliter cogitamur quae novimus, aliter  quae non «novimus w.   Altrove nel Commentario dei Salmi paragona la me-  moria al ventre che riceve i cibi : (Comm.) Sicut enim venter escasi recipit ita memoria rerum  tenet notitiam. Nel libro III delle Scinlenze C. pariando della  fede dice che essa si riferisce soltanto alle cose che non  ci appaiono è sostanza di cose sperate come disse Paolo  e ripetè poi ALIGHIERI (1), che conobbe il Maestro forse più d’AQUINO. E qui contrappone la fede alla conoscenza  che si ha delle cose evidenti, tra te qiiali pone anche l'anima  deiruomo che sebbene non veduta, è da lui intuita cogitando. Concetto raccolto poi e svilupipato da Cartesio, il  quale prende la coscienza umana come il punto di par-   [Paolo (Ep. ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim snbstan-  tia rerum, argumentum non apparentinm . » — ALIGHIERI (Par.):  Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene non parventi.  ieaia dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà che IV  sistenza ci è data dal pensiero: cogito ergo sum. Sent.). c( Non sicul corpora quae videmus oculis  corporeis, et per ipsorum imagines quas memoria tenemus, etiam absentia cogitamus; nec sicut ea quae non videmas et ex his quae videmus cogitalionem utromque  formamus, et memoriae commendamus, nec sicut hominem, cuius animam etsi non videmus, ex nosbna coniicimus et ex motibus corporis hominem sicut videndo didicimur, intuemur etiam cogitando: non sic vìdetur fides in  corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam tenel oerliseima  scientia. CosH nel capitolo già citato delle CoUectanea, il Maestro tocca della conoscenza che noi abbiamo del nostro  intelletto intellicfendo . E' insomma nella ragione stessa la  spiegazione della nostra ragione (In epist. ad Cor.) Hac visione quae didtur  intellectualis ea cemuntur, quae nec cemuntur corporea,  nec ullas gerunt formas similes corponim, velui ipsa mens   et omuis animae affectio bona. Quo enim alio modo nisi  intellisrendo intellectus consoicitur? Nullo. ».  C. paragona l’intellieenza ad una luce  interiore che illumina res<=ere intelligente:   (im epist. ad Eph.). Omnis qui inteiligit  quadam luce interi ore illusfrRtiir». Ripete in sostanza il  concetto già espresso da S. Agostino:   (in ps. 41 n. 2 Mierne) « omnis qui inteiligit  luce quadam non corporali, non carnali, non exteriore sed  interiore illustratur ».   Chiarito il modo di conoscere, resta a parlare dell'oggetto della conoscenza. Che cosa è il vero? Tutto che è è vero, secondo il concetto della filosofia  patristica, come, e questo Io si vedrà in appresso, tutto  ciò che è è pure buono. Il falso va inteso in un sen®o del  tutto privativo, cioè non è sostanza di qualche cosa, non  è ciò che è, ma è ciò che non è.   (In ps.). Veritas enim est de eo quod est. Men-  dacium vero non est subslantia vel natura ìd est, non est  de eo, quod est natuiraliter, sed de eo, quod non est. Ed in altro luogo dice il Maestro : la verità è ciò che  è come vien detto : (in ps.). Veritas est cum res  ita est cum dicitur. Quia ip9e diodi ei faeta suut   Paolo     Sostanza e^ accM^ote.     S. Agostino concepiva la sostanza come il concetto di  assenza o di naliu-a preso in senso generale da subsistere  peirchè ogni cosa sussiste a sé slessa : omn«is enim res ad  se ipsam subsistil. Ma in senso più particolare, s'intende  di ciò che è soggetto d'altre cose come del colore, delle  forane corporee, ecc.   J\on attrimenti Pier Lombardo: (sent.; in ps.).  Substanlia intelligitur illud ouod  sumus: homo, pecus, terra, sol; omnia ista substantiae  snnt : eo ipso quo sunt naturae, ipsae substantiae dicun-  tur. Nana et quod nulla est substantia, nihil omnino est.  Substantia enim est cdiquid esse ».   Ma in quest'ultima significazione, il detto .^oncetto non  appropriasi a Dio perchè Dio è semplice.   (Sent.) « Res ei^o anutabiles. . . proprie di-  cuntur substantiae, deus autem, si subsistit, ut substantia  proprie dici possit, inest in eo aliquid in subiecto et non  est simplex ».   E' quindi a torto che parlando di Dio si dice che è  una sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non ©ia  Dio, e la parola sostanza non si dice propriamente che  delle creature. Parlando di Dio è meglio servirsi della  parola essenza»  Riguardo all'accidente il maestro delle Sentenze è  dello stesso avviso di BOEZIO che lo definisce : (in Porph.  ed. Basii) Accidens est quod adest et abest praeter  subiecli corruptionem. (Sent.) a non sicut ac-  cidentia in subiéctis quaé possunt abesse vel adesse ».   S. Agostino e BOEZIO sono i due filosofi ai quali iì  nostro C. attinge con eguale misura. Nelle Sentenze parla degli accidenti, cioè delle apparenze che  gli sembrano piuttosto esistere senza soggetto che essere  nel soggetto, quali il sapore ed il peso (accidenti) nel sa-  cramento della Eucaristia, che sono senza soggetto, poi-  ché quivi non è altra sostanza che quella del sangue e del  corpo del Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti.  Perciò son quegli accidenti per sé sussistenti.   (Sent. IV d. XII, 1; in epist. ad Cor.). Si autem  quaeritur de acciflentibus quae remanent i. e. de speciebus  et sapore et pondere, in quo subiecto fundentur, potius  mihi videtur fatendnm existere sine subiecto quam esse  in subiecto, quia ibi non est substantia nisi corporis et  sangumis dominici, quae non affìcitur illis accidentibus...  remanent ergo illa accidentia per se subsistentia ad my-  slerium riti ». « Natura multiplex nomen est. Nam et philosophi et e-  thici et theologi usu plurimo ponunt hoc nomen». Cosi   Porrelano (in Boet. ed. Basii). Ma se  molli sono i nuovi significati presso i filosofi, vediamo in quale senso più propriamente l'adopera  il nostro Pier Lombardo. Per lui natura è ciò che é concreata colla sostanza.   (Sent.). Substantiae nomine atque  naturae dicunt signifìcari substantias ipsas et ea quae  naturali ter habent scilioet quae concreata sunt eis sicut ani-  ma naturaliter habet intellectum et imaginem et volnnta-  tem et huiusmodi». Le €086 che awemgano per causa seminale, si dice che  aweaigono secondo natura, quelle invece fuori natura av-  vengano soltanto per volontà divina. Ne viene che ogni  creatura obbedisce a leggi naturali.   (Sent.). Et illa quae secund'um cau-  sam seminalem fìunt, dicuntur naturaliter fieri, quia ita  cursus naturae hominibus innotuit. Alia vero praeter natu-  ram, quorum causae tantum suni in deo... omnis creaturae  cursus habet naturales leges. yuale sarà dunque la legge naturale ? Quella che eb-  bero anche i pagani (2), che indica all'uomo ciò che è  bene e ciò che è male e che si riassume nel non fare  agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi.   (in epist. ad Rom.). Etsi non habeat (s'cil.  gentilis homo) scriptam legem, habet tamen naturalem,  qua intellexil et sibi conscius est, quid sit bonum quidve  malum; lex enim naturalis iniuriam nemini inferre, nihil  alienum praecipere, a fraude et penuria abstinere, alieno  coniugio non insidiari et caelera alia et ut breviter dicatur  nolle aliis facere auod tibi non vis fieri. Quanto poi alla persona, il Lombardo, parte dal con-  cetto ^ià enunciato da BOEZIO che la persona è la sostanza  individuale d'una natura ragionevole: (ed. Peiper). Persona est naturae rationalis individua substantia. Ovunque noi troviamo una sostanza individuale nella  specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima che è so-  stanza razionale, è dunque una persona? C.  risponde negativamente ricorrendo all'airtificio di parole  ^à adoperato da BOEZIO nel sfuo libro de duabus naturìs  (ed. Peiper). Cioè Tanima è sostanza razionale,  ma non tuttavia persona, perchè non è per se sormns^ cioè  è congiunta ad altra cosa. Dio solo può agire contro natura: (Sent. loc cit) super hunc  naturalem cursum Creator habet apud se posse de omnibus facere  aliud, quam eorum naturalis ratio habet; ut. scilicet, vir^a arida re-  pente fioreat, et fructum ^^at. et in juventute sterilis femina, in  senectute pariat, ut asina loquatur et huiusinodi. CICERONE, De leg.; Atque, si natura confirmatura ius  non erit, virtutes omnes toUentur Nam haec nascuntur ex eo, quia natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum iuris est.  (Sent.) Nam et modo anima est substantia rationalis, non tamen persona, quia non est per se  sonans, imo alii rei comiuncta. Tuttavia l'anima è persona quando per se est: onde  quando è sciolta dal corpo è persona come è Fangelo.   (Sent.) « Anima, non est  persona, quando alii rei unita est personaliter absoluta  enim a corpore persona est siculi angelus.    U^ià Agostino parla di una materia informe dalla  quale sarebbero derivate tulle lè cose che sono distinte e  formate.   (de genes. contra Manich. I, 5, 9 Migne). Primo ergo materia facta est confusa et informis unde  omnia fìerenl quae distincta atqua formata sunt, quod  credo a graecis caos appellari). Così pure BOEZIO (edit  Basii p. 1138) parla di una materia informe e siemplice  come la ale e di una materia formata e non semplice come  i corpi. Anche per C. le cose create furono  formate da una materia informe (I'n ps.). Quoniam ipse dixit, idest voluit  et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata de informi materia. E cosi pure nel secondo libro delle Sentenze : (dist.). Alii vero hoc magis probaverunt  et asseruerunt, ut prima materia rudis atque informis creata sii Postmodum vero ex illa materia rerum corporalium genera sunt formata secundum species propria.   D’Agostino C. deriva pure il suo concetto della forma. (Sent.) « Dicit Augustinus causas  primordiales omnium rerum in deo esse mducens simili-  ludinem artifìcis in cuius dispositione est qualis futura sii  arca. Il Maestro ripete a questo punto appoggiandosi intieramente ad Agostino quanto Abelardo e Gilberto Prretano dicono con compiuto linguaggio scientifico quando chiamaiio le idee forme esemplari della mente divina. Non  così chiara come in questi elementi platonici è l'idea della  forma presso i sentenziarii ai tempi aristotelici. Causalità. Qui il Maestro dà questa definizione della idea di causa. Tutto ciò che in sé permanendo genera od opera  qualche cosa, è il principio, ossia la causa di ciò che genera od opera.   (Sent.). Si autem quicquid in se manet  et gignit vel operatur aliquid, principium est eius rei  quam gignit vel edus quam operatur. Dio però si dice eh fa ed opera qualche cosa, per-  chè è la causa delle cose scientemente esistenti.   (Sent.). Deus ergo aliquid agere vel facere dicitur, quia causa est rerum noviter existentium. Con ciò vien presupposto che tutto ciò che avviene,  avviene per una causa necessaria e che nulla nasce che  non sia preceduto da una legittima cagione. C. in seguito si domanda se nulla possa sfuggire o  questa legge di causalità e possa awemare per caso. Ma  egli risponde : se qualche cosa avviene nel mondo per  caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina pìnovvi-  denza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina  provvidenza, v'è qualche natura o sostanza che non appartiene all'opera della Providenza. Ma tutto ciò che è, è  buono per la partecipazione di quel bene che noi chiamia-  mo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire per  caso. Inutile è il notare che questo argomento si trova  già in Agostino, Ugo di S. Vittore, Abelairdo.   (Sent.) « Si ergo casu aliqua fiunt in  mundo, non providentia universus mundus administratur.  Si non providentia universus mundus administratur, ali- [Vedi EspuNBKBOBB] qua natura vel substanlia est quod ad opus providentiae  non pertinel. Omne autem quod est... boni illius parteci-  patione... bonum est, quod divinum bonum provideoliam  vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo. Le nozioni di spazio e di misura, ci vengono date da  C., laddove parla di Dio che è immensurabile  ed iniCBteso.   (Sent.) Neque dime(nsionem habet  (sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum assigmatur  principium, medium et finis et ante et retro, dextera et  smistra, sursum et deorsum quod sui interpositione facit  distantiam et circumstantiam... dicitur in Scriptura aliquid locale sive circumscriplibile et e converso, sci!, quia  diimensionem (bapierus longiltudinis et latitudinis distaai-  liam lacit in loco ut corpus.  Più avanti definisce il luogo nello spazio ciò che è  occupato in lunghezza, altezza e larghezza da un corpo (Sent.) « Locais in spatio est quod lop-  giludine et altitudine et latitudine corporis oocupatur)).   Come Dio neppure gli spiriti creati possono essere  circonscritti nello spazio. Essi però possono in certo modo  essere locali perchè quando si trovano in un luogo (non  si trovano in un altro : però non hanno dimensioni e per  quanto siano numerosi, non possono riempirlo.   (Sent.) « Spiritus vero creatus quo-  dammodo est localis, quodammodo non e®t localis. Localis  quidem dicitur, quia definitione loci terminatur, quoniam  cum alicubi praesens sit totus, alibi non invenitur. Non  autem ita localòs est ut dimensionem capiens distantiam in  loco faciat. C.  infine conclude che Dio non si muove  né nello spazio, né nel tempo, che Tanima si muove nel  tempo, ed il corpo nelo spazio e nel tempo. Di qui le loro  diverse natuire. Ecce hic aperte oistendilur, quodi nec locis  aec temporibus mutatur vel movetur Deus, spiritualis au-  tem natura per tempus unovetur, corporalis vero etiam  per tempus et locmnn.  Che cosa è il tempo ?   Ad una tale domanda cosi risponde S. Agostino nelle  Confessioni: Se nessuno me lo chiede lo so; se voglio  spiegarlo a chi me lo chieda non lo so: con piena fede  dico tuttavia di sapere che se nulla passasse, non vi sa-  rebbe un tempo passato e se nulla dovesse avvenire^ non  vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla fosse non vi sareb-  be un teimpo presente. C. definisce il tempo, la variazione delle  qualità che sono nella stessa cosa che si muta.   (Sent. ) <( Mutari autem per tempus  est variari secundum qualitates quae sunt in ipsa re quae  mutatur... Haec enim mutatio qua fìt secundum tempus,  vanatio est qualitalum . . . et ideo vocatur tempus».   L'eternità fa antilesi al tempo. Il Lombardo come A-  belardo ripete qui le parole di Boezio: Stabilisque ma-  nens das cuncta momri quando dice: (In ps.) «Et  video, id est sciam, quoniam tu es proprie qui stabiEs ma-  nens das cuncta moveri. Garattei'a appunto dell'eternità è la stabilità, del tem-  po la mutabilità (in epist. ad Hebr. I) « In aeternitate  enim stabilitas est, in tempoire autem varietas ; m ae-  ternitate omnia stamit, in tamporei alia aocedunt, alia suc-  fcedHint. Il problema cosmologico si presenta al Maestro nel  libro II delle Sentenze alla prima distinzione. Egli dimostra  sulla fede delle Sacre Scritture, che non vi è che un prin-  MiGNB  ( Espenberger). Quid est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti expli-  care velim nescio: fidenter tamen dico scire me, quod si nihil prae-  teriret, non esset praeteritum tempus ; etsinihil adveniret, non esset  fUtunim tempus, ei si nihil esset, non esset praesens tempus , cipio solo di tulle le cose. Alcuni (ilosoli, come Platone ed  Anstolile, avevano pensalo che il mondo avesse molti  principii, che la materia che lo comipone fosse increata  ed eterna, che Dio non ne fosse punto il Greatore, ma sem.-  plicamente l' oa^ganizzatore. Ma la dottrina cattolica al  contrario ci insegna che Dio solo, principio di tutte le cose,  ha tutto crealo dal nulla, le cose visibili e le invisibili, il  cielo e la terra (Sent.). Creationem rerum insinuans Scrip-  tura deum esse creatorem initiumque temporis atque om-  nium visibilium ved invisibilium creaturarum in primordio  suo ostendìft dicens (g:en. I, 1) In principio creavit deus caelum et terram.  His enim verbis Moyses... in uno principio a deo creatore  mundum factum refert elidens errorem quorundam plura  sine principio fuisse opinantium. Plato namque tria inilia  existimavit deum scilicet exemplar et matenam et ipsam  mcreatam sine principio et deum quasi artificem non  creatorem. E altrove conferma che il mondo non è coetemo a  Dio e senza alcun principio, ma creato da Dio come in-  segna la scrittura.   (in ps.) « Quia ipse dixit et faota sunt —  hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn. Dio creò ogni cosa dal nulla : creare è propriamente  ricavare qualche cosa dal nulla : onde a Dio solo compete  il nome di creatore (Sent.). Creator enim est, qui de nihilo ali-  quid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid facere hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit...  Ipse est ergo creator et opifex et factor. C.  passa poi ad esamina-re la creazione del  mondo e specialmente .l'opera dei sei giorni commentando  il racconto della Genesi. Le spiegazioni ch'egli offre, sono  tolte ai padri antichi tra i quali S. Ambrogio, Agostino, Gregorio, il venerabile Beda e Giovanni Grisostomo.  Insieme con vedute geniali e profonde, si trovano in quella  parte dei suoi libri ove si paria della creazione, alcune  teorie che le scienze naturali hanno poi definitivamente  condannate. Basta ricordare la teoria dei quattro elementi  di cui si compone il cosmo, e quella che considera il fir-  mamento come una immensa volta solida alla quale sono  attaccati gli astri, e Topinione che i piccoli insetti nascano     &6  dalla corruzione dei carpi organici. Ma il Lombardo espone  la scienza dal secolo decimosecondo : d'altronde egli di tali  cose sembra parlare in forma dubitativa e come è suo  costume non fa che esprimere le opinioni che ai suoi tempi  correvano.     dell'uorpo o^il'unlv^rso*  Là dove parla della creazione, il Maestro pada anche  del fine per il quale l'uomo e l'angelo furono creati. La  somma bontà divina ha voluto far parte della sua felicità  etema a due delle sue creature, all'angelo ed all'uomo :  perciò li creè ragionevoli affinchè conoscessero il sommo  bene, l'amassero, ed amandolo lo jK>ssedesseiro e posse-  dendolo fossero felici. L'angelo di natura incorporea e  l'uomo composto di anima e di corpo furono creati per  lodare e per servire Iddio; non già perchè questi abbia bi-  sogno dei servigi umani, ma affinchè l'uomo godesse nel  servirlo, poiché in questo si giova chi serve e non colui  al quale si serve.   (Sent.) Factus ergo... homo projter deum  dicitur esse, non quia creator deus et summe beatus alte-  rutrius indiguerit officio... sed ut servirei ei ac fruirelur.'..  in hoc ergo proficit serviens... non ille cui servi tur.   Pensiero che vien perfezionato da S. Tommaso (Sum.  contra gentes II, 46) e dall'ALIGHIERI (Parad.):   Non per avere a sé di bene acquisto  Ch'esser non può, ma perchè suo splendore  Potesse risplendendo, dir: Subsisto.   In seguito aggiunge che come l'uomo è stato fatto per  Dio, così il mondo per l'uomo, il quale si trova in un  mezzo tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli stesso deve  servire.   (Sent. II, I, 8) « Et sicut factus est homo propter  deum i. e. ut ei serviret, ita mundus factus est propter     é6   hominem, scil. ut ei servirei. Positus est ergo homo 'n  medio ut et ei servirelur et ipse serviret; ut acciperet u-  trumque et reflueret totum ad bonum hominis et quod ac-  cepit obsequium et quod impeffidit... ».   L uomo infine si distingue da tutti gli altri animali  per la sua aspirazione alle cose superne, ed è perciò  che egli ha il corpo eretto e quasi rivolto al cielo.   (Sent.) « Ecce osl^isum est, secundum  quid sit homo similis dei... Sed in corpore quaaidam pro-  prieitatem habet quae haec indicat, quia §st erecta statura  secundum quam corpus ajiimae rationali congruit, quia a  caelum erectum est ». È  LO STESSO CONCETTO DI CICERONE (De legibus). Nam quum caeteras animantes abiecisset ad pastum, solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis  domiciliique pristini conspectum excitavit.  E non di CICERONE soltanto. Tra i gentili cf. OVIDIO Metamorf. I, 84-86 SALLUSTIO Catil.  Tra i filosofi cristiani Agostino (de gen. centra Manich. I, XVII),  BRUZI (de anima cap. IX) Beda (in hexaem I) Abelardo (in  hexaem).  Tantum enim, ut tradit auctoritas, cognoscit  ibi quiHque quantum diligit. (Sent.)  Foteoze d^ll'anirpa. 11 problema psicologico veniva proposto da Ugo di  S. Vittore in queisti termini: (de sacram.)  yuaerunlur autem quiam plurima de origine animae,  quando creata fuit et tolde creala fuit et qualis creata  fuit. (cfr. August. de quant. animae I, 1).  August. de quant. animae).   Era questione tra i filosofi secondo Giovanni di Salisbury (Mei.) se fosse una sola potenza la quale  ora sentisse, ora ricoondasse, ora immaginasse o se pur  rimanendo l'anima semplice, essa fosse dotata di molte  potenze (MieNB). Recolo enim fuisse philosophos, quibus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam esse substan-  tiam animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter prò  rerum diversitate exercet. Eorum ergo opinio est, quod eadem po-  tentia, nunc sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc di-  scemat investigando nunc investigata assequendo intelligat. Sed  plures sunt e contrario sentientes animam quidem quantitatem simpli-  cem, sed qualitatibus compositam et sicut multis obnoxiam passio-  nibus, sic multis potentiis utentem ». V. Espenberger. C. si attiene in ciò a S. Agostino e definisce quei^le potenze come naturali proprietà dell'anima,  yueste sono una sola sostanza ed esistono nell'animo so-  stanzialmente; e noiii accidentalmente : poiché sebbene rela-  tive tra di loro ciascuna è sostanzialmente nella sostanza  oell animo.   (Sent.) « Hic attendendum est ex quo sensu  accipiendum sit quod supra dixit, illa tria, scilicet memo-  riam, intelligentiam, voluntatem esse unum, imam mentem,  unani essentiam, quod utique non videtur esse venim  juxta »pix>piietatem sermonis... Illa vero tria, naturales  proprietales seu vii-es sunt ipsius mentis. Sed jam  videndum est quoniodo liaec tria dicantur una substantia.  Ideo quia sciJicet in ipsa anima vel mente substantialiter  existunt, non sicut accideiitia in subiectis, quae possunt  adesse vel abesse uiide Augustinus in lib. IX de Trm. cap.  5 alt : Admonemur, si utcumque videre possumus, haec in  animo existere substantialiter, non tanquam in subiecto,  ut color in corpore; quia etsi relative dicuntur ad invincem,  singula tamen substantialiter sunt in substantia sua.  Spiegata cosi coli autorità altrui la natura delle potenze dell anima, il Lombardo distingue nella ragione due  parti : la parte superiore che si volge alle ragioni eteme  delle cose, la inferiore che si piega a osservare le cose  temporali!   (Sent.) « Ratio vero vis animae est superior, quae,  ut ita dicamus, duas habet partes vel differentias, superio-  rem et inferiorem. Secundum superio«rem, supemis con-  spiciendis vel consulendis intendit; secundum inferiorem,  ad temporalium dispositionem conspicit ».   Da ciò deriva la distinzione ch'egli fa della sapienza  e della scienza. La definizione che diedero gli antichi della  sapienza, cioè : Sapientia est rerum divinarum humana-  rumque scientia, va divisa cosi che sapienza si dica pro-  priamente della conoscenza delle cose divine, scienza della  conoscenza delle cose umane.   (Sent.). Illa definitio dividenda est, ut  rerum divinarum oognitio sapientia proprie nuncupetur,  hùmanarum vero rerum cognitio proprie scientiae nomen  obtineat. L'influsso mistico di S. Bernardo suo protettore e dei  suoi primi maestri di S. Vittore, si fa sentire in C. là dove afferma che la maggiore o minore quantità  di sapere deriva dalla quantità di amore: (Sent.) Sed qui magis diligit plus coginioscit ». Abelardo definisce Tanima come una certa essenza  spirituale e semplice: (introd. ad theol. Ili, 6) « Anima  quippe spiritualis quaedam et simplex essentia est ». Non  diversamente la definisce il nostro C.  là dove dice  (sent.) « Mens enim i. e., spiritus rationalis essentia est spiritualis et incorporea ».  Così Abelardo come C., si riconnettono a  Agostino che in più luoghi dei libri tratta deU anima -n quanto spirituale ed incorporea. L'anima si dice semplice perchè non si diffonde in e-  stensione, ma in qualunque corpo in tutto o in qualsivoglia  paorte di essa è intiera. Cosi quando avviene qualche cosa  nella più piccola parte del corpo, che sia avvertita dall'a-  nima benché non avvenga in tutto il corpo, tutta Tanima  sente perchè non tutta si tien nascosta.   (Sent.) Simplex dicitur anima) quia mole  non diffunditur per spatium loci sed in unoquoque corpore  et in toto tota est et in qualibet eius parte tota est. Et  ideo cum fit aliquid in quavis exigua particula corporis  quod sentiat anima, quamvis non fiat in toto corpore, illa  tamen tota sentit quia totam non latet.  In ciò segue C. la dottrina professata da Agostino e da Plotino, il primo nel libro di trinitate, de quantitate animae, de immut, animae, il secondo in enn. (edit Volkmanm).  Ma se l’anima è semplice, dice il Lombardo nel luogo  citato, in confronto del corpo, per sé stessa non è semplice  ma molteplice. Poiché altro è essere operoso, altro Inerte,  altro acuto, altro memore, altro è desiderio, altro è ti-  more, altro è letizia, altro è tristizia, e queste cose ed altre  dello stesso genere si possono trovare nella natura delVa-  nima ed alcune senza le altre ed alcune più ed altre meno,  onde è manifesto che la natura dell'anima non é semplice,   ma molteplice « unde manifestum est animae non sim-   plicem sed multiplicem esse naturam. In conclusione la natura dell’anima offre due lati: è  semplice da un lato se si paragona colla natura del corpo  molteplice se si paragona colle sue potenze  Ma ranima è altresì immortale. L'uomo è fatto a  somiglianza di Dio e la somiglianza nella essenza perchè  essa è immortale ed indivisibile (Sent.) Factus est homo ad similitudinem dei -- similitudo in essentia quia et immortalis eit indivisibilis est. linde Augustinus, de quant, anim. Anima facta est similiter deo, quia immortalem et indissolubilem fecit eam deus. Ma la filosofia scolastica fedele al precetto: distingue  prequenier^ come limita e divide il concetto della semplicità  deiranima cosi na limita e divìde quello della immoortalilà,  distinguendo il coooeilto della morte intesa in senso asso-  luto di annientamento da quello della stessa intesa in senso  relativo di mutazione : ed in quest'ultimo senso l’anima non  è del tutto immortale (Sent.) In omni mutabili natura nonnulla  mors est ipsa mutatio quia fecit aliquid in ea non esse quod  erat, unde et anima humana quae ideo dicitur immortalis  quia secundum modum suum nunquam desinit vivere^ ha-  bet tamen quandam mortem suam. Riguardo all’origine dell’anima si agitavano ai tempi  di C. due diverse opinioni, l’una del traduzionismo (1) che pretendeva che l’anima vienne generata come  il corpo, l'altra del creazionismo che pretendeva al contrario che è creata da Dio direttamente. A quest ultima si attiene naturalmente C.  con Abelardo, Roberto PuUus, Ugo di S. Vittore. Dio creò  ranima dal nulla dice il Maestro: (Sent.) «Flatus  factus est a deo, non de deo, non dealiqua materia sed de  Odo di Cambra!: (de pen. orig. II) « Sunt autem multi qui  volunt animam ex traduce fieri sicut corpus et cum corporis semine  vim etiam animae procedere » Vedi Espen. 6,  I 101   nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione di coloro che affer-  maaio con Origene che le anime sono state tutte create  al principio del mondo, e quella di coloro che con i Lu^ci-  feriani e Cirillo ed alcuna dei Latini pensano che Tanima si  comunichi ai figli per generazione e nello stesso modo  che il corpo. Mentre Tanima non è infusa nel corpo che  quando esso è tonnato ed adatto a riceverla.   (Sent.) Sed quicquìd de anima primi hominis aestimeoitur, de alias certissime sentiendum est, quod  in corpore creentur; creando emim infundit eas deus et in-  fundendo creat ». E più avanti: (Sent.) e( Unde  Augustiiniis in ecclesiast, dogm. animas hominum di<rit non  esse ab initio inter creaturas intellectuales natuT^as nec  simili creatas sicut Origenes fìngit necque in corporibtis  per coitum seminum sìcuT Luciferani et Cyrillns et quidam  LatiinoiTum praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus corpus  tantum per coniugii oopulam seminari, creationem vero  animae solum cneiatoirem nosse eiusque iudicio formato  iam corpore animam creavi atque infimdi ».   E nel libro IV spiega ancor meglio quest'ultimo pen-  siero ricorrendo all'esempio della casa e del suo abitatore  che vi entra soltaoito quando è ben costruita  (Sent.). Sed iam formato corpori anima  datur, non ini conceptu corporis nascitur cum semine de-  rivata. Nam SI cum semina et anima existit de anima, tunc  et multae animae quotidie pereunt cum semen fluxu non  proficit Ti'ativitati. Primum oportet domum compaginari et  sic habitatorem induci».   E qui è opportu/no ricordare che questa teoria dell'anima si trova pure con poche varianti nel canto del  Purgatorio laddove il Poeta discorre della nascita dell'uomo e spiega come (Tanimal divenga fante.     Relazione tra Fanirpa ed il corpo.   . Seguendo il concetto aristotelico dell'età di mezzo, il  Lombardo ritiene Tanima come forma del corpo.   (Sent.) « Formatum vero intelligitur corpus propria anima animatum et informe quod nondum  Habet animam. Un tal concetto va intimamente collegato con un passo  della Bibbia: (Exod.) « Si quis percusserit  mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc in-  formalum fuerit, multabitur pecunia; quod si formatmn  fuerit, reddel animam prò anima », C. deride le favole di coloro che immagi-  nano che le anime siano rinchiuse nel corpo, come in un  carcere, per i peccati commessi in cielo (Sent.) Multi in fabulas, vanitatis abierunt dicenls, quod animae sursum in caelo pecoant, et secundum peccata sua ad corponia prò meritis diriguntur, et  dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt hi tales  post cogilationes suas et... versi sunt in profundum, dicentes animas in caelo ante conversatas et ibi aliquid vel  mali egisse et prò meritis ad corpora terrena detrusas esse.  Hoc autem respuit catholica fides ».   Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea perchè l’uomo capisse che se potè unire due cose cosi diverse,  quali l'anima è il corpo in una tale unità, non è impossibile ch'egli possa partecipare per quanto umile alla sua  gloria (Sent.) Lufeamque materiam fecit ad vitae  sensum vegetare, ut sciret homo, quia si potuit deus tam  disparem naturam corporis et animae in federationem unam et in amicitiam tantam coniungere, nequaquam ei  impossibile futurum rationalis creaturae humilitatem ad  sua Rloriae partecipationem sublimare. C. non crede che il corpo sia carcere  dell'anima nel senso che sopra si è detto, perchè f)er es-  sere opera di Dio è un bene: ma è pure un carcere nel  senso che il corpo a corrompe e corrompendosi aggrava l’anima (in ps.) «Vel potius corpus est career non  utique secundum id, quod deus fecit ipsum bonum est, sed  secundum id, quod comimpitur et aggravat animam i. e.  oorruptio eius quae venit ex peccali, career est. Altrove chiama il corpo quasi strumento e servo del-  Tanima : (in epist. ad Rom.) « Si corpus, quo inferiore  tamquam famulo vel instrumento utitur anima... ». E cosi  pure si legge in un suo sermone : (2P De codem die: In passione Domini seu in annuntiatione (Protois). Dominus est spiritus noster, anima tamquam domina, corpus  tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur et si  oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ». Che cosa è infatti Tuoino se non un'aniina fornita  di corpo? si domanda Ugo di S. Vittore (1). Però a que-  sto riguardo il Lombardo usa di una certa moderazione;  ed il suo modo di pensare intomo alla persona deiruomo  ci fa credere che egli dà un posto importante anche alla  vita. Il Maestro delle Sentenze sul finire del suo libro  principe, cioè alla distinzione, entra  poi a discorreire della morte e della risurrezione del corpo.  E fu il padre Michele da Carbonara il primo a far notare  la conformità che vi è tra le dottrine svolte da Pier Lom-  bardo e i luoghi della Divina Commedia che parlano della  risurrezione, quantuncfue la ragione fondamentale di essa  data dal Maestro diversifichi in sostanza da quella data dal  Poeta.   Nella risurrezione ciascuna anima separata riprenderà  il coqx),   ripigtierà sua carne e sua figura (Inf.)   quale era nel fiore della età: e sarà mage^iore allora la  sua beatitudine e la sua cognizione : « amplior erit eorum  cognitio ». Ciò è diffìcile a spiegarsi, dice il Maestro. Ma  è certo che nell'anima è un vivo desiderio di ripigliare il  corpo; riunita al corpo Tanima ha perfectum naturae suae  modum ed ha ampliorem cognitionem.   Altri che verranno poi, si spingeranno più addentro  nella questione come farà S. Tommaso. Ma, dice il Carbonara, il Maestro sta come colui che tira le linee più  larghe d'un quadro, in suU'indeterm inalo; e si legga at-  [Sent., Migm. Quid enim est homo nisi anima  habens corpus ? Nel sermone 11 (in die Cineris ad poenitentes — .Ms. lat. in Protois p. 138): «vita praesens messi comparatur et aestati, quia  nunc inter ardores tentationum colligenda sunt futurorum merita  praemiorum. Carbonara, Dante e C. (Sent.) con prefazione e per cura di Murari 2  ediz. Città di Castello Collezione di Opuscoli Danteschi inediti o rari diretti da Passerini.  tentamente questo tratto « ^f mmor sU healitudo sanctorum  post iudicium; sì leig'gta attentamente e si vedrà che se vi  è trailo che specchi il canto del Paradiso, questo tratto  è desso. La slessa queslfone, gli stessi punti determinali;  ma Insieme rindeterminatezza, il vago, che neirinsieme  domina il Maestro, si risente nel Poeta. Come la carne gloriosa e santa  Pia rivestita, la nostra persona  Più grata fia, per esser tutta quanta :   (cperfeobum natuirae suae modum habebit anima».Omne qaod est, in quantum est, bonum est.  Tutta TEtica scolastica è necessariamente compene-  trala della dogmatica teologica. Quella di C. non diversa in sostanza da quella dei suoi maestri^ si riat-  taeca alle discussioni teologiche intorno alla morale che  ai suoi tempi si dibattevano. La prima questione che ci conviene esaminare, è  quella che riguarda il libero esercizio della volontà.  La libertà, pensa egli con Ugo di S. Vittore (Sent.), di cui sente più volle l'influsso, chiede di poier  compiere non solo il male, ma anche il bene.   (Sent.) « Verum nobis magis placet ut  ipsa libertas arbitrii sit et illa, qua magi® liber est malum,  et alia qua quis liber est ad bonum faciendum. Ex causis  enim variis sortitur diversa vocabula».   Il Lombardie si chiede in appresso quali fattori deter-  minano la libertà umana e ne distingue due, cioè la ra-  gione e la volontà. La prima disceme tra il bene ed il male, la seconda  si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la  definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo C.  (Sent.). Liberum verum arbitrium est  facultas rationis et voluntatis, qua bonum eligitur gratia  assistente, vel malum ea desistente. Et dicitur liberum,  duantum ad voluntatem quae ad utrumlibet flecti potest.  Arbitrium vero, quantum ad rationem, cuius est facultas  et potentia illa, cuius etiam est discemere inter bonum et  malum et aliquando quidem discrelionem habens boni et  mali, quod malum est eligit, aliquando vero quod bonum  est...,.» e più avanti:   (Sent.) « Liberum ergo dicitur arbitrium  quantum ad voluntatem, quia voluntaTie moveri et sponta-  neo appetitu ferri potest ad ea quae bona vel mala indicet  vel indicare potest ».   Il Lombardo si affretta poi a spiegare un passo di  S. Agostino, ove questi afferma che l'uomo perde il libero  arbitrio dopo il peccato, onde si legge nei Vangeli: (Pel.) A quo erdm devictus est, huic servus est (Vedi  August. enchirid. Migrie).   TIon ciò non si vuol dire che l'uomo perde intiera-  mente la libertà, ma solo quella che ci trattiene dalla mi-  seria e dal peccato (Sent.) <( Ecce liberum  arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non  quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed  quia libertatem arbitrii perdidit non quidem a necessitate,  sed libertatem a miseria et peccati. Est namque lib^rtas triplex, scilicet a necessitate,  a peccato, a miseria. A necessitate et ante peccatum et  post aeque liberum est arbitrium. Sicut enim lune cogi  non poterai, ila nec modo. Ideoque voluntas merito apud  deum indicalur, quae semper a necessitate libera est *i  iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas, ibi non est libertas;  ubi non est libertas, nec volunlas et ideo nec merilum.  Haec libertas in omnibus est tam in malis quam in bonis. Il Sentenziario perciò nel suo Commentario nei Salmi  (rimprovera coloro che attribuiscono alle stelle ed al fato,  la colpa dei loro peccati facendone in certo modo respon-  sabile Iddio, che è Tautoire del creato: (in ps.)  « Ila clamel aeger ad medicum, et dicat : Cum libero ar-  bitrio creavi! me Deus: ideoque si peccavi, ego peccavi  non fatum, non fortuna, non diabolus, me coegit : sed' ego  persuadenti consensi ».     io:   In conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già  si è veduto, definisce il libero arbitrio un& facoltà della  ragione' e della vodontà colla quale si sceglie il bene col  soccorso della grazia od il male se la grazia ci manca.  Ma questa definizione, aggiunge l'autore, non conviene a  Dio né ai santi che par essere incapaci di peccare, hanno  un libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio è  la sua volontà ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza  necessità e liberamente tutto ciò che le piace. Quella degli  angeh e dei santi non può più portarsi verso il male,  perchè essi sono coiiifermati neha beatitudine e neilla  grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure conservato il  suo, ma perchè egli voglia il bene gli è necessaria la  grazia del Redentore.   La teoria del libero arbitrio, che il Maestro professa,  intesa a conciliaire il dogma coi dettami della ragione, non  sfugge, come è ben naturale, a gravi difficoltà. Cosi egli  è costretto per quaiinto si sforzi di provare il contrario,  a mettere l'uomo in una posizione non del tutto giusta,  rispetto alla sua libertà, poiché se egli fa il male, ne è  tutta sua colpa (ideoque si peccavi ego peccavi — in ps.  loc. cit.) quantunqua non possa andare ^nte dal peccalo,  mentre se fa il bene, il merito è tutto di Dio.   (Sent.) « Non tamen sine libero arbitrio  proveoiiunt merita nostra, scilicet boni effectus eo-rumque  progressus atque bona opera quae Deus remunerat in no-  Das et haec ipsa sunt Dei dona. Unde Augustinus ad  Sixtum presbyterum: Cum coronat Deus merita nostra  nihil aliud coronai quasn munera sua. Quamto poi alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose  che debbono avvenire, noi non possiamo fare in altro modo  di quello che a lui è noto, dal che ne verrebbe la nega-  zione di ogni libertà umana, egli non oppone nulla in que-  sto punto dove espone la teorica del libero arbitrio. Ma noi  possiamo conoscere il suo parere in proposito, purché  noi ci riportiamo a quel punto del libro P, ove parla della  prescienza di Dio, allora assai dibattuta dalle sette sco-  lastiche, come quella che sembrava condurre a riconoscere  il fatalismo. Il Maestro delle Sentenze per rispondere a  questo argomento, fa uso della distinzione così nota agli  scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero  del senso congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si  può dare che Dio abbia preveduto una cosa e ch'essa non  avvenga, ma è possibile che essa non avvenga, e allora Dio non Tavrebbe preveduta. Sottigliezze a cui la scuola  dogmatica è costretta a ricorrere ogni qualvolta vien messa ale strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo libro: De  Fato, libero (mbitrio et providentia Dei (V lib. Bàie)  ove si sforza egli pure si conciliare il destino la provvi-  denza e la libertà deiruomo, finisce col non saper dare  altre soluzioni che quelle poste innanzi dalla scolastica,  confessando però che esse sono piuttosto delle illusioni che  delle vere risposte: Videntur potius esse illusiones islae  quam respomiones.  Fine a cui tendiamo tutti é la felicità : (sent.) « Beatos autem esse velie, omnium hominum esl ». C. ricorda le parole di CICERONE: Beati certe  omnes esse volufnus, ed è lontano dal contraddirvi, ma  anzi ne deduce che poiché tutti desiderano la felicità, tutti  ne hanno dentro di sé la conoscenza: «... sequitiu' ut  omnes beatam vitam sciant. Vediamo ora come procede il Lombardo neiranalisi  della felicità. Sul principio del primo libro egli comincia  dal distinguere la differenza che v*è tra usare di una cosa  e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere la  nostra volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per  amore e ciò non avviene in questa vita.   (Sent.) « Uti est assumere ali<juid! in f acultateni  voluntatìs. Frui autem est, uti cum gaudio, non adhuc spei  sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui sed tantum uti, ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui  esse amore dnhaerere alieni rei propter se : qualiter etiam  hic multi adhaerant De. ALIGHERI, Purgatorio: Ciascun confusamente un bene apprende  Nel qual si queti T animo, e desira:  Perchè di giugner lui ciascun contende. E poiché questo sembra far iidsceire eontraddiàoni,  egli la rivolse così chiarendo il suo concetto. Tanto qui  come nel futuro si può in certo modo fruire della beati-  tudine eterna, ma mentre in cielo noi la godremo in modo  perfetto perchè, come dice S. Agostino, l'avremo vicina  qui in terra, non la godiamo che per riflesso ed è ciò che  ci fa sopportare i travagli della vita.   (Sent.) « Haec ergo quae sibi contradicere vi-  demtur, sic determinamus, dioente», nos et hic et in futuro  frui : sed ibi proprie et perfecle et piene ubi per speciem vi-  debimus quo fruemur, hic autem, dum in spe ambulamus  fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil. Augu-  stinus) in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli  ilio fruentas jam beati sunt quo et nos frui desideramus;  et quaai'timi in hac vita iam fruimur, vel per speculum,  vel din aenigmate, tanto nostram peregrinationem et lolera-  bilius sustioemus et ardentius fruire cupimus ». In questa  teorioa il Lombardo si liem stretto a Agostino ed esprime  41 medesimo comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tom-  maso col fine mediato ed iumiediato.   guanto alla questione, se si possa gioire della virtù  per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la vera fe-  licità, egli si prova come è suo metodo di conciliare la  prima opinio*ne, che sembra confortata da un passo di Ambrogio, con la seconda professata da S. Agostino,  affermando che la virtù può essere amata per sé slessa,  ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere ad  un fine più elevato e riferire la virtù a Dio come fine ul-  timo. Amoralità d^Ue aztooi urpaoe* Quali sono le azio^ni umane che si debbono chiamare  buone secondo C.  e quali cattive ? Egli risponde  suirautorità di S. Ambrogio e di S. Agostino, che ciò che  fa buona o cattiva una azione è Tintenzione. Ed in ciò non  discorda da Abelardo che afferma appunto nelFEtica: « Unde ab eodem homine cum in diversis temporibus     Ilo   idem fiat, prò divemsitate tametn inlentionis eius operatio  modo bona modo mala dicitm* ». Infatti il Maestro nel libro  secondo d^e Sentenze (dist. XI, 1) dice quasi allo slesso  modo : « Nam simpliciter ac vere sunt boni illi actus, qui  bonam causam et intentionem id est qui voluntatem bonam  comitantur et ad bonum finem tendunt: mali vero sim-  pliciter dici debent qui perversam habent causam et inten-  tionem ». E cita a questo proposito le parole di S. Ago-  stino : (enarr. in ps.) « Bonum eriim opus intentio  facitìK   In conseguenza è un'azióne buona confortare i po-  veri se si fa per compassione e misericordia : ma la stessa  azione diventa cattiva se la si fa per ambizione. Vi sono  tuttavia delle azioni le quali sono cattive per sé stesse e  che la intenzione non può rettificare: tali sono la menzogna e la bestemmia.   Ksse poi sono cattive in quanto sono privazioni dell'es-  sere, perchè ogni cosa, in quanto è, è buona : Omne quod  est in quantum est bonum. L.a le^^e fT)orale« Stabilito cosi guali sono le azioni buone o cattive, &  seconda dell'intenzione, restava a determinare quale è il  caratieire morale che deve contraddistinguere le nostre a-  zioni e qual norma si deve necessariamente seguire per  muovere al bene : dione insomma dove deve dirigersi- la buo-  na intenzione. In coerenza colle dottrine da lui professate,  •il Maestro pone la regola delle azioni umane nella legge  divina : perciò il peccato consiste in una infrazione alla  legge divina (1).   (Sent.) « Peocatum est omne dictum vel  factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid est  ipeccatum nisi legis divanae praevaricatio? ».  n C. ammette altresì una legge naturale, lex natu^  raliSj la quale ebbero anche i Gentili, ma questa non basta a con-  durre a salvamento.  Ili   Nofli è qui il luogo di indicare il difetto originale d una  tale dottrina che nel porre fuori di noi la legge del nostro  operare, si condanna alla, contraddizione. Mi basterà ri-  coirdare che essa si presenta assai più sviluppata in AQUINO, il quale pone innanzi iJ concetto aristotelico della  ragione umana, la quale è la natura dell'uomo in quanto  è uomo: ondfe poiché ogni cosa è buona quando è con-  forme alla sua propria natura, ogni cosa sarà buona ri-  spetto airuomo quando sarà conforme alla ragione. Ma  questa stessa ragione e natura umana ripete il suo potere  regolativo dalla natura divina : « quod autem ratio umana  sit regula voluntatis humanae, ex qua eius bonitas mensuretur, habet ex lege aeterrm quae est divina ». (Sum  theol..).   In conclusione la filosofia patristica e scolastica, si  accorda nel porre il principio normativo dell'operare u-  mano fuori aeiruomo stesso, cioè nella sapienza divina  identica essenzialmente col suo volere. Bei}e ^ n)ale.  Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che  tutto ciò che è, in quanto è, è bene : « Omne quod est, in  quantum est, est bonum » (Sent.). E poi-  ché l3io é d'autor© di tutto ciò che esiste Dio é rautore di  ogni bene.   (Sent.) (Deus) omnium quae sunt auctor  est, quae in quantum siuiif bona sunt. Ma non viieme di conseguenza che Dio sia l'autore an-  che del male, giacché il Lombardo come tutti gli Scolastici, concepisce il male come gualche cosa di propria-  mente negativo, cioè come la privazione o la corruzione  del bene.   (Sent.) « Malum enim est comiptio yel  privatio boni... Quid enim aliud quod malum dicitur nisi  privatio boni?».   Anche Agostino nel libro De civitate Dei (Migne) parla di causa deficiente e non efficiente  del cattivo operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem cau-  sani malae volunfalis: non enim efficiens est, sed defl-  ciens, quia nec illa effectio est sed defeclio ».   E di qui trae buon argomento il Maestro a confutare  l'obbiezione di eoJoro che insinuano che Dio essendo au-  tore di tutto ciò che esiste, deve essere altresì autore del  peccato.   (Sent.) « Quocirca mali auctor non ^t  (scil. deus) et ideo ipse summum bonum est, a quo ^n  nullo delicere bonum est, et malum est deflcere. Non est  ergo causa deficiendi id' est tendendi ad jion esse, qui,  ut ita dicam, essendi causa est, quia omnTum quae suoit,  auctor est, quae in quantum sunt, bona sunt... Ecce aperte  habes quod deficere a deo... malum est ».  L.oiT7bardo nel cielo del 5oIe.     Entrato €on Beatrice nella sfera del sole Dante, ap-  preoide diairanima di S. Tommaso chi essa sia e chi siano  i fulgor vivi e vincenti Sella sua ghirlanda.   Se si di tutti gli altri esser vuoi certo,  Di retro al mio parlar ten vien col viso  * Girando su per lo beato serto,   QuelValtro fiammeggiare esce dal riso  Di Graziano, che Vano e l'altro foro  Alutò si che piace in Paradiso.   L'altro ch'appresso adorna il nostro coro  Quel Pietro fu che con la poverella  Offerse a Santa Chiesa suo tesoro   {Par.);.   Qui Buti commenta :  con la poverella offerse fece la sua offerta della sua fa-  cilità, come la po-verella della quale dice rEvangelio di  Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva, ma  con buon cuore e peirò Iddio accettò più la sua offerta che  quella del ricco, che, benché offerisse molto, non offerse  con si buono animo. Commento di Buti sopra la Divina Commedia per  cura di C. Giannini Pisa I più dei oammentatapi ricordano le prime parole del  prologo del Liber Sententiarum :   « Cupientas aJiquid de penuria a-c temiitate nostra  cum paupercula in gazophilacium Domini miUere ardua  scandere et opus supra vires nostras praesumpsimus».   Le parole di C. chiaramente fidludono al  noto episodio della poverella, riportato da San Luca e da S. Marco  e nooi da Giovanni  come erroneamente riferisce il Buli.   Dice San Luca:   « Respiciens autem vidit eos, qui mittebant munera  sua in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam vi-  duam pauperculam mittenlem aera minuta duo. Et dixit:  Vero dico vobis, quia vidua haec pauper, plus quam  omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia siti miserunt  in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi, omoiem  victum suum quem habuit misit.  Così ad un dispreeso racconta San Marco con leggere  vananti : solo è da notarsi che egli chiama la donna uidua  una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col diminu-  tivo tanto affettuoso di paupercula che per essera stJ^lo  scelto da Pier Lombardo fa pensare ch'egli si sia riferito  in special modo al passo di San Luca della Volgata. Ma ciò poco importa : importa invece assai il notare  come l'umiltà della vidua paupercula avesse toccato «profondamente il cuore di C. il quale nel vergare  quelle parole doveva forse ricordarsi con teneirezzìa di  un'altra vedova poverella di un lontano paese di Lombardia: e come ALIGHIERI che nei veirsi che dedicava ai persooiaggi  della sua^ Commedia soleva «per lo più introduirre Tele-  mento soggettivo dei ricordi ed affetti personali non senza  ragione ricordò quel punto e quello solo dell'opera di  C..   L'influenza che il ma^fister Petrus esercitò sul pensiero del Divino Poeta non è stata ancora tutta quanta  spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11 tkeologus  . Dantes nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il  posto d'onore che gli conviene, ma ad AQUINO commentatore di C.. Se ALIGHERI ed AQUINO  non si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti a  poca distanza di tempo e sono entrambi commentatori e  perfezionatori dell'opera ancora rozza si ma feconda di  Pier Lombardo : l'uno raggiunge finalmente colla sua ma-  unifica somima quel connubium fidei ac rationis che il  Magister aveva solo tentato, Taltro ina canta il trionfo  glorioso. Che Dante avesse letto il Rbro delle Sentenze con  mollo amore ci è provato non solo dai versi succitati, ma  da numeirosi passi del Paradiso ove come diremo tosto  rimitaziione risulta evidente : ed io sarei anche propenso a  credere che rAlighieri non si fosse Termato alla lettura di  quel libro solo ed a tutti noto di Pier Lombardo.   Qui sono tratto ad accennare fuggevolmente alla  famosa questione del viaggio di Dante a Parigi : questione  ove troppo, eletti ingegni si cimentarono perchè io presu-  ma di recare qualche nuovo raggio di luce.  Dante zill'Uoiversiià di Parigi. Giovanni di Serravalle comme«ntatore racconta. Anagogico dilexit Theojogiam sacram, in qua diu  studuit tam in Oxoniis in regno Angliae quam Parisius  in regno Franciae : et fuit Bachalarius in Universitate Pa-  risiensi in qua legit Senlentias prò forma magisterii : legit  Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut moris est, et  fecit omines actus qui fieri debent per doctorandum in  Sacra Theologia. Egli continua poi a dire che Dante non potè ottenere  la laurea perchè gli mancò il denaro per la licenza (deerat  pecunia). Onde tornò in Firenze per acquistarlo, optimus  artista, perfectus Theologus e quivi fatto «priore si diede ai  pubblici uffici e più non si curò della Università di Parigi.  Il (racconto di Giovainni di Serravalle fu accolto dairO-  zanam e dairArriviabene con maggior serietà che mm me-  (1) G. TiBABOSOBi — storia della leti. Hai. Modena - Fratria F. de Serravalle Translatio et comentum totius libri  Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da Colle, nunc primum  edito — Prati - (Jiachetti in fol. ritasse. Secondo un tale» racconto Dante sarebbe andato a  Parigi nella sua giovinezza contro raffestazione del Villani, del Boccaccio, di Benvenuto da Imola che fanno il  viaggio degli ultimi anni. Ed il chiaro professor Cipolla  osserva che è appena credibile che Dante fossei in cpiel  tempo cosi spirovviiyto di credito da non potere ottenere  la somma che gli era necessaria : onde giudica il racconto  di poca probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il rac-  conto appare manifesta quando un poco si pensi al modo  come era organizzata la facoltà teologica di Parigi ai tempi  di Dante.  Il buon vescovo di Fermo volendo mostrarsi molto ap-  profondito nella conoscenza dei gjradi accademici com-  mette degli errori grossolani : et fuit Bacchalarius in Universitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma Ma-  gisterii: legit Biblia. Ma si è veduto nella parte storica del lavoro che  Tanno in cui il baccelliere éiventsiV aSententiarius cioè  commentava in pubblico il libro delle Sentenze non pre-  cedeva, ma seguiva la spiegazione della Sacra scrittura:  dopo quell'anno il baccelliere si chiamava baccalaureus  forrnatus che risponderebbe mutatis mutandis al nostro  laureando. Perciò Giovanni di Serravalle per essere esatto  come vuol parerlo, avrebbe dovuto invertire l'ordine delle  parole. Ma non vogliaino essere molto esigenti su ciò:  c'è ben altro.   Gli omnes aclus qui fieri dehent per doctorandum  in sacra Theologia (1) erano e forse Giovanni di Serravalle lo ignorava, i sermoni (sermones) e le conferenze  (controversia^) che si dovevano tenere nei .tre o quattro  anni che precedevano la licenza ed infine le tre dispute  pubbliche di cui la più solenne veniva chiamata Sorbonica:  ma la licenzia (licentia) che veniva dopo tali prove accor-  data e che il Serravallei chiama con termini vaghi inceptio,  conventus^ non esigeva alcuna pecunia di sorta. Il SerravaUe e tutti i Commentatori si riferivano aU' accenno  Dantesco;   si come il baccelUer s'arma e non paria,  fin che il maestro la question propone,  per approvaria e non per terminarla.   Par.  - i8, Infatti già il concilio Lateranense del 1179 aveva  proclamato due punti fondamentali : la necessità e la gra-  tuità della licenza ed un tale decreto trovò po'sto nelle De-  finire di Gregorio' IX. Solo per eccezione fu eoncess^o sul  finire del Xll a Pietro Comestore, cancellario di Nótre  Dameij per i suoi pregi personali, da Alessandro III, di pre-  levare uoiia piccola rimunerazione per la concessione della  licenza.   Ed ancora il Regolamento di Roberto di Courcon insiste sulla concessione gratuita ed ìncondiziomita  della licenza : ed una tale disposizione veniva conifermata  nelle reigole aggiunte dal papa Gregorio II di cui conosciamo il benefico intervento nei dissensi tra rUniversità  ed di Re di Francia. Nella famosa bolla Parens scientiarum viene prescritto formalmente « che il cancel-  liere non potrà esigere da coloro ai quali conferirà la li-  cenza né giunamento, né obbedienza, né denaro, né cau-  zione, né promessa ».   Ora è noto a tutti che lo statuto di Roberto di Courcon  confermato e completato dalla bolla di Gregorio IX, la  quale fu pure rinnovata senza modificazione da Urbano IV  continua ad essere per tutto il secolo XIII 'a  legge fondamentale deirUniversità e pertanto della facoltà  teologica di Parigi.   Per il che sembra a me che il fondo storico del racconto di Giovanni di Serravalle venga a mancare sempre  più di consistenza.   Carlo Cipolla nel suo dotto ìavaro Sigieri nella Divi-  na Commedia, dopo avere ossei-vato che il Sigieri ricor-  dato tra i beati del canto X deve ritenersi come Sigieri di  Brabante, e non va identificato col Sigieri de Conrtrai {Le  Clero) visisuto in epoca diversa, e neppure con quello di  cui si iparla nel sonetto del Fiore (Castets) avverso ad AQUINO, crede probabile, che ALIGHIERI fn a Parigi negli  ultimi anni di sua vita ed airincirca negli anni 1316-1318  e non vi ascoltò le lezioni di Sigieri di Brabante perché  questi era morto avanti il 1300 ( Feret tornando su questa questione nel volu-  me II deiropera cit. (cap. Les Sorbonnistes) crede errat-ì  così, l'opinione del Le Clerc che del Castets, combatte ^e   Giornale storico den« Lett. It. Voi. Vili — Torino LoescUer]  asserzioni di Gaston Paris, ed airiimesso che il Sigieri di  Dante è il Sigieri di Brabante che quitla cette vie en repu-  tation d'une orthodoxie parfaite, non si discosta mollo  dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra di mion  conoscere. Questo sembrerebbe coaidurci assai fuori del nostro ar-  gomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla a  questo proposito della partecipazione dell'Alighieri alle  lezioni dd Sigieri non mi facesse tosto ritornarvi.   Egli afferma che « per ciò che riguarda Sigieri, altro  è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo personale, ed  altro è credere che questo ricordo personale sia tale dav-  vero da comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri  alla scuola di quel filosofo. Alle scuole di Parigi i libri  del Sigieri eratno rimasti auasi come lesti agli scolari,  tanta Sama le sue lezioni vi avevano lasciato ».   Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io ag-  giungerò che oer spiegare la profonda conoscenza che  Dante ebbe del Libro delle sentenze, non è necessario di  credere col Serravalle che Damle abbia commentato le sen-  tenze nella scuola di Teologia perchè lo studio che in quei  tempi se ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e che  già aveva provocato i lamenti di Ruggero Bacone, certo  potevano non poco contribuire a farglielo conoscer© più  in là del frontìsipizio e del prologo.   Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama vi  conosce C. ed entrambi egli ricordò con particolar cura nei suoi versi ove palpita un affetto personale. Ma se poca o nessuna influenza ha la filosofìa di Sigieri nell’opera d’ALIGHIERI; molta invece ne ha in quella di  C..  Un esempio:   Speme dissHo, è un attender certo  Della gloria futura, il qual produce  Grazia divina e precedente merlo.   {Par.)  P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de Paris – Ricarcl] Pietro di Dante, TOttimo, la Chiosa Cassanese, ricor-  dano la definizione di Pier Lombardo: «est spes certa  exjeiotatio futurae beatitudinis veniens ex Dei gralia et  mentis praecedentibus ». (Lib. Seni. IH. dist. 26).   Iacopo della Lama, rÀnonimo rioooimno assai meno  opportunamente a San Toit^màso: spes est motus appe-  Wiiae virtutis consequens apprehensione boni fulnri ad-  nui possibilis adiptsci ».   Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti  luoghi ove il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aqui-  nale, o meglio dire ove cosi San Tommaso come Dante  attingono -alla medesima fonte: Pier Lombardo. Qui si  ha una traduzione letterale delle parole del Maestro che  appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più fi-  losofica. Ma non è questo il solo punto ove un tale raf-  fronto è possibile.   Fu uno dei più assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni,  a far notare la ^ainde importanza che ebbe il libro del  Maestro nel pensiero di Dante.   JNella prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare  ri884), accennando a Pier Lombardo della cui opera si  giova Tespositore dei salmi di quella Bibbia, promise di  occuparsene : « In un altro mio scritto dove avrò Taiuto di  un teologo profondo, e mio buon amico, farò il confronto  tra le «proposizioni teologiche della Divina Commedia e  quelle dei libri delle Sentenze: ed il lettore vedrà che le  prime non sono altro che Tespressione poetica delle secon-  de, fedelissima e latta con invidiabile precisione ». Disgraziatamente Negroni occupato in altri lavori, non  potè adempiere .alla sua promessa, ma dando esempio dì  larghezza d'animo, consigliò ed aiutò l’amico suo Carbone, (Carbonara), poi prefetto Apostolico  deirÉritrea, nell'opera a cui egH non poteva attendere, e  ne promosse la pubblicazione. Carbonara pubblica infatti Slcuni Studi Danteschi  e   Tortona Tip. A. Rossi — Stttdi Danteschi; Dante  e S. Francesco; ALIGHIERI e FIDANZA (si veda)   Nella Biblioteca Negroni si trovano nel carteggio privato le lettere  che il Carbone indirizzava a Carlo Negroni piene d'erudizione e di  affetto per l'illustre amico. Trov.ansi pure tra i copiosi ms. due fa-  scicoli; n. 26: Pier L. nel Paradiso; n. 27: Appunti Danteschi. Essi  contengono citazioni, note erudite che il Negroni veniva man mano  scrivendo. La malattia e la morte tolsero il modesto studioso e gene-  roso filantropo aUa tranquilla ed utile sua operositét letterarii^.    nel volume I. dedicato al Neuroni, prese in esame» il I\'  Libro delle Sentenze collo studio: Dante e C. Questo appunto- che è il migliore ed il più originale, entrò  poco dopo inella collezione di opuscoli inediti e rari diretta  da Passerini per cura di Murari. In  esso il Carbone che si limita «all'esame delle distinzioni delle Sentenze, conclude che il seme che è  nel libro delle Sentenze di Pier Lombardo mostra i suoi  fiori ed i suoi frutti ini Dante.   Nella tornata del 19 Aprile 1891 airAccademia Ponta-  niana, il socio residente Alberto Agresti le^e una memo-  ria dal titolo: Eva in Dante ed in Pier Lombardo (1) ed  anch'egli ricordò a proposito di questi studi, Tamico Ne-  groni e lo studio di frate Michele da Carbonara.   Ponendo a raffronto i passi danteschi ove vien citala  Eva (tacendo di tre che non danno alcun ^udizio della  sua colpa : (Purg.) uno comune con Adamo (Purg.);  gli altri (Purg.; Par.), ove si dà un giudizio sfavorevole di Eva ed il passo del DeViilgari Eloquio  ove ALIGHERI chiama Eva praesumptuosissimam), cerca da  quali letture Dante ricavò il severo giudizio. Combatte To-  •pinione di V. Imbriani, (Studi danteschi. Firenze, Sansoni) che coIFesempio del Boccaccio vuol dimostrare 'i&  scarsa erudizione teologica di Dante. Nella testimonianza  di San Tommaso {Summa) Isidoro {Sentent.), Sant'Anselmo {De pec-orig.), Ugo  da S. Vittore, FIDANZA non trova la ragione delli  eccessiva severità deirAlighieri, bemsì in Pier Lombardo  (Lib. II. dist. 22) che così si esprime:   « Adamo non istimò vero ciò che il diavolo aveva sug-  gerito; stimò di peccare in maniera da esserne perdonato.  Forse come vide che la donna, gustato il frutto, non era  peranco morta, prevaricò e volle ainch^'egli fare esperimen-  to del legno proibito. Più però Ta donna, perchè volle  usurpare l'eguaglianza della divinità e levata in superbia  nimia vraesumptione^ credette così doversi avverare.   Adamo non volle contristare la donna, ma certo non  vinto da carnale concupiscenza, non sentila peranco in    Napoli, Tip. della R. Università, lui, ma per una certa amichevole heoievotenza per la quale  il più delle volte avviene che si offende Dio per non of-  fender l'amico. In un certo modo Adamo fu anch'egli de-  ceptus ! Nella donn<a /fu majoris tumoris praesumptio :  ella peccò in sé, nel prossimo , in Dio : l'uomo solo ui  sé ed in Dio ».   E l'Agresti finisce insomma col concludere che « stu-  diare la D. Commedia al lume dei libri delle Sentenze è  tutto un lavoro nuovo che manca alla letteratura dante-  ca ». A me non resta che augurarmi che un tale 1'  si compia e che una feconda curiosità subentri alla sterile  dilRdenza nelFaprire il libro di P. L. che Dante non certo  per cura della rima chiamava il suo tesoro.  I ìinyiìì dell'erudizione. Ristrettezza di tempo mi ha impedito di dare, com'era  mio desiderio, maggior svolgimento a questi insufficienti  cenni sull'influenza esercitata dal maestro delle Sentenze  sull'opera di Dante e non sulla Divina Commedia soltan-  to. Dell'utilità di una maggiore e più profonda conoscenza  di tali rapporti, è prov:a quanto si è venuto in questi anni  scrivendo dagli studiosii di Dante coll'intento in verità non  sempre raggiunto di recar "maggiore luce airinterpreta-  zione' del poema dantesco. Ancora in un recente fascicolo del Bollettino della  Società Dantesca Italiana. Parodi  m una dotta recensione consacrata ad un apprezzato studio  del prof. Surra su La conoscenza del futuro e del pre-  sente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio),  si vale del confronto colla dottrina del Maestro delle Sen-  tenze per meglio chiarire i dubbi che le parole di Farinata  non sciolgono sul modo di conosceniza dei dannati. Contro  la tesi del Surra, che fortificandosi del concetto delFìrra-  zionale nell'arte, ampiaonente illustrato da Fracoaroli, vuol chiudere il passo ^ai diritti 3eireru3ìzioaie, Parodi  dimostra, citando una distinzione del IV delle Sentenze. Ve animabus damnatorum si qua habent notitican eorum  quae hic fiunt, come l’esposizione di Farinata cresce d'importanza venendo a combaciare colla dotlrin<a professata  dal Maestro. Ed è certo che se la contraddizione non può  essere evitata dal pensiero umano, specie cpiando s'aderge  sulle ali della poesia, tanto in Dante come in C., scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa «preoccupazioaiei di  sfug^rle colla cura più scrupolosa.   Non si può riconoscere tuttavia all'erudizione il dirit-  to di andar troppo oltre, specie nelle sue conclusioni,  perchè Terudizioflie è alla poesia come la ragione è alla  fede, che il sapere riconosce potene illumi-  nare senza spiegarla interamente.   Se anche col raffronto più minuto dei passi danteschi  ooiropera di C. (non limitato alle Semtenze) noi  potremo trovare nuove e curiose rispondenze che ci dimostreranno le fonti di sapere e d'inspirazione del Poeta divino, dovremo limitarci a riconoscere nulla più che la  materia preziosa, ma informe trasportata e nobilitata dal-  Fopera (in che è il fatto nuovo) dello statuario.   E\ per limitarmi ad un solo esempio, notevole il modo  onde mei Sermoni vengono disposti gli argomenti morali  che il Lombardo distilla da un qualunque versetto biblico:  sono quasi sempre tre i sensi che se ne ricadano ed il numero 3 entra con una particolare predilezione ìiell armo-  nica e spesso sin troppo misurata distribuzione delle parti  nei suoi discorsi. Queste ed altre minuzie di logica ar-     Tres igitur tortae pani8 tres sunt modi dìvinam paginam in-  telligendi Triplex igitar pani8 eat intellectus: tropologicus, scilicet  moralis vel historicus; mysticus, idest allegoricus et anagogeticum  Moralis mores componit, exhauriens malos et confovens bonos; allegorìcufl mentis acuit oculos ut mysterioram abdita penetrare  valeant; anagogeticus mentes super se effundit ut in voce exulta-  tionis et confessionis, constituto die, e condensis usque ad domum  Dei rapiatur; nam sicut allegoria alitar intellectus, ita anagoge su-  perior sermo vel sursum tendens interpretatur. Moralis, idest tropo-  logicus, est dulcior, historicus facilior, mysticus auctior. Historicus  insipientibus, moralis proficientibus, mxsticus perfìcientibus congruit.- Sermone: Convertimini fili revertentes . .  fine inedita riportata da Haureau op. cit* chitettura oasi caire a Pier Loonbardo, come si avverte  nello slesso Prologo delle Sentenze', do ve vaino esercitare il  loro influsso nel poeta della Vita Nuova e del Paradiso.   Ma non dal solo Pier Lombardo, bensì da tutta 'a  scienza teologica, Dante raccolse mei grande specchio  ustorio della sua mente, la luce che brilla nel suo divino  Poema. Né possiamo comprendere come uno studiotso  deìlla coltura del prof. Amaduocd, possa restringere nel-  rarido opuscolo XXXII di San Pier Damiano, quasi l'unica  tonte del poema dantesco, lo schema dottrinale a cui Damte  avrebbe informato, con perfetta fusione della lettera col-  l'allegoria^ la Commedia, e annunciare seriamente che di-  stinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e fermate {num-  sioni} deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato dalla  modesta fantasia di San Pier Damiano, verrà sostituito  nell'esame del poema ai fondamenti ipotetici, il fondamento  scientifico, gli enigmi di sei secoli, troveranno fàcile spie-  gazione e sarà aperta la via ad una nuova valutazione  artistica (1).   Ma tale via non Tha aperta Dante stesso coU'opera  sua?     (1) Z/' opuscolo XXXII di S, Pier Damiano fonte diretta della  Divina Commedia? in Grùymaìe Dantesco dir, da G. L. Passerini  voi. XXI - Firenze, Dischi. cfr.  Parodi La fonte diretta della divina Commedia —  in Marzocco, Firenze. A questa trattazione epero far seguire prosslntamefite un   canltolo, su C. E LA SCUOLA. Ohe per l'economia dei presente iavoro non potè essere inoluoo. Le origini oscure. La nascita a Lumellogno. L'ambiente nativo. Dipendenza di Lmnel-  il^gno dal Capitolo Novarese — Stato delle scuole  novaresi. Pier Lombardo fu allo studio Bolog^nese?   Gap. il — Nell'ombra del cammino . . pag. 25  Alla scuola di Leutaldo novarese a Reims. « ParisiUiSi » — La « universitas scholarium. San Vittore. Santa Genoveffa. Nella luce della fam^i. La scuoia di Nòtre Dame. L'episcopato. La morte. La  tomba di S. Marcello. Le onoranze. L'opera e la fortuna di Pier Lombardo. Le Sentenze. I Sentenziarii. I detrattori. Il « tesoro ». Opere edite ed inedite. I Seamoni.  LA DOTTRINA FILOSOFICA. Posizione di C. nella filosofia.  Metodo. Religione e sciens&a.   Problema metafisico e conoscitivo pag. 8Ì  Teoria degli universali. Teoria ctella oonoscenza. Problema ontologico e cosmologico. Sostanza ed accidente. Natura e persona. Materia e forma. Causalità. Spazio e tempo. CosmoJKJgia — Posizione dell'uomo neirunàverso.   Cap. Problema psicologico. Potenzie dell' aiiim.. Natura dell'ajiima. Origine dell'anima. Relazione tra l'anima e il corpo.  Problema morale. Libero arbitrio. Felicità. Moralità delle azioni  umane — La legge morale — Bene e mailie.   Gap. vi. — Lm dottrina scolastica in C. e Dante Pier Lo!ml>ardo nel cielo del Sole. Dante adl'Università di Parigi. Influenza di Pier Loonbardo  sull'opera di Dante. Aggiunta necesaaria. I limiti  dell'erudizione.  Ritratto di Pier Lombardo dall'incisione del Thevet « Les vrais portraàts ecc. »  Paris. Portico della Canonica di Novara da un'incisione delle « Monografìe Novanesi »  MigUo Vene de la VUle de Paris du coté de Vlsle   N. Dame   (antica incisione).   A. N ótre Dame de Paris, (antdca incisione).  Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del SEGNO e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato DE DIALECTICA De dialectica. In esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9).  In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luogo, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect.). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi.  Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozione equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii). Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco, è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione semiotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co­ se che significa. Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo­ rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: (i) il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag.). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De Mag.) . In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere. È comunque innegabile che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­nardelli), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  (significabilis, non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa, né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio. L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ.). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse. Nel De Magistro Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana: "Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro". Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere. Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov, porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato. L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1 , il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice).” La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica. Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij (1975). Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte, means that the locals never saw him as one of their own!” --  Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --. Familia patrizia di Novara.  Pietro Cardano. Keywords: Cardano, implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library. Cardano.

 

Grice e Cardia: l’implicatura conversazionale del culto del laico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with a tweak – Italy and religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the roots in the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking about!” – Grice: “Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call a professore di filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures of the very idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of vocabulary in Engish – calling Hart the professor of right would be unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma. Clifton has chapel services and a focus on Christianity. This is the Chapel: here, my son, Your father thought the thoughts of youth, And heard the words that one by one The touch of Life has turn'd to truth. Here in a day that is not far, You too may speak with noble ghosts Of manhood and the vows of war You made before the Lord of Hosts. The magnificent Chapel sits at the heart of Clifton both spiritually and physically and has played an important part of life. Topped by a striking copper-clad lantern and built from soft red and honey-coloured stone, the Chapel provides Christian calm, and forms a powerful link between past and present. It is a place where the community come to mark milestones and celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual guidance.  Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the names of all those who have carved out a reputation. High on the walls are memorials of pupils of another age who died by accident or disease serving the Empire. One bears the moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good name endureth forever.’  The Chapel was built to a design by C. Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie. Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica statoechiese.it) Colaianni (ordinario di Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari) Quale laicità. Con questo saggio C. si affaccia sul versante polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica, separatistica, fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno effettivamente impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della commissione governativa Machelon1. Da esso C. deduce che lo stato è ormai amico delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza degli affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della memoria. C., Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino. Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, su Reset Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica Dal quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le scuole private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a C. di avallare questa laicità realistica, che ad altri è sembrata più propriamente “praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente C. è severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la seconda parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni interpretazione evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione tollerante, aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione diventa  2  Per esempio a BELLINI nel saggio coevo Il diritto d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. Come quelli di ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di BIANCHI, La differenza cristiana, o di RUSCONI, Non abusare di Dio.  Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le numerose voci laiche dell’islam moderno4  né, a livello istituzionale, ad annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’in contrapposizione alla sharī ‘a” 5. D’altro canto, bisogna riconoscere che abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei ricordare qui almeno Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel suo La laicità del credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta impedendo il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto dell’eterologa, della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento biologico, visto come anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo del principio di laicità come fondamento di una legge sulla libertà di religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche C. indulge su questi punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e contro il relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità. Tanto rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con Habermas7  - “quale ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della costituzione possono avere per una società [Cfr. l’antologia di BRANCA e quelle più recenti di V. COLOMBO. 5  Così ne Il linguaggio politico dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6  Cfr. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. HABERMAS, Il futuro della natura umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (statoechiese  postsecolare”, come la nostra. In una democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non paternalistica, ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori esterni, ma come persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia e capaci di mediarle alla ricerca di quella “giusta”8. Una laicità pluralistica e perciò non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono da una parte sola.  8  In questo senso rilegge il da mi factum, dabo tibi ius RODOTÀ, La vita e le regole. 9  Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (C.) (Convegno Giuristi) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. Laicità e multiculturalismo. Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché sono diverse e complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche riflessione storica che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza perché l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene altrove, avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie diverse di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo concordatario neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione etica, e al multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei rapporti tra religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso. Quindi, l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo orizzonte storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili conduttori che chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che voglio privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e moderazione, tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e soluzioni storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più accreditata ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata ed equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario, in modo speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di moderazione non intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente presente nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della laicità in Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti modi, ma nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido compromesso con l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della classe dirigente liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento, ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno (tipicamente transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a stravolgere le strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti, l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come quelle transalpine, la prima che vieta alle congregazioni religiose non riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati , non segue la cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in quelle elementari. La Legge Coppino non dice nulla al riguardo, e questo silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un Regolamento conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di fondo tra il sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. L’elogio della moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che animano la cultura politica, danno vita al pensiero più autenticamente anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza cattolica e correnti laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in Italia condiziona a lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il laicismo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in Francia, laicità voglia dire tante cose negative: estraniazione della religione dalla società e dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di matrice ottocentesca che alle correnti culturali di grande dignità che da Spaventa a Bissolati rivivono poi in Salvemini e in Rossi, e che di più aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul piano civile e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo tra Chiesa e fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra la cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli. Anche l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le trasformazioni della società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate. La critica più autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione e società. Una conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano, senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa lontananza della cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone su un particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il liberalismo italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per seguire un indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la libertà di insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo medesimo, dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’ Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia, però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia, pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un elemento equilibratore nel periodo separatista, con la stipulazione dei Patti Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il lavoro che ha portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e, dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del separatismo. Anche quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera il valore politico del patto con il FASCISMO. Non a caso il giudizio delle forze politiche ANTI-fasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Croce approva la soluzione della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la questione romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto avrebbero dovuto farlo i liberali. Infine, i programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la guerra in vista della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler rimettere in discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa dire che, senza una questione romana risolta, forse non avremmo avuto quel tipo di rapporti con la Chiesa che l’Italia elabora e che ha saputo anticipare un modello oggi utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei. Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono riconducibili al solo articolo, quanto alla maturazione di una laicità che è destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società, si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti, ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti. La laicità torna di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli, su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia, l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni religiose, così dobbiamo riconoscere le varie moralità che affiancano o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono il campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma nasconde un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato riguarda le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e della coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire qual è la verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità nel tempo, nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar vita a equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge. L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il “rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente, questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale. Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa pratica non si impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari, meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica. Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo, perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze, che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non costituiscono istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio è di competenza della cronaca nera.  8 Se in un paese europeo si discute su temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini, avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile. Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie, alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione (peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce, violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello Stato. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri, alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo, riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa, con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto. Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro convegno.  Trovare l’uomo capace, e l’investirlo de’ simboli della capacità (culto, o com’altro sì chiami) così ch’egli possa avere agio a governare secondo la propria facoltà, è l’officio di ogni procedura sociale.   A questo punto il Carlyle riscrive ‘worship’ WORTH-ship, per accentuarne l’etimologia da ‘worth,’ valore, compincendosi che la ragione etimologica venga quasi ad attestare la nocessità del fatto che gli sta tanto a cuore.   Per mantenere questa relazione logica Loubatières muta ‘worship’ nell’*équivalent adequat* di *élection* da prima, e poi di *élite*.   ‘Carlyle,’ soggiunge Loubatières, de son pergant et rapide regard, dénude la racine des mots et des choses.’ Carlyle non è punto tenero degli studi etimologici.   Le parole gli si dischiudono ad un tratto come si fendono le roccie allo sguardo diabolico del suo jötun Hymir.  Ci fa ripensare a quello che dice Daudet:   ‘Il y a dans cortains mots que nous employons ordinairement un ressort cachè qui tout à coup les ouvre jusqu’au fond, nous les explique dans leur intimité exceptionelle.’  ‘Puis le mot se replie, reprend sa forme banale et roule insignifiant, usé par l’habitude et le machinal.’Carlo Cardia. Keywords: il laico, filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano deve essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali – repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa – credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale – l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la critica dei antichi romani al cristianesimo, il culto del laico, worship of the hero, il culto dell’eroe -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The Swimming-Pool Library. Cardia.

 

Grice e Cardone: l’implicatura conversazionale -- La nudita eroica di Napoleone -- Clark Kent; ovvero, sul sovrumano – trasumanar – l’eroe di Vico – hero-worship -- Annunzio e il fascismo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo italiano. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes ‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista". Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia, filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi & figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi, Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi, G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà, Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma, Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo. Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna, Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile, Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo, Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano, Editori Del Grifo,  Ludi. Bologna, Soc. Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano, M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta. Un inattuale nella sua attualita. i Napoleone non mi sembra per nulla così grande come  il Cromwell. Le sue enormi vittorie, che s’ estesero A 1 «Napoleone fu l'idolo della comune degli   " 3 i gli nomini, perchè  a le qualità e le facoltà degli Cn OI k Ni  Chi co: i 0 fesso moderno; auche quand'è all'apice della fortuna;  “gli aleggia dentro lo stesso spirito che troviamo nei giornali del tempo.    da 7  si limitò alla piccola Inghilte  che gli alti trampoli ti  la statura dell'uomo per essi  lui sincerità parl  d'una specie molto inferiore: NOn quel suo  silenzioso. Per 1  L'universo; NOn il « cammino co  lo chiamava;   ‘pensiero, il valore, che S1 co   latenti, © 8° accendono poi quasi amm Napoleone vive in un’ epoca che non avera più  este: ;  fede in Dio; che considera non-entità jl significato ; a  d’ogni silenzio, d'ogni qualità latente: non PIù sulla |. È  Bibbia puritan& aveva egli & fondarsi, ì  scettiche Enciclopedie. Eppure,  tanto ei giunse- ed  meritorio L essere arrivato così lontano. Tl suo carattere :  compatto, pronto ed articolato, in ogni Senso, è in sè -  stesso piccolo; forse, a paragone i quello del nostro i  grande Cromwell, caotico ed inarticolato. Non è « muto  profeta che si sforza di parlare.; > ha piuttosto in sè  un portentoso miscuglio di ciarlataneria ! Il concetto  dell’ Hume, d'una fanatica ipocrisia, Con quanto è in esso  di vero, potrà applicarsi molto meglio Napoleone che  non s’ applicasse al Cromwell,  Maometto od ai loro  simili, per 1 quali realmente, preso & tutto rigore, conte-  neva a mala pena alcuna stilla di verità. Sin da prim-  cipio, appare in quest’ uomo un elemento di riprovevole  ambizione, che alla fine lo vince,  trascina lui e l’opera  sua in ruma.  a SE vi be divenne motto prover=  era necessario di Ei a Se ARen  alto il coraggio de’ DARE bisognava tenere  aggio de’ suol uomini e così  plesso, non ci son ; via. Fio  Non è un santo, mon è un cappuccino, per Usare la    nemmeno un eroe, nell'alto signi  \ x guificato d  al capo VI: Napoleone o l' uomo di pagata pa    tutta 1 Europa, mentre il e: o di &  da  espressione sua; È ;  » (Emerson, op. cita È    dedi  $ A.  prrura SEST è  i eglio, lungo    e stato ID o  resse Ind  so, se non at i  oleone ste55° ;  atti, ba alcun proposito che sì  ; :orno; ch'è destinato  e KI x .  ‘no vantaggio può mal ve-    anl a  dolo one? Le menzogne SI sco-  ul a ruinos@ La prossima  agi ‘ near   È e prestar fe al bugiardo; quand an  +1 della più alta impor prono, © se  nessuno VOST  Da uand' anche s1a    che dica il vero» È ;l vecchio grido: < Al   tei venga creduto. A  cr È Una bugia è nulla; al nulla, nom Potere  lupo ‘> a farete, e avrete    vare qualch - alla fine, null    er giunta rimess Y x  È Dare verain Napoleone una certa sincerità ; anche  è)    nella insincerità, bisogna distinguere quanto è super:  ficiale da quanto è fondamentale. A traverso & que  ste sue macchinazioni esteriori, & queste ciarlatanerie,  ch''erano molte e riprovevolissime, vediamo pure nel-   Jla realtà, istintivo e impossi-    l'uomo un certo senso de )  bile a sradicare; vediamo ch' el Sl fondò sul fatto.... SI  n lui l'istinto di na-    tanto ch’ ebbe alcun fondamento. I  tura è superiore alla cultura. Il Bourrienne ' racconta  che i suoi savants, in quel viaggio d’ Egitto, s' affanna=  vano una sera a dimostrare che non ci può essere Dio.  Erano riusciti a provarlo, a loro grande soddisfazione,  con ogni maniera di logica. Napoleone, guardando su,  alle stelle, risponde : «La dimostrazione è molto inge-   gnosa, messieurs ; ma chi ha fatto tutto ciò? » La dot-   trina atea gli passa sopra come un’ ondata ed egli   rimane al cospetto del grande fatto: « Chi f ti   ci09 > Similm Ì | fece utto  ente nella pratica: come 0   possa essere grande e trionfare i gni.u9Maro   onfare in questo mondo, egli 1 Mémoires de Mi de Rourri. i  Villemarest, Paris, chez Tadrocat, lui-meme, rédigéa par Mi de    Fauyol  Fauvolot do Bonrrionna, amico d'infanzia e segretario    timo di Napoleone, — colui  MA i, colui cho formulò, d'accordo co  diem nl DE Oi orrori contenuti ola COLI REA  to I ‘ourrienne et nen erreura volontaires dI RT  fontraverso tuttii viluppi, il nocciolo pra    vede,  de direttamente.!  tione; ed a quello ten 9 2 bj pei  driscalco del suo palazzo delle Tuileries gli    e tappezzerie, dimostrandogli ‘con    me fossero magnifiche, e DEF giunta @ He,  mercato; Napoleone, Per tutta risposta, hiese Sa  Ni forbici, mozzò una napPInA dl oro dele o  finestra, se la messe in tasca, e tirò via. Qualche Hai :  dopo, la cavò fuori al momento buono, gran È SE  rore del suo fornitore: non era Oro, ma. orpello! ; no-  tevole come anche a Sant' Elena, sempre; sino & #  ultimi giorni, egli insista sul pratico, sul reale: < A che  parlare e lamentare? & che, sopra tutto, leticare? Non  ‘gi viene con ciò ad alcun risultato; nulla si riesce,  a far nulla. E se nulla potete fare; tacete! > Parla  ‘spesso così a’ suoi poveri seguaci malcontenti ; è come  una forza silenziosa tramezzo alle loro morbose querele. A  E per conseguenza, non possiamo dire che fosse in n   lui pure una fede genuina, Der quant’ era possibile? Ve- i  deva in questa nuova enorme democrazia, che s’ affer- n  mava nella rivoluzione francese, un fatto che non sì può -  sopprimere, un fatto che il mondo intero, con tutte le  sue vecchie forze e le instituzioni, non può metter da  parte: di ciò egli aveva il vero intuito, e quell’ intuito  trascinava seco la sua coscienza ed il suo entusiasmo :  era la sua fede. Forse che non ne interpetrò bene  l’oscura portata ? La carriòre ouverte auv talents — gli  strumenti & chi sa maneggiarli: quest’ è effettivamente  la verità, tutta la verità anzi, e comprende tutto il si- :  bo dell riluzione fece 0 i a  ix Ò n ‘ »  al ieri i dda  DE nidi pae CE cedono innanzi a quest'uomo Dire ecm  vr i rat dp  degli soci dl diplomati e vugle cha ogni ir  facoltà di RIGA RARI HRolnio: egoista, prudente, psn se :  ale parvenza altrùi, uè da e sntisinne. 1a Siocniae da alcuna @  re, da nessuna fretta. » (Emerson, loco cit, sì VI meg SaIoaaai Si ù Napoleone nel suo primo periodo sie to  “vero democratico ; nondimeno, Per sua natura, QI  ati ita mili sapeva che Ja democrazia,    in quanto mai fosse verità, non poteva essere: RIO  ed odiava cordialmente P'anarchia. T1 20 giugno 5  seduto col Bourrienne in un caflè, mentre la folla Diso,  schiamazzando, Napoleone esprime il più DIOCr, a 3 i-  sprezzo per le antorità che non reprimono que! dio  dine. Il 10 agosto sì meraviglia che nessuno prenda 1  o di que’ poveri Svizzeri : vincerebbero Se uves:  dante. Tanta fede nella democrazia, eP7  comand    sero un coman I I  pure tant! odio dell’ anarchia sostengono apoleone IM  illanti campagne    grande Opera. Nelle br IO]  d'Italia, via via sino alla pace di Léoben,' 81 direbbe  che il suo ideale sia questo: fatta trionfare la rivoluzione francese; affermarla contro questi simulacri aus  striaci che 0Sano dirla, un simulacro! Nondimeno,  egli sente pure; ed ha diritto di sentire, quanto neces?  siria sia una forte autorità; e come senz) essa l’opera  della rivoluzione non possa prosperare nè durare. Fre-  nare quella granda rivoluzione devastatrice, che divorava  sè stessa ; domarla così, che, raggiunto il suo intrinseco  scopo, essa possa divenire organica, capace di vivere tra  gli altri organismi, tra le altre cose formate, e non sol-  tanto quale opera di devastazione, di distruzione : non  mirava egliin parte a questo come alla vera mèta della  sua vita? non s'ingegnò, anzi, effettivamente, di far  IA A traverso Wagram ed Austerlitz, a traverso  Re.  SOT aan Hg per osare ed operare, € s'inalzò  ica IRE re. Tutti gli uomini videro  sione Cad Ro ioni soldati solevano dire  ai dala avvocati di Parigi, tutti  ‘Bisogna che mettiamo là il Pan Diga  ‘andarono, e lo messe ni nostro Petit Caporal!> E  S ro là; essi, e tutta la Trancia in    tutta la sua  DAI  massa E poi il consolato; 1° impero; la vittoria su tutta  pEuropa {.. È abbastanza naturale che il povero luogo-    ” n 9  tenente del reggimento La Fère, potesse apparire ai pro-  i ‘n erande fra quanti nomini fossero da 56    sto punto; quel fatale elem nto di ciarla-  0. Rinnegando la sua vel   chia fede nei fatti, cOn jò a credere nelle parvenze,  brigò per imparentarsì con le dinastie austriache, col  papati, con le vecchie false feudalità, che pure un tempo  gli apparivano chiaramente false; pensò & fondare una  e così via — come se la enorme   mirasse che @    dinastia Sua  rivoluzione francese non    era dunque € dannato a  zogna;> è terribile, m®    il vero dal falso quando v  ventosa ammenda, questa, che 1 uomo paghi per avere    ceduto alla infedeltà del cuore. La falsa ambizione ego  stica era divenuta ora il suo dio: una volta scesi sino  all’inganno di sè stessi, tutti gli altri inganni seguono  naturalmente, € si cade sempre più e più basso. In quale  gretta e rappezzata miseria, in quale mascherata tea-  trale di manti di carta e d'orpello, aveva ravvolta que-  st'uomO la propria grande realtà, immaginando cor ciò  di farla più reale! E quel vacuo Concordato col papa;  che pretende ristabilire il cattolicismo mentr' egli stesso  1 riconosce ch è il metodo di estirparlo, la vaccine  religioni e quelle cerimonie d’incoronazione, quelle con-  È sacrazioni nella chiesa di Notre-Dame per mezzo della  Ai. vecchia chimera italiana — « cui nulla mancava, > come  disse l’Augereau,' ca completarne la pompa, Se non'quel  mezzo milione d’uomini, morti per far finire tutto ciò!...> +  | RIA Ae di Cromwell fu con la spada e con la —  ja, e dobbiamo dirla genuinamente vera. La spada    \aneria prese  Da or Francesco Auger at   Drama EETUIGIO), ANA onu, duca di Castiglione, maresciallo e pari di |  ‘che fu governatore a Berlino nel 1818, è difese Tione nel 1814    18 fruttidoro (LT9T); © ne ESTA. i  ETTURA SES  ; lui senz alcuna chi-  blemi del purttatni  Aveva usato en-  ; I  a et pretendev® ora difenderle!  bagliò credette troppo  vide nell'uomo    di -]*   i ta facilità...  della fame © di questa 12  Siglo ta (Lor che edificasse sulle nubi, e:  SAR ina, e di arve dal mondo?    i ni Sì  ‘gua casa IN confusa rund; | i DO  art in ciascuno di noi, esiste quest SE.  e potrebbe svilupparsi ove la tenti    ciarlataneria, ;  fosse forte abbastanza. € on    Ma il suo sviluppo; invero; |  come ingrediente riconoscibil e  ie DE: Sa a di Napoleone, &  stessa piccina. Che fu dunque 1 opere SI  i lpore? Uno sprazzo come di po   malgrado di tanto sca p 3 Re  vere da fucile largamente sparsa; Una fiamma t)   di eriche secche. Per un'ora, | universo intero sembra  avvolto dal fumo e dalle fiamme; ma per un' ora sol-  tanto. Poi svanisce, ed ecco riapparire Vl umiverso CON  le sue vecchie montagne ed i vecchi fiumi, con le stelle  nell'alto e giù sotto il benefico suolo.   Il duca di Weimar diceva sempre agli amici di farsi  animo, chè questo Napoleonismo era ingiusto, era men-  zogna, e non poteva durare. La teoria è vera. Più questo  Napoleone calpestava il mondo, tenendolo tirannicamente   + oppresso, più fiera sarebbe un giorno la reazione del  mondo contro di lui. L' ingiustizia si ripaga da sè, e con  uno spaventevole interesse composto. Non so davvero  a in dina pro alt OG  Dio si ha risersata jar lui Ladino Boo oi SA TmaSoni ne  PESI Lira si, Sraianol: cho vuol gio del HIFEMENE   la la mila cl 1 ila son fumi tie  tnio parere non durabile perchè LARA RE LIE ICINLI  cod’ artiglieria 0 veder affogare il suo reg-    jelior pal 7 ; cite  rimento migliore, anzichè fucilare quel povero libraio  {edesco palm!? Fu un'aperta ingiustizia, una, tirannia,    un assassinio, che nessun uomo, la dipinga pure con uno  strato di colore alto un dito, potrà mai far apparire  altrimenti. Questa ed altre simili ingiustizie s' impres?  sero profonde nei cuori; un fuoco represso balenava  dagli occhi degli uomini quando vi ripensavano.... aspet-  tando il giorno! Ed il giorno venne: € la Germania gli  si sollevò d’ intorno. — L'opera di Napoleone sl ridurrà   a lungo andare & quanto egli compì giustamente, 2 quanto  la natura sancirà con le sue leggi, a quanto di realtà  era in lui; ® tanto, e nulla più. Il resto fu tutto fumo  e sciupio. La carrière ouverte Aux talents: questo grande  messaggio di verità, che ha ancora da articolarsi e da  adempiersi dappertutto, ei lo lasciò in uno stato affatto  inarticolato. Egli fu un grande schema, un abbozzo, non  mai completato: ed invero, forse che il grand’ uomo è  mai altro? Ma egli, ahimè, rimase in uno stato tr0ppo  rudimentale |...   È quasi tragico il riflettere alle sue opinioni sul  mondo, quali le esprime là, a Sant'Elena. Sembra pro-  vare la più sincera meraviglia che tutto sia andato &  quel modo: ch’ egli sia stato gettato là, sulla rupe, e  "che il mondo ruoti ancora sul suo asse. La Francia. è   ‘grande, anzi è sola grande; ed in fondo Napoleone è la  Francia. La stessa Inghilterra, egli dice, non è per na-  ura che un'appendice della Francia; < è per la Francia  n'altra isola d’Oleron. >» Così era per natura, per l ‘Non può comprendere, non sa concepire che la realtà  «ela confederazione del Reno veniva formandosi, la polizia scoperse al Sci librai furono arrestati )  ono per avervi avuto parte e Napol   Sa commissiono militare. Quattro degli Roca LARE   oro provincie: due, Schiderer e Palm, condannati a    mi % 4  to Napoloone fece grazia, una il libraio Palm di Norimberga vi atura di Napoleone. Guardate, infatti : ECCOMI QUI da    i  1 Nel 1806, mentre l’ esercito francese occupava ancora la Germania,    cuni documenti, che rivelavano i piani d'un comitato segreto d'insurre- e  LEmTURÀ de mma; che la Francia   TR da ci c  jeposto al suo P o, Ji non S1a la Francia.  3 ‘n a credere ciù    andezza, © dI DI ipbia i  nesta “iano, COSÌ compatta, così   ana, ì  g'è involuta; s'è quasi    sua N° 0  ante un temp: e a di fanfaronnadi    da tmosfer:  torbida n'ai osto & lasciarsi calpe:  LS contastare come pla  si tà alla Francia ed a sè;  0A   it A mire! Napoleone 7 1 costene  Ma, ahimè, OF he giov Le,  ui ; e natura, anch’ ess% si dia  Essendosi UNA volta staccato 1) st e)   scamp nel vuoto; è Vv ebbe per  o di rado tocco ad un uomo sorte tanto desolata:  e dovette morire; povero Napoleone !..    mento troppo presto sciupato, sino &  "& ecco il nostro ultimo eroe!   A si  er * *  Sa Tiltimo in un doppio significato, poichè debbono con    ‘]ui terminare queste nostre peregrinazioni a traverso  ‘tempi e luoghi così diversi, cercando, studiando gli eroi.  UR ME ne rinoresce: era un piacere per me in quest’ occu:  | pazione, sebbene misto a molta pena. È un grande s0g=  5 molto grave, molto vasto, questo che io, appunto  darmi tropp'aria di gravità, ho chiamato cult@  Esso penetra profondo nelle secrete vie del-  ‘e ne’ più vitali interessi di questo mondo;  tei ge bro ben degno di svolgimento. In sei  Invece che sei giorni, avremmo potuto far meglio.  lo: chi sa se nemmeno vi sono riu-  per penetrarvi un poco, dovetti  Dn DIRE Tronno spesso, con bru-  uttate là isolate, senza commento, ho ‘cortese benevolenza, non voglio ora parlare.  per saviezza e leggiadria, ha ascoltato pazient  pozze parole. Sentitamente, cordialmente, vi rendo    zie, ed a tutti dico: Dio sia con voil  Precisely a century and a year after this of Puritanism had  got itself hushed-up into decent composure, and its results made  smooth, in 1688, there broke-out a far deeper explosion, much  more difficult to hush-up, known to all mortals, and like to be  long known, by the name of French Revolution. It is properly  the third and final act of Protestantism ; the explosive confused  return of mankind to Reality and Fact, now that they were  perishing of Semblance and Sham. We call our English Puri-  tanism the second act : “Well then, the Bible is true ; let ils  go by the Bible 1 ” “ In Church,” said Luther ; “ In Church   and State,” said Cromwell, “let us go by what actually God’s  Truth.” Men have to return to reality ; they cannot live on  semblance. The French Revolution, or third act, we may well  call the final one ; for lower than that savage Sansculottism men  cannot go. They stand there on the nakedest haggard Fact,  undeniable in all seasons and circumstances ; and may and  must begin again confidently to build-up from that. The French  explosion, like the English one, got its King, — who had no  Notary parchment to show for himself. We have still to glance  for a moment at Napoleon, our second modern King.   Napoleon does by no means seem to me so great a man as  Cromwell. His enormous victories which reached over all  Europe, while Cromwell abode mainly in our little England,  are but as the high stilts on which the man is seen standing ;  the stature of the man is not altered thereby. I find in him  no such sincerity as in Cromwell ; only a far inferior sort. No  silent walking, through long years, with the Awful Unnamable  of this Universe; ‘walking with God," as he called it; and  faith and strength in that alone : latent thought and valour,  content to lie latent, then burst out as in blaze of Heaven’s  /lightning 1 Napoleon lived in an age when God was no longer  believed ; the meaning of all Silence, Latency, was thought to  'be Nonentity : he had to begin not out of the Puritan Bible,  but out of poor Sceptical EncyclopMies, This was the length  the man carried it. Meritorious to get so far. His compact,  prompt, everyway articulate character is in itself perhaps small,  compared with our great chaotic /^articulate Cromwell’s. In-  stead of 'dumb Prophet struggling to speak,' we have a por-  tentous mixture of the Quack withal I Hume’s notion of the Fanatic-Hypocrite, with such truth as it has, will apply much  better to Napoleon than it did to Cromwell, to Mahomet or the  like, — where indeed taken strictly it has hardly any truth at  all. An element of blamable ambition shows itself, from the  first, in this man ; gets the victory over him at last, and in-  volves him and his work in ruin.   * False as a bulletin’ became a proverb in Napoleon’s time.  He makes what excuse he could for it : that it was necessary  to mislead the enemy, to keep-up his own men’s courage, and  so forth. On the whole, there are no excuses. A man in no  case has liberty to tell lies. It had been, in the long-run, better  for Napoleon too if he had not told any. In fact, if a man  have any purpose reaching beyond the hour and day, meant to  be found extant next day, what good can it ever be to promul-  gate lies ? The lies are found-out ; ruinous penalty is exacted  for them. No man will believe the liar next time even when  he speaks truth, when it is of the last importance that he be  believed. The old cry of wolf 1 — K Lie is nMhing ; you can-  not of nothing make something ; you make nothing at last, and  lose your labour into the bargain.   Yet Napoleon had a sincerity; we are to distinguish be-  tween what is superficial and what is fundamental in insin-  cerity. Across these outer manceuverings and quackeries of  his, which were many and most bian>able, let us discern withal  that the man had a certain instinctive ineradicable feeling for  reality ; and did base himself upon fact, so long as he had any  basis. He has an instinct of Nature better than his culture  was. His savans, Bourrienne tells us, in that voyage to Egypt  were one evening busily occupied arguing that there could be  no God. They had proved it, to their satisfaction, by all man-  ner of logic. Napoleon looking up into the stars, answers,  “Very ingenious. Messieurs ; but who made all that?” The  Atheistic logic runs-off from him like water ; the great Fact  stares him in the face : “ Who made all that ?” So too in  Practice : he, as every man that can be great, or have victory  in this world, sees, through all entanglements, the practical  heart of the matter ; drives straight towards that. “N^en the  steward of his Tuileries Palace was exhibiting the new uphol-  stery, with praises, and demonstration how glorious it was, and how cheap withal, Napoleon, making little answer, asked for a  pair of scissors, dipt one of the gold tassels from a window-  curtain, put it in his pocket, and walked on. Some days after-  wards, he produced it at the right moment, to the horror of his  upholstery functionary ; it was not gold but tinsel I In Saint  Helena, it is notable how he still, to his last days, insists on the  practical, the real. Why talk and complain ; above all, why  quarrel with one another ? There is no result in it ; it comes  to nothing that one can do. Say nothing, if one can do no-  thing I” He speaks often so, to his poor discontented follow-  ers ; he is like a piece of silent strength in the middle of their  morbid querulousness there.   And accordingly was there not what we can call a faith in  him, genuine so far as it went ? That this new enormous De-  mocracy asserting itself here in the French Revolution is an  insuppressible Fact, which the whole world, with its old forces  and institutions, cannot put down ; this was a true insight of  his, and took his conscience and enthusiasm along with it, — a  faith. And did he not interpret the dim purport of it well ?   * La carriers ouverte aux ialens^ The implements to him who  “ran handle them ;* this actually is the truth, and even the whole  truth ; it includes whatever the French Revolution, or any Re-  volution, could mean. Napoleon, in his first period, was a true  Democrat. And yet by the nature of him, fostered too by his  military trade, he knew that Democracy, if it were a true thing  at all, could not be an anarchy : the man had a heart-hatred  for anarchy. On that Twentieth of June (1792), Bourrienne  and he sat in a coffee-house, as the mob rolled by : Napoleon  expresses the deepest contempt for persons in authority that  they do not restrain this rabble. On the Tenth of August he  wonders why there is no man to command these poor Swiss ;  they would conquer if there were. Such a faith in Democracy,  yet hatred of anarchy, it is that carries Napoleon through  all his great work. Through his brilliant Italian Campaigns,  onwards to the Peace of Leoben, one would say, his inspir-  ation is ; ‘ Triumph to the French Revolution ; assertion of   * it against these Austrian Simulacra that pretend to call it  ‘ a Simulacrum 1’ Withal, however, he feels, and has a right  to feel, how necessary a strong Authority is ; how the Revolution cannot prosper or last without such. To bridleMn that  great devouring, self-devouring French Revolution ; to tameit,  so that its intrinsic purpose can be made good, that it may be-  come organic, and be able to live among other organisms and  formed things, not as a wasting destruction alone : is not this  still what he partly aimed at, as the true purport of his life ;  nay what he actually managed to do ? Through Wagrams,  Austerlitzes ; triumph after triumph, — he triumphed so far.  There was an eye to see in this man, a soul to dare and do.  He rose naturally to be the King. All men saw that he was  such. The common soldiers used to say on the march : “ These  babbling Avocats, up at Paris ; all talk and no work ! What  wonder it runs all wrong ? We shall have to go and put our  Petit Caporal there I” They went, and put him there ; they  and France at large. Chief-consulship, Emperorship, victory  over Europe ; — till the poor Lieutenant of La Fire, not unna-  turally, might seem to himself the greatest of all men that had  been in the world for some ages.   But at this point, I think, the fatal charlatan-element got  the upper hand. He apostatised from his old faith in Facts,  took to believing in Semblances ; strove to connect himself  with Austrian Dynasties, Popedoms, with the old false Feud-  alities which he once saw clearly to be false ; — considered that  he would found “ his Dynasty” and so forth ; that the enormous  French Revolution meant only that ! The man was ‘given-up ^  to strong delusion, that he should believe a lie a fearful but j  most sure thing. did not knowJrue from false no\y.wheiLj  he looked at them, — the fearfulest penalty a man pays for yielding .  to untruth of heart. Self and false ambition had now become ^  his god : j^^deception once yielded to, all other deceptions  follow naturally more and more. What a paltry patchwork of  theatrical paper-mantles, tinsel and mummery, had this man  wrapt his own great reality in, thinking to make it more real  thereby ! His hollow ^-Concordat, pretending to be a re-  establishment of Catholicism, felt by himself to be the method  of extirpating it, ^fa vaccine de la religion his ceremonial  Coronations, consecrations by the old Italian Chimera in Notre-  Dame, — “wanting nothing to complete the pomp of it,” as  Augereau said, “nothing but the half-million of men who had died to put an end to all that” ! Cromwell’s Inauguration was  by the Sword and Bible ; what we must call a genuinely  one. Sword and Bible were borne before him, without any chi-  mera : were not these the’’ r^a/ emblems of Puritanism ; its true  decoration and insignia ? It had used them both in a very  real manner, and pretended to stand by them now 1 But this  poor Napoleon mistook : he believed too much in the Dup^~  ability of men ; saw no fact deeper in man than Hunger and  this 1 He was mistaken. Like a man that should build upon  cloud ; his house and he fall down in confused wreck, and de-  part out of the world.   Alas, in all of us this charlatan-element exists ; and might  be developed, were the temptation strong enough. ‘ Lead us  not into temptation’ I But it is fatal, I say, that it be developed.  The thing into which it enters as a cognisable ingredient is  doomed to be altogether transitory; and, however huge it may  look, is in itself small. Napoleon’s working, accordingly, what  was it with all the noise it made ? A flash as of gunpowder  wide-spread ; a blazing-up as of dry heath. For an hour the  whole Universe seems wrapt in smoke and flame ; but only  ^for an hour. It goes out : the Universe with its old mountains  and streams, its stars above and kind soil beneath, is still there.   The Duke of Weimar told his friends always, To be of  courage ; this Napoleonism was unjust^ a falsehood, and could  not last. It is true dqctrine. The heavier this Napoleon tram-  pled on the world, holding it tyrannously down, the fiercer would  the world’s recoil against him be, one day. Injustice pays jt-  self with frightful compound-interest. I am not sure but he  had better have lost his best park of artillery, or had his best  regiment drowned in the sea, than shot that poor German  Bookseller, Palm I It was a palpable tyrannous murderous  injustice, which no man, let him paint an inch thick, could  make-out to be other. It burnt deep into the hearts of men,  it and the like of it ; suppressed fire flashed in the eyes of  men, as they thought of it, — ^waiting their day 1 Which day  came : Germany rose round him. — ^What Napoleon did will in  the long-run amount to what he did justly j what Nature with  her laws will sanction. To what of reality was in him; to that  and nothing more. The rest was all smoke and waste. La  carri^re ouverte aux talens : that great true Message, which  has yet to articulate and fulfil itself everywhere, he left in a  most inarticulate state. He was a great Sbatiche, a rude-  draught never completed ; as indeed what great man is other ?  Left in too rude a state, alas 1   His notions of the world, as he expresses them there at St.  Helena, are almost tragical to consider. He seems to feel the  most unaffected surprise that it has all gone so ; that he is  flung-out on the rock here, and the World is still moving on  its axis. France is great, and all-great ; and at bottom, he is  France. England itself, he says, is by Nature only an ap-  pendage of France ; “another Isle of Oleron to France.” So  it was by Nature, by Napoleon-Nature ; and yet look how in  fact — Here am I I He cannot understand it : inconceivable  that the reality has not corresponded to his program of it ;  that France was not all-great, that he was not France. ‘Strong  delusion,’ that he should believe the thing to be which is not I  The compact, clear- seeing, decisive Italian nature of him,  strong, genuine, which he once had, has enveloped itself, half-  dissolved itself, in a turbid atmosphere of French fanfaronade.  The world was not disposed to be trodden-down underfoot ; to  be bound into masses, and built together, as he liked, for a  pedestal to France and him : the world had quite other pur-  poses in view! Napoleon's astonishment is extreme. But alas,  what help now ? He had gone that way of his ; and Nature  also had gone her way. Having once parted with Reality, he  tumbles helpless in Vacuity; no rescue for him. He had to  sink there, mournfully as man seldom did ; and break his great  heart, and die, — this poor Napoleon ; a great implement too  soon wasted, till it was useless : our last Great Man I   Our last, in a double sense. For here finally these wide  roamings of ours through so many times and places, in search  and study of Heroes, are to terminate. I am sorry for it: there  was pleasure for me in this business, if also much pain. It is  a great subject, and a most grave and wide one, this which,  not to be too grave about it, I have named He?'o-worship. It  enters deeply, as I think, into the secret of Mankind’s ways and  vitalest interests in this world, and is well worth explaining at present. With six months, instead of six days, we might have  done better. I promised to break-ground on it ; I know not  whether I have even managed to do that. I have had to tear  it up in the rudest manner in order to get into it at all.  Often enough, with these abrupt utterances thrown-out iso-  lated, unexplained, has your tolerance been put to the trial.  Tolerance, patient candour, all-hoping favour and kindness,  which I will not speak of at present. The accomplished and  distinguished, the beautiful, the wise, something of what is best  in England, have listened patiently to my rude words. With  many feelings, I heartily thank you all ; and say, Good be with  you all ! Domenico Cardone. Domenico Antonio Cardone. Keywords: Clark Kent; ovvero, sul sovrumano, “Ricerche filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus as a philosopher! Tommaso Carlyle, Il culto degl’eroi – culto, worth-ship, valore, Napoleone, natura italiana -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool Library. Cardone.

 

Grice e Carifi: l’implicatura conversazionale dell’ablativi relativi – Roman implicata -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did indeed philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that  should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo volente’ doesn’t!” --  Studia sotto Bigongiari, tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino,  profondamente influenzato dalle voci liriche di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere, attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per ricongiungersi al mondo.  Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia, che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre, dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni, ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini, camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità. Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza.  La sua ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero della responsabilità e della parola, è l’uomo C.. Non bisogna accostarsi a lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo. Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri.  La conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro.L'uomo del pensiero: Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica, influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma anche per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio Tesi Editrice»  Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile. Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio»  «La raccolta Madre, proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su «Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana»  Opere Raccolte poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano); Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda, Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere, Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti, Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA, Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna (Raffaelli, Rimini ). Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi, Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile "Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto Carifi, Tibet, Le Lettere,.  Da Pistoia in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini, introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS,.  M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C. Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M. Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi, Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli, «L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la carità duole, «Il Mattino»,   Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24 ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»;  Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore senza tempo, «Il Sole 24 ore»,; E per musa ispiratrice la nostalgia, «Avvenire»,  Classici pensosi versi, «Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»; D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli, Carifi: il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore quando il lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi, «Il Giorno», Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico della solitudine, «Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino, «Avvenire»; Il male come provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro con lampada e scialle, «Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»; Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli sospesi tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto Libri»,  Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte di madre. Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno, «Il Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore, «Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza sull'alterità del figlio, introduzione a C. e U. Buscioni, Figure dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il Manifesto»;  La religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F. A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il Giornale»,  Per la sezione bibliografica questa voce trae informazioni dalla  inglese.   Piero Bigongiari Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su margininversi.blogspot. Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo di Andrea Galgano su «Clandestino». Grice: “One impotant thing to consider is the passive voice of the future perfect – TEMPVS PLVSQVAMPERFECTVS PRAETERITVM – there was a specific form, ‘dedidi’ i. e. an inflected form, only in the passive voice. However, no record was found of the passive voice, except by use of what I call an ‘auxiliary’ verb – ‘have’ – cf. my notes on ‘do’ – ‘do’ and ‘have’ as auxiliary. However, the Romans found a way: the ablativo assoluto – the house given, she proceeded to furnish it. Money having been given to the merchant, the buyer left – Admirably, as Aelfric noted, in Latin, the pluperfect, strictly tempus praeterium plusquamperfectum, is formed without an auxiliary verb . MODUS INDICATIVUS/SUBJUNCTIVUS. Pecuniam mercatori DEDERAT. Pecunimam mercatori DEDISSET – Ha had given money to the merchart. He should have given money to the merchant. The Roman even had a choice of the ablative absolute hrase, consisting of the noun and the perfect participle in the ablative case. Pecuniis mercatori datis cessit emptor , Money having been given to the merchant, the buyer left. pecuniis mercatori non datis non cessit emptor. Money not having been given to the merchant, the merchant killed one of the buyer’s slaves. The difference is merely implicatural. In the verbal form (dederat, dedisset) is is explicated that it was the buyer who paid. In the absolute-ablative case, it is merely implicated. For all the utterer cares, it could have been the buyer’s slave. Cicero refers to an use of the RELATIVE ablative which is even ‘more slippery’ and thus optimal for cross examination. Money  Carifi. Keywords: ablativi relative, filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake – l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme – l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger, conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library. Carifi.

 

Grice e Carle – le radici del diritto romano – la legge romana – la natura romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Chiusa di Pesio). Filosofo italiano. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo.  La dottrina giuridica del fallimento nel diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani.  Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius – “LE ORIGNI DEL DIRITTO ROMANO” -- RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica privatis secernere, sacra profanis. HOR., poet Ars. LABOR NOR TORINO FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del Corso. Via Cerretapi. DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, Piazza Plebiscito, 2 S. Maria al Ros.°, 23 (Carosio ) Carosio )TORINO BONA. La nobile Università di Bologna, commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occasione solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo. Ritornato di proposito allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di insegnarne la storia nella R.Università di Torino, parvemi di rileggere uno di quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita, perché ad ogni lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima sono sfuggite. Quegli studii di giurisprudenza comparata, che in questi ultimi anni si vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale debbono essere cercate le fondamenta, sovra cui furono poscia edificate le città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per spiegare il processo, con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella, che ebbe ad essere maggiormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo, con cui i romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità deve essere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti, nė l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto delle particolari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo svolgimento delle sue istituzioni pubbliche e private. Conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella storia dell'umanità. Certo era naturale cosa, che uno studioso della vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governa la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi dei materiali che furono raccolti con tanta diligenza, sopratutto in Germania. Mi accinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età, ma che ebbe il vantaggio di rendermi aggradevole la lunga fatica, e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa, unitamente alla convinzione profonda, che le grandi elaborazioni dell'ingegno umano, mentre cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare il pensiero di coloro, che si travagliano per comprendere il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo: ed è che il presente saggio, cominciato forse coll’idea, non preconcetta, ma latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trova il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse. I romani, cosi nel formare la propria città, come nell’elaborare le proprie istituzioni pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamo di selezione. Anziché essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottometterli alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città sono costruite coi massi più solidi delle costruzioni gentilizie, cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, sono trascelti nel seno stesso della organizzazione gentilizia. Ma trapiantati nella città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenze della vita civile e politica. Anche questo e un processo naturale. Ma non è più il processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappongono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si vengono precipitando, bensi il processo, che governa la formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo quelle forme tipiche, che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che il diritto romano non èu na produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle condizioni esteriori. Ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che in questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, a modellarla in concetti tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte giuridica. Questo è il risultato ultimo, a cui sono pervenuto. Per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere il saggio, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, cerca di riprodurre quella coerenza organica, che è la caratteristica dello svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Le tradizioni e le leggende da cui appare circondata la fondazione di Roma presentano a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte, Roma ha infanzia. E fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata, il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agl’esuli e ai rifugiati dalle dalle comunanze vicine. E il fondatore stesso che da a Roma le sue istituzioni pubbliche e private. Il suo successore le da  l'organizzazione del culto, finchè da ultimo Roma già ingrandita, mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse, avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile, politica e militare per opera di Servio Tullio, che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città. Per tal modo, la forza dapprima, poi la religione -- e da ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta della città, e le sue istituzioni civili e politiche appariscono come una creazione personale dei re, fra i quali la tradizione avrebbe perfino distribuito il compito. Il suo fondatore è latino, mentre invece è sabino l'organizzatore del culto, e da ultimo è probabilmente di origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato, invece, la stessa tradizione circonda la fondazione di Roma di cerimonie religiose, di carattere tradizionale, che supponneno una religione già compiutamente formata, e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e private, che dove poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore. Di fronte a questa apparente contraddizione, il maggior problema, che si presenta al filosofo e quello di sostituire alla storia leggendaria delle origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini delle istituzioni primitive con cui essa appare nella storia. In questa ricostruzione, la filosofia dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leggende. Ma dovette poi riaccostarsi alle medesime, e finisce per giungere a questo risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei re. Debbono essere riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore di organizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione gentilizia o patriarcale. Roma secondo i risultati della filosofia, avvalorati anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana, continua quell'opera di formazione della convivenza civile e politica, iniziata gia dalle altre popolazioni italiche, le cui memorie risalgono ad epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle primitive istituzioni di Roma. Secondo il computo più universalmente adottato, Roma è stata fondata nell'anno – ANNO I – ed e comparsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione gentilizia, e stano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e politica. Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra [Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi BONGHI, “Storia di Roma”. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto la parte che si occupa appunto della costituzione politica di Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio] le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro provenienza dall'Oriente (1), questo è certo che fra le stirpi italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi umbro-sabellica, latina ed etrusca. Scavi dimostrano che il sito occupato da Roma dove già essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto pre-istorica. E scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena) esiste anche prima del periodo reale leggendario, e costituisce una prova molto importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusivamente latina e sabina, tende ad escludere o quanto meno ad attenuare l'influenza dell'elemento etrusco. Tale provenienza delle stirpi italiche dalle razze ariane e la conseguente loro, parentela colle elleniche, colle germaniche, celtiche e slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza etrusca. Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostrazione di tale provenienza Leist, “Graeco-italische Rechtsgeschichte” (Jena), sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi comuni agl’arii dell'India e alle genti italiche ed elleniche. È da vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti di rita, themis e ratio. Quest'origine comune è pure ammessa dal BERNHÖFT, “Staat und Recht der Römischen Königszeit” (Stuttgart). Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi nell'oriente dagl’arii primitivi ebbero a ricevere presso gli’arii dell'India, della Persia, e poscia nell'occidente presso i greci, gli’italici ed i germani, mi rimetto a quanto ho scritto in “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), i cui primi due libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. Sono a vedersi in proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Accademia dei Lincei. Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di MIDDLETON, “Ancient Rome” (Edinburgh). Middleton parla di questi scavi e dei resti dell'antichissima Rom. Fra gli autori che tendono a scemare l'influenza del l'elemento etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il MOMMSEN, il LANGE, e il Pelham nella sua storia di Roma antica pubblicata nell’Encyclopedia Britannica, ninth edition, Edinburgh, -- voce: Rome. Combatte questa opinione il Taddei nel suo l”Roma e i suoi Municipii” (Firenze). Senza pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'etrusco che ha già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico, per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe aria, hanno però dimenticata la provenienza comune ed apparivano distinte fra di loro di origine, di costumi e non hanno fra di loro comunanza di matrimonii. Solo sono ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove taceno i conflitti e si praticao gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro organizzazione sociale, esse, secondo l'opinione di Mommsen, del Leist, del Lange, si trovano nel periodo di transizione dall'organizzazione gentilizia di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e del municipio. Però anche a questo riguardo si presentano in stadii e gradazioni diverse. La stirpi umbro-sabellica apparisce con un carattere pro fondamente religioso. Sono dedite ancora più alla pastorizia che al l'agricoltura. Preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città, ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia, di cui puo trovarsi un notevole esempio nella gens “Claudia”. Queste stirpi anche più tardi dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio stato, come lo provano le sorti dei bellicosi sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo umbro-sabellico. Trovansi invece già in condizione più progredita, per quel che riguarda l'organizzazione sociale, la stirpe latina. Il Lazio infatti appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discendono da un antenato comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio. Tali aggregazioni di genti, che chiamansi tribù, abitano nei vici e nei pagi. Ma, riconoscendo la loro origine comune, anzichè avere una esistenza del tutto separata ed indipendente, sono già a far parte di un'aggregazione più vasta, che costi [In ciò sono d'accordo Mommsen, Histoire Romaine. Trad. De Guerle. Paris, ed anche il Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris. Lange attribuisce alle genti sabine un carattere più conservatore che non alle Latine [-tuisce poi il “populus” e la “civitas”. Questa aggregazione più vasta non solo ha comune la lingua, il costume e la religione, ma eziandio la legge, l'amministrazione della giustizia e la difesa contro gl’attacchi e l’aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio, il quale centro comune era l'”urbs”, così chiamata dall'*orbita* sacra che la circonda, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza, a cui riparare nei momenti di pericolo, il tempio del divino patrono – “dius,” “dius-piter” -- dell'intiera comunanza, il luogo ove si amministra giustizia, il sito per il mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città quali noile intendiamo, sono piuttosto inizii di città future, in quanto che esse contenevano sopratutto quegl’edifizii, che hanno pubblica destinazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agl’abitanti dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la tradizione, sarebbero state in numero di XXX, erano anche confederate fra di loro e mettevano capo ad una capitale: Alba Longa. Cid dimostra come le popolazioni latine già fossero abbastanza progredite nella loro organizzazione sociale, poichè, pur continuando ancora a vivere nelle comunanze di villaggio, sono pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica comune, che dove poi svolgersi nella città e nel municipio. Vengono infine la stirpe etrusca, la cui civiltà è ancora oggidi celata nel mistero, perchè le traccie di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città, conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovano in comunicazione maggiore cogli altri popoli e sopratutto coi Greci. Anche presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra la sapienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, (1) MOMMSEN, FUSTEL DE COULANGES, La cité antique (Paris) - che determinano i riti con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione dove essere ripartita in tribù ed in curie. Del resto anche l'antica costituzione della città etrusca, secondo Mommsen, si accosta nei suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dall’organizzazione patriarcale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre, in quanto che la stirpe etrusca, per essere sopratutto dedite alla navigazione ed al commercio, erano state naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere esclusivamente rurale. I capi etruschi avevano il nome di Lucumoni. La popolazione delle loro citt dividevasi in nobili ed in plebei, come pure in tribù ed in curie, e se al disopra delle singole città apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano insieme le varie città, che entravano a costituirle, non sono cosi intimi e stretti come quelli che esisteno fra le città della confederazione latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia, ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è pervenuta la comunanza civile e politica. È a questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile, che Roma compare nella storia. Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che su di essa abbiano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco, questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ramnenses -- guidati da Romolo -- e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura, di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di “Roma quadrata”. Festo, v° Rituales: “Rituales nominantur etruscorum libri, in quibus prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad bellum ac pacem pertinentia ». MOMMSEN. LANGE cerca di distinguere il popolo dei “Rasennae”, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del “vicus tuscus”, che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine umbra. È questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO. Nulla vi ha di ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla forza in un sito chiuso e fortificato, siasi dapprima trovata in lotta aperta colle altre comunanze, che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa però ben presto esercita una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si trasforma in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie comunanze di villaggio, che sono disperse in quell'antico septimontium, che ci è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio. Cosi pure dovette presto entrare nella federazione anche una comunanza di origine sabina, che era stabilita sul Quirinale. Di qui la conseguenza, che le tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma, condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore, due stadii ben distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è ancora che lo stabilimento romuleo, il quale, malgrado la denominazione che già assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di origine latina, che è quella dei Ramnenses, ancorchè intorno ad essa già si trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto, secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle comunanze vicine. Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con comunanze già prima stabilite sui colli vicini. Allora Roma diviene centro e capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota la questione relativa al pomoerium, che alcuni vorrebbero collocare entro le mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium. La questione fu di recente trattata con grande corredo di erudizione da CARLOWA (“Romische Rechtsgeschichte” Leipzig). Carlowa sembra propendere per l'opinione, che il pomoerium serve di confine fra il territorio dell' “urbs” e l' “ager” circostante. Cf. MIDDLETON Il testo di LABEONE è riportato da HUSCHKE, “Iurisprudentiae anti-Iustinianeae quae supersunt”, Lipsiae. Un accenno a questo concetto trovasi in Lange, “Histoire intérieure de Rome”. Tuttavia non pare che il medesimo consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù.] cetto latino, ossia nella sede della vita pubblica di queste varie comunanze. Questi due stadii nella formazione di Roma primitiva, di cui non si tiene sempre sufficiente conto, sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto Pomponio, secondo il quale Romolo non procede alla divisione della città in curie subito dopo la fondazione di essa. Ma vi sarebbe invece addivenuto soltanto “aucta ad aliquem modum civitate” -- cioè quando altre comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di partecipare ad una vita pubblica comune. Gli elementi primitivi, che secondo la tradizione sonno entrati a far parte della comunanza romana in questo suo primo periodo di ingrandimento, sono dalla stessa tradizione ridotti a TRE tribù, cioè alla tribù dei TRIBU I -- Ramnenses, che era quella dei fondatori, a quella TRIBU II -- dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale, i quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum, come lo dimostra il fatto che i capi delle due tribù avrebbero regnato insieme e poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine TRIBU III -- dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum. L'origine di questo ultimo elemento è incerta, ma dovette probabilmente essere etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie città in prossimità del sito, ove Roma e edificata, Cosi intesa la formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione delle tre tribù nella comunanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo -- il che però non toglie, ed [POMPONIUS, L. 2 Dig. Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città, che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi sacerdotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla [ 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, ha poi accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni relative alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. Intanto però il fatto, che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina, fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato, spiega il carattere che Roma ha poi sempre a ritenere di città eminentemente latina, in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo, dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento latino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum, in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina, fu anche foggiata sul modello delle città latine, e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventa fin dapprincipio una città federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio. È però naturale, che questa trasformazione, per cui Roma cessa di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di una confederazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, costruzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù, che con correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch, “Les origines du Sénat Romain” (Paris) e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ, “Manuel des institutions romaines” (Paris). Il principio “prior in tempore, potior in iure” è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto pubblico. Questo concetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74, § 1, Cod. Theod. 12, 1. “Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate defendi” [- invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata. Vero è che questa narrazione di Dionisio e posta in dubbio dalla critica contemporanea. Ma Dionisio è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la comunanza colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze, e che non fosse la dimora pressochè esclusiva di una delle tribù confederate, come era della città palatina. Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o sotto i sei re che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio del divino patrone comune – “dius”, “dius-piter” -- siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gl’edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica -- edifizii che al tempo d’Ottaviano già sono considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto, ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai ha cessato di esistere. A questo periodo però, che può dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro, in cui comincia ad effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città, la quale, fortificata e chiusa in se stessa, apparisse paurosa e potente alle popolazioni vicine. Due cose si richiedevano per una simile trasformazione. Convenne anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che ricorda ancor sempre la loro origine diversa, si facessero sottentrare altre distinzioni, le quali sostituissero al vincolo genealogico il vincolo territoriale, e che gl’elementi diversi, che sono entrati a far parte della stessa comunanza politica e militare, fossero anche stretti insieme, mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa espressione di Floro, comincia a mescolarsi insieme il sangue di elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti. Dion. Cfr. MIDDLETON, Ancient Rome. -- FLORUS, III, 18. “Quippe cum populus romanus etruscos, latinos, sabinosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est. Questi sono i divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco, già cominciano a delinearsi nella mente dei re. È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe tentato, secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e di rompere così il modello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il suo tentativo però trova opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del patriziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette limitarsi a fare entrare gl’elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò, che gli viene attribuito di aver raddoppiato il numero delle vestali, di aver duplicato il numero delle centurie degl’equites, aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses, Luceres primi le tre dei Ramnenses SECUNDI, Titienses SECUNDI, Luceres SECUNDI, e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno portato a CCC il numero dei senatori con aggiungere ai “patres MAIORUM gentium” quelli “patres MINORUM gentium” Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già iniziano dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già e incominciata sotto Tarquinio Prisco. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio, che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e tributaria, per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in V CLASSI ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta, che fu dal nome di lui chiamata Serviana, i cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità e dimostrano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di quell'agger, che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle “plebs”, ormai già fatta numerosa, che con Servio [Cic. de Rep., LANGE -- Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiritium. È da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii, ricca eziandio di una popolazione urbana, che può ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne il pomoerium. È da quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria disciplina domestica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza. Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica, conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre genti.Tuttavia, anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua popolazione, ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato. Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica, a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbandonato anche più tardi, che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città, i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto il Lazio, poi per tutta l'Italia, e da ultimo per tutto il territorio dell'impero. Se insisto alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'autorità di Mommsen e di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella formazione delle città latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen, ed è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii e modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non e che la capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica, mentre lascia che le genti e le famiglie con [V. in proposito BARATTIERI, “Sulle fortificazioni di Roma all'epoca dei re”, Nuova Antologia] -- tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio, alle quali continud a lasciare i proprii territorii gentilizii. La sua formazione pertanto non è dovuta ad un processo di aggregazione, ma ad un processo di *selezione*, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo. Qui basta il notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto Niebhur; a sostenere con Mommsen che la primitiva proprietà di Roma e una proprietà collettiva come quella delle gentes, ciò che è smentito assolutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costituzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel popolo, che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si dove necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come una serie di leggende, che sarebbero state inventate da un popolo, che in tutto il resto si è dimostrato invece ben poco fantastico, nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svolgimento, che ebbe a ricevere dappoi. Pare strano che nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di quel documento storico, ma dal momento che trattasi di ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma segue nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi filosofi, che pongono gli altri sopra una falsa via. È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione fatta da Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della città. Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri; MOMMSEN che dice che le genti erano incorporate tali e quali nello stato con tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contenevano e che il gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato. LANGE, con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello Stato romano. Parmi invece un processo assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello, che ha già ad esser iniziato da Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni esaminate col sussidio della critica. Dal momento che Roma si è veramente staccata da una popolazione latina, è naturale che essa sia stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare, accanto alla vita patriarcale e gentilizia, quella vita pubblica, che dispiegasi appunto nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione gentilizia, ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale. Solo richiama a se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che prima si compievano nel seno dell'organizzazione gentilizia, ed è in tale intento che essa intraprende l'elaborazione del proprio diritto. Una volta poi che quest'opera è iniziata, Roma, con quella tenacità di proposito, che è sopratutto propria del popolo romano, non si arresta nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e municipale, ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città, di colonie, di provincie organizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città. La qual opera e compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo processo, a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione.  È per questo motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner Main [E, “L'ancien droit,” trad. Courcelle Seneuil,dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa stessa che “un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitive” -- il che certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata più a lungo  quando si discorre della costituzione primitiva di Roma. [fici recentemente fatti intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo senato, dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito, dei suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue istituzioni, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore grandezza. A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie. Vi hanno quelle relative alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici, che sono collegati con essa, e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere. Perchè trattasi [Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo svolgimento di essa, sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne deriva che tanto le investigazioni pazienti e minute quanto le ricostruzioni ardite, che si vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intelligenza di Roma primitiva. Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica, della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia, dei suoi monumenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa, che vi sono autori che, seguendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi collegi sacerdotali, cercano di inferirne gli stadii della sua formazione progressiva, come tenta di fare Bouché-LECLERCQ (“Les Pontifes de l'ancienne Rome”, Paris, e “Manuel des institutions romaines”, Paris). Altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un istituto particolare, come sarebbe quello del senato, come WILLEMS, “Le sénat de la république romaine” (Paris), come pure Blocu (“Les origines du sénat romain,” Paris), od anche quello dell'ordine dei cavalieri, come tenta di fare Belot (“Histoire des chevaliers romains,” Paris). Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come Vico e Niebuur, ne ricercano la storia nelle lotte degl’ordini, che entrano a costituirla e nello svolgimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Il diritto forma la filosofia costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giureconsulti, ma ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, “disiecti membra poetae” potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura. Henriot, “Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome” Paris] d'un argomento che ha un carattere pressochè sacro per il popolo romano, e in cui concentra tutta la propria vita, per guisa che esso continua sempre a svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono posti durante lo stesso periodo regio. Hanvi invece le tradizioni, che si riferiscono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accompagnate, a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che danno vita ed attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero, come osserva Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte dell’alterazioni, che sono causate dal partito diverso, a cui appartengono gli scrittori, ma siccome trattasi di istituzioni, che hanno un processo storico non mai interrotto, cosi egli è ben più facile di ristabilire la verità, che non quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. È da vedersi al riguardo Bonghi, “La fede degli storici superstiti di Roma antica”, che anche ora non è pubblicato, malgrado il desiderio che l'illustre autore e gl’italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in condizione di compiere. Rivista storica italiana. IUna delle circostanze più accertate della condizione di Roma primitiva si è, che nella popolazione della medesima comincia fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patrizii – descendenti dei ‘patres patriae’ -- e la plebe. La tradizione cerca di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo apre un asilo, ove si potessero rifugiare coloro che per qualunque ragione avessero dovuto abbandonare la propria città. Ciò farebbe credere che la distinzione fra i “patres” della “patria” (e suoi descendenti) e la plebe e in certo modo nata con Roma, quando non e certo, che cotale distinzione già esiste in altre città, e non vi fossero formole antiche, che accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et plebes. Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già avessero con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi provvedimenti di Romolo e quello di affidare al plebeio la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle sotto la clientela del padre, il che sarebbe anche confermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo, secondo cui il senatore e chiamato “pater”, in quanto che e incaricato di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone (tenuioribus). La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora in un documento importantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase “quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve iousisse” --  formola che ha certo grande importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di conservare le formole arcaiche nel tenore della propria legge. Quella formola dimostra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza, per qualche tempo ancora i due vocaboli serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, Friburgi. Quanto al testo di Dionisio, esso è riportato nella traduzione latina nel Bruns, Fontes. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di CARLE, “Le origini del diritto di Roma”. Questo è certo che il pater e il plebeio, anche quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo, il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della fondazione, continuano sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comunanza di tradizioni, nè il diritto di connubio. Mentre il pater si presenta colla tradizione di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e deve forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo storico. Il plebeio, invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e di origine probabilmente diversa. Il plebeio ha pochissima importanza negl’inizio di Roma, ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a differenza del pater, può continuamente accogliere nel proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo regio, il plebeio non sembra ancora essere in condizione di affrontare la lotta col “pater”, ma cominciando dalla repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto e dalle discussioni, che seguono fra I due ordini, si può raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. Il pater anzitutto e e si ritene il fondatore della urbs e il solo membro della civitas. Il plebeio e un elemento, che trovasi in condizione inferiore e che per la maggior parte e sopravvenuto più tardi, nè puo quindi, secondo le idee del “pater”, pretendere ad un pareggiamento completo. Il “pater” ha un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza venne ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo. “A patres senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis.” V. Bruns. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep. “Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam” -- rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come LANGE (“Histoire intérieure de Rome”) e Padelletti (“Storia del diritto romano”) ostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della città, ed abbia solo avuto origine «coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello stato, avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da coltivare. Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., clientele. Il “pater” quindi puo indicare la serie dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi sono sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. Il plebeio, invece, se si deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagl’oratori patrizii, allorchè trattavasi di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere il divieto dei connubii fra i due ordini, non conosce ancora la famiglia organizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui una unione plebea non e dal “pater” considerata come “iusta nuptia”, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto. E un semplice “matrimonium”, in cui il vincolo di parentela e determinato piuttosto dalla cognazione *maternal*, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che ancora dopo la legge di Le XII Tavole il pater non puo comprendere una comunanza di connubio – iusta nuptia – fra un pater (say, Charles III) e una plebea (say, Diana), come lo dimostrano le parole di Livio relative al plebiscito Canuleio. “Rogationem promulgavit, qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur.” Da ultimo, una differenza importantissima consiste anche in questo, che solo il pater possede un “auspicium”, cosicchè tutti gl’atti, che lo riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso. Il plebeo, pur avendo una religione e feste [(1) Gellio, Noc. Att., 10, 20 chiama la plebe quella parte della popolazione romana, nella quale “gentes patriciae non insunt.” È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra pater e plebeo gl’oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del pater. “Semper ista audita sunt eadem: penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc.” Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere duplice. O queste gentes potevano derivare dalle popolazioni delle città latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie, sebbene non fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di queste gentes accade più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far parte della nobiltà, cerca essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia, il che comincia ad es sere possibile dopo la legge Licinia Sestia, colle quali il plebeo e ammesso al console. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat.). Così pure Cicerone ci parla di una “gens” Minucia, che sarebbe stata *plebea* (In Verr., I, 45 ). Fra i filosofi sull'argomento sono da vedersi il Voigt, “XII Tafeln”, Leipzig, e il KARLOWA, Röm., R. G., -- Liv., – “popolari, non possedeva gli auspicia, nè aveva un proprio culto gentilizio -- “sacrum gentilicium” --. Queste differenze sono tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa comunanza, e pero naturale, che essi non potessero entrarvi alle stesse condizioni. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire, che in Roma primitiva la superiorità, che si attribuiva il pater sul plebeo, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più progredito nell'organizzazione sociale, ed era prima uscito dallo stato di confusione, di privata violenza e di promiscuità primitive, che esso riteneva in parte essere ancora proprie della plebe. Il pater sa indicare i proprii antenati, ha conservato gelosamente le proprie tradizioni, ed e già pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più e la “gens”, che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città, in cui provvedevano ai comuni interessi ed obbedeno ad una legge, espressione della volontà comune. Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città del loro esercito, e spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le moltitudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e fortificata un'aggregazione di genti patrizie. Ma chi tenga conto della umana natura, che in questa parte non sembra ancora essersi modificata, non può certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima – “prior in tempore, potior in iure” -- , e si siano cosi prevalse del vantaggio, che loro somministra una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile. Piuttosto è da ammirarsi la tenacità e perseveranza del plebeo, il quale, composta [Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo di  FREEMAN nell'Encyclopedia Britannica, vº Nobility, ove il pater romano è posto a paragone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, “Histoire des Romains,” Paris, chi parla del “pater” come di un'istituzione propria della società primitiva e nota le analogie e le differenze fra il pater di Roma e i bramano dell'India. Cfr. Muirhead] dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare l'organizzazione propria dei pater, creare genti plebee accanto alle genti patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto, di quello cioè della proprietà quiritaria, riusci a valersi del medesimo come di strumento e di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e politica, e perfino l'ammissione a quegli auspicia, a quei sacerdotia, e a quella scienza del diritto, che solo molto tardi vennero ad essere comunicati al plebeo. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del pater e del plebeo costituisce in certo modo la questione fondamentale della storia politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dove poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che un servo entra a far parte della famiglia ed il cliente ri-entra anch'essi nell'organizzazione gentilizia. Di più tanto il servo come il cliente, al lorchè riescono a svincolarsi dal “pater”, entrano a far parte della plebe, che è quella veramente, che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e politico col “pater”. Quindi è che nè il servo, né il cliente come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile. Il cliente scomparisce a poco a poco o si trasforma in semplice salutator. Il servo si mantenne bensì, ma non giungono mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto. La questione limitasi pertanto al pater ed al plebeo ed è quindi l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia primitiva di Roma. Cio non ostante, sinchè non siansi esaminate l'organizzazione dei patres e la composizione della plebe, non pud certo affrontarsi il problema della origine delle due classi. Basterà unicamente, per l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che esisteno fra di esse negli inizii. Queste lotte per il pareggiamento sono largamente esposte da LANGE, “Histoire intérieure de Rome”. I risultati poi della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, “Le elezioni e il broglio nella repubblica romana” (Milano) e sopratutto in “Le assemblee elettorali”] di Roma, la superiorità pressochè incontestata del “pater” e l'ossequio pressochè servile del plebeo nei primi tempi della città dimostrano abbastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere opera della legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ha a trovarsi. Dovette essere il frutto di una lunga evoluzione storica, la cui preparazione deve essere cercata in un periodo anteriore di organizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che l'origine di una distinzione, così altamente radicata nel costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di origine aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo, sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certamente rannodarsi ad una divisione ben più antica, e le cui traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità, che è quella fra la classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a stabilirsi in un determinato suolo, e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri hanno prima occupato e sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che nel sopraggiungere delle stirpi italiche migranti dall'Oriente dovette certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello, che accadde più tardi allorchè le popolazioni germaniche invasero il principato. Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza, che ci ricordano ancora gli filosofi latini quando ci parlano di “connubia more foerarum” e di “viri duro ex robore nati”, dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una protezione giuridica e di una forte organizzazione sociale. Dovettero [Sono sopratutto i filosofi latini, come interpreti delle primitive tradizioni e leggende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo, in cui si trovano le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta, che l'Henriot ha a fare dei testi dei filosofi latini, che possono avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col titolo: “Mæurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes latins” (Paris) sull’età dell'oro e sull'imperio della forza. È poi notabile come tutti i filosofi accennino al concetto di un “diritto” della “natura”, preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine della legge] allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo, e furono questi cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia – il pater del patriarcato -- territoriale, militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa patriarcato – ottimati -- che comprende il padre nella famiglia, il patre nella gente e il pater nella tribù, ed abbraccia cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse di istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine ed alla lotta la potente organizzazione gentilizia, che una volta formata si chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine inferiore tutti coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa aristocrazia del ‘pater’ potentemente organizzata per gentes, che costituì la classe privilegiata e che merita dapprima anche di essere considerata come tale. Ma accanto alla medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata, i cui gradi corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in quanto che comprende il servo nella famiglia, il cliente nella gente, ed il plebeo, che cominciano a comparire colla tribù. Per tal modo nelle popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro, e mentre in una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella lingua e negli oggetti trovati nelle tombe, il ‘pater’ della famiglia si cambiano in ‘pater’ nella gente e quindi in ‘pater’ nella tribù, anche i servi mano messi dal ‘pater’ mutansi in clienti del ‘pater’ ed il cliente rimasnne senza ‘pater’] formano il primo nucleo della plebe. Il pater – qua Padri, patrone e patrizio – e, in sedimenti successive, la classe alta dei vincitori, dei proprietari delle terre, dei primi organizzatori di una vita sociale. Il servo, il cliente ed il plebeo rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di quelli che, per avere una prot zione, si accalcano intorno allo stabilimento di una casata patrizia. Il primo puo indicare suoi proprii antenati ed escludere qualsiasi origine servile. Il plebeo, se giunsero col tempo ed essere indipendenti dal patriziato, appartennero probabilmente alla classe del servo e del cliente, e non ha dapprima quelle giuste nozze, che accertano la discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne formandosi l'alto concetto della propria superiorità e che giunse fino a dire, se non a credere, che discende dal divino (il che del resto non era intieramente falso dal momento [ - che ha elevato a divinio il proprio antenato). Mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi dapprima in una abbiezione pressochè servile, da cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto pero fra le due classi vi ha questa differenza. La prima tende a tircoscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una organizzazione così gerarchica, come era l'organizzazione gentilizia, la quale non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre gente. La plebe, appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa puo accogliere i vinti che non siano ridotti in ischiavitù, gl’emigranti che non siano ricevuti come cliente. Non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie, ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino di protezione e di tutela. Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine, la grande differenza è questa, che nelle origini, solo il pater ha una vera posizione di diritto. Il plebeo non ha dapprima che una posizione di fatto. Il pater e il popolo da esso costituito è un ordine. La plebe non è che una moltitudine, una folla non ancora organizzata. Il pater ha tradizioni militari, religiose, giuridiche. Il plebeo non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di provenienza diversa e di formazione del tutto recente. Il pater ha una religione gentilizia, formatasi nel suo seno mediante il culto degli antenati. Il plebeo non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbisognano di ricevere una forma religiosa. Ben si comprende quindi, che la distanza e grande e che dove essere assai malagevole di raccogliere i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere comune ad entrambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di ricercare più particolarmente l'organizzazione già formata del pater, e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi comprendere il plebeo – Livio: “En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos.” Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed altre, in numero forse minore, di origine etrusca. L'origine diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano anche essere dissimili, e che quindi quella completa analogia di istituzioni, che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta assimilazione, che vennesi operando gradatamente mediante la loro partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica. Tuttavia, malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il pater romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini della città le traccie di un'organizzazione potente di carattere patriarcale, che è l'organizzazione gentilizia. Non è qui il caso di cercare, se questa organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello stato di conflitto e di privata violenza, che dovette avverarsi all'epoca delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni indigene, il che sembra essere più probabile. L'enumerazione delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può trovarsi in Bonghi, “Storia di Roma”, Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca perfino di determinare la parte, che nel diritto si attribuisce alle varie stirpi] questo in ogni caso deve aversi per certo, che è in virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono pero foggiate sul medesimo modello. Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di dissoluzione; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e politico, dal quale è assai difficile sceverarlo. Ciò non ostante dalle vestigia, che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse, tutte strettamente connesse fra di loro. Esse sono: la famiglia fondata sull'agnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela, e da ultimo la tribú, in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il patriziato e la plebe. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia ha prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente, o dalla tribù. Ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a quel sito, in cui le stirpi arie ponevano le prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia. Qui pero non e inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di congettura, che dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il gruppo della “gens”. Ciò è dimo [Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, ma non è invece quella seguita da Leist, Graeco- Italische R. G., il quale parmi non distingua sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come altrettante divisioni del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. Senza voler quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia, le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione, anche oggi non definita, fra il Sumner MAINE, “Early law and custom” (London) da una parte, e MORGAN e Mac-Lennan dall'altra, come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER, Principes de sociologie, strato dal fatto, che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmettere poi ai proprii discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti. Mentre la famiglia è il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi costitutivi della città, la gente invece è il gruppo intermedio, che da giustamente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione gentilizia, perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gl’altri, e che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione. La “gens” infatti è più forte e numerosa della famiglia, perchè continua a stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono anche unite tra di loro da un medesimo culto, e intanto è più compatta della tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di origine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune, può già fornire argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla. La gente poi è per sua natura tale, che ora può cambiarsi in una carovana in migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere questione di preminenza, perchè è la consuetudine, che designa chi debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, danno origine alla tribù, la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così di avviamento alla convivenza civile e politica. I tre gruppi tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si vengono sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello, che è quello del gruppo patriarcale, e si vengono reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appariscono come strati diversi di un'unica organizzazione. Di qui la [Cfr. Willems, “Le droit public romain,” Paris] conseguenza, che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile e politica, compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di convivenza civile, colla differenza tuttavia, che nella famiglia prevale ancor sempre il vincolo del SANGUE, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile e politico, mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente patriarcale. Cio premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumendole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della medesima. In cio sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che ha ad esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Per quanto sia vero che la famiglia, quale presentasi più tardi nel diritto quiritario, sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di origine patrizia. Fra gli altr’argomenti l'importantissimo è questo, che una moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare, che presuppone una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di “patres” indica sopratutto i capi delle *famiglie* patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci [Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degl’arii, alla “gens” romana ed al gévos dei greci ed alla letteratura copiosissima sull'argomento, mi rimetto alla mia opera: “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), ed all'opuscolo, “Genesi e svolgimento delle varie forme di convivenza civile e politica” (Torino). Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle istituzioni primitive presso le genti di origine aria, oltre le opere già citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm. Königszeit, Stuttgart, e Leist] vano dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di “patricii” indica “figlio del pater.” Lo stesso provano eziandio le nozze confarreate, certamente proprie del patriziato, che nella leggi attribuita a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si puo contrarre le giuste nozze. Si aggiunge infine il carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un carattere originario, ma è una conseguenza della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Dal momento infatti, che in questo periodo non esiste ancora una vera comunanza civile e politica, diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e le veci, e che perciò anche la famiglia, in quanto ne fa parte, venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del PADRE, che non sul vincolo del SANGE. È questa la causa per cui la famiglia primitiva Romana sembra, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del SANGUE, per guadagnare in forza ed in potenza, unificandosi sotto la potestà del proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella potestà del PADRE, er una conseguenza logicamente inevitabile, che come il PADRE prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia, cosi l'agnazione, ossia la DISCENDENZA dal padre, per la linea MASCHILE, dove prevalere nella composizione diessa. È in questo senso, che la famiglia primitiva Romana viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il primo anello e come il nucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Essa infatti ha una costituzione eminentemente monarchica, perchè tanto le persone, che la costituiscono, quanto le cose, che ne formano il PATRI-MONIO, dipendono esclusivamente dalla potestà del padre. La famiglia patrizia poi è un vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè infatti vive il PADRE, nel cui potere essa trovasi unificata, la famiglia è un vero corpo vivente, che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono ancora continuare a tenere [Dion., 2, 25 e 2, 63, testo è riportato da Bruns, Fontes “Leges Regiae”] indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico costume romano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio “ercto non cito” -- le quali significano in sostanza che non si dovesse procedere alla divisione immediata del patrimonio. In tal caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della famiglia, e si ha così quella famiglia in largo senso, di cui ci parlano ancora i giureconsulti, che la chiamano “familia omnium agnatorum.” Questa indivi sione dove certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa per cui, oltre la famiglia nel vero senso della parola, che comprende tutti quelli che sono soggetti alla “patria potestà”, venne delineandosi una famiglia più vasta, che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita insieme e a costituire un tutto – “consortium” -- stante l'indivisione del patrimonio. Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi poscia cambiato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che [Mi fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche “ercto non cito” e ciò in base a quello che ci attesta Servio, il quale interpretando questa espressione, dice appunto, che essa significa “patrimonio vel hereditate non divisa” -- Serv., in Aen., VIII, 642 (Bruns, Fontes). Queste parole furono poi applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in virtù della quale, secondo l'attestazione di Gellio. “Comnes simul in cohortem recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium, quod iure atque verbo romano appellatur cercto non cito.” Che poi queste parole siano in certo modo un'antica clausola testamentaria, con cui il padre proibiva la divisione immediata appare da ciò, che “ercto” deriva certamente da “ercisco” e “cito” è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente ». Vedi BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique latin, Paris,  pº Ercisco e Cieo. Che poi veramente presso gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile, l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato da KARLOWA, Röm. R. G., ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum, lib. I, cap. 19, De vendenda hereditate. Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi consorti, si emere vellent. È questo forse il motivo, per cui presso i romani un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere costituito per intiero di famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei. Cid sarà meglio dimostrato ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio >. della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia patrizia primitiva, vuolsi sempre aver presente, che essa non è già un organismo isolato, ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il nucleo più ristretto. Diqui la conseguenza che quel potere del padre, che giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico, che circonda il capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù, per guisa che i temperamenti, che non vi sarebbero nella natura del potere paterno, si incontrano invece nel costume e nell'organizzazione gerarchica, di cui la famiglia entra a far parte. È per questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta, il testamento, che modifica le regole con suetudinarie relative alla successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della famiglia, devono essere fatti coll' intervento, colla testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di famiglia, che entrano a formare la gente e la tribù; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio, in quanto che l'una e l'altra, sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura, mirano però fino all' evidenza a conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella [Leg. 195, $ 2 e 196, Dig., De verb. signif. (50, 16 ): Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium agnatorum, nam, etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt. Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica, che non poteva più favorire quella indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conserva però sempre il concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo di SEMERARO, “Enciclopedia giuridica italiana”, vº “agnazione”, vol. I, parte 2*, pag. 720. 32] linea agnatizia. Il che può scorgersi ancora nella legislazione decemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di successione e di tutela, che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio. Quanto al testamento, esso era certamente conosciuto in questo periodo, ma collo spirito che prevale nell'organizzazione gentilizia si può affermare con certezza, che esso, dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente, dovette invece servire per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni. Intanto è pure da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo gentilizio, in quanto essa comprende eziandio nella propria cerchia un numero più o meno grande di servi, che in antico sono anche detti “famuli”, dal vocabolo “famel”, che in lingua osca significa appunto “servo”; dal quale, secondo Festo, sarebbe anche derivato l'antico vocabolo “famuletium”, che avrebbe significato servitium. È infatti per mezzo dei servi, a cui era [Si può ricavare l'importantissima conseguenza, che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano primitivo, che il concetto di comproprietà, in virtù del quale i figli durante la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium, e dopo la morte di esso in certa guisa eredi di se stessi (“heredes sui”), come pure quello, in virtù di cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine, degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non dove certo essere applicazione del principio: a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei legassit, ita ius esto », ma doveva mirare sopratutto all'”ercto non cito”. Il testamento esiste, ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli ultimi lavori di Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente saluto, nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo: “La saisine héréditaire en droit ro main” (Paris) pubblicato nella “Nouvelle revue historique de droit français et étranger”, ove, combattendo iMaynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti dell'eredità, senza che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione gentilizia prima esistente, idea, che egli già aveva in germe, come lo dimostrano le parole con cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano (familia rustica, familia urbana) che la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carattere speciale alla vita economica dell'antichità e coopera a dare alla famiglia antica il carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù ebbe per effetto, come ben nota Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo produttivo, perchè il servo e impiegato non soltanto nella produzione, ma benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni famiglia tende a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere eziandio al commercio dei proprii prodotti Puo tuttavia affermarsi con certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale (quae ex pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di armenti (2 ). e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 15. Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi PERNICE, M. Antistius Labeo, Halle, ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, Leipzig. Fra questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabolario giuridico, di “agree”, che, secondo BRÉAL, nel suo significato primitivo suo nava « spingere, stimolare », e si applica sopratutto al gregge; quello di grex talvolta applicato al popolo; quello di ovilia adoperato per significare i recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii; i vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come vocaboli di origine pastorale (Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di pecunia, di peculium, di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come VARRONE (Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare. Romanorum populum a pastoribus esse ortum, quis non dicit? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum, quod est flatum, pecore est notatum. Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che pascolavano nei compascua della tribù, e poscia nell'ager pubblicus della città, la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura, concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium. Questo G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. Del resto quello, che qui importa, e sopratutto di mettere in evidenza il carattere gentilizio della famiglia; poichè essa, fra le istituzioni anteriori alla comunanza, è certamente quella che conserva più lungamente il suo carattere primitivo. Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel patriziato romano quelle stesse formalità solenni e quelle cerimonie religiose, che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo gentilizio. La sola differenza consiste in questo, che all'approvazione dei padri del gruppo gentilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o la testimonianza dei dieci Quiriti che rappresentano le curie in cui divi devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici, siccome accade nelle confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento, che per il patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei caratteri della famiglia del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto primitiva, come alcuni vorrebbero considerarla, in quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze, a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia, di cui e entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da associa zione domestica, religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensibile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui giunsero SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pastorale, che avrebbe determinato la formazione e l'afforzamento di quell'organizzazione gentilizia, che trovasi così profondamente radicata presso il primitivo patriziato romano (V. SPENCER, Principes de sociologie, Paris). Tale è ad esempio l'opinione del Sumner Maine, che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER. La gens e la sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia, quale comparisce più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica, viene tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica, ad essere sottoposta ad un processo di dissoluzione, in quanto che una parte delle sue funzioni di un tempo, quelle cioè che avevano un carattere politico o militare o legisla tivo, finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città. A cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità di Niebhur, sulla fede di un testo di Dionisio, a cui diede una interpretazione che non può essere ammessa, pose gli investigatori della storia primitiva di Roma in un indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la gens non fosse che una ripartizione politica della città. Per tal modo l'organizzazione politica della [NIEBHUR, Histoire romaine, trad. Golbery, Paris, ove parla: des maisons patriciennes et des curies e specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre storico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le curie, pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò così l'organizzazione gentilizia nella città, concetto, che d'allora in poi ha dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva, per guisa che occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in tribù, queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa distinzione. Citerò fra gli altri KARLOWA, Röm. R. G., il quale continua ad essere intitolato: “Das Volk und seine Gliederungen (tribus, curiae, gentes)”, quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes; ed iLeist, Graeco- Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione. Così pure il WILLEMS (“Le droit public romain,” Paris)che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono in gentes. Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano ex generibus hominum, il che significa solamente, che nella composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes.] città venne ad essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in una via, che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii, che si vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di organizzazione sociale, che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente, era poi stata trasportata nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche (1). Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto alle dekádes di Dionisio, il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una divisione del senato -- MUELLER, Philologus. Si può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in gentes, le quali, essendo un ampliamento della fa miglia, comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da attribuirsi sopratutto al Sumner MAINE, L'ancien droit, chap. V. La société primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il primo che abbia, se non provata, almeno intuita questa organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico, il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, ediz. Ferrari, Milano, ove parla dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag. 118 ); versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci, ma anche presso i Barbari. Plato, Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche ai Greci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del diritto, lib. I e II, e sopratutto a pag. 90 e seg.) i 37 esse più di tutte le altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico. Di qui la conseguenza, che, a parer mio, i veri caratteri dell'organizzazione per gentes possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive genti del Lazio, che non nella stessa India, ove l'elemento religioso preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la gente, anzichè essere una divisione artificiale della città, deve invece es sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione gentilizia. Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria potestà, maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la “gens” è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora indicata la stessa gens. E talvolta invece può avere già dato origine a tante pro [Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la “gens” nel seguente passo di Festo. “Familia antea in liberis hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias; unde familia nobilium Pompiliorum, Valeriorum, Corneliorum (Bruxs, Fontes). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt (“Die XII Tafeln”, Leipzig). In ciò si ha una nuova prova che la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si scambiano fra di loro. Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus, loro pare invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti capita. Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia, da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare, secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare, che in tristi circostanze appariva ardua alla intiera città. Non è dubbio tuttavia, che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio, probabilmente chiamato here dium, che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona del proprio capo. Di qui la conseguenza, che tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia in stretto senso; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare. Che se invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva, in allora venivano ad esservi altrettante famiglie, di cui ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il proprio antenato. La “gens” comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della famiglia, e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum, finchè il loro patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità, allorchè questa divisione era seguita. È di qui che provenne la difficoltà, ancora non superata, per distin di cose, ora un complesso di persone, ora soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il complesso dei servi (familia rustica ed urbana).] guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto. Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead, che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gl’artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio, che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe. Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale, come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato, ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente. C [Che l'ordine degl’agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell' “Historical Introduction”. Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati, ove il giureconsulto mentre dice che: lege duodecim tabularum testamentariae hereditates confirmantur », usa invece, quanto alla successione legittima, l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege duodecim tabularum descendit », espressione che pure adopera altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente, che qui il giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD, converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve [La gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile, che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia, finchè tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato. Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della gens è sempre conservato, ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen, che ne costituisce in certo modo la caratteri stica, ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte della stessa pianta. Cosi accadde, ad esempio, della “gens” Claudia, la quale già numerosissima conserva ancora una sola denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo il punto, in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della “gens” Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cerca di imitare l'organizzazione gentilizia, si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela, che stringe l'antenato, da cui parti la formazione della gente plebea, a gente patrizia. Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto; poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRHEAD. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento, discorrendo della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt (“Die XII Tafeln”) - poteva avere un gruppo, che, ad una compattezza pressochè uguale a quella della famiglia, accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria, e come in essa potessero anche perpetuarsi tradizioni diverse, ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive, di fronte alla potenza assorbente della città, finirono per scompa rire fin dal periodo regio con Servio Tullio, le genti invece per. durarono per parecchi secoli, sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà, come lo dimostra il fatto, che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai trovavasi in decadenza. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè, primo, alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto, e nel sepolcro comune; secondo, ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a costituirla, per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il pontefice Q. Muzio SCEVOLA volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe. Esse avevano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza eziandio, che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue con quello servile. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie diffinizioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune – “qui inter se codem nomine sunt” -- non esclude certamente, ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò, che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza dal divino riconosce però, che il vocabolo “Patrizio” nelle sue origini significa “ingenuo”. Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini romani avessero *tre* appellazioni. La prima – “prae-nomen” -- indicava l'individuo. L’altra e il vero nome – “nomen” --  designa la gente, a cui egli appartene in quanto la gente e in certo modo il gruppo che contene le diverse famiglie. La terza infine – “cognomen” – designa la famiglia, in quanto questa era una particolare diramazione, della gente. A queste appellazioni si potevano poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis: « Gentilis dicitur ex eodem genere natus, et is qui simili nomine appellatur ». Bruns, Fontes; VARRO, De lingua Latina. “Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis; ut enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen tilitates nominales.” Bruns, Fontes, Isidoro. “Gens est multitudo ab uno principio orta, appellata propter generationes familiarum, id est a gi gnendo uti natio a nascendo.” Bruns; CICERO, Top. “Gentiles sunt qui inter se eodem nomine sunt.” “Qui ab ingenuis oriundi sunt.” “Quorum maiorum nemo servitutem servivit.” “Qui capite non sunt deminuti.” V. anche Livio. Per ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, “Du droit de cité romaine” (Paris), e sopratutto la trattazione veramente magistrale del MarQUARDT, “Das Privatleben der Römer,” che nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen, come gli Antonië, i Duilii, i Flaminii ecc. Quanto agl’esempi citati nel testo a pag.40, è pare a vedersi Bonghi, “Storia di Roma”, “Appendice sulle primitive genti patrizie”, nella parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia] uno o più soprannomi – “agnomina” -- che servivano a contraddistinguere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra famiglia, o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistinzioni operatesi nella stessa famiglia. Può darsi che in antico potesse esservi anche qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva l'individuo, come lo dimostrano i soprannomi di “Regillensis”, “Collatinus,” e simili. Di questo si ha un indizio nel fatto, che allora quando il territorio di Roma e veramente distribuito in tribù locali, anche la indicazione della tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette anzi il soprannome suo particolare. Del resto, questi caratteri particolari della “gens” sono anche comprovati dalla radice “gen,” comune alla “gens” latina e al “genos” dei greci, che significa “generare” e produrre; come pure da ciò, che i nomi gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius sepulchri sono di carattere eminentemente privato. Così è pure dei sacra gentilicia, i quali da Festo sono annoverati fra i sacra privata, che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pubblica, che si compiono invece a pubbliche spese. Solo sembra far eccezione il ius decretorum. Ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato, il medesimo puo facilmente essere spiegato quando si consideri, che la genteha compiuto un tempo funzioni politiche, che non puo scomparire di un tratto anche colla formazione di Roma. Tali sono le appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT. VARRO, De ling. lat. “In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab oppidis, alii aut non habent, aut non, ut debent, habent.” BRUNS. FESTUS, p Publica: “Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata, quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiun.” Bruns. I casi ricordati dalla storia, in cui le gentes si sarebbero valse del ius decretorum, sarebbero i seguenti. La gens Fabia vieta ai suoi membri il celibato e la esposizione degl’infanti (Dionisio). La gens Manlia proscrive il prenome di Marcus (Livio). Affine, la gens Claudia proscrive il prenome di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi. Più tardi però e il Senato, che prende simili provvedimenti, vietando il prenome di Marcus agl’Antonië (Plut., Cic., 19), e quello [È invece assai più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico. Non si può anzitutto accertare, se la gens ha sempre e costantemente un proprio capo – “princeps gentis” --, o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa da compiere, come quando, ad esempio, Atto Clauso abbandona Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo, che la gente dove avere un consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conserva e trasmetteva le tradizioni della gente. Era nel suo seno, che si sceglievano gli arbitri e gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che appartenevano alla medesima gente. Era questo consiglio parimenti, che sull’ “ager gentilicius” fa degli assegni di terre ai clienti, ed attribuie gl’ “Heredia” alle nuove famiglie che si formavano nel seno della gente. E il medesimo ancora, che poteva richiedere il servizio militare non solo dei suoi membri – “gentiles” -- ma anche dei dipendenti da essa – “gentilicii”. Cosi pure era questo consiglio, che sovra intende alla condotta dei singoli capi di famiglia, prevenne e reprime l’abuso dell'autorità domestica, ed impede eziandio che i capi di famiglia, contro il buon costume della gente, disperdessero quei beni – “bona paterna avitaque” -- di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano trasmettere ai proprii eredi. E la gente infine che, in mancanza di prossimi agnati, e chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e che dove perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones (Tacito). Parteno eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, “Le droit funéraire à Rome” (Paris), dove dice che la gens conserva il suo sepolcro gentilizio, finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri, cioè fin sotto il principato. E allora che incominciano i sepolcri di famiglia od ereditarii. Secondo quest'autore, mentre i liberti partecipavano ai sacra gentilicia, e quindi probabilmente anche al sepulchrum gentilicium, essi invece erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale hanno diritto soltanto gl’agnati. In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi Voigt, “Die XII Tafeln,” ove parla dei poteri al medesimo spettanti.] fani prima di essere pervenuti alla pubertà, come pure doveva essere essa, che facevasi vindice delle offese, che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a costituirla. Da ultimo, fra i membri della gente esiste l'obbligo della reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti, riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie, e vendicati se fossero stati uccisi od ingiuriati. Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, e facile il comprendere come un gruppo così intimamente connesso, unito nel passato e nell'avvenire, in vita e dopo la morte, nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città. Esso continua, durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni tutte sue proprie, come lo dimostrano i vocaboli di “gentilis” e di “gentilicius”, l'esistenza anche nel periodo storico di un “ager gentilicius”, quelli dei “sacra gentilicia”, del “sepulchrum gentilicium”, per modo che, anche prima del formarsi di Roma, dove svolgersi tutto un “ius gentilicium”, che governa appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo gentilizio. Esso quindi non deve confondersi col “ius gentilitatis”, che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il “ius civitatis” indica i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi dubbio, che il vocabolo di “iura gentium”, che poscia ebbe a prendere un così largo svolgimento, dove nascere già in questo periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i capi delle medesime. Quanto ai poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi Voigt, “Die XII Tafeln”. La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ, “Institutions romaines”, come pure nel WILLEMS, “Le droit public romain”. Fra gli autori che tentarono la “ri-costruzione” del “ius gentilicium”, sono a vedersi sopratutto KARLOWA, Römische R. G., MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia importante il distinguere il “ius gentilicium”, che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei dipendenti da essi o gentilici, il “ius gentilitatis” che significa il complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i “iura gentium”, che governano i rapporti fra le varie gentes. Fra gl’istituti di questo “ius gentilicium”, quello che più merita di essere preso in considerazione è certo quello della clientela, essendo essa una delle cause del numero e dell'importanza, a cui giunsero i gruppi gentilizii. I clienti, durante il periodo storico, costituiscono una classe inferiore di persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda. Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario, sono indicate coi vocaboli di patrono e di cliente, il quale ultimo vocabolo, secondo l'opinione ora generalmente adottata, deriva da “cluere”, che significa audire nel senso di essere obbediente. Come tali, i clienti entrano a far parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la quantità di gentiles. Ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione inferiore, che in una posizione già alquanto migliorata corrisponde all'ordine dei servi e dei famuli in seno dell'organizzazione domestica. Il servo e il famulo non partecipano al ius gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium. È Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumerzione più particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che intercedono fra il patrono ed il cliente, attribuendo l'istituto della clien [Willems, “Le droit public romain” -- Non potrei però convenire in ciò, che Willems considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore, perchè la clientela in ogni tempo e sempre considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico, che basta ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere tale qualità quando hanno degli assegni in terre dal proprio patrono, mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni in giudizio, ma abbisognano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica. BRÉAL, Dict. étym. lat., vo Clueo. Cfr. MUIRHEAD, Encyclopedia Britannica, vº Patron and client] -- tela allo stesso Romolo. Ma egli è evidente, che anche la sua descrizione già altera alquanto le fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile e politica un'istituzione, che ee ata e si era svolta nell'organizzazione gentilizia. Secondo Dionisio, il cliente ha delle obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi-feudale. Il cliente infatti deve al patrono riverenza e rispetto; deve accompagnarlo alla guerra; soccorrerlo pecuniariamente in certe occasioni, come nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia, ed anche quelle dei sacra gentilicia. Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate facevano parte dell' “ager gentilicius”, proprietà collettiva della gente; il che non rende esatta, ma spiega l'etimologia as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati “quasi colentes”, perché avrebbero coltivate le terre dei padri. Infine, Dionisio parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela, adatta al gruppo gentilizio, venne ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica. Alla sua volta poi il patrono dove al cliente protezione e difesa, e quindi e tenuto a provvederlo diciò, che fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia, il che facevasi mediante concessione di terre, che il cliente coltiva per suo conto. Esso dove di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone, rappresentarlo in giudizio, apprendergli il diritto – “clienti promere iura” -- , ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo [È Servius, In Aeneidem, 6, 609, che vuol derivare il vocabolo di “clients” da “quasi colentes”. “Si enim clientes quasi colentes sunt, patroni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere.” (Bruns). Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che anche l'etimologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispettive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela a Romolo, è riportato dal Bruns, Fontes] modo in considerazione di membro della gente, ancorchè in condizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il cliente venne bensì dopo gl’agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i quali appartenevano ad un altro gruppo. Questi obblighi poi scambievoli, in mancanza di sanzione giuridica, sono collocati sotto la protezione del “fas” come lo dimostra la legislazione posteriore di Le XII Tavole, la quale, sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire – “si patronus clienti fraudem fecerit, sacer esto” -- ed al pari di tutti gli altri rapporti gentilizii hanno un carattere ereditario. Infine, siccome patrono e cliente appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio, ancorchè in posizione diversa, cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi reciprocamente in giudizio, condizione anche questa, che, consentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia, ripugna invece a quello della convivenza civile e politica, ove ognuno deve avere il mezzo di poter far valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità, che accorda a tutti la propria protezione. Basta questa esposizione per dimostrare, come la clientela e un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che continua ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti a Roma, ove tuttavia si trova compiutamente disadatto, perchè ripugna a quell'uguaglianza di posizione giuridica, che deve esservi fra coloro, che partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che trovansi in condizione inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui la conseguenza, che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si [MASURIUS SABINUS – “In officiis apud maiores ita observatum est.” “Primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato, postea adfini.” HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. -- Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, vº Patronus. « Patronus a patre cur ab antiquis dictus sit, manifestum; ut quia ut liberi, sic etiam clientes numerari inter domesticos quodammodo possunt >; Bruns. Cfr. Karlowa, Römische R. G., attenneno ancora strettamente alla propria organizzazione e rappresentano in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima Roma. Ma dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusce solo più a mantenersi di nome, anzichè di fatto. Senza più importare quegli obblighi di carattere religioso ed ereditario, che ne conseguivano un tempo. I clientes si scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche l' “homo novus” nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo, e diventarono anche semplici salutatores; il che tuttavia non tolse, che il vocabolo “cliente” sopravvive alla istituzione da esso indicata, e rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono ha certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompare nei rapporti fra i cittadini romani. Noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei cittadini romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gentilizie, col quale un individuo, un municipio, un re od un popolo straniero ricorrevano al patronato di un cittadino romano per far valere o avanti al Senato o davanti ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di far riconoscere. Così pure nell'interno di Roma, la clientela, ancorchè scomparsa come istituzione giuridica, continua pur sempre ad esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo dell’elezione -- nel quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno stato di cose ormai scomparso. Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat. ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come MISPOULET, vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela. “Les institutions politiques de Rome” (Paris). In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma, che riveste il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia. Le formole epigrafiche, da Mispoulet citate in nota, si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somiglianza di quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clientela potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa puo anche essere analoga a quella ricostrutta da Voigt. “Te mihi patronum capio. At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio”. C. “Le origini del diritto di Roma”. Quanto alla clientela, e sopratutto disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine di essa. Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fossero i primi abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gl’immigranti in Roma in seguito all'asilo aperto da Romolo; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione, posta innanzi da Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gl’obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a carico dei *liberti* verso il patrono. Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta da Mommsen, per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia, sarebbero diventati clienti nel seno della gente, a cui appartene il proprio patrono. Ciò e non solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che, se cosi non e stato, i servi manomessi si sarebbero trovati abbandonati a se stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e politica. Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale e spontanea, che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa, e tende così a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad essere naturale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costumanza per cui coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti come clienti o gentilicii nella gente. La clientela in tal modo venne a costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo, e si comprende eziandio come la sua co-abitazione in una famiglia potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di servo e preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente, L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che ebbero a professarle, occorre nel.WILLEMS, “Le droit public Romain”, e nel Borché-LECLERC, “Instit. Rom.” È in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato. Ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un processo, che è comune a tutte le istituzioni, per cui, una volta creata la configurazione giuridica della clientela per mezzo di elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si poterono poi fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la protezione o difesa di esso. Come quindi e naturale, che il servo affrancato dal capo di famiglia divenne cliente della gente a cui esso appartene, così dovette pure essere naturale, che una volta creato il rapporto religioso, giuridico ed ereditario della clientela e compresi nella medesima anche gli immigranti, che si rifugiano presso la gente, vincolandosi mediante il ius applicationis ad uno dei membri di essa, che ne diventava il patrono. Quelli, che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti, essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza. Quelli, che erano soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel sito da essi occupato. Quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano concessioni di terra e riconoscevano così il patronato delle medesime. Tutti quelli insomma, che in un'epoca di lotta e di violenza cercano protezione e difesa presso la gente, e che questa, per affinità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter accogliere nella comunanza gentilizia, assegnando pero ai medesimi una posizione subordinate. Cio intanto dimostra come la clientela e una istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale. Serve ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si sarebbero trovate nell'isolamento e percio prive di diritto, e quindi, mentre da una parte accresce il numero e la forza delle genti, dall'altra procura al cliente una protezione giuridica, di cui e stato altrimenti privato. In questo senso non è certamente [Questa più larga estensione data all'origine della clientela, che, senza escludere l'opinione di Mommsen, la comprende, sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio: “Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt”] destituita di fondamento la potente intuizione del nostro Vico. Vico ritenne che la clientela o come egli la chiama il “famulato” e un mezzo indispensabile per giungere al governo civile, in quanto che essa e il primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono, coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un gruppo, a cui non apparteneno per nascita, senza tuttavia essere assorbiti intieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi.  Non può quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione gentilizia, il comparire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù, donde la conseguenza che la città formandosi soffoca la clientela, mentre verrà invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia. Al disopra della gens compare infine nella organizzazione delle genti italiche un'aggregazione più vasta, che è quella della TRIBU, come lo dimostra il fatto, che, secondo la tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che sarebbe uscita Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori a Roma, è certo la più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa, per le funzioni esercitate, e tra le varie aggregazioni quella, che più si accosta Roma, così è anche quella, che per la prima e assorbita dalla medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non l'avesse [Vico, Scienza nuova, Lib. II. – “Della famiglia dei famoli innanzi delle città, senza la quale non potevano affatto nascere le città” – Milano] conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia nelle VI centurie degli equites -- VI suffragia -- composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secondi. Gli è perciò che come e assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia, cosi non è meno difficile il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda. Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo di una gente prevalente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome complessivo, il quale percio e ricavato dalla persona che guida la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita. Così, per arrestarsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio accertata, si può essere certi, che la tribù dei “Ramnenses” rica il proprio nome complessivo da “Romolo” *e* da “Remo”, che sono a capo di essa, secondo la tradizione. Il che è pure di quella dei “Titienses”, il cui nome deriva da Tito Tazio, capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale. Nel che è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens “Romilia”, “Titia” è “Claudia”, le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei Tities o Titienses, e dei Claudienses. Di qui pud indursi, che la [Non mancano negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù; ma di regola essa suol essere considerata come una ripartizione della città, nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la formazione della città. Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori introdotte da Servio Tallio, desunte invece dalle località, ove erano stabilite. Cfr. CARLOWA, “Römische Rechtsgeschichte”. Non può certamente essere accettata l'etimologia di VARRONE, De ling. lat. (Bruns), il quale vorrebbe in certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che sarebbe stato fra esse distribuito. “Ager romanus, primum divisus in partes *tres*, a quo tribus appellatae Titiensium, Ramnium, Lucerum.” Infatti l'opinione di Varrone in questa parte è contraddetta da Livio, da Servio, da Dionisio, che fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il [tribù comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggregazione di gentes, le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza, si raggruppano intorno al capo della stirpe prevalente fra di esse e mentre conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che desumono dal proprio capo. Questa formazione novella viene poi ad essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere occasione a questo aggregarsi delle gentes. Di qui la conseguenza che la tribú - o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una propria comunanza di villaggio, come era di quella dei Titienses già stabilita sul Quirinale. Tanto nell'uno quanto nell'altro caso la tribu assume immedia tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione del divino domune patrono – “dius”, “dius-piter” --  perchè fra le genti non si puo comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo religioso che la stringa insieme. Qui intanto l'unificazione del gruppo divenne indispensabile, anche per l'intento che la tribù si propone di conseguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che prende il nome di “praetor” o di dic. fatto, che egli dopo continua con dire. “Ab hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis, Suburana, Palatina, Esquilina, Collina, etc.” Del resto non pud neppure ammettersi, che occorresse una divisione dell'agro fra le TRE TRIBU, dal momento che ciascuna continua ad avere il proprio terrritorio, salvo che si tratta, non di una ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente amministrativa, come dovette appunto essere. Secondo Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi studii sui pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e QUIRINO quello della tribù dei Titienses sarebbe stato quello di QUIRINO e di Giano. Quello infine della tribù de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino, come pure di Giove e di Giano. Si può aggiungere, che del triplice divino rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che sono quelli di Marte, di QUIRINO e di Giove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricava indizi dei diversi stadii, che Roma ha a percorrere nella sua formazione progressiva. “Institutions Romaines”] tator, se la tribù si trova avviata ad una spedizione; di iudex in tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già ferma in un determinato sito; dimeddix, come accadeva presso gl’osci, ed infine anche di rex, sebbene questo vocabolo, sembri comparire di preferenza quando trattisi del capo di una città propriamente detta. Tuttavia questo capo suol essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita, che non dall'elezione; come lo dimostra il fatto, che i due duci della tribù dei Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere *gemelli* debbono conoscere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città, o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo della tribù dei Ramnenses, Romolo dove già trasformarsi in reggitore della “civitas”, formatasi mediante la confederazione di varie tribù, in allora, secondo Dionisio, e già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del Popolo. Però accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a chiamare dei patres, perchè è effettivamente composto dei capi delle singole genti, e a cui probabilmente già viene data la denominazione di “senatus”. Infine, nella tribù già può avverarsi la riunione – “comitium” – degl’uomini, che colle armi – “iuniores” -- o col consiglio – “seniors” -- possono provvedere alla comune difesa od al comune in teresse; donde la conseguenza, che già nella stessa tribù può venirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed organico del “populus”, salvo che gl’elementi per costituirlo si ricano ancora direttamente dalle varie genti – “ex generibus hominum” -- cosicchè la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente gentilizio.  Questa naturale formazione della tribù dimostra, come la medesima corrisponda fra le genti italiche a ciò che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di “vîc” o comunanza di villaggio, e fra I greci col vocabolo di dñuos. Essa costituisce in certo modo [Dion., HAUSSOULIER, “La vie municipale en Attique”. Devo però far no tare che, secondo l'autore, il demos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e politica e corrisponderebbe alla “curia” e più soventi al “pagus”, sebbene a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La “curia”, infatti, è una divisione politica di Roma. Il “pagus” e la località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il demos corrisponda a quest'ultima.] il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione patriarcale, perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio, da essa pero già si vengono elaborando quegl’elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica, finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della “civitas”, il quale più non dispiegasi nel “pagus” come la “tribù”, ma bensi nell' “urbs”. Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di “ri-costruzione” concettuale, che la tribù mal puo essere l'ultimo stadio dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla tribus, che si sono ricavati i primi elementi, in base a cui si costituie Roma, come lo dimostrano anche i vocaboli di “tri-bunus”, “tri-butum”, “tri-bunal”, i quali tutti richiamano la “tribù”, e quindi era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni italiche, che l'edifizio novello di Roma si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con correvano a costituirlo. D'altronde è noto, che le tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive. Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù, il cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che già riconoscono un capo, si venne formando una comunanza plebea, che provede al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno di questo nuovo elemento puo essere sentito dalle stesse genti, per quanto esse coi loro servi e coi loro client sono organizzate in guisa da poter bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi in Roma, vedi Carle, “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale”] come pure: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica, colle opere ivi citate. La distinzione è fatta nettamente da Dionisio, il quale chiama la tribù primitiva “qulai revikai” e quelle di Servio Tullo “qulai totikaí”.antiche formole, in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto dalle consuetudini e dalle tradizioni, mentre invece si chiama plebes dapprima e poscia plebs (da “pleo”, riempire) quella moltitudine ragunaticcia, che dopo essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio, potè poi una volta formata accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia delle istituzioni sociali, che il compito più difficile nella grande povertà delle idee primitive è la formazione di un nuovo gruppo. Ma quando esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente richiamo per tutti gl’elementi, che per questo o quel motivo si vengono staccando dall'organizzazione prima esistente, e che abbandonati a se cercano un nucleo novello a cui possano aderire. Riassumendo questa lenta e faticosa ricostruzione dell'organizzazione sociale delle genti Italiche anteriore a Roma, credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli elementi, che formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasformazioni allorchè passano in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della provenienza delle genti Italiche, è molto probabile, che esse già recassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo, le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia e condussero alla formazione di una potente aristocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento, collocandoli però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia, per rendersi atta a sostenere i conflitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di giudice, di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le persone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in servi o famuli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che rimarranno distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costituzione della famiglia gentilizia, che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta, che i giureconsulti romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degl’altri popoli. La gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'elasticità primitiva, nè giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia. Ma intanto, memore del culto del proprio antenato, custode gelosa delle proprie tradizioni, riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le famiglie, dall'altra, aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù. Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella famiglia, salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza, e vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti. prendono un carattere pressochè giuridico nel patronato e nella clientela. Così pure nella gente, accanto all'elemento monarchico della famiglia, già viene a svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico, il quale costituisce un consiglio degl’anziani, che concentra in sè medesimo le principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo, nella tribu havvi pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi una gente, che predomina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come di stirpe regia. Di qui la conseguenza, che in essa compare la figura di un capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre, conservasi il consiglio degl’anziani, che già mutasi in senato, perchè è già composto dei capi di genti diverse, ma intanto aggiungesi l'elemento democratico o popolare, che componesi di tutti gl’uomini, che, ricavati dalle varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio. Cio però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percio più un'esistenza di fatto, che non un'esistenza di diritto. Essa è dapprima riguardata con disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e dal diritto delle genti. Ma cio non toglie, che passandosi dall'organizzazione gentilizia a Roma essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta coll'antico ordine di cose. Per tal modo si ha nel periodo gentilizio una vera formazione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base a Roma. “Tantae molis erat romanam condere gentem.” Non è già che questo processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti italiche, in quanto che le traccie di essa appariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine aria. Nessuna però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più determinate e precise delle stirpi italiche, e sono esse parimenti che, gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento di Roma. Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, “L'ancien droit.” È poi interessantissima a questo proposito la comparazione, che fa Revillout fra l'organizzazione domestica dei romani e quella che vigeva presso gli Egiziani nella sua opera col titolo, “Cours de droit égiptien” (Paris) della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, “La condition juridique de la femme dans l'ancien Egipte” (Paris). Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di “proprietà”, che suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo venne ad essere il modello, sovra cui si foggia la proprietà presso la maggior parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano presentare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo la formazione di Roma, si rinvengono ancora le traccie di una proprietà collettiva, conosciuta sotto il nome di “ager gentilicius” e di “ager compascuus”, mentre dall'altra la proprietà quiritaria si presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva. A cio si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in condizioni tali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale – “pecunia” --  allora esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte del territorio, dall'altra la tradizione parla di una ri-partizione fatta da Romolo del territorio di Roma e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri – “bina iugera” --  ai capi di famiglia, che lo segueno, il quale assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio – “heredium” -- del più antico patriziato, che era quello della tribù dei Ramnenses. Ecco i principali passi di filosofi che si riferiscono all'argomento. VARRONE:: “Bina iugera, quod a Romulo primum divisa viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt”. PLINIO: “Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum attribuit (Romulus).” Lo stesso Plinio: “M. Curii nota dictio est, perniciosum intel legi civem, cui septem iugera non essent satis. Haec autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto.” (Brons, Fontes). Se ne ricaverebbe pertanto - Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni ritenneno che la proprietà privata in Roma sia stata una creazione dello stato. Contro questa opinione si è osservato che l'idea di una sovranità territoriale e affatto ignota ai romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino al principato, Roma e l'Italia ne furono escluse. In senso contrario, si fa pero notare, che non può ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica, che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito con un concetto della proprietà, che presso gli altr’popoli non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle opinioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzialmente alle seguenti. Vi ha l'opinione di Niebhur, di Mommsen, seguita anche da molti altri, fra cui noto De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gl’altri popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata in proprietà esclusivamente privata ed individuale, che colla ammessione della plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo stato ai che ai primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri, mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per contro gli assegni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai plebei ed anzi ai più poveri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale dice che Numa divide fra i cittadini l'agro pubblico conquistato sotto Romolo – “agros divisit viritim viribus” (De rep.). Ma in ciò è contraddetto da Dionisio, il quale parla di una distribuzione da Numa fatta ai più poveri, Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gl’altri da Columella, De re rustica. “Post reges exactos Liciniana illa VII iugera, quae plebi tribunus viritim diviserat, maiores quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta.” Ho citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello di II iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con annotazioni di Cogliolo, Firenze, si sforza, e a parer mio, inutilmente, a dimostrare che il piccolo “heredium” di II iugeri puo bastare ai bisogni della famiglia, stante la coltura intensiva applicata al medesimo.] singoli cittadini; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere spiccatamente privato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia pervenuto il regime della proprietà. È poi degno di nota che siccome oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie diverse intorno all'ordinamento delle proprietà, così la ricerca delle sue origini presso un popolo, le cui istituzioni esercitarono tanta influenza sopra tutti gl’altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema economico e sociale. Sonvi infatti coloro che, come Laveleye ed altri autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della proprietà, vogliono trovare, anche presso [L'autore, che primo approfondì i concetti dell' “ager publicus” e dell’ “ager privatus”, è certamente Niedhur, “Histoire romaine.” Niedhur però sembra partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non esiste proprietà privata, e che questa e costituita mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La sua opinione e seguita da Puchta, “Corso delle Istituzioni”. Trad. Turchiarulo, da MOMMSEN (“Histoire romaine”). Segue pare questa opinione De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull’ “ager publicus”, “ager privatus”, e sulle “lex agrariae”, inserti nell'”Enciclopedia giuridica italiana”, come pure nel suo precedente lavoro, “La gens in Roma avanti la formazione del comune” (Napoli). PADELLETTI. La questione dell'origine collettiva della proprietà comincia dall'essere posta in campo dal Sumner Maine (“L'ancien droit, -- Histoire de la propriété primitive”). Essa poi fu allargata da Laveleye nel “La propriété et ses formes primitives”, dove si oc cupa della proprietà presso i romani. Di recente poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i germani, in occasione di una dissertazione letta da FUSTEL DE COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui sostiene che anche i primitivi germani conosceno la proprietà famigliare e privata. Alla discussione presero parte GEFFROY, Glasson, Aucoc e Ravaisson, e ne usce una specie di studio comparativo fra la proprietà e la famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi germani. Compte rendu de l'Académie des sciences morales et politiques. L'opinione del Fustel DE COULANGES, quanto alla proprietà privata già conosciuta dai germani, e stata già sostenuta in modo anche più esclusivo da Ross, “The early of Land-holding among the Germans” (Boston)] i Romani, le traccie di una proprietà collettiva, mentre altri, sostenitori invece della proprietà privata ed individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta. Il vero si è che tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti, quando si riconosca presso i romani solo una proprietà originariamente collettiva, viene ad essere inesplicabile come un popolo, che suole procedere così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche, abbia potuto senza altro operare una rivoluzione così radicale nel concetto della proprietà. Dall'altra, se si sostiene che la proprietà romana e senz'altro una proprietà assoluta ed esclusiva, non è men vero che il popolo romano sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà, quale almeno sarebbe stata formolata da coloro, che si occuparono delle forme primitive dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non puo negarsi la gravità e la importanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai essere risolto, finché non si ricerchino le condizioni della proprietà presso le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di apprezzare le trasformazioni, che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza civile e politica. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non e inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione storica, che governa la proprietà. Laveleye cerca di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge storica, secondo cui la proprietà comincia dall'esistere sotto forma collettiva e poi sarebbe venuta assumendo un carattere sempre più individuale, lasciando così sottintendere, che l'unico rimedio di ovviare a questa individualizzazione soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri inizii. L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo, “La propriété et ses formes primitives” (Paris), e la legge storica ricordata nel testo è da lui formolata nello stesso primo capitolo, il che giustifica alquanto la censura fattagli dal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE trovano molti seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe solo a verificarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe [Senza entrare ora nella discussione di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra i quali  Spencer, hanno già dimostrato, che una legge di questa natura non puo essere ammessa, in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di una proprietà privata ed individuale. Quindi è che l'unica legge storica, relativa all'evoluzione della proprietà, che allo stato attuale degli studi possa formolarsi, e che la proprietà, essendo una istituzione eminentemente sociale, ha in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale. Sopratutto poi la storia delle istituzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della famiglia, cosa del resto che può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno della famiglia e certamente quello di assicurare il proprio sostentamento. Siccome pero la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale, entra essa stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è l'organizzazione gentilizia, cosi anche la proprietà finisce per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle origini e prevalso il regime collettivo della proprietà, quali e le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter sempre notare a LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione primitiva, non si puo neppure sostenere che la forma di proprietà, che trovasi durante l'organizzazione gentilizia, sia la forma primitiva. Quanto alla letteratura copiosa sull'argomento, può vedersi il dotto lavoro di VioLLET (“Précis de l'histoire du droit français”, Paris). L'autore ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine ha prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si e poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e privata ha prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega, come ciò abbia potuto accadere, mentre il passaggio può invece essere seguìto presso i romani. SPENCER, Principes de sociologie, Paris, ove egli parla “de la fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs.”] ritorio, secondo consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una viene ad essere assegnata alle singole fa miglie. L'altra è lasciata a prato ed a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero determinato di capi di bestiame; e l'altra infine è considerata come proprietà della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare certi diritti i singoli comunisti. Or bene se la legge dell'evoluzione storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di poter affermare in base ai fatti, che la storia della proprietà a Roma non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. Non è dubbio anzitutto, che presso i romani le sorti della proprietà e quelle della famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro. Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il quirite entra nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario sopratutto del suolo, e che nel diritto primitivo di Roma i poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così strettamente uniti fra di loro, che un solo vocabolo, quello appunto di familia, comprende le une e le altre. A ciò si aggiunge che è un principio, costantemente applicato dai romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno stadio di organizzazione sociale, nè alcuna corporazione anche di carattere sacerdotale senza che le debba essere assegnato un patrimonio, il quale, indicato col vocabolo generico di “ager”, [LAVELEYE, come pure il SUMNER Maine, Village Communities. London, Early history of institutions. London, Early law and custom. London. Questa è la significazione che il vocabolo “familia” riceve nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere, emere, mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie significazioni del vocabolo “familia”, coi testi che loro servono di appoggio, possono vedersi in Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, Notae ad Tit. « de usufructu », vº Familiae. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma] può essere chiamato, secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili. Ciò prova fino all'evidenza, che il romano primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente radicato, che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà, che le serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento, e che questo concetto e da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia. Non è quindi possibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio famigliare possa, presso i romani, considerarsi come una creazione dello stato, ma conviene necessariamente ammettere che e conosciuta già prima, se appena fondato lo stato, il primo atto che esso compie, secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cercarne l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata. Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di cose, che esiste anteriormente a Roma. Ma tuttavia anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostruzione di questa condizione anteriore, quando si tenga conto del processo costantemente seguito dai romani, anche nel periodo storico, che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le istituzioni, che hanno ad elaborarsi nel periodo anteriore.  Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del l'organizzazione gentilizia, per cui essa, a misura che giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al precedente, viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento. Come più tardi la sede esteriore della “civitas” è stata l' “urbs”, così le sedi esteriori dei varii gruppi gentilizii sembrano, presso le antiche genti italiche, essere state indicate coi vocaboli certo antichissimi di domus, di vicus e di pagus. De-RUGGERO, Enciclopedia giuridica italiana, vº Ager publicus-privatus. Ciò può vedersi nel Pictet, Origines Indo Européennes; Paris, come pure nel BRÉAL, Dict. étym. lat. ai vocaboli indicati. Non vi è dubbio, che tutti questi vocaboli già esistevano anteriormente alla [Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto, che con un vocabolo non meno antico poteva es sere chiamato heredium da “herus”, od anche mancipium, perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia, perchè comprendeva tanto i liberi quanto i servi. Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di “dominium” e si capisce anche che di questo dominium, il quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella, da cui il capo di famiglia si separa più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella famiglia, continua sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che costitue l'heredium, e che nel diritto quiritario prese poi il nome di mancipium. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie, provviste di un cortile e cinte da uno spazio, a somiglianza diquelle che Tacito ci descrive presso i germani, viene a costituire il vicus, il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appartengono alla medesima gente. Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo: che i vici si trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città, quali erano i Marsi ed iPeligni; che essi erano stabiliti fra i campi – “in agris” -- ; e che se essi già avevano un luogo di mercato, non avevano però sempre un luogo, dove si amministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus. Cio dimostra, che se il vicus puo svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi raccolti da Voigt, “Die XII Tafeln” -- TACITUS, Germania. Festo, vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ogni altro vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le significazioni diverse, che il medesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi – “in agris” -- , ed è a proposito di questo primo vicus, che egli dice: “sed ex vicis partim habent rempubblicam, et ius dicitur, partim nihil eorum et -- talvolta in guisa da prendere le proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una comunanza puramente gentilizia. E poi naturale, che come le singole famiglie in esso avevano il proprio heredium, cosi anche il vicus, sede della gente, fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare gli assegni ai clienti. Viene ultimo il “pagus”, ove esiste un sito per il mercato, ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi giustizia, sito, che probabilmente può già essere chiamato forum, almodo stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur, negotii gerendi causa. Poi trova il vicus nel seno degli oppida, e dice che comprende « id genus aedificiorum, quae continentia sunt his oppidis, quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus discriminis causa sunt distributa ». Tuttavia, anche nella città, il “vicus” indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes. L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus e poi naturalmente impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vende al fratello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad uso comune degl’abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale *persona giuridica* fa contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin.-- Del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. -- È da vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes. Quanto al concetto del vicus e delle “vicinitas” presso i germani vedi Ross, Land holding among the Germans. Boston. Il vocabolo di “forum” è uno di quelli, che ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo, venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che “forum” significa il vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto al defunto. V. Bruns, Fontes. Poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina, che le genti latine « quo conferrent suas controversias et quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt. Infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che “forum sex modis intellegitur; primo negotiationis locus; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is, qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc.” (Brons). Per tal modo, il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito, ove il magistrato romano risolve le controversie fra le città ed i popoli.] serve ad indicare tutte le cariche della città. Nel “pagus” per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può ritenere con certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera tribù. Ciò del resto è dimostrato dal fatto, che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esisteno nella stessa località. Così pure, nota Lange, e dimostrato che il pagus Succusanus e sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus Aventiniensis e di un pagus laniculensis, nei quali nomi è anche degna di nota la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le popolazioni, che compongono le tribù. È poi anche naturale, che questo pagus ha pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi “compascuus”, e che comprenda talvolta eziandio, oltre il sito destinato per il pascolo, anche delle siloae e dei saltus. Intanto da questa configurazione esteriore dell'organizzazione gentilizia si può inferire che, almodo stesso che questa venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra. L'ager [LANGE, Histoire intérieure de Rome, NIEBHUR, Histoire Romaine. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo, pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città, ed anche di proprietà privata. È poi degno di nota, che il vocabolo “saltus”, allorchè già si venivano formando i latifondi per modo che, secondo Plinio, sei persone possedevano metà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dal principe, sovra cui dimora una popolazione, di carattere pressochè colonico, che dipende più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non dalle leggi del principato. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente una importante iscrizione, che contiene una petizione della popolazione del saltus al principe. Fondandosi su di essa ESMEIN, sostiene che in questi saltus comincia a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique. Paris, V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain. Paris] si viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium, se nel contado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appartiene alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium, la familia, il mancipium. Ma siccome ogni capo di famiglia, oltre questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale, che accanto al concetto dell'heredium si formi quello del peculium, accanto a quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium quello del nec mancipium; distinzione, che tornerà poi in acconcio per spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le resmancipii e le res nec mancipii. Che veramente questa forma di proprietà già preesiste alla comunanza romana viene ad essere provato da cio, che fin dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium, di heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di “herus” e scrivesi talvolta anche semplicemente “eres”, per guisa che anche questo vocabolo significa, se non il proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di Festo, secondo la quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur ». Non vi ha poi dubbio, che con questi vocaboli ha eziandio strettissima attinenza il vocabolo di herctum o erctum, che significa ripartizione da erciscere, donde proviene la denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia, comegià si accenna, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso, quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con [Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro, di recente pubblicato da Voigt, così benemerito degli studii sull'antica Roma, col titolo, “Die römischen Privataltertümer und römische Kulturgeschichte”, estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft, pubblicato dal Beck in Nördlingen. Quivi Voigt ritiene che l'heredium comprenda l'hortus, l'ager, la cohors o chors, il pomatum, più tardi detto anche “pomerium”, e di più la casa, detta anche tugurium, che comprende il granarium, il foenilium, il palearium ecc. Ivi poi si trova citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche l’italiana, così spesso trascurata. Anche Voigt sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e peculium, mancipium e nec mancipium, sorzii e delle società, che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il patrimonio. Intanto la conseguenza viene ad essere questa, che i vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano tutti al periodo gentilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium, l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la figura molteplice del capo di famiglia. Di questi vocaboli però quello che significa meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente di man ceps e di mancipium, ed è questa forse la causa, per cui il vocabolo, che prevarrà più tardi nel diritto quiritario e quello di “mancipium”, al quale solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Quiritium. Non vi è poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager gentilicius, che era quello spazio, non compreso negli heredia, che trovavasi nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi fare degli assegni ai clienti, i quali però non hanno una proprietà, ma ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario. Dell'esistenza di questo ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un esempio durante il periodo storico, in occasione della venuta a Roma di Atto Clauso, e della sua gente. Questi viene di Regillo per porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che dove certamente essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca. Questa induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium agnatorum, trova una conferma nel diligente lavoro di POISNEL, “Les sociétés universelles chez les Romains,” specialmente in quella parte ove si occupa del primitivo consortium, accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio. “Nouvelle revue historique de droit français et étranger”. È anche degna di nota l'attinenza fra i vocaboli di consortium e di consors con quello di “sors”, che dapprima indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym. lat., vu Sors. Ciò è anche confermato dall'espressione di familia inercta nel significato di indivisa, ricordata da Paolo Diacono [Cfr. in proposito i passi citati da Voigt, Die XII Tafeln. Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione di Esmein, “Les baux de cinq ans en droit romain” – “Mélanges d'histoire de droit”, Paris.] della sua venuta a Roma, ha, secondo la tradizione, compresi ben MMMMM clienti. Questo è certo, che dal momento che egli abbandona la sua sede originaria e veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio, gli fu dato un tale spazio di terreno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare II iugeri in godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti XXV iu geri per sè e la sua gente. Questo assegno di territorio, mediante il quale e la gente Claudia, che diede il nome a quella tribù rustica, non impede, secondo Dionisio, che e eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso di Roma, ove puo abitare egli e la sua famiglia. È facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto dell'heredium, quanto dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova, che nell'organizzazione gentilizia e alla stessa gens od al consiglio di essa, che si appartene di fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza, che, fra le varie forme della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra tutte le altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè al modo stesso che è nella gens, che si formano le famiglie, cosi è pure dall'ager gentilicius, che si ricano gli heredia. Cosi pure è anche probabile che, in mancanza di eredi suoi, i quali possono in certo modo essere considerati quali comproprietarii dell'heredium, e in difetto eziandio di agnati prossimi, che mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornano all’ager gentilicius, cioè alla sorgente stessa, da cui essi furono staccati. Da ultimo sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà, che considerasi come spettante alla intiera tribù, e che prende il nome di ager compascuus, di compascua, di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla pastorizia, e di communia o communalia nell'Etruria. Puo darsianzi, che un ager compascuus puo esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la deffinizione di Festo – “compascuus ager relictus ad pascendum com muniter vicinis.” Ma in ogni caso non vi ha dubbio, che questo compascuus ager certo esiste nel pagus e già dava origine ad una [Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. L'esistenza di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di FRONTINO – “Est et pascuorum proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui busdam provinciis pro indiviso.” Bruns, Fontes] specie di pubblico reddito (vectigal), consistente nel contributo, che doveno dare gl’abitanti, che ivi pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo, che all'epoca romana viene poi ad essere indicato col nome di scriptura. Una prova dell'esistenza di questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di reddito pubblico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio, il quale, dopo aver detto che pecunia a pecude appellatur, cosa del resto che è attestata da tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare importantissimo – “etiam nunc in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet, quia diu hoc solum vectigal fuerat” -- il che vuol dire in sostanza, che i romani, in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col vocabolo primitivo dei “Pascua”, che costituivano la proprietà collettiva della tribù, tutta quella parte della proprietà collettiva del populus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricava qualche reddito. Del resto l'esistenza di questo ager compascuus e anche accennata in quel tradizionale riparto, che Romolo fa fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto; l'altra alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia; e la terza sarebbe stata appunto l'ager compascuus, che e anche la prima forma di ager publicus, in cui le genti patrizie, probabilmente dedite ancora in parte alla pastorizia, potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti. Credo che le cose premesse dimostrino abbastanza che, anche anteriormente alla formazione di Roma, la proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che entravano nella stessa organizzazione gentilizia, per modo che vi era una proprietà privata o meglio famigliare, una proprietà gentilizia, e una proprietà spettante alla comunanza della tribù. Di queste varie forme di proprietà, quella che predomina era la proprietà gentilizia, perchè da essa usceno e ad essa ritornano gli heredia, come poi erano anche i capi di famiglia delle varie genti, che hanno il godimento dei compascua; nel che può forse trovarsi l'origine pro [NIEBHUR, “Histoire romaine”, Voigt, “Die römis. Privataltert.”, LANGE, “Histoire intér. de Rome” --- Plinio -- Dion. NIEBHUR, Hist. rom. - babile di quel fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale a Roma non è che una trasformazione ed un ampliamento per mezzo della conquista del primitivo ager compascuus. Queste varie forme di proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si vengono temperando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridicamente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel costume gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di temperamenti, che ne impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia. Quindi anche quel potere, che più tardi e affidato al “praetor” di interdire nel iudicium de moribus quel padre di famiglia che disperdesse i bona paterna avitaque, dove certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente appartenne al consiglio degl’anziani della gens di frenare queste dispersioni e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium, che e de moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a quella adoperata dal praetor. oLe cose premesse intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano primitivo. La prima di esse sta in vedere se gl’antichi heredia, ossia quei bina iugera, che Romolo distribusce ai capi di famiglia e di cui Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, doveno o non ritenersi inalienabili, e se i figli doveno considerarsi come com proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e [Questa esclusione dei plebei dall'agro pubblico è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico – “Quicumque propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt.” Bruns, Fontes, -- il che è pur confermato da un passo di Sallustio. “Regibus exactos servili imperio patres plebem exercere, agro pellere.” Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., accenna per nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti.] privata colla formazione di Roma – ANNO I -- , noi possiamo perd affermare con certezza che questo concetto dell'heredium esiste già anteriormente ed erasi naturalmente formato durante il periodo gentilizio. O che l'heredium doveva potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non e stata possibile, non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium, come pure non si comprende l'esistenza certo antichissima di un iudicium de moribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio, che nel suo concetto informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti. O che tuttavia questa alienazione, durante il periodo gentilizio, dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla approvazione o quanto meno colla testimonianza dei notabili del villaggio. O che infine nella primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputano comproprietarii sopratutto di quella parte del patrimonio paterno che costituie l'heredium, il che e in certo modo indicato dal vocabolo “heres”, che in antico avrebbe significato comproprietario, e che posteriormente continua a significare la medesima cosa mediante l'espressione più completa di “heredes sui”. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e detentore del patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo probabilmente il motivo, per cui non dove nei primi tempi di Roma avere nulla di ripugnante al modo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del diritto quiritario primitivo, che ora a noi appare cosi ostico e pressochè inesplicabile, per cui tutto ciò che appartiene od è acquistato dalla moglie, dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia. Questo concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che dove esistere nel costume della medesima; comunione ed intimità di cui il diritto non si occupa, perchè non dove occuparsene, ma che sono largamente attestate da tutti gli scrittori, che richia -- Ciò è anche confermato dalla nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini existimantur ».] mano la memoria della primitiva famiglia, governata dal “mos pa trius, ac disciplina”. Ad ogni modo la conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizzazione gentilizia, per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera Roma. Intanto se si ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la proprietà privata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza, che il sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzialmente per iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima potesse passare ad estranei. Si comprende pertanto, che in base al costume gentilizio la proprietà va ai figli, che ne sono comproprietarii, ed anche agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non individualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la comunanza gentilizia. Il motivo è questo, che se la legge di Roma puo favorire il riparto immediato fra gli eredi, il costume invece di una comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito, come diceno i Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira, non a favorire lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia, ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile, che la successione, quale compare nei primitivi tempi di Roma e quale esiste anteriormente, non ammette nè distinzioni di primogenitura, nè distinzioni di sesso, quanto alle persone che erano chiamate a succedere. Ma si può anche [Cic., Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor robustos filios, quinque filias, tantam domum, tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex... Tenebat non modo auctoritatem, sed etiam imperium in suos; metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina.]- essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi costantemente, se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera disposizione della parte di sostanza, che loro apparteneva, potessero compromettere gli interessi della gente. Ciò infatti viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua, a cui le donne erano soggette per parte degli agnati -- tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose, e che col tempo divenne per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovano modo di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico, di carattere eminentemente romano, che è la “coemptio fiduciaria.” Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del testamentum, non può esservi dubbio, che esse doveno certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate, come appare da ciò che le XII tavole, nei frammenti a noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione preesistente. Di più e ben naturale, che il concetto dell'una e dell'altro doveno presentarsi naturalmente a capi di famiglia, che da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra sono fissi nel pensiero di perpetuarsi in una posterità, che continuasse il proprio culto gentilizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, sono acconcie e indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia, ma intanto cosi l'una che l'altra non possono nella medesima servire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una predilezione capricciosa, ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non divenne marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomettere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio. E questa coemptio, che fa dire a CICERONE, pro Murena, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela. Cfr. MUIRHEAD. Puo sembrare poco logico, che io qui discorra, trattando della proprietà, anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui [Questo carattere è incontrastabile per ciò, che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale e una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto, che sarebbero andati perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle formalità, che sono poscia seguite dal patriziato nella comunanza romana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie) conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si opera fra le famiglie della stessa gente, puo forse bastare l'approvazione del consiglio della gente, ma se seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, dove certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. La cosa invece potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento, ma se si considera, che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo spirito informatore del testamento in questo periodo gentilizio dove essere del tutto analogo a quello, che ispira l'adrogatio. Il testamento per sua natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propria morte, l'impero di una volontà arbitraria, così può anche es sere il mezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella ripartizione e quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo, che la successione invalsa nel periodo gentilizio, secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimonio nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio. L'uno di essi consiste nel diritto, che i figli hanno di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra, e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano.] vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che fa si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio. Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia, che mirano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpetuarlo come tale nella famiglia. Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispirano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione degl’anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del patrimonio, usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella, che dove essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile. Mone della famiglia e del suo culto. Si può quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non dovette certamente essere un mezzo per disporre liberamente e a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo, che anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate, allorchè, dettando il loro testamento, cercano d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia. Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie, anche anteriormente alla formazione di Roma, già conoscevano una proprietà privata, attribuita al capo di famiglia. Ciò pero non toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento, che trovasi invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo spirito dell'organizzazione gentilizia si informava tutto all'intendimento di serbare integro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata presso un popolo, di spirito così eminentemente conservatore, una trasformazione cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di proprietà gentilizia in quiritaria, allorchè esso passò dal periodo gentilizio alla convivenza civile e politica? Ecco il gravissimo problema, al quale non credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta, a causa del l'idea universalmente accolta sull'autorità di Niebhur e di Mommsen, che lo stato romano siasi formato mediante la fusione e l'incorporazione di varie genti e tribù. Secondo questi autori infatti, lo stato costituendosi avrebbe in certo modo incorporato in sè la proprietà gentilizia, cambiandola cosi in territorio nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli autori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a citare De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione universalmente seguita. Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione dello stato esiste soltanto la proprietà collettiva o gentilizia, la quale appartene alla gens e non alle singole famiglie, viene alla conclusione seguente. Fondatosi quindi il comune e lo stato con la unione di più genti, esso sarebbe divenuto, come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, proprietario del territorio generale di tutte le genti romane, cioè, del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni (fundi), rimanendo gli altri proprietà comune. Cosi anche lo stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà (adsignatio romulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la cittadinanza (ager publicus). Di fronte ad una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita, mi sia lecito osservare, che anzitutto non è provato, che prima della formazione dello stato non vi fosse che la proprietà gentilizia, e che la gente non lascia alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni terreni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium, che senza alcun dubbio si applicano al capo di famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già preesiste fra [DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute in “La gens avanti la formazione del comune romano” (Napoli), e che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana.] le genti del Lazio; poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia, e gli assegni si sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia, o meglio a ciascun individuo, che segue Romolo nella sua intrapresa. Viha di più, ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del “mio” e del “tuo” – il “nostro” -- presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata, non può essere probabile che le gentes e le tribù, che potevano essere ed erano in effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono ancora ad esserlo dopo, si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado la loro origine diversa, per starsi paghe “ai bina iugera”, assegnati da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del patriziato primitivo Ramnense si riducesse soltanto ai II iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto non consta, che siavi veramente alcun autore antico, che accenni a questa specie di societas omnium bonorum, per cui si sarebbero messi in comune tutti gl’agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo, in base ad un costume tradizionale fra le genti latine, che dove già esistere prima e che e applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie, divide Roma in parte fra i proprii seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per il culto, ed un'altra riservò a titolo di pascolo comune. Intanto pero le varie genti, che parteciparono alla fondazione di Roma, dovettero continuare a tenere i proprii agri gentilicii, come lo dimostra il fatto, che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie, che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno stesso di Romolo, a favore del popolo romano, coi quali questo avrebbe ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo marzio, che avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati. Inoltre se Romolo, come dicesi, avesse imitato [I testamenti, a cui qui si accenna, sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4, 6, e che egli attribuisce l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la proprietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sappiamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del ritenere con Mommsen, che Roma risulta dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù; poichè è naturale che con un tale sistema lo stato avrebbe dovuto incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia. Solo sarebbe a spiegarsi come lo stato, creando esso la proprietà famigliare e privata, l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata, senza confini e senza alcuna sua ingerenza, quale appare essere stata la proprietà quiritaria. Tutte queste incoerenze invece scompariscono quando si ritenga che il comune romano non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai privati altre terre. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù, a cui accenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione puramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio, che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria, ed anche la famiglia, con cui essa appare strettamente congiunta, non possono essere che quella proprietà e quella famiglia, che già esistevano nell'anteriore organizzazione gentilizia, salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione stessa, apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo stato certi campi siti presso Roma, e da lei ereditati dal proprio marito; e l'altro alla vestale Gaia Taracia, che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il Tevere, che presero poscia il nome di campo marzio, dove si radunarono più tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii. Ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini romani non hanno mai creduto che lo stato fosse il proprietario di tutto il territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager publicus privatus, nell'Enc. giur. it. Devo però dichiarare che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandissima per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano.] biente in cui si erano formate. La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai singoli capi di famiglia, o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comunanza non come membri delle genti ma nella loro qualità di capi di famiglia, donde la conseguenza, che di fronte alla nuova formazione della convivenza civile e politica, mediante una federazione fra le varie tribù, più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente collettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali, ma soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietarii di terre; il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo. Questo e non altro e il processo seguito nella formazione di Roma, e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario. Per ora intanto, prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui, cercherò di riassumere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento del l'istituto della proprietà, che più tardi appare comprovato nell'ordine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, appartenenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina – “nomen latinum” -- si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro residenza gentilizia, per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso, per essere in caso di difendersi dalle popolazioni vicine, le quali, per appartenere forse a stirpi diverse, non possono vedere di buon occhio quest'ospite novello e pericoloso. Quanto al suolo conquistato ed occupato, è naturale che si cominci dal ripartirlo, secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori. Del suolo quindi sono fatte tre parti. Una è assegnata al loro capo, al culto, ai publici edifizi. L’altra è divisa fra i singoli capi di famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali potranno essere ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case, con un cortile ed un orto. La terza, infine, è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia, che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico. Fin qui però noi non abbiamo ancora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa fondato sul Palatino. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con altre comunanze stanziate sui colli vicini, gl’uomini atti alle armi e abili per consiglio di queste varie tribù, rappresentati dal proprio capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e politica. È naturale allora, che il centro e la [Cfr. De RUGGERO, V ° Ager pub. priv., -- ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi posteriori, puo naturalmente essere attribuita, nella ricostruzione che si fa posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo. Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lascia anche le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE. Non mipare che siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di Roma, come è accaduta. Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso, che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv. – “Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt.” Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine] fortezza dell'urbs si trasportino in un sito, a cui possano avere facile accesso gl’abitanti delle varie comunanze, quale e il sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È pero a notarsi, che per eseguire un simile accordo, siccomei capidi famiglia entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non e punto il caso, che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù sono prima ricche ed agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende i pubblici edifizii, i templi consacrati al divino, che la protegge, non che l'arx o fortezza, che serve per assicurare la comune difesa. Intanto, di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'importanza giuridica, politica e militare negli inizii di Roma, sono la proprietà e la famiglia unificate sotto il proprio capo. Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogandone le popolazioni e conquistandone il territorio. Allora e naturale che questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia. Questo infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. Però, a misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che cooperarono alla sua conquista, ne domandino la ripartizione almeno parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico – “adsignationes viritanae” -- sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di avere quella pro prietà, che è riputata necessaria per partecipare alla comunanza; ma poscia, di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager publicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una parte dell'ager, che è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli, che partono per fondare una colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà, quel censo, quell'”ager privatus censui censendo”, che è ritenuto necessario per far parte della vera cittadinanza. Un'altra parte invece e venduta ai pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di quella ricca ed agiata, che possiede già il capitale per acquistarlo; ed il secondo, quello cioè dato in affitto, finirà col tempo per dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre-vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine dell'ager publicus puo ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia ritenuto opportuno di mettere in vendita. Questa parte continua naturalmente ad appartenere all'ager publicus e ancorchè immensamente ampliata colle conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o compascua, che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del diritto che hanno di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in certo modo abbandonata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata, ma costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e danno occasione di [Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali sappiamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti, e NIEBHUR, che loro dedica un saggio che può vedersi nell' Histoire romaine. Ora poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensores Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute nel testo, sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui infatti io non mi proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in evidenza il processo, che i romani hanno ad applicare costantemente nella distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste.] svolgersi alla protezione pretoria, la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto giuridico del possesso. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle ripartizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sarebbero dal senato autorizzati a farla, e quindi tra il patriziato antico, a cui si aggiunge col tempo la nuova nobiltà plebea, e la plebe minuta viene ad esservi una opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi riparti per impedire le occupazioni e per limitare le occupazioni stesse, che col tempo minacciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso. Di qui le lotte intorno alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale dell'epoca, allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero insieme contro una plebe minuta, che già comincia a cambiarsi in una turba forensis, e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le distribuzioni di frumento. Con cio non intendo però di ammettere l'opinione di Niebhur, di SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della possessio coll'ager pubblicus. Io credo che la *possession*, come istituzione di *fatto* più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones nell'agro pubblico: cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee, aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes) -- la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce dall'occupatorius. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie, alle città benemerite del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie, questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa, traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema, che si applica per la popolazione di Roma, il sistema cioè delle adsignationes viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli agrimensori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita, a cui il senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un corrispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una città, non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi strade, dell'acqua pendente, a quelle indicazioni insomma, che in un periodo ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio, che dalla natura stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così quell'ager, che gli agrimensores chiamano “arcifinius”. Infine anche nelle porzioni di agro pubblico, che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager quaestorius, ager vectigalis), possono esservidelle parti, che, per essere scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli, e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a quelli dati in af fitto « in modum compascuae », il che significa che essi, a somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o di possessione privata, con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare occasione a questioni fra i giureconsulti per vedere se, vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del pascolo accessorio, anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento, sul che [Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus, BRUNS, Fontes] giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti dell'intenzione contraria dei contraenti. Pongasi infine, e anche quest'ultima supposizione è stata una realtà, che la piccola tribù del Palatino, mutatasi poi nella Roma dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo. Ma essa continua pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa, nella proprietà e nel possesso, nel territorio italico e nel suolo provinciale, quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa di Roma. Certo questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una materia, che le minute indagini hanno tal volta resa intricatissima, e danno anche un esempio sensibile del processo semplice, ma sempre logico e coerente, che Roma ha ad applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà a tutto il territorio da essa conquistato, ma anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della sua legislazione al mondo allora conosciuto. Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni diverse sanno conseguire i grandi effetti. È questo un esempio di quella dialettica potente e pressochè celata, che senza apparire negli scritti dei giureconsulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle fattispecie, trovavasi tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente del popolo da essi rappresentato. Ci sono altre applicazioni di questo processo dialettico, che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana. [Higinus, 117. « In his igitur agris quaedam loca, propter asperitatem aut sterilitatem, non invenerunt emptores; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum compascuae; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea attingunt finibus suis ». Bruns, -- Frontinus poi, De controversiis agrorum, soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuorum) controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns -- È da vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, “Dei pascoli acces sorii a più fondi alienate”. Bologna. In una organizzazione come quella che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla, che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata, che potessero meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di “legge” e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica. Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altri popoli, significa ormai l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle singole volontà individuali. Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente collettivo ed i singoli, fra lo stato organo ed interprete della volontà comune e I membri che entrano a costituirlo. È quindi inutile cercare della legge, nel senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale pertanto non si può rinvenire la distinzione fra il tutto in sè e le parti, che entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata. Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale suppone di necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste norme non dovettero mancare nel periodo gentilizio. Anzi si può anche aggiungere, che fra le varie forme di organizzazione sociale quella, che tende più di qualsiasi altra a stringere in certe regole precise cosi i rapporti domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia, la quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità, finisce per trasmettere, di generazione in generazione, non solo IL SANGUE e degli antenati, non solo il patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto, cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso, per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una significazione religiosa. È questa tendenza, cheha condotto tutte le comunanze gentilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo produsse fra le altre genti che appartengono alla medesima stirpe, quando fra esse non si fosse formato un nuovo focolare di vita, che fu quello che brucia nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della città. Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso spirito conservatore, che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del patriziato, non è che una trasformazione di questa tendenza naturale delle comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie, quando sono pervenute a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse. Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni elemento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita, i cui elementi nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la conservazione di esso, come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno scopo religioso e santo. È questo culto del passato, che contraddistingue le genti italiche [È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città ha pur essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta, la quale per tal modo di dea del focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare di Roma. Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al “locus Vestae” hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino presso il foro e fuori della Roma quadrata; il che serve a provare sempre più, che la vera città, di cui dove essere centro il tempio di Vesta, non era già lo stabilimento romuleo primitivo, ma bensì la città dei Quiriti, che risultò dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di Vesta dimora, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale, come custode della città, dove pur trovarsi nel centro di essa. Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, -- dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza acuta e profondamente critica, appena hanno analizzate le proprie tradizioni, rivestite anch'esse di carattere religioso, le abbellirono e trasformano colla propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che contenevasi in esse. Questo intanto è certo, che appena noi possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi furono argomento di storia, ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della loro civiltà, che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi riconosciamo immediatamente, che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato, hanno già assunto un carattere sacro e religioso. Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la ellenica, ma eminentemente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia, per modo che le genti italiche, sempre occupate dal divino, che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita; mentre per i fatti di importanza maggiore per il gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul [Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, che mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di chiudersi nella stretta veste delle formole legali, Roma invece possede una delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare il diritto ad un ideale sempre più elevato. Del resto il primo, che con occhio veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei greci e dei romani, è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. D'allora in poi il paragone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come Mommsen, LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata, come MAINE, op. cit., Freeman, Comparative politics, London, Hearn, Arian Household, London, IHERING, L'esprit du droit Romain. Per maggiori particolari in proposito mirimetto al libro: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale,. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche] tata. Di qui quella osservazione antichissima del volo degl’uccelli, che è d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio, che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile degli auspicia, che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflettono la vita, intesa questa distinzione in un senso che possa applicarsi al periodo gentilizio, noi troviamo che anche in questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di significazione determinata, la cui semplicità primitiva sembra indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli di “mos”, di “fas” e di “jus”, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del “mos” infatti noi abbiamo una definizione conservataci da Festo. “Mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.” Qui è notabile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo, per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure l'esplicazione che viene dopo, la quale, restringendo in apparenza il contenuto del vocabolo, indica in sostanza che la parte. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, e lo stesso autore, Institutions romaines. Questo ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen. “Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias” e da CICERONE, De divin. “Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato ne privato quidem gerebatur, quod etiam nunc nuptiarum auspices declarant.” Per quello poi, che si riferisce agl’auspicia, alle varie loro specie, alla procedura solenne, da cui erano accompagnati, ed alla importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu anch'essa un effetto della formazione di Roma, non ho che a riferirmi alla trattazione magistrale di Mommsen, “Le droit pubblic romain”. Trad. Girard, Paris] prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si rifere alla religione ed alle cerimonie di essa. Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di “fas”. Poichè il fas delle genti italiche è paragonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo, fini per significare quelle norme di carattere esclusivamente religioso, che si riferiscono agli auspicia, al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto. Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del “ius”, quali Leist,  Bréal, al quale aderisce anche Muirhead, e diavviso, che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione religiosa. Cosi Bréal ritiene, che il “ious” antico dei latini, cambiatosi poscia in “ius”, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel più antico vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina ». Questa primitiva signifi [Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso Festo, confermando il carattere religioso, comune al mos ed al fas, definisca il ritus dicendolo un “mos comprobatus in administrandis sacrificiis ». Bruns, Fontes, -- Festo, v° Themin, scrive. “Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse existimabant, quod et fas est.” Bruns, Fontes. Lo stesso concetto ha ad esprimere Ausonio, Edyl.: “Prima deum Fas Quae Themis est Graiis.” Per altri passi è da vedersi Voigt, Die XII Tafeln. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la frase “secundum ius fasque”, la quale indica in certo modo il bisogno di dare al diritto anche l'appoggio del fas. BRÉAL tratta la questione in “Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin” nella “Nouvelle revue historique de droit Français et étranger” -- la cui conclusione è la seguente: “Le droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie latin, et qui a l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs a ses origines dans le passé le plus lointain. Il est inséparable des premières idées religieuses de la race. Questo è pure il concetto di LEIST, Graec. Ital. R. G., MUIRHEAD, Hist. Introd., segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice s < iu, che significa stringere, legare, unire, la quale indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae. Questo è certo, ad ogni modo, come nota Bréal, che le parole mos, fas e ius debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. cazione del vocabolo spiega poi come tanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro alla “lex”, sebbene questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ritenessero la legge come un dono del divino; come pure spiega quel sentimento, le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente. Intanto questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specificazioni ed aspetti diversi. Questo concetto, secondo Müller ed anche secondo Leist, sarebbe stato dagli antichi arii significato col vocabolo di rita, il quale esprime ora l'ordine che regge l'universo, col suo alternarsi del giorno e della notte, ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi. A questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del “ritus”, del “ratum” e della “ratio” dei latini, ed anche quello, che essi indicano coll'espressione di “rerum natura”, per guisa che anche il concetto di “ius naturale” nel senso che ha ad essergli attribuito da Ulpiano di un “ius quod natura omnia animalia docuit” puo rannodarsi a questi primitivi concetti. Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o di ratio la sapienza antichissima degl’arii associa altri con sarebbero quelli di fari, iubere, iustitia, iudes, iurgium, iniuria e simili. Una trattazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una larghissima erudizione, occorre in Voigt, Die XII Tafeln. Leist. Ciò confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin.: “palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt.” Questo è certo poi, che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i filosofi latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Conviene quindi indurne che il concetto di un diritto della natura comincia in certo modo ad essere sentito dall'universale coscienza, e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una elaborazione filosofica. In proposito la classica opera del Voigt, “Das ius naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer”, Leipzig] -cetti, che sono espressi coi vocaboli di orata, a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini, due vocaboli che sovente procedono uniti: di dhāma, che egli dice analogo alla Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex, il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi. Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata, quando si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di ratio, si associano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum, da cui derivò poi ratio, significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola religiosa, significano i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o volontà operosa, che muove e regge l'universo. Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del « do ut des ». Il mos significa la stessa volontà divina, ma non più in [ Leist. Questo scindersi dal concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio “Fas et iura sinunt” che Servio commenta con dire – “id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent.” In Aen.  (Bruns, Fontes). La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata da Leist con una quantità di passi da lui citati nella Graec. It. R. G. Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano agli dei di una città nemica, per ottenere che i medesimi abbandonassero la città stessa. V. HUSCHKE, Iurisp. anteiust. quae supersunt, Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, che il culto romano e una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones > che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile, se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume – “rite”. Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi romani l'idea secondo la quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni argomento scorgono una specie di contratto.] quanto si rivela con segni, la cui interpretazione è lasciata al sacerdote. Ma bensì in quanto si palesa in quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla consuetudine. Infine il “ius” è sempre questa stessa volontà divina, ma in quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che appartengono alla comunanza, nell'intento di provvedere alle esigenze della medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse; ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro, così è molto difficile il precisare la significazione di ciascuna, sopratutto nel periodo gentilizio, allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà divina era l'autorità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. È poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò, che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con quello di “usus.” Ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità sopra la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova, che queste nozioni doveno elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti dall'Oriente sul suolo italico, ove hanno poiservito per l'educazione di stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà. Sebbene qui non possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi venuti formando, non è tuttavia inopportuno di avvertire, che, nelle origini, il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere il “mos”, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno delle comunanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e religioso. È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione religiosa, e l'altra una sanzione giuridica, mentre una parte continua sempre ad avere un carattere puramen temorale e costituisce ciò che le genti latine chiamano “i boni mores”. Intanto egli è certo, che le genti italiche si presentano con questi varii concetti, già compiutamente formati, e che fra essi ha già acquistata una incontestabile prevalenza quello del fas. E il fas, che primo ha a ricevere elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la volontà divina, di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la protezione del fas, che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi sarà sul modello del ius pontificium, che verrà a formarsi il ius civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza, siasi sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole, che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale. Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti italiche, ci preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne svolgendosi ciascuno di essi. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche, più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di Themis, Nemesis, Adrasteia. Esso è l'espressione della volontà divina, in quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa una parte, che si riferisce ai riti e alle cerimonie del culto, ma una parte eziandio, che contiene delle norme che riguardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per il divino non è propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospitium), che ha un così largo sviluppo presso le genti primitive, e che poi ricompare, come hospitium publicum, dopo la formazione [Per una più larga prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di ritto, cogli autori ivi citati] della città, come pure è il fas che consacra le obligazioni, che intercedono fra il patrono ed il cliente. È esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti al divino, e alle promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i membri della famiglia, quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie tribù; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicurarne l'adempimento non trova altro mezzo, che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas, che esercita tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae. Chi poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa al divino, e quindi deve espiare il proprio fallo, mediante certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare, allorchè altri cade in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota, a cui rimontino le tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo, dolo sciens, prudens), e quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il diritto quiritario dove fare un passo in dietro, come quello che dove applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo. Che se il fallo sia tale [Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae -- Sono poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora sanzione giuridica, si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico, appare dal diligente lavoro di Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano. Roma. Cio è dimostrato dal fatto, che la distinzione fra l'omicidio commesso di proposito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges regiae attribuite da non potersi espiare in questa guisa, in allora il reo viene assoggettato ad una specie di espiazione sacrale, la cui forma tipica consiste nella capitis sacratio. Questa dove essere pena gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una specie di scomunica religiosa e domestica, che lo stacca dal gruppo gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori della legge, per guisa che sebbene il sacrifizio della sua vita non potesse essere accetto al divino, esso puo pero essere ucciso impunemente da chicchesia. Di qui il carattere di espiazione sacrale, che informa ancora tutto il diritto penale di Roma, durante il periodo patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio, supplicium, di consecratio bonorum, di interdictio aqua et igni, i quali confermano l'osservazione di Voigt, secondo la quale le genti patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa al divino che non agl’uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno materiale. Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali, supponendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto sono già nella loro età matura, vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale le traccie della vendetta. Se cio intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso. Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero spesseggiare una reazione violente e una vendetta, cio più non può conciliarsi col rattere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente in ciò, che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola, i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla piacularis hostia, quando fossero compiuti per imprudenza; mentre non ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal seguente passo tolto da VARRONE, De ling. lat. Praetor, qui diebus fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse.” Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup., Voigt, XII Tafeln] religione e dal costume. Non potrebbe certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la violenza. Ma l'organizzazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per uscire da tale condizione di cosa. Quindi, se si deve giudicare dal diritto primitivo di Roma patrizia, sarebbero così poche le traccie, che rimangono in esso della vendetta, nel senso che suole attribuirsi a questo vocabolo, da doverne inferire che nel periodo gentilizio la religione, compenetratasi in ogni atto della vita, ne aveva già cacciata la vendetta ed aveva esclusa perfino la composizione a danaro, almeno nella cerchia delle genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante), o contro il ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta. La religione già incatena le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della vendetta e della composizione a danaro, le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale, come quella che era comune ad entrambe le classi. Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla vendetta nel diritto romano, havvi il MUIRHEAD, Hist.introd. Egli argomenta da ciò, che colui il quale commetteva un omicidio per imprudenza dove fare l'offerta di un ariete agli agnati dell'ucciso. Da ciò che il vendicare la morte di un congiunto ucciso e un dovere per i superstiti per acquetare i mani di lui. Dal diritto del padre e del marito di uccidere la figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero. Dal taglione, le cui traccie ancora rimangono nella legislazione decemvirale, e perfino dal diritto del creditore di chiudere nel carcere il debitore, chemancasse ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain. Trad. Meulenaere. Paris, -- ove discorre della giustizia privata e delle forme, con cui essa e esercitata. Finchè quindi si dice, che sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto, di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile. Ma ciò non deve più confondersi coll'esercizio sregolato di una vendetta, che non prende norma che dalla violenza della passione, dal momento che la religione e la consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che l'organizzazione gentilizia ha appunto per iscopo di porre termine alla pri vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù.Accanto però a queste regole dell'umana condotta, che già sono munite di sanzione religiosa, sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi esprimerci, una morale. Esse vengono indicate col vocabolo di “mos patrius”, di “mores maiorum”, di “boni mores”, e costituiscono un complesso di norme direttive della condotta, le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium de moribus, at tribuito al Praetor, e sopratutto nel “regimen morum”, affidato alla custodia dei censori. Anche questi “mores maiorum” si sono venuti formando durante il periodo gentilizio, nella cerchia sopratutto delle familia e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides, anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero. Sono questi boni mores, che da una parte conteneno in certi confini il potere delle varie autorità, le quali, giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine; e che dal l'altra colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza coloro, che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione giuridica. Così, ad esempio, furono i boni mores, che ancora molto più tardi condussero l'opinione pubblica dei cittadini Romani a condannare al disprezzo quei prigionieri d’Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del ritorno, credettero di liberarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di ritornare immediatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro [Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro, allorchè scrive – “Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem.” Del resto sono diversissime le guise, con cui i filosofi esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis, del foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione, il concetto della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che trova poi la sua espressione giuridica nell' “uti lingua nuncupassit, ita ius esto.” Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole – “coactus tua voluntate es” -- concetto che trova pur esso forma nell'assioma giuridico, “Quae ab initio sunt voluntatis ex post facto fiunt necessitates.” Per altri esempi può vedersi HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires] promessa. Del resto è sempre questo concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della classica giurisprudenza, nella compagine soverchiamente rigida del diritto civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existimatio anche sulla capacità di diritto, e l'introduzione dell'infamia, della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui sia incorsa una determinata persona. Al qual proposito non e inopportuno di osservare, che quella separazione fra l'elemento esclusivamente GIURIDICO ed il meramente morale, che tarda così lungamente ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una meravigliosa nettezza nel diritto di Roma, il quale, dopo essersi separato dal fas e dai boni mores, continua logicamente la propria via, e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana (“dura lex, sed lex”), che solo più tardi e temperato nella classica giurisprudenza, la quale di nuovo richiama in esso quell'alito morale, da cui almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto. Intanto, per ciò che si riferisce ai boni mores, non è più la religione, che si incarica di punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degl’anziani nella gente ed il magister pagi nella tribù, che sovraintendono almantenimento di questa morale. Mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni ignominiose, o abbiano mancato alla fede promessa, o abusato del potere loro spettante, o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che, senza senza essere colpite [Cfr. Muirhead, Hist. Introd. Basta leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la significazione larghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse altamente sentita l'importanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di queste, quando quelli cominciavano a venir meno. Ciò verrà ad essere largamente provato nel ius Quiritium, dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini.] dalla sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disapprovazione generale. Se il modo in cui formasi questa generale opinione e l'influenza, che essa esercita, male possono scorgersi ancora a Roma, in cui già scomparve ogni traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputazione dei figli. Se ora si vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio, apparisce fino all'evidenza, che e soltanto, collocandosi in un posto intermedio, fra il fas da una parte ed i boni mores dall'altra, che puo riuscire e farsi strada quel ius, che dove poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della comunanza civile e politica. Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos propriamente detto, ma a quella formazione giuridica, che viene poi ad essere indicata col vocabolo efficacissimo di “consuetudo”, il quale in certo modo contiene in sè la propria deffinizione. Colui che manca a queste regole non offende solo il divino e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appartiene e si sottrae cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere evidente sopratutto l'offesa [Servius, In Aen. -- VARRO valt morem esse communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus *consuetudinem* facit ». Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere meramente MORALE, in *consuetudine*, che ha carattere strittamente GIURIDICO, è indicato anche da molti passi dei giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, “Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts”. Jena, Va Mos e Consuetudo] alla comunanza, a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli altri membri della comunanza. Di qui la conseguenza, che comincia già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, come una specie di selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono sceverando alcuni, che assumono il carattere *giuridico* propriamente detto. Naturalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre, fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche, religiose e civili ad un tempo. Ma intanto già comincia ad avvertirsi il carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli puramente morali e religiosi, per ottenere l'adempimento dei quali non può più bastare una sanzione meramente religiosa, né la disistima generale, ma vuolsi una specie di sanzione co-attiva da parte della intiera comunanza e dell'autorità che la governa. Al modo stesso, che già fra le genti e le tribù si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei conciliabula, quei fora, che sono il primo nucleo, intorno a cui verrà poi a svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una convivenza, i cui precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico. Che anzi, per continuare nello stesso paragone, al modo stesso che Roma, limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private, e a sottrarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche [Questo concetto, per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo, ma reca un danno alla intiera comunanza, che ora noi diremmo danno sociale, è un concetto profondamente sentito dai romani, il quale ha ad essere variamente espresso dai filosfi latini. Basti riportare dall'Henriot questi versi di Pubblio Siro: Multis minatur, qui uni facit iniuria: Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus; Omne ius supra omnem iniuriam positum est. O quello di Orazio: « nam tua res agitur, paries quum proximus ardet ». Come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con formole, che hanno una precisione giuridica: “Obsecro vos, populares, ferte misero atque innocenti auxilium. Ovvero: Obsecro vestram fidem, subvenite cives ».] questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul fas, viene col tempo accrescendosi sempre più, e richiamando a se una quantità di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non hanno che un carattere religioso o MORALE. Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a spese degl’elementi, da cui si è staccato. Quando poi sentesi forte abbastanza per procedere per proprio conto, afferma senz'altro la propria indipendenza, e assume, per opera dei romani, un processo tutto speciale nel proprio svolgimento, che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricava il suo primitivo nutrimento. Quel carattere pertanto di rigidezza, che suole condannarsi nel diritto dei Quiriti, è la miglior prova della sua potenza ed energia; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto a tale da potersi svolgere senza più tener conto della considerazione MORALE o religiose -- al modo stesso che Roma, teatro del suo svolgimento, ormai e pervenuta a tale da cercare ancor essa di spogliarsi di ogni traccia della influenza gentilizia e patriarcale. Questo è poi degno di nota, che anche quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito della forma di “lex.” Quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato, dà una forma solenne ed espressa alla propria volontà – “iubet atque constituit” -- creando cosi il “ius legibus introductum”. Intanto si mantiene sempre un altro aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella formazione lenta delle proprie consuetudini, che i romani considerano come il frutto di una tacita civium conventio – “ius moribus constitutum”. Ad ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una *regola*, che il popolo pone a sè stesso, o di una norma, che formisi tacitamente nel costume, è pur sempre il frutto di un accordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del popolo, che chiamansi contiones; ma allorchè la legge viene ad essere posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti coloro, che cooperarono a formarla, non eccettuati quelli che erano di avviso contrario. Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben presto un altro, per cui distinguesi una parte del diritto, che si riferisce all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum; e una parte invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli individui, che entrano a costituirla, e chiamasi ius privatum. Il primo si forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi, lascia le sue traccie nella storia politica di Roma, e si esplica mediante gli accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe. L’altro viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e trova i suoi interpreti nei pontefici e nei giureconsulti. Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo modo il palladio, sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto private. Insomma al modo stesso, che l'urbs e il frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gl’edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse comune; cosi anche la formazione del diritto e attribuita ad una specie di elaborazione, che venne operandosi nella coscienza generale di un popolo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo, [È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, Savigny, Sistema del diritto privato romano, trad. Scialoia. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto – “duae positions” -- e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricava dallo spirito del diritto romano, secondo cui “ius privatum sub tutela iuris publici latet”, De augm. scient., de iust. univ. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi Voigt, Die XII Tafeln, come pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig] mediante cui da tutti gli elementi morali e religiosi, che già si erano formati durante il periodo gentilizio, si vennero sceverando tutti quelli, che potevano ritenersi indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. Roma insomma che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre ingrandendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a costituirla, deve essere considerata come il crogiuolo, in cui si gettarono indistintamente tutti gl’elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed isolarne quella parte, che ha un carattere essenzialmente giuridico, politico e militare. E questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in certo modo compiendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande verità il filosofo coll'esclamare: Fuit sapientia quondam Publica privatis secernere sacra profanes. Poichè tale veramente e il compito delle città primitive e quello sopratutto di Roma. Il nucleo di questi precetti, di carattere esclusivamente giuri dico, e dapprima assai scarso, e si ridusse a quel poco che Roma, ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad un'organizzazione come la gentilizia, che ancora aveva tutta la sua vitalità ed energia. Poscia però col crescere di Roma, coll'estendersi delle sue mura, col fondersi insieme degli elemeuti, che entrano a costituirla, coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus, quel ius, che prima ha solo una posizione subordinata, si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata, ed e riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. E allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio, che gli e affidato, si riaccosta di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico, da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non riconosce più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica – “iuris ratio”. Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo [Orazio, Ars poetica] le proprie istituzioni dal passato, ci fa però assistere alla formazione lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e politica, e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo, ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso, in quanto che è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi “rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente.” Che questo sia stato veramente il processo, con cui si esplica il diritto in Roma, risulta poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non occorre altra dimostrazione. Bensi importa, ed è assai più difficile determinare, quali siano i rapporti, che primi hanno ad assumere un carattere giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presenta questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura domestiche e nel seno della famiglia la religione comune, la riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di parenti, da cui egli è circondato, creano un'organizzazione di tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ricorrere al diritto propriamente detto. Che anzi, se il diritto cerca di penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità, come lo dimostra ancora il padre di Orazio, uccisore della sorella, allorchè osserva che, se il proprio figlio non ha a ragione uccisa la sorella – “iure caesam” -- e toccato a lui di provvedere. Se quindi la moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e consacrati dalla religione, e il padre stesso, che e vindice dei loro [Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'opinione di coloro, i quali vorrebbero senz'altro attribuire al re, come primo magistrato di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. CLARK, Early roman law. Deve invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD, Histor. che la giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia, e a quella che apparteneva alle singole genti, quanto ai delitti, che erano commessi da membri, che entravano a costituirle.] falli, salvo che in certi casi di maggior gravità, come quando trattisi della moglie adultera, non stata sorpresa in flagrante, egli dove circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso. Allorchè poi l'azione, che reca danno altrui, sia stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, e fra i due capi di famiglia, che la questione e risolta, e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non ha nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca, che egli consegni la persona, che ha recato il danno, al capo di famiglia, che ha a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio. Cosi pure [È noto a questo proposito come nel diritto, distinguasi fra “noxia” e “noxa”, per cui mentre il vocabolo “noxia” significa il danno, veniva anche dai filosofi adoperato per significare la colpa, mentre il vocabolo “noxa” si adopera per significare il peccato, il delitto, ed anche la pena di esso -- donde la espres sione di noxae deditio, la quale trova poi una larga applicazione, tanto nei rapporti fra i capi di famiglia, quanto eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù nel “ius pacis ac belli” nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes). Intanto dalla estesa comprensività del vocabolo di “noxa” o di “nocia”, nella sua significazione primitiva, parmi di poter inferire con fondamento, che nelle origini uno stesso vocabolo significa ad un tempo la colpa, che cagionava il danno, e il danno, che deriva da essa, e che non dove esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dove distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrattuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto romano, ed è solo col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un altro carattere del diritto si è anche questo, che esso prende di regola le mosse da un vocabolo di significazione materiale, e poi gli attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata o figurate. Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo “rupere”, che significa il rompere materialmente un membro, od altra cosa; ma fu poscia recato ad una significazione traslata, attestataci da Festo, per cui rupere significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più consueti nel diritto di Roma, quello per cui una volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a tutte le configurazioni affini. Come si estese il parricidium ad ogni uccisione di un uomo libero. Così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passa poi ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dottissimo lavoro del collega G. P. Cuironi, “La colpa nel diritto civile” (Torino). Di quest'opera credo di poter dire, senza offendere la modestia dell'amico, che servirà a rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la] gli è tenendo conto della posizione rispettiva, in cui in questo periodo si trovano due capi di famiglia, che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure, che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un esempio, quella del “furtum lance lincioque conceptum”, in cui abbiamo un capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di entrare nella casa del vicino, in cui teme sia stata nascosta; ma cio a condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa, in cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio), che gli impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione domiciliare dove per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di derubato vi era stato nascosto. Del resto in questa condi grandezza della giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una configurazione giuridica, la medesima non deve più essere perduta di vista nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle vicissitudini delle legislazioni e della giurisprudenza, ma deve sempre essere richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale. L'autore tratta dei concetti di “rupere”, di “rupitias”, di culpa della lex Aquilia.] Esmein in “La poursuite du vol et le serment purgatoire”, trova le traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi per il “furtum lance lincioque conceptum”, anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del cammello, sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da MACROBIO, Saturnalia, I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa, perchè avendo rubata una scrofa uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di quella. Ciò dimostra come questa procedura siasi naturalmente formata presso popoli diversi. Ma non posso convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle forme esteriori della procedura. Poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa (Esmein, Mélanges d'histoire de droit, Paris). L'autore poi, il quale avvertì che il piatto, tenuto fra mani da colui, che ricerca la cosa derubata nel “furtum lance lincioque conceptum”, ricorda in certo modo la libazione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è Leist, Graec. Ital. R. G. Sul “furtum lancie lincioque conceptum” è da vedersi il saggio di Gulli, “Del furtum conceptum secondo la legge delle XII Tavole. Bologna] zione di cose, mancando ancora un'autorità, che siasi fatta ella stessa investigatrice e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro, il marito offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si richiederà ancora lungo tempo prima che, in Roma, l'autorità pubblica si incarichi direttamente della punizione di questi e di altri misfatti. Che se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso, e anche naturale, che impegnisi una lotta fra le due famiglie, e che associandosi alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il DUELLO mutisi talvolta in un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse entrano a far parte. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che entrano a costituire la gente, quali sono i rapporti fra il patrono ed il cliente, ed anche i doveri della ospitalità, poichè essi cadono sotto la protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite mediante la pubblica disistima, e coll'intervento dell'autorità patriarcale e del consiglio degl’anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già vengono ad esservi diversi capi di famiglia, che hanno una propria familia, un proprio “heredium”, un proprio “peculium”. Cosi comprendesi come nel “vicus” già puo sorgere delle controversie di carattere GIURIDICO fra i diversi padri. Controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo stesso di parentela, che intercede fra le famiglie che appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di qualche anziano, che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad un amichevole componimento. Il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende possibile il commercium, manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia. Infatti, il carattere esclusivamente patriarcale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa, rendono [Ciò accade sopratutto, quanto all'adulterio, che comincia a formare oggetto di un “iudicium publicum” solo colla legge Iulia, De adulteriis, che e una di quelle con cui Ottaviano cerca, ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. [In proposito l'interessante articolo dell'Esmein, “Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, De adulteriis” – “Mélanges d'histoire de droit”. Quanto al vicus e al difetto, che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi giustizia] ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra i padri o capi di famiglia, che discendono dal medesimo antenato e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia, che appartengono a genti diverse e che più non discendono dal medesimo antenato, nè partecipano allo stesso culto gentilizio. Quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere in qualche modo all'amministrazione della giustizia, più non essendovi un'autorità di carattere esclusivamente patriarcale, che possa imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa. Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della giustizia, che suggere l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus – “magister pagi” -- , la cui primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di “iudex” e di “praetor”, ed anche da quello di “tribunal” (derivato certamente da “tribus”), che significa dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che e chiamato ad amministrare giustizia, e indica così anche esteriormente la posizione cospicua, in cui egli trovavasi di fronte agli altri membri della comunanza. Queste controversie intanto non puo naturalmente sorgere che fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto, perchè sia necessario che intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga. Ma hanno piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie ragioni e di conoscere il processo, che deve seguire per ottenere giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza. È questo il motivo, per cui presso tutti i popoli la prima forma che giunse ad assumere il diritto e quella dell' “actio”, che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrate. Atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e coi riti. La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il magistrato, perchè – “sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit animus prudens” -- trovasi soventi accennata dai filosofi latini, come indizio della dignità, a cui era assunto colui, che e chiamato ad amministrare giustizia. V. Henriot, “Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome”).] giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cui dovette passare l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia. Che se si volesse spingere anche più oltre questa ri-costruzione logica e concettuale del diritto romano, che ha a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe affermarsi con certezza, che le due prime figure di rei, contro cui la giustizia umana associa i proprii sforzi colla giustizia divina e colla esecrazione della generale opinione, dove essere quella del parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia, che per il carattere patriarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli, che è il grande misfatto contro la legge umana e divina, il quale puo mettere in lotta le famiglie fra di loro, ed anche rimanere impunito, quando l'autorità comune non si mette in movimento contro di esso. Nè ripugna al carattere della comunanza patriarcale, che la punizione del parricida acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse accompagnata da certe pratiche, che possono anche avere un significato simbolico, e che potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione del parricida; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte sopravvivono e non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili. Così pure dovette essere un processo del tutto natu [Questa circostanza, che tutti i membri della comunanza patriarcale si chiamano fratelli, è attestata dal Sumner MAINE, “The early history of institutions”, e qualche cosa di analogo dovette accadere ancora nella tribù italica, ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia sono generalmente indicati col vocabolo di patres; poichè di questo stato di cose rimasero ancora le traccie in Roma. È nota la punizione tradizionale contro il parricida, ricordata ancora nel Digesto: “Poena parricidii more maiorum haec instituta est, ut parricida, virgis sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia; deinde in mare profundum culleus iactatur ». Qui il giure-consulto lascia travedere, che la pena del parricidio e conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale – “mos maiorum”. Essa pertanto dopo essersi mantenuta nel costume più che nella legge, contro i parricidi in senso stretto, ha poi ad essere sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis] rale, che condusse l'opinione generale di una comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che getta la perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di essa. Cosicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso, che davano al nemico, con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di “perduellis”. Cio intanto darebbe una spiegazione molto probabile e naturale del fatto, che fa meravigliare gli stessi romani, per cui Romolo, prima e Numa, dopo chiamare col nome di “parricidas” anche l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in Roma avrebbero assunto il nome di “quaestores parricidii” e di “duumviri perduellionis”. Anche qui la legislazione di Roma comincia dal riconoscere come pubblici reati quelli, che già hanno cominciato ad assumere questo carattere nello stesso periodo gentilizio, e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man mano quelli la cui repressione appare necessaria. Vi ha di più, ed è che nella tribù già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri dell'organizzazione gentilizia, ma già cominciano ad es sere indipendenti dal patriziato, sebbene ancora si trovino in condizione assai inferiore e non abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a questa condizione parmi non sia temeraria la congettura, che mi permetto di avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non dovette soltanto cominciarsi lo svolgimento dell'elemento giuridico, ma questo diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali; in quanto che altro dovette essere il diritto, che governava i rapporti fra i padri, che appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto, che venne a svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine superiore dei padri e quello INFERIORE della plebe, il quale non potè a meno di ritenere qualche traccia della superiorità che [La questione del “parricidium” e della perduellio scorreno delle leges regiae.] si attribuivano i primi e dell'inferiorità di condizione, in cui sanno di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita parte a queste due forme del diritto, le quali del resto trovano la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare certe istituzioni del diritto romano, quali sarebbero quelle del “mancipium”, del “nexum”, della “manus iniectio” e simili; le quali sono tutte forme giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se si comprende infatti che un plebeo, il quale non ha altra garanzia da dare che quella della propria persona, e costretto a dare a mancipio sè stesso o la propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità, che era propria del nexum, e che il patrizio insoddisfatto puo mettere la mano sopra di lui e trascinarlo nel suo carcere, mediante la procedura della “manus iniectio”. Questi modi di procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia appartenenti alle genti patrizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni passarono poi effettivamente nel diritto quiritario; poichè anche questo e l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, hanno sopratutto per iscopo di governare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi. E quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario. Lo svolgimento di questa teorica tratta appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. I giureconsulti col dire che il “ius hominum causa constitutum est”, enunciarono una verità che trova una piena conferma nei fatti, quando seguasi il processo, con cui il diritto vennesi formando fra le genti del Lazio. Finchè trattasi di persone che appartenno al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità patriarcale, stabiliti in seno delle varie aggregazioni, possono bastare a qualsiasi emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro; poichè in allora, mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, convenne di necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto. Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto, che possono spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario, e dileguare una quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto, senza cercarne la causa nelle condizioni sociali che ne determinano la formazione. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuridici, sorgeno dapprima fra i capi di gruppo, anzi che fra i singoli individui, che sono assorbiti ed unificati nel medesimo. Di qui le solennità, che dove necessariamente accompagnarne gl’atti, come quelli che non riguardavano gli interessi particolari di questo o di quell'individuo; ma si rifereno all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato, e così hanno, per usare il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto amore di formalismo, che guida un popolo così eminentemente pratico come il romano nella formazione del proprio diritto; ma questo, nei suoi esordii apparve ingombro di formalità e difinzioni, solo perchè, dopo essere stato preparato in un periodo di organizzazione sociale, e trapiantato in un altro dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si sono formate nella realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica. Nel che seguono un processo, che non abbandonno neppure più tardi; quello cioè di non creare giammai una forma novella, finchè quella già prima [Il formalismo è certo uno dei caratteri più salienti del diritto di Roma. Si comprende quindi, che I filosofi se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine, L'ancien droit, in cui si occupa delle finzioni legali, e sopratutto poi JHERING, che ha a dedicarvi buona parte del “L'esprit du droit Romain”. La conclusione, a cui sarebbero venuti questi filosofi, e, che questo formalismo del diritto di Roma dove essere attribuito alla predilezione del popolo romano per l'elemento esteriore; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i popoli, e proveniente da ciò, che i medesimi riguardano più alla forma che alla sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno, che comparisca presso tutti i popoli. Esso compare soltanto, al lorchè istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli non si può dire, che essi siano amici della formalità; perchè essi cercano di esprimere ciò che sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una mimica, la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata, tende ad essere l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi, il formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo, è invece l'effetto dello spirito conservatore, che trasporta una forma creata in un periodo ad un altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione. Tutte le forme che si conservano come tali sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa, che sono trapiantate in un'altra, la quale più non le capisce, e quindi si limita ad osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale, nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se divenne formalista, e perchè il patriziato romano vuole conservare le vestigia del passato e fare entrare nella forma preparata nel periodo gentilizio un nuovo rapporto che e creato dalla convivenza civile e politica colla plebe. Non è quindi da ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza di esso; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare la forma antica, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova, che si viene alla conseguenza, per cui “a forma dat esse rei”. Ciò che accade nel diritto, avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua formazione adatta la parola al concetto; il che non impedisce pero, che più tardi, trasportandosi la stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate, la cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa.] esistente possa ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma questo diritto e veramente disacconcio, dal momento che allora soltanto si usce da una condizione di cose, in cui il padre rappresenta effettivamente quel complesso di persone e di cose, che dipendeno da esso. Quindi e naturale che per qualche tempo il diritto conserva quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il periodo gentilizio. Solo comincia a diventare artificioso e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto di Roma, quando al PADRE si venne sostituendo il CITTADINO, e più ancora quando al cittadino si sostitui L’UOMO LIBERO e L’UOMO NUOVO. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il PADRE, che compia tutto ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato, per guisa, che esso sia PADRE (quanto ai figlio), PADRONE (quanto al servo), PATRONO (quanto al cliente), e rappresenti il gruppo da lui governato, ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la imponente figura non tanto gli scrittori di cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente giuridico; ma i filosofi latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, APPIO Claudio, capo di una grande famiglia, custode geloso dell'antico costume, il quale continua, ancorchè vecchio e CIECO, ad esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un numero grandissimo di client. Del resto anche il diritto lascia di quando in quando travedere quest'aureola patriarcale, che circonda il capo di famiglia, come lo dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio. “Moris fuit, unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.” Tuttavia anche questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere essenzialmente giuridico. Mentre invece, riportandoci al periodo gentilizio, questa figura primitiva presentasi anche [Cic., Cato maior -- È poi sopratutto nei filosofi latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può facilmente scorgere la differenza fra la patria podestà, quale era giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in proposito Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V, Friburgi] più imponente col suo carattere patriarcale e religioso ad un tempo; e quindi si può comprendere come l'acceptum, l'expensum, lo sponsum, lo stipulatum, l'actum, il iussum del capo di famiglia si cambiano in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore. Un secondo carattere poi sta in questo, che il diritto presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse, come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non fosse riconosciuto non ha altro espediente, che quello di ricorrere alla manuum consertio, la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle tribu, mantenne le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui rancori si verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione. Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vige. Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel costume e nella consuetudine; ma comincia dal comprendere quelli, che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. E in questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium, che si aggira su pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili evenienze; poi trasformasi nel “ius proprium civium romanorum”; quindi assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium; e da ultimo giunge ad informarsi persino al ius naturale; concetti questi che, se non avevano ancora una configurazione scientifica, viveno però già nella coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia. Ciò mi conferma in una antica convinzione, che ho già avuto occasione di esporre nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, la quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche primitive il diritto non confondesi colla forza; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e la violenza. So che questa opinione ha ad essere combattuta da egregi che si occuparono dell'argomento, e fra gli altri da Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano, e da Puglia, L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, nota; ma i fatti mi inducono a persistere nella medesima. Non è già che io nego, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la forza e la privata violenza: ma quando presentasi il diritto, esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono l’esagerazioni e gl’eccessi. In questo senso aveva ragione il filosofo di scrivere – “Nam genus humanum. Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub leges arctaque iura.” Lucretius, De rerum natura. Cio è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assumono le guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia di Roma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze e le parentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie, che si sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente. Ciò fa quasi credere, che queste genti primitive sono in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso, perchè è contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la formazione del diritto non si ha dapprima nei rapporti interni dei singoli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i diversi capi di gruppo. Di qui la conseguenza in apparenza strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto, che governava i rapporti fra le varie genti, precede la formazione del diritto privato propriamente detto: il che è dimostrato anche dalla considerazione, che nei filosofi si discorre dei “iura gentium”, prima ancora che si discorra del ius quiritium e del ius civium romanorum. Infatti, i iura gentiun, i foedera, le sponsiones fra i capi delle varie genti sono già rapporti, che si sono svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è descritto dai filosofi latini. Intanto e sopratutto sui mercati, ove compareno i varii capi di famiglia, ed ove, oltre gli scambi, si puo anche trattare le alleanze e le paci, che comincia la formazione del diritto; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenano a genti diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo diritto, dove necessariamente essere dapprima piuttosto un “ius gentium”, che non un diritto, che potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadini della medesima città quelle forme, che si sono prima elaborate nei rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie. Si può quindi affermare, che anche quel diritto pdi Roma, che appare nella storia con caratteri di maggior rozzezza e violenza, non trova sempre la propria origine nella forza, come molti sostengono; ma che in parte ha invece un'origine essenzialmente *contrattuale*, come la città, in cui esso era chiamato a ricevere il suo svolgimento. Il diritto, anziché doversi confondere colla forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di violenza, e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un medesimo diritto. E solamente più tardi, allorchè la città comincia ad essere abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do [Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si forma dapprima il ius gentium, che non lo stesso ius civile, e che il ius quiritium e un diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne appariranno man mano prove così evidenti, che mi sembra impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la famiglia poo fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo invece e indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie genti. Che anzi, dacchè sono nel dominio delle induzioni, aggiungerò ancora, che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia, quae natura omnia animalia docuit; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura. Poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti. Solo più tardi e comparso nell'interno di Roma. Esso insomma nei fatti seguì un processo del tutto opposto a quello che segue la scienza del diritto in Roma; la quale comincia invece dalle cautele del *ius civile*. Poi venne ad abbracciare anche l'equità del *ius gentium*. Più tardi soltanto giunse ad innalzarsi all'umanità del *ius naturale*. Vi ha però questa differenza, che i iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura, e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le varie genti, imposte dalle necessità di fatto; mentre il ius gentium accolto dal praetor e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte, a cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragionamento, e forse neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia, atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi arrecate.] mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere esclusivamente morale o religioso, imponendo un diritto, a cui tutti devono inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. I caratteri del diritto che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una portata veramente giuridica, quali sono quelli di “connubium”, di “commercium” e di “actio”, e dalla significazione, che questi vocaboli hanno anteriormente alla formazione stessa di Roma. Infatti non può esservi dubbio, che questi tre concetti già avevano un contenuto preciso, allorchè comparve la comunanza romana. Ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che appartenga a questa od a quella persona, ma piuttosto dei rapporti, di carattere pressochè *contrattuale*, che esistono fra le famiglie, le genti e le tribù e i capi rispettivi delle medesime. L’ “action”, nel suo significato giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi, ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di essere nel buon diritto. E solo più tardi, che questi vocaboli, i quali significavano primitivamente dei rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i loro capi, trapiantati fra i cittadini vennero a costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali, sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario. È poi degno di nota, come questi vocaboli, che primi acquistarono una significazione giuridica, abbiano questo di particolare, che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad essere il “vinculum societatis humanae”. Nel “connubium” infatti abbiamo una persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra. Nel “commercium” abbiamo una persona, che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà, addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico. Nell' “actio”, infine, abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto da un'altra persona, lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima, appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita sociale. Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può affermare con ragione che “hominum causa constitutum est.” Intanto ciascuno di questi concetti è eminentemente sintetico e comprensivo per modo che ognuno può servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti; il che apparirà ancora, allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli, finisce per con chiudere: “omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet.” Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente combattuta sopra tutto in Germania, e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non ha nè valore storico, nè valore intrinseco. Traité de droit Romain. Trad. Guexoux, Paris. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha fra la classificazione teorica di Gaio, e i concetti da cui il diritto quiritario prende le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado il tempo per cui durò l'elaborazione di essa, possa difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il SAVIGNY dice dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco. Essa invece ha valore storico ed intrinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la giurisprudenza romana, in quanto che e facile il dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e quindi alle persone non e che uno svolgimento del concetto primitivo del “connubium.” Tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal concetto di “commercium.” Infine, quella che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo di “actio”. Cfr. al riguardo Carle, “De exceptionibus in iure romano” (Torino). L'autore che pose meglio in evidenza la correlazione fra “connubium”, “commercium” ed “actio”, e LANGE, Histoire intérieure de Rome. Che anzi i giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo si puo spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consente di confondere due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una considerazione, che puo parere TROPPO filosofica, non dubito di affermare, che nel concetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine, violato, affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto *personale*, il diritto reale, e l'azione, che serve a difenderli. Fra questi concetti presentasi anzitutto quello di “connubium”, che nella sua significazione primitiva indica la facoltà, che appartiene ad individui, i quali appartengono a genti diverse, di imparentarsi fra di loro, mediante quelle nozze, che dalle genti sono riconosciute come giuste e legittime. Esso ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che hanno le genti patrizie dei proprii antenati e del SANGUE, che corre nelle loro vene, questo dove essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al medesimo “nomen” -- e questo il latino, il sabino o l'etrusco – hanno fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla tradizione, secondo cui, se i Ramnenses vuoleno il connubium coi Titienses, doveno ricorrere alla violenza ed alla forza; il che pero non tolse, che il MESCOLARSI DEL SANGUE delle due tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi per formare una medesima Roma. Furono infatti le DONNE di origine SABINE che secondo una tradizione, la quale è certo ben trovata -- si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli, dando perfino il loro nome alle curie, in cui essa è ripartita. Cosi pure si comprende, che anche fra le genti, che appartenevano allo stesso “nomen” e facevano anche parte della STESSA tribù, il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui [È questa la significazione primitiva, che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di “connubium” fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. E solo nel diritto quiritario, che il “ius connubië” passa a significare il diritto di addivenire alle iustae nuptiae, e venne così a dare origine a tutti quei rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che deriva la manus, che fonda la famiglia; la patria potestas, che spiegasi, allorchè nascono dei figli; e infine la stessa successione legittima, la quale si avvera, allorchè, morendo il capo di famiglia, si discioglie quel gruppo, e si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. Questa tradizione è riferita da Livio e da Dionisio: ma non sembra essere confermata dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che dalle persone. V. LANGE, Hist. intér. de Rome. Ad ogni modo questa è una tradizione, che è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che dove avere un avvenimento che la rompe col passato, e rende possibile il connubium fra persone che non appartenevano al medesimo nomen, preso nel senso di stirpe e di schiatta. E questa prima MESCOLANZA DEL SANGUE latino col sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep.] l'uno in origine rappresenta la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti. Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non dove confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere anche più tardi per accomunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe. Intanto pero questo connubium, frammezzo a genti, che costitui vano per così dire altrettante piccole potenze, riducesi in realtà a staccare una donna da un gruppo, di cui prima fa parte, per trasportarla in un altro; il che importa eziandio un cambiamento nel culto gentilizio, perchè la donna abbandona il culto dei suo padre per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della “confarreation”, a cui assisteno i capi di famiglia della gente e delle tribù, a cui appartene lo sposo e la moglie, e che importa la comunione delle cose divine ed umane. Di qui la conseguenza eziandio, che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse diventare [A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o l'exogamia (V. SPENCER, Principes de sociologie), si dove rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di parentela, fra quelle persone cioè, fra cui esiste, secondo l'antico linguaggio, il “ius osculi”, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel senso, che il Patrizio, per scegliere la propria compagna, non puo uscire dalle genti che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più facili a mescolare il proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Torino. Parmi allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la “confarreatio” come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori seguono tale opinione EsMein (“La manus, la paternité et le divorce” – “Mélanges d'histoire de droit, Paris); Glasson (“Le mariage civil et le divorce, Paris), e pare anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul “Matrimonio e divorzio nel diritto romano” (Bologna). Del resto varii indizii di questa origine patrizia della “confarreatio” si hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei X testimonii che ricordano le X curie delle tribù, e in ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze confarreate. V. Bruns, Fontes. Per ciò che si riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano. Padova] proprietà del marito, o di colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito; e che la medesima, per entrare nei quadri del gruppo, a cui venne ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di famiglia, ed acquistasse la posizione migliore, che puo esservi nella medesima, che era quella di figlia – “filiae loco”. Viene in seguito il “commercium”, il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di diritti, che scaturiscono dal dominio, ma ha il suo vero e proprio significato di rapporti commerciali, che possono intervenire fra i capi di famiglia, appartenenti a genti diverse. Qui il rapporto è assai più superficiale, ed è per sua natura tale, che può essere di reciproco vantaggio per i contraenti. Il “commercium” pertanto prende un più largo sviluppo; ed esiste non solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso indispensabile dalla coesistenza sul medesimo suolo, ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse. Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai commerci, fannosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco. Sono questi commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse – “conciliabula”, “for a” --. È poi un grande vantaggio [Anche qui la significazione primitiva del vocabolo “commercium” appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il “commercium”. È solo per opera del diritto quiritario, che il concetto di commercium, applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al “ius commercii,” il quale poi, sviscerato negli elementi, che entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel “ius emendi ac vendendi”, che operasi colla “mancipatio”; nel “nexum”, da cui deriva la teoria delle obbligazioni; e infine nella “testamenti factio”, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr. Lange, Histoire intérieure de Rome. Per tal modo, nello svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la testamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende dal connubium, e l'altra deriva dal commercium. Questa forse è la vera ragione della massima. “Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato et intestato decessisse, earumque rerum naturaliter inter se pugna est.” Pomp., I, Dig. È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta, che hanno separato due ordini di idee, non li confondano più insieme. Secondo il SUMNER Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine; vantaggio, che e una delle cause, per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle popolazioni latine, potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed assimilazione potente] le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente; fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che serveno per trattare le paci e per il mercato (Village Communities). Secondo Maine, si ha un indizio dell’associazione del commercio e della neutralità negli attributi di MERC-V-RIO, dio comune alle stirpi di origine aria, che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio, dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si fanno gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, deriva questa importantissima conseguenza, che come in quest'epoca non si distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguesi il diritto commerciale, da quel diritto, che ora si chiama internazionale. L'uno e l'altro erano compresi nel ius gentium, il che spiega come questo vocabolo talvolta indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non puo però esservi dubbio, che il ius gentium, allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per opera del “praetor”, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e stranieri, ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto bene dimostrato da Fusinato nel suo accurato lavoro “Dei Feziali e del diritto feziale”, Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor. filol.; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in una materia, che certo ne ha grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità sull'argomento è Voigt, Das ius naturale, bonum et equum, gentium, etc. Leipzig, dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium. Fra il modo di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ritenne il concetto ed anche la denominazione del ius gentium, come opera riflessa dei giureconsulti; mentre per me il ius gentium esiste nel fatto e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le espressioni di iura gentium, e di iura naturalia, mentre dopo i vocaboli adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano l'unificazione, che vi si è operata. MOMMSEN, Histoire Romaine, da tale importanza alla posizione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città commerciale. PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano) e parmi in verità che il fatto, per cui Roma divenne l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spiegato senza dire, che essa fosse una città sopratutto commerciale; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, puo essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio [E sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a comunanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e vendita, che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta una grande città. Solo deve avvertirsi, che questa compra e vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a comunanze diverse, fra cui non esiste forse comunione di diritto, non dove naturalmente ritenersi perfetta, se non era accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ha a stabilire anche più tardi la legislazione decemvirale. E qui parimenti, che dove nascere e svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni. Sono eziandio queste fiere, che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione eminentemente commerciale l'ha resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i romani senteno l'eccellenza della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. Non può quindi, a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro i quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio, che certo già esisteno nei rapporti fra le varie genti, sonno state invece importate di Grecia, per ciò che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprende dapprima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una codificazione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincia dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una “lex publica”, come lo dimostrano le antiche espressioni di “agere per aes et libram”, di “facere testamentum, nexum, mancipium secundum legem publicam”. Quindi, accanto al ius quiritium, visse sempre in Roma un ius gentium, che, senza aver ricevate le forme quiritarie, e però sempre adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor peregrinus. Ciò è provato dai filosofi latini e sopratutto da Plauto, che ne danno come usuali e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per eccellenza, dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle convenzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle elleniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli. Ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo d’altri, nè aspettarono ad adoperarlo solo piu tarde verso come sostengono fra gli altri il MurueAD, Histor. Introd. e Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte. Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetra anche nello stretto diritto civile ed e adottata come forma propria del medesimo] dero più tardi occasione al giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste; delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno più la sobrietà e precisione antica. È qui infine, che dove prepararsi la formazione di un ius gentium, che ha dapprima un carattere commerciale, come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensabile per le transazioni commerciali fra i capi di famiglia, appartenenti a genti ed a tribù diverse. Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium, formatosi sulle fiere e sui mercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum: cio però non toglie, che le origini di quelle lente formazioni, che si verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca, quando si scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse. Da ultimo non può esservi dubbio che, già nel periodo gentilizio, dovette essersi formato il concetto dell' “actio”, ma questa non significa un mezzo accordato dalla legge o dal pretore, per far valere in giudizio un proprio diritto, ma e, per dir cosi, il diritto stesso, che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento. Il poco che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'HuSCHKE, Iurispr. anteiust. quae supersunt, ed è una prova dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che puo poi servire per tutti i casi dello stesso genere. Accostasi a questo concetto dell' “actio”, nella sua significazione primitiva, l'ORTOLAN, Histoire de la legislation romaine, Paris, parla dell'azione nel periodo decemvirale. “Action est une dénomination Générale. C’est une forme de procéder, une procédure considérée] È a questo punto, che si può trovare la ragione, per cui il diritto di tutti i popoli e quindi anche il romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura, che non come legge, che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di famiglia è esso il sovrano nella propria casa, egli NON HA BISOGNO CHE LA LEGGE VENGA A RICORDARGLI QUALI SIANO I SUOI DIRITTI. Questo diritto egli porta con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza. Quindi, se il medesimo diritto venne ad essere violato, egli non può aspettare che lo Stato, che quasi ancora non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ha ad essergli arrecato. Come quindi è il capo di famiglia che vendica l'adulterio, o che corre sui passi del ladro che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa, mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno osa ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che, quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza della intiera comunanza, che è suo quel fondo, quello schiavo, quel figlio. Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del diritto. Prima il diritto esiste allo stato latente, ed ora si produce, si afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo. Quest'azione tuttavia, non è ancora la “legis actio”; perchè in compierla l'uomo offeso non ispirasi ad una *legge*, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso intimo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto, sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere anche alla violenza ed alla vendetta. Quindi è, che se per avventura verrà a formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio diritto, dall'altra contenga il prorompere violento di colui, che ha ad essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la constituer.” Qui però l'autore parla già della “legis actio”. Ma se noi andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora “legis actio”, ma semplicemente “actio”, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di *agire*, ed è anzi il diritto stesso in azione. Cfr. Carle, La vita del diritto. È poi notabile, come per i latini il vocabolo “agere” indichi un'azione continuata, che può scindersi in parti diverse; mentre “facere” si adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico contesto.] offeso nel proprio diritto, l'occasione non dove certamente essere trascurata. E quindi prima il mos, che comincia coll'additare la via consuetudinaria, a cui debbe appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio diritto. Poi e il fas, che intervenne anch'esso e dichiara empio chi non segue quel determinato rito. Ed infine sarà anche il ius, che venne notando in certo modo i varii stadii, per cui passa quella procedura, e obbliga i contendenti a passare, almeno per forma – “dicis gratia” -- , per ciascuno di questi stadii. E in tal modo, che all'actio violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo sottenne la legis actio, consacrata dalla legge, compassata e lenta, quasi per attutire le passioni irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorda ancora gli stadii dell'anteriore violenza, quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi ritorno, quando la legge non e rispettata. Non è quindi da approvarsi, a mio avviso, l'opinione di coloro, i quali ritengono che il prevalere delle norme procedurali nel diritto, e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò, che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della convivenza civile e politica. La causa del fatto sta in ciò, che l'opera della legge negl’inizii e sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto, quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui diritto e violato. In questa parte diritto privato e diritto penale segueno analoghe vicende. Al modo stesso, che la legge penale non mira tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla vendetta, e rende cosi obligatoria quella composizione a danaro, che dipende dall'accordo delle parti: cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli comprendeno più la forma che la sostanza; ma perchè il primo e più urgente bisogno di una società, in via di formazione, e quello di impedire fra i consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ragioni. Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da vedersi: Del GIUDICE, “La vendetta nel diritto longobardo” (Milano). Sembra poi attribuire la precedenza delle norme di procedura, presso i popoli alla prevalenza, che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history of institutions, ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii legali, scrive che in uno stadio delle cose romane i [Intanto non vi ha forse nel vocabolario giuridico parola, che presenti al giureconsulto filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli di “agere” e di “actio”, e che lo fa rimontare più oltre nelle tenebre e nella oscurità del passato. Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di « spingere », questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gl’antichi abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti. Memori e quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo – “ius agendi cum populo” -- , ed anchequella di colui, che forte della convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta, che dove essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed indipendente non dove esser così facile il conseguire che essi si sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è quindi meraviglia se l'avvenimento dove loro apparire così importante, che ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno dovuto attraversare per giungervi. Allorchè sorgeva una controversia fra capi di famiglia, appartenenti alla medesima tribù, il modo più naturale di risolverla dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed amichevoli compositori, che doveno essere concordati fra le parti, come lo dimostra un antico costume, che gli filosofi latini attribuiscono ai proprii maggiori. Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la controversia, dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio; del che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti dall'ordine dei padri diritti ed I doveri sono piuttosto un'aggiunta della procedura, che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri.  BRÉAL, Dict. étym. latin., v° Agere. Cic., Pro Cluentio. “Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione cuiusquam, sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter adversarios convenisset.” Del resto, anche secondo la legislazione decemvirale, sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di componimenti, come lo dimostra il fram., Rem, ubi pacant, orato, tavola II, legge 14, secondo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln, o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il partito deg’ottimati e quello popolare, poterono anche essere scelti fra gl’equites. La cosa però venne a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che essi, compresi vivamente del proprio diritto, trovandosi sul fondo stesso o davanti allo schiavo, oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi cede, lo studio della natura umana ci insegna anche ora, che non è punto improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis, a cui secondo Gellio e poi sostituita la “vis festucaria”, e che si effettua cosi fra di essi una vera e propria lotta, che prese il nome “dimanuum consertio”. È però consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono cosi in lotta fra di loro, puo anche interporsi fra di esse una persona autorevole, la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole, che più tardi sonno pronunziate dal praetor nella procedura quiritaria – “mittite ambo hominem”. Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dall'autorità stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza, in cui furono sorpresi, chiamano entrambi a testimoni il divino, che la ragione è dalla parte loro, e per dare energia maggiore alla propria affermazione aggiungono alla medesima una scommessa, la quale, per essere accompagnata dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta fra di essi, può prendere il nome di “sacramentum:. Si ha cosi una successione di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in [La legge che trasporta dall'ordine dei senatori a quello degli equites la capacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da C. Gracco, la quale dove però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, “Histoire de la législation Romaine”. Aulo Gellio, Noct. attic. -- Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che guadagna colui che si appiglia alla violenza, trovasi maravigliosamente espresso da OVIDIO, Fastorum. “Et cum cive pudet conseruisse manus.” È però a notarsi, che Ovidio limita quel senso di pudore alle violenze fra i cittadini. Con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa.] terposta, ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi; sebbene però venne ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba ritenersi aver ragione chi vince la scommessa e torto colui, che perde la medesima. Fin qui pertanto, non si ha che un processo di cose sociali ed umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che dove certo essere frequente, allorchè le contese sono sostenute dai capi di gruppo, che non conosceno altra autorità superiore, salvo quella, che sono accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita giuridica, e allora si puo facilmente comprendere, come siasi venuta formando quel l’ “actio sacramento”, che costitui poi l'azione fondamentale di tutto il diritto quiritario, e e dai quiriti conservata con cura così gelosa, che, già abolite le altre azioni delle leggi, l' “actio sacramento” continua ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva azione ad una pantomina incomprensibile, nè di cambiare il popolo maestro al mondo nel diritto in un architetto di formalità e di sottigliezze senza scopo; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ha a percorrere l'amministrazione della giustizia, riportandola in quell'ambiente patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue primitive fattezze. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio l'opinione messa innanzi da una grande autorità, quale è il Bekker, e che e poi anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an [È già da qualche tempo, che rivelasi nei filosofi la tendenza a dare una spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento. Se ne possono vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain, Bruxelles; nel SUMNER MAINE, Early history of institutions, nel MUIRIEAD, Historical Introduction, nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa. Non credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento.] tiche della stessa “actio sacramento”, quelle altre forme di azioni, che sono indicate col vocabolo di “manus iniectio” e di “pignoris capio”, in quanto che le medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il proprio diritto. Lasciando per ora in disparte la “pignoris capio”, che ha solo una importanza secondaria, per i pochi casi in cui fu ammessa, importa anzitutto notare, che il vocabolo di “manus iniectio” può essere tolto in due significazioni diverse, anche secondo la legislazione decemvirale. Havvi anzitutto la “manus iniectio”, a cui ricorre colui che, dopo aver invitato inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magistrato, gli pone addosso la propria mano e lo trascina in ius, somministrandogli però quei mezzi di trasporto, che possano esser necessari per lo stato di malattia, in cui egli si trovi. In questo senso però non havvi ancora una vera “legis actio”, ma solo un mezzo per ottenere la comparizione del convenuto davanti al magistrato. Invece la “manus iniectio”, in quanto costituisce una “legis actio”, consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè sia soddisfatto. BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin. Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING, L'esprit du droit romain, Trad. Maulenaere, Paris, salvo che egli dà poi alla “manus iniectio”, come “legis action”, una significazione del tutto speciale. A questa “manus iniectio” accennasi nella prima legge delle XII Tavole. “Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito.” -- Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la “manus iniectio” puo essere considerata come una vera “legis actio”, in quanto che essa non richiede l'intervento del magistrato e ha solo luogo quando trattasi di esecuzione. E questo il motivo, che induce il JHERING a dare una significazione speciale alla “manus iniectio”. Quanto alla letteratura sull'argomento e alle discussioni, che di recente sorgeno intorno alla questione, se la “manus iniectio” dove ritenersi come una “legis actio”, è da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia, che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha il vocabolo di “legis actio” nel diritto; nel quale esso indica in sostanza i diversi genera agendi in conformità di una lex publica, per modo da comprendere la stessa in iure cessio, allorchè serve per effettuare una adozione, una emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà.] Quanto alla manus iniectio Voigt, Die XII Tafeln. Or bene la “manus iniectio”, cosi intesa, non può certamente essere considerata, come di formazione anteriore all' “actio sacramento”. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie, per cui passa lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora un'epoca, in cui non eravi amministrazione di giustizia; la “manus iniectio” invece, quale appare nelle XII Tavole, suppone già stabilita una amministrazione della giustizia, in quanto che essa è un modo di procedere all'esecuzione contro colui, che o siasi obbligato colla solennità del nexum, o abbia confessato il proprio debito davanti al magistrato, o sia stato condannato al pagamento. Nè serve il dire, che la “manus iniectio”, essendo un mezzo per l’esercizio delle proprie ragioni, dove essere applicata anche in altri casi; mentre la legislazione decemvirale la circoscrive ai casi da essa determinati, nell'intento di impedirne gli abusi. A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell' “actio sacramento”, in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto ripugnante una procedura, come e quella della “manus iniectio”. Non è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli puo essere profondamente convinto del proprio torto. Fra due eguali, che siano in contesa, può comprendersi la “manuum consertio”, e in seguito l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro, e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la “manus iniectio” e direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non esiste anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa dove già esistere da lungo tempo: ma intanto a questo proposito mi fo lecito di avventurare la congettura, che la “manus iniectio” dove essere una speciale forma di procedura, che non si adopera già nei rapporti fra i capi di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedeno fra il creditore patrizio ed il debitore plebeo. Si comprende infatti, come un'aristocrazia territoriale, come quella delle genti patrizie, puo anche adoperare modi simili di procedura verso una classe, che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato l'origine servile. Quindi è, che la “manus iniectio” deve essere considerata come una delle istituzioni, che non appartiene al diritto, che dovette formarsi nei rapporti fra i capi delle genti patrizie, ma bensi a quello, che dove formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'ha solo ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe lotta cosi lungamente per l'abolizione del nexum, il quale forse era ancora un segno dell'antica sua soggezione servile. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto corrisponde alla vendetta nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è esistita la vendetta anche fra le genti italiche, così dove anche esservi un tempo, in cui fra queste esiste l'esercizio privato delle proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza, che l'intento supremo dell'organizzazione gentilizia e quello di impedire fra i membri di esse cosi la vendetta, che l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. E a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla comunanza la violenza, che continuo a dominare fra le persone, che non appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di diritto. Quindi non è più nell'organizzazione gentilizia, che deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo e quello dimettere termine allo stato anteriore di violenza. Fin qui si considerano soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel diritto, che e poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum più tardi. Ora importa cercare invece, quali rapporti corressero fra i varii gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo ius pacis ac belli. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente patriarcale, e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra i varii capi di famiglia. E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra. Esse invece non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di diritto. Era quindi facile, che fra loro scoppiasse la guerra, ma questa non e però lo stato naturale di esse. Ciò e come dire, che due persone che non si conosceno e non hanno fra di loro alcun rapporto giuridico sonno fra di loro in lotta. Puo darsi che esse siano in reciproca diffidenza, e che stiano in guardia: ma non percio puo dirsi che siano in guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa, od anche semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra. Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa opinione; mi basta ricordare LAURENT, Histoire du droit des gens a Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti antiche nella città, a cui esse appartengono; il che è certamente vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori, ma anche da ciò, che, creandosi una nuova forma di connivenza sociale, e naturale, che tutte le forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche Fusinato sembra dividere la stessa opinione nel suo lavoro: Dei Feziali e del di ritto feziale, Roma, « Atti della R. Accademia dei Lincei », Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche, -- al quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima sul tema. Egli tuttavia già trova, che il popolo romano e stato, fra le altre genti, il meno esclusivo su questo punto, a differenza di PADELLETTI, Storia del diritto romano. Che questi e lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra “hostis” e “perduellis”. “Hostis” chiamasi quello straniero, con cui non sonno rapporto di diritto, e contro il quale il popolo romano si riserva piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di azione. “Perduellis,” nella sua significazione, e colui con cui era scoppiato il dissidio, e col quale, per mancanza di un comune diritto, venne ad essere necessità di appigliarsi alla guerra. E solo più tardi, che il vocabolo di “hostis” assunse una significazione più dura e significa il nemico. In allora le significazioni accettate furono le seguenti. “Peregrinus” chiamasi colui, col quale non havvi nè amicizia, nè ospitalità, nè alleanza; “hostis” quegli, con cui Roma trovasi in guerra aperta; “perduellis” infine colui, che nell'interno dello stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'interesse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note relative, il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri popoli, per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un tempo. Per parte mia ritengo, che i romani in questa parte si governano colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si ritenne in stato naturale di guerra cogli altri popoli; perchè in tal caso tutte le formalità dell'antico ius foeciale si converte in una commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in sostanza nella significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. Dig. Quanto a questo passo di PomPONIO, egli, anzichè affermare che gli stranieri sono nemici, dice anzi espressamente che – “si cum gente aliqua neque amicitiam, neque hospitium, neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem non sunt.” Tuttavia siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto, così contro di “aeterna auctoritas esto” -- donde la conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è grave, ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra, ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste comunanza di diritto. Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra e lo stato naturale, non si sa come CICERONE scrive: “Nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de nuntiatum ante sit, et indictum.” De off, e De Rep. Del resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie del diritto feziale e semplici formalità esteriori, il che certamente non dove essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere introdotta. essa [mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che, come tutta legge, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione arcaica, il vocabolo di « hostis », continua ancora sempre a significare colui, col quale non esiste comunione di diritto, come lo dimostrano le espressioni ricordate da Cicerone di “status dies cum hoste” e l'altra “adversus hostem aeterna auctoritas esto.” Del resto, che il vocabolo “hostis” negli esordii non suonasse nemico, nella significazione, che noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo, viene anche ad essere dimostrato dall'analogia evidente, che corre fra i vocaboli di “hostis” e di hospes, il quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significa o protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione -- donde anche i vocaboli di hospitium e di hospitari. Fermo questo concetto dei rapporti, che intercedeno fra le genti, che non entrano a far parte della medesima tribù e non hanno perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il “ius pacis ac belli” dove avere un'origine contrattuale, analoga a quella, che abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia. Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro indicano, che le genti sono già uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro. Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una conven [BRÉAL, Dict. étym. lat., Paris, vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE, allorchè scrive. “Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus.” “Quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in eo, qui contra arma ferret, re mansit.” De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V, I (Bruns, Fontes). Intanto l'analogia, che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che significa e lo straniero ricevuto in protezione, come pure il fatto, che nelle origini “per-duellis” significa il nemico esterno ed interno ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. E solo più tardi, nel seno della città e nei rapporti delle città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne.] zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di “pax” e quello di “pactum”). Al modo stesso che, accio siano in istato di guerra, occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano pero l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il “ius pacis ac belli” già erasi formato anteriormente alla formazione della comunanza romana, e che la medesima in questa parte non fa che attenersi a pratiche e a riti, i quali, preparatisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualche modificazione ai rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città. Di qui in tanto, deriva la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale, essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di organizzazione sociale, acquisce un carattere artificioso, che lo fa talvolta apparire come un ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si fa per una giusta causa, ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trovano le genti. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si vengono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a rapporti fra i capi delle medesime. Cosi essi finiscono per modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le gradazioni diverse, in cui possono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto, in cui possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione di pace. Cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esiste la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi sono rappresentati. I vocaboli, intanto, che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia, di hospitium societas. Prima presentasi l' “amicitial”, che indica quel rapporto contrattuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente “amica” è quella, a cui si puo, in caso di bisogno, ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole commercio. L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una gente amica, questa non puo appropriarsela; il che e potuto fare, allorchè non e esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto. Possono tuttavia esservi dei casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù diverse, porgano occasione al sorgere di controversie. Quindi fra i patti, che accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più tardi noi troviamo indicato col vocabolo di “actio” e specialmente con quello di “reciperatio”; il quale è certamente bene appropriato per significare il rapporto, a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in terpretazione a cui esso da luogo. È nota in proposito la definizione di Elio Gallo. “Reciperatio est, cum inter populum, reges, natio nesque et civitates peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque privatas inter se persequantur.” La sua interpretazione non può dar luogo a dubbio, quando diasi al vocabolo di “lex” la sua significazione primitiva di convenzione e di patto; interpretazione, che del resto è anche imposta dall'espressione di “lex convenit.” È evidente infatti, che qui trattasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o città, con cui trovansi in rapporto di amicizia; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo e quello di “rerum repetitio”, che costitue uno dei preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è poi meglio spiegato da quello di reciprocare, il quale, secondo Festo, significa « ultro citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo, che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e di reciprocanza. Ciò infine spiega eziandio, come si chiamano recuperatores quei giudici od arbitri, che sono chiamati a risolvere le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si viene anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che e sempre un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità giudiziaria, pressochè permanente, la quale, mentre decide le questioni con stranieri, puo anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto, in cui non si trattasse di applicare il ius quiritium, ma piuttosto quei iura gentium, che fin dai primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei “re-cuperatores”, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carattere pubblico fra i popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre, in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro, e alla prosecuzione delle cose private. Se quindi e lecito avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca, in cui ancora mal si distingue la ragion pubblica dalla privata, i recuperatores, che sono persone scelte fra le due genti amiche, possono essere arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie, perchè queste tenevano del pubblico e del privato ad un tempo. Allorchè invece, al disopra delle genti, venne a formarsi la città, e per tal modo comincia a distinguersi la cosa pubblica dalla privata, i recuperatores hanno circoscritta la propria competenza alle controversie di carattere privato. Fu in allora che i recuperatores si manteneno per le controversie di indole privata, e che i “fetiales” sono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii popoli. E allora parimenti che la recuperatio e il modo, con cui gli individui “res privatas inter se persequuntur”, mentre la “rerum repetitio” divenne un preliminare della guerra. E allora infine che i iura gentium si vennero biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimane ad indicare un complesso di norme, che governa i rapporti di indole privata, quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis e adoperato per indicare i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città. Anche qui insomma non si fa che applicare un processo, le cui traccie sono evidenti in ogni argomento, il quale consiste nel “publica privatis secernere, sacra profanes” -- Di qui deriva quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sembrano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo a coloro, che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece grandemente l'opera di coloro che tentano fondarsi sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera compiuta. Al modo stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della famiglia; cosi nei rapporti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia, viene a comparire l'hospitium. L'ospitalità, che diventa un ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i popoli primitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità, oltre al fondarsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas, e se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un carattere ereditario. L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia, come lo dimostra il fatto che gli antichi giureconsulti disputano perfino, se gl’ufficii verso l'ospite dovessero precedere o susseguire quelli verso il cliente: nella quale questione, [Quanto alla definizione della recuperatio, HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. Questa congettura, che d'altronde è molto semplice, ha il vantaggio di risolvere parecchie controversie, che sono largamente trattate da Voigt, Das ius naturale, gentium, etc., e dal Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Essa spiega anzitutto come una sola frase, quello di “ius gentium”, possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle di carattere pubblico. Di qui una divergenza fra Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores ogni competenza giudiziaria in interessi di pubblica natura e il SelL ed il Rein da lui citati, che sostengono invece un'opinione diversa. Credo poi che non possa essere posta in dubbio l'analogia strettissima fra recuperatio e rerum repetitio, sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra. Del resto questa stessa analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso Fusinato. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le distinzioni, che si vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores sono in Roma an’autorità giudiziaria, pressochè permanente, appare da ciò, che essi non sono ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai soli cittadini.] -- mentre vi era chi colloca prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia, poi il cliente, quindi l'ospite. Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti però sono concordi nel ritenere, che l'ospite dove avere la precedenza sui cognati e sugli affini. Non puo quindi essere temeraria la congettura, che l'ospitalità e la clientela sono nell'organizzazione gentilizia due istituzioni, che hanno una correlazione fra di loro; colla differenza, che la ospitalità importa solo una difesa e protezione provvisoria, mentre la clientela importa un rapporto di protezione permanente. Sotto quest'aspetto pertanto, si puo dire che il cliente venne prima del l'ospite. Ma, quando, invece si consideri che la clientela importa subordinazione e dipendenza, mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro, ben si puo comprendere il motivo, per cui Masurio Sabino concede sotto questo aspetto la precedenza all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato sono in rapporto di UGUAGLIANZA fra di loro, il che non accade del patrono e del cliente. Così il concetto dell'amicitia, che quello dell'hospitium, dove nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. E solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù usceno le città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione, che si opera in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa del re dapprima e del magistrato dappoi servì per accogliere gl’ospiti del popolo romano; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello stato dalla persona dei singoli cittadini, si dove anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata. Cosi e un effetto della pubblica amicizia, che il cittadino romano, quando e fatto prigioniero di guerra, gode senz'altro del diritto di postliminio, appena ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico, poichè da quel momento comincia ad essere “pubblico nomine tutus.” Parimenti l'hospitium pubblicum, allorchè e accordato non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo modo nella [V. sopra il passo di Masurio Sabino -- Dig.] concessione della civitas sine suffragio: il che rende non destituita di fondamento l'opinione di coloro, i quali, dietro l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva significazione, che, secondo Festo, e stata attribuita al vocabolo di “municipium”. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità, presentasi la “societas”. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia, ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la “societas” fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un accomunare le proprie forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera insieme “associate”. I patti e le condizioni di questa “societas” possono essere molto diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offensiva delle genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospitalità possono anche trovare origine nel fatto e nella consuetudine; la “societas” invece suppone una convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il concetto del foedus, il quale ha larghissimo svolgimento e da luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio. Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo, che l'essenza del “foedus” sta nella “fides”, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio, a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia. Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus, è [NIEBhur, Histoire romaine. Questa opinione e sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii, Firenze] Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium, nella prima delle significazioni che è attribuita a quest'ultimo vocabolo da Festo, vº Municipium, vuolsi però avere presente che l'hospitium è istituzione di origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica.] però facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dove avere significazione diversa. Mentre infatti la “societas” indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di “foedus” invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere stipulato. Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di carattere privato: cosi il vocabolo “foedus: si presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto nei filosofi, significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano stringere tutti i popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà: convenzioni e rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di “foedera generis humani”, poichè il popolo che vi venisse meno sembra in certo modo uscire dal novero dalle umane genti. Tali so fra i romani l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la quale e stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non hanno fra di loro comunione di diritto; tale e eziandio quel costume veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, accio i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più, anche nei rapporti fra le genti, il “foedus” non significa soltanto la confederazione o l'alleanza; ma puo significare qualsiasi accordo, che venisse a seguire fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione della guerra ad un duello fra individui scelti negli eserciti che si trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addivenne alla deditio di un popolo ad un altro e se ne fissano le condizioni. Il “foedus” insomma indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò, che, malgrado tutti i dubbii che possano avere gl’etimologi, non sotrattenermi dall'esprimere la persuasione profonda, che il vocabolo di “ius foeciale”, con cui si indicava il complesso delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di “ius foederale”. Gl’etimologi non possono accertare che “foedus” origina da “fides”, nè che “foeciale” derivi da “foedus”. Ma questo è certo, che le parole di “fides”, “foedus”, e “foeciale”, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno una strettissima attinenza, quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è questo il motivo, per cui continuo a scrivere “ius foeciale” a vece di “ius fetiale.” Quanto alla larghissima significazione pri [Intanto il “foedus” è il rapporto fra le genti e le tribù, che suppone un maggiore progresso nell'organizzazione sociale. Qui infatti non è più il caso di un semplice ufficio di amicizia e di ospitalità; ma trattasi già di un rapporto che assume il carattere GIURIDICO, in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù, che vi addivengono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della stipulazione giuridica, che le genti latine recarono non solo nelle convenzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura; stipulazione che, a mio avviso, dovette probabilmente essere prima adoperata per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato. Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore, che serve per dargli il carattere di iustum, come lo dava al testamento, alle nozze e a qualsiasi altro atto; questo è però certo, che le cerimonie, che accompagnavano la conclusione del foedus nel periodo, in cui si vennero formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione. Non dove quindi nel periodo gentilizio esservi un “pater patratus”, che addivenisse alla formazione dell'alleanza: ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum, per cui chiedevasi il divino in testimonio del patto, che interveniva fra di essi, e si poneva il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro colui, che venisse meno al patto intervenuto, e simboleggiando, col ferire con un coltello di selce la vittima, il modo, con cui il divino avrebbe colpito il violatore del patto.  [mitiva di foedus, essa appare sopratutto dall'uso che ne fanno I filosofi latini, pei quali indica dapprima qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola, che si rifere dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato di foeduse presentito dal nostro Vico, allorchè chiama le religioni, le sepolture ed i matrimonii “i foedera generis humani”. Il duplice significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di Livio – “Aenean apud Latinum fuisse in hospitio: ibi Latinum, apud penates deos, dome sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data.” Questo è provato anche da ciò, che nel primo caso narratoci di un patto se [Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ha certamente a precedere la formazione della comunanza romana, e dove anche prima ricevere applicazioni molteplici e diverse, durante il period gentilizio. Il foedus può essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già, anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fa così larga applicazione fra il “foedus aequum” ed il “foedus non aequum”. Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione e di trattato, serve, come ricorda Gellio, per dettare la legge ai vinti; altri in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e di subordinazione verso quello che sta per vincere, il che costituie appunto il “foedus non aequum” e da origine ad una specie di clientela di un popolo verso un'altro, che nell'epoca romana e poi indicata coll'espressione « at maiestatem populi romani coleret »; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della guerra, si pone termine alla medesima con un “aequum foedus” e si veniva, secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio occupato.] si pone. Per quanto poi si riferisce a quella distinzione fra foedus e sponsio, stata invocata qualche volta dai romani, sembra che la medesima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica, trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città. È noto in proposito, che i romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il “ius foeciale”, che è quello relativo al combattimento degl’orazii e dei curiazii, DIONISIO ci narra, che il medesimo e solennemente stipulato, e che due cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno d'essi. Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. Ritengo poi verosimile l'opinione di Pantaleoni, ricordata da Fusinato, “Le droit international de la république romaine” (Bruxelles) – “Revue de droit international”, secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è veramente nel carattere romano. Quanto alle varie specie di foedera fra le città ed i re è da vedersi Livio. Esempii poi di foedera non aequa possono vedersi in Gellio, Noc. att., e nello stesso Livio] stipulato coll'intervento del “pater patratus” e colle cerimonie tutte del “ius foeciale”, mentre “sponsio” e la pace giurata soltanto dal generale. Mentre il primo obbliga direttamente il popolo pomano, l'altra invece, quando non fosse ratificata dal senato, obbliga solo a fare la consegna del generale, che ha giurato la pace. Ora è evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere religioso, che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre quindi ancora l'artificio del “pater patratus”, nè l'intervento dei feziali, perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo. Quando invece trattasi di una città, tanto più se retta a repubblica, il generale non può più dirsi che rappresenti il popolo e il senato, e quindi egli non può addivenire che ad una semplice “sponsio”, la quale, per essere cambiata in un vero trattato, abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle cerimonie del diritto feziale. Intanto pero, siccome il generale è colpevole per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo oltre i limiti del suo mandato; cosi il senato, che non ratifica il suo operato, si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei romani: poichè per essi il loro generale era anche il loro capo effettivo, e quindi puo obbligare direttamente il popolo da lui rappresentato. Non parmi quindi, che possa essere il caso di introdurre qui la triplice distinzione, a cui accenna Mommsen nel “Le droit public romain” fra la semplice “sponsio” del capitano, il foedus foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è dichiarato abbastanza chiaramente da Livio, che tanto il foedus che la sponsio, se siano fatte in iussu populi, non possono obbligare il popolo romano. Quindi la distinzione viene ad essere questa: o la convenzione è opera del solo capitano, in iussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice sponsio; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione dove essere un effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizzazione politica. Cfr. Fusinato, “Dei Feziali e del diritto feziale.” Non credo poi si possa ammettere con Mommsen, che sulla forma del foedus ha esercitata una visibile influenza la teoria del contratto, in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per analogia la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il modo generale e di diritto comune per contrarre le obbligazioni. Ciò è del tutto impossibile: perchè è certo che esisteno già il foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulano con quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la teoria della stipulazione e ne fanno applicazione alle convenzioni private. Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai romani nei rapporti col divino, nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca. Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato; la quale deriva da ciò, che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella della sponsio, che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cio è anche attestato da Gaio, che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria della stipulazione privata alla sponsio del generale romano; poichè, se si venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur. V. Mommsen, Le droit public romain, il quale, secondo la traduzione Gérard, di cui mi valgo, scrive. “En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la stipulation, parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des obligations.” Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta, e che sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa. Infatti secondo MUIRHEAD, Hist. Introd., e molti altri, la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe penetrate in Roma, che verso l’epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti fra le città ed i popoli, aveva già ricevuto tutto il suo sviluppo. Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione del MUIRHEAD, in quanto che ritengo che la sponsio e romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche [Un'altra applicazione del foedus era anche quella, per cui tribù e genti, che potevano anche non essere in guerra fra di loro, stringevano fra di loro un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo; la cui idea tipica pud essere ricavata dal foedus latinum, detto anche foedus Cassianum, il cui tenore ha ad esserci conservato da Dionisio. È poi notabile, che queste specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo, cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum, secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare: « dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint.” Infine un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche primitive, è quella, in virtù della quale più tribù, che possono anche essere di origine diversa, societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo, sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con trattuale. Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo della comune discendenza, non poteva esservi che quello della fides, e quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il caso di confonderle insieme. Da questa nasceva l'actio ex stipulatu, mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum, il ius gentium e il ius belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. Dion.] 154 della città. Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale, perchè è l'effetto del primato, che una gente acquista sopra le altre che la circondano; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù, che entrano a costituirla, accordo, che riveste appunto la forma di un foedus. Intanto egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che nell'organizzazione gentilizia, in cui prima do minava esclusivamente il vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e contrattuale, questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza, che essa prima non poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto, che nel seno della tribù e della città, costituita mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento, o ser vono invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine suffragio, della secessio e della colonia; la cui nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. In virtù della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu, secondo la tradizione, distrutta da Tullo Ostilio, e fu applicata eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso.Questa origine federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa, che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr. WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad. Bollati, Torino. È poi questa istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia, la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui (1). Non pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente patrizia, doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose; perchè la gente, che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia, ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio nel senato. Quasi si direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la famiglia. Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla detestatio sacrorum; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio, nella plebe, il che chiamavasi transitio ad plebem, doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio sacrorum; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio, allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tribuno [È poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio, e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia, in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio, in virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il [Dion., III, 29; Liv., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte. La necessità di una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente passo di Servio, In Aen. 2, 156: « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat, et sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem, è da vedersi Cic., Brut., 16, e Aulo Gellio] nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum. Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale, per mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia, i quali in sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire, che imunicipia, a differenza delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però non tolse, che il concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo attribuisce a questo vocabolo (). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas, se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio della stessa città, come accadeva nella colonia, sia che una parte di essa si trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali, collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria, colla approvazione di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con dire, che le [I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla colonia, possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier, Introdution historique au droit romain, Bruxelles, la quale contieneun numero grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia.] colonie « ex consensu pubblico, non ex secessione conditae sunt ». Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù o della città, dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate, comequelle, che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt). Punto non ripugna, che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo; in quanto che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che partivano da una tribù, sta bilita sopra un territorio, per trasportarsi sopra un altro suolo, quando quello prima occupato più non potesse bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia, nulla impedi che esso potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa, raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e a diventare pericolosa. 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad alcun rito religioso, sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio. Ad ogni modo la secessio, intesa in largo senso, ha luogo allorchè un ele mento già ammesso nella comunanza, trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede. Lasciando anche a parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un esito definitivo, può forse scorgersi un esempio di secessio, ancorchè dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite, che entrò di nuovo a far parte della cittadinanza romana. Servio, In Aen., I, 12; Gellio. L'importanza delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Scienza nuova. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir. Rom., Trad. Bollati.Quanto alla tradizione circa la gens Fabia, vedi Bonghi, Storia di Roma. Alla secessio, che è volontaria, si contrappone invece l'expulsio, quale fu quella, che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia; espul sione, che per la intimità del vincolo, che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino, marito a LUCREZIA, il cui oltraggio, secondo la tradizione, e stata occasione allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo, che condusse alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente all'amicitia, all'hospitium, alla societas e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo gentilizio, dimostrano abba stanza come la città, la quale era uscita dalla federazione e dall'accordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa. Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente patrizia, potevano bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio, e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la concessio civitatis dall'altra, e quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o sine suffragio. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e poscia dalla città, serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare alla vita pubblica della città, senza però essere ammesse agli onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi, pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria originaria, otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria. Così viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le popolazioni, ammesse alla cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo. Solo più ci resta a vedere, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. In proposito già si è dimostrato, come non possa ammettersi il concetto, pressoché universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato naturale delle genti italiche. Esse invece si considerano come straniere le une alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto. Quindi al modo stesso che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere considerate come in stato di guerra. Quanto alle cause, che possono far scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o gli uomini singoli,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e dell'altra, come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra. Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe [A questo proposito però fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Repubblica Romana.] riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio, e che la moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra, erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto. Per quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è però certo, che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto, che durante il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum, come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico nemico. Ciò spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo, che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli [È ovvio osservare l'analogia,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me furono letti. (2) A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym. lat., vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd duellum, così da bis potè derivare bellum. Del resto il vocabolo di duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i Romani « duellatores optimi »] cato a risolvere una controversia privata fra individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello, in cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa. È nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia costante, che non può a meno di essere notata fra le formalità, che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle, che accompagnano l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio. 130. È solo infatti questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto la dichiarazione di guerra. Per quanto tale procedura, tras portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la prepotenza di un grande popolo; questo è però certo, che essa, ricondotta col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente sentiti. Questo intanto è fuori di ogni dubbio, che i varii stadii del dramma corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca patriarcale. Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in vasero il territorio della comunanza, saccheggiandone i raccolti ed (1) Le formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie, ove descrive il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24; e quello per la deditio al cap. 38. Come è notabile la solennità di esse, così è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. [esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente commossa, e il capo di essa, che è pur sempre il padre co mune di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia, recasi in persona sul confine del territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le divinità patrone della sua comunanza, quella che protegge il confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto, e questo ripete a chiunque incontri per la via, e da ultimo sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto sofferto, e repetitio rerum, dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite, egli ritorna con esse, e cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae deditio; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum, con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei, che il popolo, di cui si tratta, è ingiusto e vienemeno al diritto (populum illum iniustum esse, neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso, dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole: « bellum indico facioque », e si ha così in un solo atto l'indictio belli e l'initium pugnae. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura, eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere adat tata ad un popolo, come il romano: poichè il medesimo aveva una co stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si erano recati per la rerum repetitio, dovevano poi tornare per avere l'avviso dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra, che trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non perde le sue primitive fattezze. Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo; tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace, senza avere alcuna competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva alla guerra o all'alleanza; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la repetitio rerum, accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio deorum, quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali, che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non toglie, che le procedure del diritto fe ziale, al pari delle antiche procedure dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un organizzazione sociale di altra indole e natura, affidate alla custodia di un collegio sacerdotale, rese complicate dei varii congegni di una costituzione politica, che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun sero di necessità un carattere alquanto artificioso, e apparvero come forme, vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo, che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale, ed era venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie genti. Era pero naturale, che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte, appare sempre lo spirito conservatore del popolo romano, che continuò a conservare e a tenere in onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto, di cui essi erano i depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso. Intanto non pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella, che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento. Siccome però queste procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero ritenute, ma sono forme tipiche di fatti, che un tempo dovettero seguire nella realtà: cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra due capi di famiglia, i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una persona autorevole, scommettendo di essere dalla parte della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa, e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium ». Quello è il processo, che si è seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice: questo è il processo, che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne precedesse una dichiarazione di guerra, appare dalle dure conseguenze, che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro. Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le for mole che ci furono conservate, con cui quel popolo, che faceva delle stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare a se il favore delle divinità del popolo, con cui era in guerra. Una volta poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di uno dei popoli in guerra. La deditio era per un popolo ciò, che per un privato il darsi a [È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un ufficio diverso, potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. Queste formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn., il quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate, scrittore di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE, Iurisp. an teiust. quae sup., pag. 11. - 165 mancipio, cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità, che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con quella dei vincitori. Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra, e a fare astrazione dal tempo, che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico. Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra, che spiegano quanto dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di matrimonii, nè di reli gione, salvo dopo una lunga convivenza nei quadri dell'organizza zione gentilizia, in cui i vinti formarono la classe dei servi, dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo, in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto, la famiglia, le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto: dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si conosce nè la patria, nè il nome, nè l'epoca precisa, in cui siano vissuti; ma se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti i concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato; ora importa stu diare le condizioni della plebe, la quale se non ha per sè il passato, dovrà perd avere una gran parte nell'avvenire della città. La formola della deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile: che in essa intervengono anche i Feziali; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua potestate (il che prova che un popolo, al pari di una persona, poteva essere sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum, urbem, agros, aquam, terminos, de « lubra, utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique romani ditio « nem? – Dedimus. At ego recipio ». Le cose premesse intorno all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città, è certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco Marzio sarebbe stata tras portata a Roma. Certo un tale avvenimento non potè a meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma; cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per l'ordinamento di essa.L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine della plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel Willems, Le droit public romain, pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera, ancora in corso di pubblicazione, del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo: Storia del diritto romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova, 1886, pag. 274; opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii, il cui nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte] Non può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei padri, in quanto che, durante il periodo regio, la plebe non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato; lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro, comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela, che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela, come due termini inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia della Roma primitiva, e nota che il Celio, l’Appio e il Cispio, secondo una osservazione stata fatta di recente, hanno un nome identico a quello proprio di genti plebee. Anche il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 258, viene alla conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie; ma che essi costituissero una corporazione distinta, la quale, dopo l'istituzione del tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa. La corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis; al modo stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i decemviri, che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione, che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe, che non riesce mai ad inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica, che in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 19, e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI, il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini, ammessi a far parte della assemblea delle curie. Il luogo, in cui il V100 svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib. II, Cap. XXXII, dove scrive: « che le prime repubbliche sorsero dagli ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro, furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini »: Di qui appare, che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua lotta col patri ziato; donde si può argomentare, che anche nella plebe primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela. Cosi stando le cose, ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte si accosta a quella del Vico, secondo cui il nucleo primitivo della comunanza plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente avrebbe potuto, fin dal periodo regio, prendere così grandi proporzioni da imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città. Quindi è, che l'opinione del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il quale, tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie, chiuso e fortificato in sè stesso, formasi naturalmente una specie di comunanza plebea; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii della città patrizia, pud tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del Niebhur (1) MOMMSEN, Histoire romaine, I, Chap. V, pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris, 1878, pag. 15. (2) Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa. Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato: « La commune et les tribus plébéiennes » della Histoire romaine, mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit., pag. 149). Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità e di abbiezione, pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che fossero stati sempre indipendenti dal patriziato. 137. Tutte queste considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata, che il fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti; in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione genti lizia, e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia, e tentarono di fare entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di conflitto, che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso, che è nell'epoca feudale, che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente organizzazione dei vincitori; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il nostro Vico. La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione di padri; mentre è la città patrizio-plebea, che ci porge lo spettacolo della lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose, e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170 138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato, che fra le varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee. Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas sallaggio, rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo, che comprende vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio diritto, cioè il ius nexi manci piique (1). Tuttavia, se ciò può esser vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza, che certamente un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione gentilizia. Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo, vº Sanates, quale è riportato nel Bruns, Fontes, pag. 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal Mommsen). Io credo tuttavia, che la medesima, dandoci un concetto del tratta mento giuridico, che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma, possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione, che ha sede contigua allo stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di esso. Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri, ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente, che era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri, consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza zione gentilizia, che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie, una moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono; al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite da famiglie, che un tempo erano vassalle del feudatario. Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello, mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed acco. gliere tutti coloro, che, per questa o quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo, dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione gentilizia, venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati di altre comunanze; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato, o che, per motivi religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio, religione e famiglia; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse; cultori di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio; popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8, ebbe a scrivere: « E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis, sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum rerum, perfugit; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit ». 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il nome pertanto, che le fu dato, corrisponde alla impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia. Le genti infatti non potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa, che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro, che avevano tutte le loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie, nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato, che la diri gesse, nè era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione sociatus », e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche; dualismo, che per essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia, se ne hanno di quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato, come sarebbero le città etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per quest'elemento novello, che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria gerarchia, dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi nei comizii tributi; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero, quale era la romana. 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe nella clientela del patriziato, e incaricato i padri di farle assegnidi terre, a titolo di precario, non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia, come era Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla, che aveva seguito l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato, era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale, ma è costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium, che non è poi cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa; anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai fondatori della città. Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli nella famiglia, che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie. Questa preparazione invece mancava nel nuovo elemento, che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo elemento. Quasi si direbbe che, collo svolgersi della città, l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata, venne a rompersi affatto. Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia gentilizia, colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello, che guadagna e richiama a sè tutto ciò, che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero, e che abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del proprio esercito. Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe, poteva anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante, a cui avevano affidato i proprii auspicia, lo volevano naturalmente ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città l'organiz zazione per genti e per tribù, per quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova condizione.  Gli è questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare la plebe. Mentre Romolo, dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere l'ager publicus; il quale provvedimento produsse l'effetto, che la plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres (2). Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius; ma in tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città. L'altro provvedimento, ricordato da Plutarco, e che egli dice essere stato altamente lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2, 9: « Romulus postquam potiores ab inferioribus secrevit;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset disposuit: patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent » (Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep., II, 14, secondo cui la ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi fatta ai più poveri, II, 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, pag. 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm. R. G., I, pag. 63 ). Ciò tuttavia pon toglie, che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente. - stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen, e che probabilmente i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella plebe romana: ma non è punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre, cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi delle arti e professioni diverse, o di consacrare almeno l'organizzazione, che già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione (1). Non è quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di meglio da sosti tuirvi; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure alquanto leggendarie dei re, piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di vero. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli possidenti, ed (1) PLUTARCO, Numa, 17: « De ceteris eius institutis maximam admirationem « habet plebis per artificia distributio; haec vero fuit: tibicinum, aurificum, fabrorum « tignuariorum, tinctorum, sutorum, coriariorum, fabrorum aerariorum, figulorum; « reliquas artes in unum cöegit, unumque ex iis omnibus fecit corpus; consortia et < concilia et sacra cuique generi tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore, che sembrava porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo stesso MOMMSEN, De collegiis ac sodaliciis; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 11; ma pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione stessa come una verità di fatto. - - una plebe, composta di artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse. L'ideale della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al sostentamento di sè e della propria famiglia; quello insomma di avere quell'heredium o man cipium, che pur appartiene al capo della famiglia patrizia. A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa, dovette probabilmente dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto, che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates, cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo stesso, in cui da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra organizzazione, cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune; mentre gli altri, che apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la potenza, le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella del trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale, vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento, la cui origine era analoga a quella del patriziato, e che aveva già un'organizzazione domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando in essa un elemento, che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina; così fu sopratutto latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale;mentre questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine patrizio, portò forza, organizzazione, tenacità nella plebe e ne assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente, e aggregandosi alla nobiltà abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di frumento. 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura, importa farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra. Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie comunanze di villaggio, ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella, che riusciva vittoriosa. Il patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le sorti della guerra (1). (1) Questo intento della guerra Albana è messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento Metto Fuffezio: « Quod bonum, faustum G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta, ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere: senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie (1). Conseguenza dell'esito del duello fu, che la città soccombente perdette la propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores. Tutta la popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa, cioè la più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco Marzio vinse altre comunanze latine, e ne aggregò la popolazione alla plebe romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a questo punto pertanto, che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con Tarquinio Prisco, e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque, Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare plebi; primores in patres legere: unam urbem, unam rempublicam facere ». (1) Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 35. (2) Questi fatti attestati dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia civile e costituzionale di Roma, lib. I, cap. 6, pag. 97 a 113, Torino, 1881, secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico, mentre la plebe sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio. Del resto l'ipotesi del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione regia, Lib. II, cap. IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine dei cavalieri, raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella condizione, in cui prima si trovava; Servio Tullio invece inizia una organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica. È da questo punto parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto, che le istituzioni del patriziato e quelle del nuovo elemento, aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di loro; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica, ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato, meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva, in parte di origine servile, è un fatto riconosciuto da tutti gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile, Le elezioni e il bro glio, pag. 142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova, quanto sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in quella cittadinanza, a cui più o meno recentemente erano ascritte ». Di qui la conseguenza, a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione romana, eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica, immobile nella mano di pochi ». La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato. 146. Se posta questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una deffinizione di carattere negativo. La plebe infatti è negli esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia. Essa è, come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui « gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città patrizia. Al modo stesso, che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium; cosi alla domanda in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere, che essa è quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di esso, consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione giuridica e politica di essa. Ora e sempre sarà questo il punto di vista, a cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra il suo culto, sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra il suo diritto, e in base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente dell'universo, secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X, 21, 5. - 181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre. dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo, chiuso in sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa, facendo sè il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò, che non era compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium, dopo che già comprende va la plebe, vide una folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli, che non erano compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita, che la definizione di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto, implica eziandio la deffinizione negativa di quello, che ne costituisce il contrapposto. 147. Se quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto, ne verrà comeconseguenza, che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare, sotto questo o quell'aspetto, nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal diritto. La plebe insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto, e che si viene avviando alla conquista di una posizione di diritto. Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo ». Solo è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza,ma perchè veramente attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana: mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento civile e politico. Qui, comenel resto, il processo della logica romana è sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando nell'interno della città, e che poi si vengono sempre più allargando, finchè non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città. 148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto: ma a cui il patriziato non annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia, anche considerate sotto questo aspetto, le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un ' analogia, che possa paragonarsi con quella, che esisteva fra le istituzioni delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro partecipazione alla stessa co munanza civile e politica. Anzitutto si cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas, di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione. Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi non tanto la pro prietà, quanto la possessio, che dapprima tiene luogo di essa. In fine sarà eziandio, mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire un capo di famiglia plebea, i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO, Comm., II, 53, 54. 183 in cui predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto, è da ritenersi di origine plebea, e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il motivo, per cui, allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più tardi dalla giurisprudenza, perchè siavi usu capione, e perchè il possesso possa ottenere protezione giuridica. Ciò del resto era una conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico, avevano almeno un carattere religioso e morale; in una comunanza invece, composta di individui e di famiglie di origine diversa, priva di tra dizioni e di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati, che dall'usus. Credo non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione, che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione, perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza. Così pure si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui: < Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii », senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali, che non la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e consentendo alla moglie, che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium. Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi Mélanges d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184 149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera propria pro tezione giuridica. Fu quindi certamente nei rapporti della comune plebea, che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio, accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo, emere pro accipere ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1). Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della fiducia, il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa, che deve servirgli di malle veria (2 ). Fu parimenti in essa, che dovette svolgersi quel modo aver allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate, e dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti, come l'emptio venditio, la locatio conductio, e simili. Essi dovevano certamente esistere, quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., COGLIOLO, Prefazione, pag. XI, alla traduzione del GOODWIN, Le XII Tavole, eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla Grecia; il che dimostra, che dovette essere determinata da comuni necessità, in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea, perchè fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella. Si spiega pertanto il largo uso, che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi denza. Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di PLAUTO. 185 - semplicissimo di fare testamento, che ci venne più tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram, per cui il plebeo, che muore senza figliuolanza, affida ad un amico il suo patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando egli sarà morto. Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno all'emigrante, che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico, che avrà la fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare, perchè lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso, che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia rigida del diritto civile romano, fini tuttavia per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo, perchè popu lare erat (1). Quel testamento quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie, e ad impedire che il patrimonio uscisse dalla gente; per i membri invece della comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia, un rimettersi, (1) Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102, ed anche Gellio, XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona « si subita morte arguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet ». Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello che poi si svolse nel testa mento per aes et libram, fu il fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del fedecommesso, che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in fatti, Comm. II, 285, scrive: « ut ecce peregrini poterant fidem commissam facere et ferre: haec fuit origo fideicommissorum »; il che mi conferma nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo, di fronte al diritto già elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario, abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di TERENZIO, I, 5: « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei ». È da vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid. et judic., I, pag. 411 e segg. 186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto, acciò egli distribuisse le sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo. Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento, che era nata e si era svolta fra capi di famiglia, che sentivano la loro superiorità ed indipen denza; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus iniectio, ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie, ove sono già penetrati il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia, l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata (1). Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto sofferto, e perfino anche per un adulterio;perchè queste sono tutte istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di carattere religioso, che era così fermamente stabilita presso il patriziato (2). La plebe (1) L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la descrizione, che ne troviamo in OMERO, Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio, essa poteva esistere fra la plebe, come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la significazione giuridica, che vi attribuì il patriziato. In questo senso ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. (2) Questa varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni sociali compiutamente diverse, può essere facilmente compresa. Il patrizio sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno materiale che gliene deriva, che consideri la noxa (colpa ) come una noxia (danno): che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso; mentre il patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza. Tutte le istituzioni insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore, che non hanno una storia nel passato, ma che trovano direttamente la propria radice nelle tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele mento, che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea. Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli auspicia, che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un altro vergine di esse, che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto, che finirà per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come quindi esistevano, fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium; cosi vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di energie inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze, che si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione astratta, negli inizii è forza ed energia, che spinge, come direbbe il Vico, l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam. Basta questo per dimostrare, come anche negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio, che potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere, come usi, da un'epoca ben più antica. Cid serve intanto a spiegare come nel diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa collettiva; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 434. 188 mercio per un popolo, le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano assai progredito. Qui intanto, per non spingere questa ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni fondamentali del diritto privato, che sono la famiglia e la proprietà. 151. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia, quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei semplici matrimonia, quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia, che la congettura possa spingersi fino al punto, a cui la spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca, abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del matriarcato. Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse stato, ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello solo, che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità. Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto, la quale consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia, cosi non aveva ancora potuto subire quell'artificiale ordinamento, che veniva ad essere necessario per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo. Era quindi naturale, che la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia fondata sull'a [Cfr. Muirhead, Histor. Introd., e il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart] gnazione, cercasse modo di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi, quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità. Non è quindi il caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale; ma solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e sentita da chicchessia. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo, male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia, fondata sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto essere preferita, abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere facilmente compreso, quando si consideri, che la città, in cui trattavasi di entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi, mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri; che quelli avevano una posizione di diritto, e che questi erano solo tollerati per la loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario, che la plebe, sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum, si sforzassero di imi tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca, in cui essa åveva già certamente perduto della propria importanza. Del resto è incontrastabile, che di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea. Così, ad esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente, quello di appellare da una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto: disposizioni, che possono considerarsi come sopravvivenze e quasi accenni di vendetta privata, la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe. Insomma la conclusione ultima sarebbe questa, che Roma, fin dai suoi esordii, non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la umile apparenza di un'istituzione plebea; che tuttavia questa famiglia naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato; e solo riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza, perchè colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della tutela legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel diritto quiritario. Cid intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del testamento, perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie, e che col tempo, col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato. 154. Per quello poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia. Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti, sovra cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes, publici privatique, quia non mancipatione sed usu (1) Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico, ma anche di possessioni di carattere privato, e furono queste, che do vettero appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso Festo, ove scrive: occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur (2), indicando cosi l'esistenza di una consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi in questo modo, in seno alle comunanze plebee, lo dimostra l'importanza, che presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto, che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili; disposizione questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti, presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi altra autorità, che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli, che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal possesso, e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse: dominium rerum ex naturali possessione cae pisse, Nerva filius ait; eiusque rei vestigium remanere de his, quae terra, mari, coeloque capiuntur; nam haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni per l'usucapione di quelle immobili; e cið nell'intento di poter trasformare con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà. Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones (Bruns, Fontes, pag. 354): la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs). Festo, Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns, Fontes, pag. 348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm. R. G.; Paulus, L. 1, § 1, Dig.] munanza invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di diritto. Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od abbandonato (possessio, da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure quiritium, e intanto, appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come legittimo proprietario. Certo non poteva esservi un migliore sistema per po polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ). Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un comune diritto. 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia. Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al mercato, porgeva anche alla plebe occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal punto, che i re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana, anche per afforzare l'esercito della città patrizia, dovesse sorgere naturalmente l'idea, attuata poi da Servio Tullio, di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia, e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia. Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà, che la privata, o meglio quella, che ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe alle sorti della Repubblica: « Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam, fides quaedam in ea, firmamentumque erat ». Fu questo, aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia, non aveva agro gentilizio, e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio; cosi ne derivò la conseguenza, che l'unica proprietà, che poteva essere riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata. Cid può servire a spiegare il fatto, che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium, dei praedia censui censendo, e dell'ager publicus. Questi sono l'unica proprietà della plebe; mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato. Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum, piuttosto che alienarla, e la lotta, che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio, che derivava da essa, erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato: così viene eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un carattere essenzialmente mercantile, e siano tutti fatti entrare forzatamente sotto le figure del nexum e del mancipium, come meglio apparirà più tardi. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente, quanto ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro, che si trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria comunanza plebea, che doveva di necessità essere presa in considerazione. Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica riconosciuta dal patriziato; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla, la quale ha bensì una esistenza, C. Le origini del diritto di Roma.] di fatto, ma che è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato. Di qui il dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù, viene a costituire il gran dramma della comunanza civile e politica. In questa infatti son chiamati a convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto, ha la città, ha gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una posizione di fatto, più tollerata che riconosciuta, e non può fare as segnamento, che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso, che potrà entrare a fare parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia, che dopo aver fatta la sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in un'aristocrazia chiusa in se stessa; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica, senza la memoria dei maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni, e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da ogni vincolo sociale e gen tilizio, deve essere riguardato come persona, ossia come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior concetto, a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 64. L'autore, che ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto privato di Roma, è quello che l'uomo libero, come tale, sia capace di diritto, è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's, Encyclo pädie, I, pag. 105, 4.ed. — È da vedersi in proposito il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom., Prol., Palermo, 1886. 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e stretto nei vincoli del passato, mentre l'altro, per le speciali sue condizioni di fatto, non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di diritto, e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla entrare nei quadri della sua città, senza comunicarle che gradatamente quel fascio di tradizioni reli giose, giuridiche e morali, di cui esso era gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi meraviglioso. La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo dell'organizzazione genti lizia; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli tica, che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione gentilizia. Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso e morale, viene ad essere di origine patrizia; mentre tutto ciò, che trova origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel diritto, e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi piuttosto di origine plebea. La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia, che erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica, per guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente. Solo resta a spiegare, come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso, che suol essere attribuito a questo vocabolo. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza, che desta un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo, come l'opera esclusiva della forza. Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium: vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la potenza, che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la difesa, che la manus accorda a tutti coloro, che da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro, che corrisponda al me desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di mancipium, di nexum, di manus iniectio, che non solo si ispirano al concetto della forza, [ È abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico; il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere del padre sui figli. V. in proposito: VIOLLET, Histoire du droit français, Paris, 1886, pag. 412, cogli autori citati a pag. 447. Del resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura, a cui manca non solo quell’aureola religiosa, da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia, che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione, possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio, e sulla quale importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti alla stessa tribù; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo servitutem servivit; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione, a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer. tamente presumersi, che questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di loro, sopra un piede di assoluta eguaglianza. Quindi mi sembra naturale, che il primitivo ius qui ritium, a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa, debba in qualche parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli, che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e di difesa. Questo è certo che anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata; come lo dimostra ancora l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac sanates, ai quali, secondo Festo, sarebbe stato accordato unicamente il ius nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico, che intercede fra Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento, che quel nexum e quel mancipium, che poscia vennero a significare dei rapporti privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e pressochè vassalle, che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto, che fino ad ora potè solo essere accennato, ma non svolto. Il medesimo consiste in ritenere, che la condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia, dovette essere analoga a quella, in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base alla legislazione decem virale. È un magistero eminentemente romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i forcti ac sanates. È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti ac sanates; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto. Ciò era necessità, perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe; e intanto spiega eziandio, come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario, comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium, i quali perciò, al pari di quello del commercium, al quale corrispondono, si svolsero dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come una popolazione circostante alla città, con cui non poteva a meno di essere in commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique, che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 - poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto dell'urbs, quel diritto, che prima governava i rap porti, che intercedevano fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello, che era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza dello svolgimento del ius quiritium. Certo questa non è che una congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al riguardo. Intanto, come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa peculiare condizione giuridica. & neaco (Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai forcti ac sanates, è di Festo, ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d. XII Tafeln von den Forcten und Sanaten. Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII Tavole, a cui Festo accenna, vº Sanates (Bruns, Fontes, pag. 664), fosse così concepito: mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto ». Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag. 171, fu respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire, quale potesse essere la speciale posizione giuridica. Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733, Tab. XI,6, ricostruirebbe invece la legge in questa guisa: e nexum mancipiumque, idem quod Quiritium, forcti sanatisque supra infra que urbem esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN; ~ Nexi mancipiique forcti sanatesque idem iuris esto »; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium,ma non aveva ancora il connubium. Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il Mommsen nella nota al Bruns, Fontes; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum mancipiumque forcti sanatisque idem esto »; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di. la quale 200 161. Del resto, checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium, il quale, sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto diversa, in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia, se alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e della dipendenza, in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso, che i ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i cataclismi del suolo: così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius qui ritium, in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria, per usare l’es pressione del Vico, le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem naturam. Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della loro libertà, quanto sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum, pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili, che poteva nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore; ma bensi un diritto rozzo e violento, che risentisse in certo modo della lotta, da cui esso usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva, in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende quindi come in questo periodo, la manus, armata di lancia, pronta da una parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra, e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come l'espressione più, naturale e più energica ad un tempo per significare il potere giu. ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno, la destra alla fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano, non avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie, figli, clienti e servi? Non era essa, che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato, poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto (1) Buona parte di questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico; na è avvolta in una forma fantastica, proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani come i rappresentanti di quell' epoca eroica, che, secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che egli chiama umani; idea, che finì per condurlo a considerare come una leggenda tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856, pag. 14 e segg., ove parla dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607: « Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes: ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae, unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali, si quis flamini genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat.] posti a servitù, e primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione, dovette prima formarsi nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti interni della famiglia; perchè la causa, che determino questo irrigidirsi della famiglia, non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna, ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza. Dal momento per tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella, che lotta nella manuum consertio; che rivendica nella vindicatio; che trascina il debitore nella manus iniectio; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo (manu emittit); che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium. Essa quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi, che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia fra la moltitudine e la folla, da cui sono circondati. Però almodo stesso, che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite. Senza entrare nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da curia, come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora ra dunasi nelle curie, ed ora costituisce un esercito. Come tali i qui riti trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che abbiano le iustae nuptiae; che sappiano consultare gli Dei cogli auspizii; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della città. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla fondazione della città, e in quello della città esclusivamente patrizia non intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui essa è circondata. Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di condizione, in cui si trovavano le due classi. Il plebeo, che non ha una posizione giuridica, e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio, quando voglia entrare in rapporto con esso, non può avere altro mezzo che quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum, per guisa che, se esso non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio, assoggettandosi cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza, che i durissimi concetti del mancipium, del nexum, della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii del diritto quiritario, in cui presero poi una significazione speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza; il che spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è loro inerente. Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a quello, in cui essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata e precisa, cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium, di nexum, di manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva; ma conviene cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta. 164. Nella povertà del linguaggio giuridico primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad assumere significazioni molto diverse, che però riduconsi a due essenziali; a quelle cioè per cui significa: - o ciò (1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I, pag. 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù; poi indica eziandio tutto cid, che può essere preso e assogettato colla manus: quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis; infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo, in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata, per cui essa designa il potere del capo di famiglia, tanto le persone, che le cose soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium. Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera; come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo. Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes, pag. 214. Non potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio, colla quale egli direbbe, che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor. Introd.). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo; parmi eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva, la quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa, che non il potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum, habere potestatem, habere dominium, i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò, che è soggetto al capo di famiglia, ma indica eziandio il trasferimento, di cui possono essere oggetto le cose, che entrano a costituirlo. Ciò è dimostrato dall'espressione vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium, facere nexum, al modo stesso, che direbbesi facere testamentum. Or bene non vi ha dubbio, che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma zioni profonde nel proprio significato. Facere mancipium infatti dovette negli inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex eo, quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al vin citore. Cio però non tolse, che il concetto del facere mancipium si applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio, od anche a persone, che dipendevano da esse, come accadeva nella noxae deditio. Che anzi è molto probabile, che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio. Infine, allorchè il mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia, anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia (2 ). che non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il significato, che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio, nell'usureceptio e simili. (1) A questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur », BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio, noi riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo, con cui il vinci tore afferrava il vinto, in base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù. Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e nella violenza; ma poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come lo dimostra la seguente deffinizione di Servio: manus iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata, rem nobis de bitam vindicamus. Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può conciliare coll'esistenza della pubblica autorità, non fosse riconosciuto dal diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto. Infatti nel diritto quiritario noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato; ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato. La manus iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione contro il proprio debitore; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi, cioè: contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris confessi); contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento dell'autorità giudiziaria; mentre quella, che riguarda il nexum, ri monta certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza, il che fa credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta attinenza col nexum. Cio miporge quindi occasione di discorrere brevemente di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166. Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota; ma si può affermare con certezza, che essa rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare gli effetti, che derivavano da esso. Lo stesso è a dirsi della legislazione decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche dimostrato da ciò, che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria della plebe sopra il pa triziato. Vero è, che questo fatto può anche essere spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli imprestiti alla plebe, e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento di questo « ingens vinculum fidei »; ma parmiche il carattere vero di questa istituzione possa essere più facilmente spiegato, quando si cer chino le cause, che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che, non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore, obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione, in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio, anteriormente alla formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto, non aveva altro mezzo, per trovare protezione o credito, che o di dare a mancipio se o la fa miglia, o di vincolarsi col nexum. Quello era una specie di dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva sulla propria persona. Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso; cosi in parte si comprende che il diritto del creditore sul debitore, sia stato spinto a quelle estreme esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili (1). 167. Quanto al vocabolo poi non può esservi dubbio, che esso ebbe ad assumere significazioni molto diverse. (Liv. VIII, 28, in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud initium liber tatis factum est, quod necti desierunt »; e più sotto: « victum eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom., III, pag. 375. Della portata e degli effetti del nexum, come pure del mancipium, si discorrerà più sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile, che il nexum nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui sottoponevasi lo schiavo fuggitivo; ma che poscia dalla significazione letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica. Tuttavia rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob bligati colle forme solenni del nexum. Del resto anche questo vo cabolo, al pari di quello dimancipium, significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium, dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde delle altre istituzioni del diritto quiritario, che esse si svolsero dapprima fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate nei rapporti dei quiriti fra di loro. Al modo istesso, che i concetti di connubium, di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto quiritario; così i concetti del mancipium, del nexum, e della manus iniectio, dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario. Di qui il carattere di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti italiche, anteriormente alla fondazione della città, che si vennero ricostruendo a poco a poco, noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo di famiglia; - 209 quello di un elemento aristocratico, che era rappresentato dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere nella città tutto lo svolgimento, di cui poteva essere capace. Furono questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re, al senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del connubium, del commercium e dell'actio sacramento, ed aveva elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi della convi venza civile e politica. Esisteva parimenti, ancorchè solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea, fondato so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più alieno dalle solennità, più libero da ogni influenza del passato poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica. Da ultimo già cominciava ad elaborarsi un diritto, che non poteva dirsi proprio, nè del patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del capo di famiglia patrizio, ed aveva dato origine ai concetti del mancipium, del nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario. È quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima trovavasi confuso, viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il quale, assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee, finirà per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica. C., Le origini del diritto di Roma. De ultimo, anche per quello che si riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium,della societas, e del più importante fra tutti, che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica, militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città. Questa parimenti, traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia, della concessio civitatis sine suffragio, del municipium, pos sedeva anche i mezzi per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero. I materiali quindi erano in pronto: solo rimane a vedersi il pro cesso, col quale Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò, che in essi eravi di vigoroso e di vitale, e sia così riuscita a ricavarne lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato, sarà la distanza stessa, a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire alla formazione della città. Sarà tale distanza infatti, che forzerá la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità di diritto ad ogni uomo, purchè libero. Per tal guisa tutte le gradazioni del senso giuridico, dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate, cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica. - 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio ("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella storia non vi ha forse avvenimento, il quale abbia eser citata maggiore influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica. Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro popolo, che abbia più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera tura così copiosa, che mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia, che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva; così mi limitero ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia, essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG, ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già, o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere, mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale. A ciò si aggiunge, che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si, che esso, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova formazione. Di qui la conseguenza, che quando si riesca a penetrare il processo logico, stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di essa, e il modo, con cui furono costrutte le sue mura; ma eziandio la serie di quei concetti fondamentali, che, preparati in un periodo anteriore, ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è veduto, come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la formazione della città. Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri, abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia, o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa, che si introdusse nell'organizzazione sociale? 172. Le teorie, che furono escogitate in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in numero e diverse nei risultati a cui giunsero; quindi per noi sarà necessità di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia; essa sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre sul medesimo modello. A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente, e che le genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù; cosi l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita, ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog --- - - 213 giata la comunanza civile e politica. Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella famiglia, e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù; il populus non sarebbe che la riu nione delle gentes, per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo, che appartenga ad una di tali gentes; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si trovavano, e con tutte le fa miglie, che entravano a costituirle (1). Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire, che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù (2). Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia, e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto, il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano, e il suo potere sarebbe, in sostanza, un militare im perium, destinato sopratutto a mantenere la disciplina nell'esercito, e percid accompagnato dal ius gladii; la curia da conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta, che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante; il populus romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia; e infine le gentes stesse, in cui egli ritiene ancora che si dividano le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza, ma già raffazzonati secondo le esi (1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad. DeGuerle. Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv. (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad. Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag. 121. (3) Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier, Paris, 1885, pag. 37. 214 - genze di un esercito; donde quel numero fisso di trenta curiae, in cui sarebbe ripartito il popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes. A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria, così splendidamente esposta dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la famiglia e la proprietà, la gente e la tribù, sarebbe pur quella, che avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; mentre l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere essen zialmente religioso. Non è a dubitarsi, che queste varie opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio; ma intanto ciascuna di esse, collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente, la quale non può altrimenti essere ricostruita, che riportandoci nell'ambiente stesso, in cui essa ebbe a formarsi. È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella storia, senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener conto delle necessità reali ed effettive, a cui le genti primitive cer carono di soddisfare, creando la comunanza civile e politica. Or bene io non dubito di affermare che, collocandosi a questo punto di vista, apparisce fino all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione gentilizia prima esistente; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue un indirizzo (1) V. IHERING, L'esprit du droit romain. Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $ 20, pag. 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si accosta lo SchweGLER, Rö mische Geschichte, I, pag. 523. (2) FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv. III, Chap. IV, p. 155. È però a notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul carattere confederativo della città primitiva. Cfr. pag. 147. 215. compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra, come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati (arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei momenti di pericolo, e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi proprii armenti in un'epoca, in cui erano quotidiane le scorrerie e le depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno pertanto, a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato quello di provvedere alla co mune difesa. Poscia, siccome la sicurezza è condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che, accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti (fora ), a cui le genti convenivano per scopo di commercio, e dove, occorrendo, si tratta vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità, non propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti; e fu anche in questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il concetto della città non sboccið di un tratto, ma ebbe ad essere provato e riprovato in varie guise sotto forma di arces, di oppida, di fora, di conciliabula, di comitia, e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita, assunsero un (1) Questa idea, che è fondamentale nella presente trattazione, ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel lib. I, ai numeri 5, 14, 66, 99. - 216 - carattere sacro e religioso, per modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose. L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia. Essa per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si viene sceverando ed isolando tutto ciò, che si riferisce alla vita pub blica. Quindi la città primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica, fra varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo (forum ) ove si tiene il mercato e si am ministra la giustizia, il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse; donde la curia, il qual vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si riuniscono. Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che entrano a costituirla, essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle tribù, nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù, che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica; di quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo, coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza, e parteci pano alla stessa vita politica e militare. La città latina pertanto, e quindi anche Roma, che è un esemplare tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune vita poli tica, frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare, quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando: mentre la vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia, la vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della città. Di qui la conseguenza, che la città, dopo aver ricavato gli elementi, che entrano a costituirla, dalle comunanze che la circondano, finisce per preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia, e sopratutto di quelle gradazioni di essa, che prima compievano eziandio una funzione politica, quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela. Le istituzioni invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due basi dell'organizzazione sociale, sono i due elementi estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica; e la città dall'altra, poichè essa, essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle forza e con sistenza. Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti, negli inizii della città, vengono ad essere il pater familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento, prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia, e prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico, che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio. 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com piutamente diversa, e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia, in tutte le sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello, che è quello della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione, ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale, come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento giuridico, po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale. Di qui derivano alcune importantissime conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia, per quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro duzione naturale, come quella che è composta di gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto, della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia, comprendendo persone, che si suppongono derivare da un medesimo antenato, tende a mantenere una proprietà comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e nella discendenza, per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica, appena essa compare, viene ad essere quello della capacità e dell'elezione. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione della città può 219. già ritenersi compiuto, e quindi le cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso. È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della città. Tuttavia la Roma Palatina, finchè è contenuta. nei limiti dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città; ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii; i suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù; e infine anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza, come lo dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede alla costituzione politica della città. Secondo Livio, ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium, che mutasi nella fortezza delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel sito, che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo il rito, dovevano trovarsi nel cuore stesso della città. Non consta quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il governo di essa, come lo dimostra il fatto, che secondo la tradizione vi sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero (Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86. « Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae ». Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, pag. 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa, che ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi meraviglia, se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente. Intanto però la trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin. colo della discendenza si sostituisce quello della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine, da cui trovavasi circondata. Essa infatti non costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi una casa, circondata da un orto. Per tal guisa in Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio, e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia, aveva posta sede permanente dentro la città, o in prossimità di essa. Fu in questa guisa, che Roma diventò ben presto, secondo l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato, al pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze, cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano, la cui vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso periodo regio, Roma da sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura della città, 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie: consuetudine, che anche oggi può dirsi mantenuta dal patriziato romano. Di qui la conseguenza, che Roma, in una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento, che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine. Essa riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata, l'elemento sacro dal pro fano, la vita urbana dalla vita rustica, la vita militare dalla vita civile; ed effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con essa. Di queste varie distin zioni, quella, che cominciò ad effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del culto gentilizio, fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba forense. Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa. Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un tempo; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini hanno un periodo di età, in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito di riserva; gli atti stessi più importanti della vita, quale sarebbe, ad esempio, il testamento, possono farsi in guisa diversa, secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace, o di soldati in procinto di venire a battaglia; la quale distinzione poi mantiensi co stante per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad un tempo, e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi fra la vita pubblica e la privata; in quanto che fu questo il grande intento, a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla confusione della cosa pubblica colla privata (1). È questo il dualismo veramente fondamentale, che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi, con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi, che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare, come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è il rapporto, che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera hominum, che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al governo della cosa pubblica. Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica, il quale, per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli interessi comuni alla intiera città, ed a tutto il popolo (res populi). Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti (1) Per dimostrare l'importanza, che nel concetto romano ha la distinzione fra il pubblico e il privato, basti citare il Trinummus di Plauto, questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato. 223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel diritto, che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città, viene col tempo facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto pubblico, ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso. Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato: poichè il processo che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione politica della città. Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento. Ciò ci è dimostrato dal fatto, che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città, e poi si pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge, che è l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in lex publica, di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si rife [ La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm. I, 3; II, 104; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo: Leges publicae populi romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata, secondo che il danno, che ne deriva, e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza; distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia, i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata. A queste si potrebbero aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie del suo passaggio. È in questo senso, che le proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus; che i rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia, l'hospitium, il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in privati. Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private, e se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita, co sicchè anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad essere denominati equo publico. 182. Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere profondamente sentita, se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi argomento. Non occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione; ma se questa potè accadere colla fondazione della città, mentre prima non erasi avverata, la causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò, che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata. Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione dei sacra publica ac privata, è da vedersi Festo, vu Publica sacra (Bruns, Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº 3. Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata, è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain. Trad. Girard. Paris, 1887, I, pag. 101, cogli autori ivi citati in nota. 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu infatti la città, che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria terra, e il culto per coloro, che si sacrificavano per essa, e quell'illimitato amore di patria, che informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota, e costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile. Fu essa ancora, che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione, diede origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città, da cui doveva poi uscire la storia; al modo stesso che, accanto al comando del padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla, a cui si indirizzano. Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro, che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano, noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham, appartiene, quanto alla sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica. Certo esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso, le quali tendono sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, nº. 34, pag. 94 e segg., e alla dissertazione: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po litica. Torino, 1878. (2 ) Pelham, vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia Britannica, ninth edition. Edinburgh, 1886, vol. XX, pag. 731. C. Le origini del diritto di Roma.] mazia dello Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere esclusivamente privato. In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben nota il Gentile, lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo colla divinità, da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto direttamente esercitato, e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1). Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato, e questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che concorsero alla sua formazione, i quali, nella propria elezione, più non badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo punto di vista, che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879, pag. 2 e 3. 227 . Le cose premesse hanno abbastanza dimostrato, come nella formazione primitiva dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da quella, che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica. Tuttavia questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione novella, e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi, di cui si tratta, sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente, riunirsi per guisa, che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione: il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città, dopo essere stata lungamente preparata, presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo essenziale, a cui Roma intende; la costituzione politica di Roma invece sembra in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia dell'edifizio, tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo, che con uno sforzo collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò, che si riferisce alla vita politica, giuridica e militare. Tutte le energie naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola, e ben può dirsi con Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii: Moribus antiquis res stat romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi di una costituzione, che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le sue parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato, sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto. 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù, viene ad essere collocata in un sito, a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata, l'ha rotta colle tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della nascente città, la fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di essa, potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento. Anche lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo, di aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città, era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep., V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca romulea, e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum, neque ut in cunabulis vagientem relictum, sed adultum iam pene et puberem? » (De rep., II, 11). Lo stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia. Il grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare così la città, tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere di pari passo. I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la fondazione di una città. Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere « quod bonum, felix, faustum, fortunatumque siet populo Romano», e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio. I concetti politici di Roma primitiva, nella loro sintesi po tente, possono essere paragonati a quei massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta: ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico, fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo, di cui possono essere capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore, ma il contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito, e quindi non è meraviglia, se la nuova città proceda verso il proprio scopo con l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito, e se dei suoi fondatori possa dirsi col poeta: cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della città presentasi determinato in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico, che rende pos sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia preesistente, i quali però, mirando ad un intento novello, ricevono uno svolgimento compiutamente diverso. L'urbs è una selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo; il munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica (1); la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini, considerata come un tutto organico e coerente; infine la lex publica è il com plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di partecipare alla stessa vita pubblica, e quindi per la formazione di essa debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città. 188. Intanto perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata; poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità e sull'ele zione; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella gente, in questo invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 ) dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive, quae multitudinis universae consensu, atque legitimis in unum convenientis populi comitiis, alicui mandatur per suffragia, ut capere eum eamque oporteat, et statim, certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare », Qui però il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta, che non quella che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium.] individui vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città. Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. — Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa, che sembra ancora circondare la formazione della città; maanche questa religione non deve più confondersi con quella preesistente; essa non è nè il fondamento, nè l'intento supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges (1); ma è soltanto una consacrazione dello scopo, che viene a proporsi la nuova comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole genti. $ 2. Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae). 189. Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono come un riverbero di quelle, che esistevano nel periodo precedente e quanto alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali; ma se si riguardano più da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e che tende a diventarlo sempre più. Così è certamente vero, che la città viene ad essere divisa in tribu; ma è evidente, che questa divisione in tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza, non può più considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una ripartizione del suo territorio. Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica, ten dono necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali; poichè col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria sede nel territorio dell'altra? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5, 6, 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto apparteneva l'augure Atto Nevio. La sua opposizione tut tavia non mutasi che in una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù, se non di diritto, verrà ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale, e sarà cosi conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale, a quello della discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto (1). 190. La distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato circa il carattere originario delle curiae, e sull'autorità del Niebhur si è soventi sostenuto, che esse non fossero, che aggregazioni di gentes, e che si ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente ammesso, che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si mantenne esclusivamente patrizia. Essa, al pari del populus, di cui è una suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad un tempo; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis ); un proprio culto, che fa parte dei sacra publica; un proprio santuario (sacel um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di comitia curiata. L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa divisione abbia un carattere del tutto artificiale, e miri a uno scopo preordinato, che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling. lat., IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù, come di una divisione piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 31, il quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si applicherebbe di preferenza agli equites. (2) Niebhur, Histoire Romaine. Trad. Golbery. Paris, 1830, II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto parlando delle gentes nel lib. I, cap. III, al nº. 28 e seg. e nelle note relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni (foris, militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli gentilizi fra di loro, e che essi, come attesta Aulo Gellio, siano anche tratti ex generibus homi num (1); ma le curie sono già composte di uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi limiti di età, e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto, salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle. È quindi incomprensibile, che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato, senza riguardo nè all'età, né al sesso. Solo può dirsi, che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto: o in rapporto colle famiglie, colle genti, colle tribù, da cui ebbero a staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles; o rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte, e sotto questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio, che non debbono avere altro pensiero, che quello della res publica. 191. Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio, essa non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur; ma può essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I [Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix, ad Quintum Mucium, e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti: « cum ex generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia; cum ex censu et aetate, centuriata; cum ex regionibus et locis, tributa ». Fu anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero in gentes; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla discendenza, mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo, e quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù, a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori (patres) ed i cavalieri (celeres, equites) nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle curie, e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum, o di un magister equitum; mentre il senato, nella concezione estetica ed armonica della città primitiva, rappresenta l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio, e costituisce veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per ogni curia; donde il con cetto, che anche le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno delle curie: mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può dire: che la ripartizione in tribù, qualunque potesse esserne la significazione primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito, cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò, che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure essere degli equites, il cui corpo, secondo OVIDIO, Fast., III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium, Ramnium, Lucerum fiebant » (V. Festo, vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia, dei quali si sa, che erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot, His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152; e il Bloy, Les origines du Sénat romain. Paris, 1883, pag. 102-105. 235 - che serbarono più a lungo, allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari; che da ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò, che Cicerone disse più tardi della famiglia, che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie. § 3. — Il pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium, patrum auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere, ed in quali forme esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta, poichè il potere in genere viene ad essere indicato, ora col vocabolo di potestas, ed ora con quello di imperium; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico, che in questa parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi, che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la città, presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti più difficili, eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva l'assemblea della tribù. Erano così in pronto l'elemento monarchico, l'aristocratico e il democratico; nė ai fondatori della città patrizia poteva ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città; ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso. Il re infatti non è più tale per nascita, ma è creato dall'elezione; il che deve pur dirsi del senato, e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una moltitudine, ne una folla, in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un esercito di uomini di arme, ed un'assemblea, debitamente organizzata, di uomini di senno e di consiglio. Il re, il senato ed il popolo, adunato nei comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di imperium. Dei due vocaboli tuttavia quello, che a mio avviso appare più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale, per la propria ge neralità, può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del magistrato (potestas regia, consularis, censoria ); quello del popolo (populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato, al modo stesso che può anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato. Potestas insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie, che, contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium, possa anche assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi (1) Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli altri, dal KARLOWA, Röm. R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il MOMMSEN, secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga, e quello di impe rium la più ristretta; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano imperium. Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato: « Cum imperio dicebatur apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium; cum potestate est, dicebatur de eo, qui negotio alicui praeficiebatur ». Le droit public romain, I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva, che quel vocabolo di imperium, che in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I, pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di famiglia accadde alcun che di analogo. Questo potere infatti in origine era indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas; ma ciò non tolse, che questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui figli. Ciò significa, che i vocaboli presentansi dapprima con una significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti primitivi, di cui sono l'espressione; ma quando poi questi concetti si vengono diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237 - più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi, così ben presto nella indeterminazione primitiva, compariscono i vocaboli, che esprimono gli atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli di imperium, che applicasi di prefe renza al potere del magistrato; quello di auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas, che, applicato al popolo, indica il potere di esso, in quanto iubet atque constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma intanto sono concepiti in una sintesi potente, che renderà possibile a cia scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito. 195. Ciò può scorgersi anzitutto quanto al concetto di imperium, che indica di preferenza il potere del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita, nè dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa miglia, alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di imperium. Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di regola indicato col vocabolo di imperium, è cosa che appare da tutti gli antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est ». De le gibus III, 12, § 28; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive: « vidit singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas », nel qual passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep., JI, 8. [Magistratus, scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo (Le droit public romain, I, pag. 8 ); e aggiunge poi a pag. 10, che il magistrato, quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci dentro la città. Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso Mommsen, che il re non riceva il proprio potere dal popolo: tanto più, che gli scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare, magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa, dal fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo di famiglia, e non poteva perciò essere negato al capo della città. È tuttavia degno di nota, che questo imperium, formatosi mediante la riunione dei poteri spettanti a ciascuno, appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi, che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori (fasces) indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo a quel magistrato, il quale, mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e pauroso per ciascuno; e che se il magistrato ordini al littore « col liga manus », il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato, non si potrebbe certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente sentita, trattandosi di una città, che fin dalle proprie origini era il frutto della con federazione di elementi eterogenei e diversi; né si può aspettare, che un popolo, il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del capo di famiglia, possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta; è potere religioso, militare, politico e civile ad un tempo; ed è concepito in una sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen, per ricostruire il potere primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali sono il console, il pretore, il dittatore ed il censore. Fu solo l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale. Tuttavia, anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente per un atto di minima (1) Mommsen, Op. cit., pag. 5 e 6. 239 importanza, viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e sorretto dalla pubblica opinione. Lo stesso è a dirsi della patrum auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas, presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata, e che trovasi applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato. Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia, che si arreca o si assume per un determinato atto. Tale è la significazione fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita l'imperium, dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit; mentre il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato, dall'altra auctor fit, cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e dell'altro; poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio, e le delibera zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità, mediante la sua approvazione. Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità, essenzialmente consultiva, riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo: « Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus ». De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo, perchè non trattasi qui di integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza, ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 47. 240 solo opera della fortezza del suo popolo, nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen nare alla questione tanto controversa, fra gli autori, circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas: col qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato; altri invece l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ). Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica, quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse. Durante il periodo regio, il vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie. Più tardi invece, allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo, ed aveva ancora una propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain, 5me éd., Paris 1883, pag. 208 e dal Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris 1886, pag. 16, nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma nelle sue diverse forme (Rivista di filologia, Così pure ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op. cit., pag. 42 a 48; il quale finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la conseguenza, che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto, che il senato aveva già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento patrizio, dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò, che si usano promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores fiunt ». Siccome però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita, l'espressione siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione (1). (1) Nella gravissima questione, che è tuttora aperta, gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum, durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio, relativo all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I, 17, ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce l'auctoritas al senatus; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio, XXXII, 6; IV, 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano: nullum plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri; 3º Che oltre a questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da Livio, ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex, o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40, 55, 59; IV, 7, 17, 42, 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera riunione del populus, così essa, accid ritenesse sempre una parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della costituzione primitiva, secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato. Ciò che è accaduto dell'auctoritas patrum, si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed anche della proposta dell' interrex, che pure appartengono all'assemblea esclusivamente patrizia, quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione, e aveva così cessato di C., Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di ogni altro potere. Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia, che essi considerano come una specie di investitura divina. Parmi invece, che la genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium, il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum, la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura anche questa, ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva, in cui ogni organo politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del concetto di lex, e di quello dell'interregnum. Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal KARLOWA, che intende per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che fossero nel suo seno, poichè la nobiltà plebea, che entrava in esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della legge decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne esto », dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü; come pure dal fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum, la cui intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit; espressioni, che indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è da lui confermato, allorchè nel discorso de lege agraria 2, 7, 17 dice: « omnes potestates, imperia, curationes ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal contratto, e quindi al modo stesso, che la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia, di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia, che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento, da prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli auspicia, che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante l'interregno, gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie, as sumevano quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare, quando si trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso. Tuttavia se ai patres tornano gli auspicia, è però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato, che debba succedere nell'imperium, come lo dimostra la tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento dell'imperium, fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit ». Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale « a populo dabatur imperium ». Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd. au cours de droit romain. Bruxelles, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e giusta mente, a parer mio, che « i pastori della leggenda riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità, riguardano ancor sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità ». 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe l'impero, ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio, anche prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà, che servirebbe ad obbligare il popolo, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si è, che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il magistrato, che prima di entrare in ufficio rogat imperium, ed havvi il popolo, che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del patriziato, in quel fatto di Valerio Pubblicola, che in tempo di pace e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere daimedesimi le scuri, come pure nel fatto, che gli imperatori, quando già si erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto, di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il concetto, che il potere supremo risiedesse nel popolo, non poteva in nessun modo affievolire l'imperium: poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in ufficio, e tanto meno esercitare l'im perium, prima della lex curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice: « consuli, si legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora: « sine lege cu riata nihil agi per decemviros posse » (Ibidem, II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium, non si comprende come il Mommsen, Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e meno an cora, che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito l'imperium. Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep. II, 10, 17, 18, 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi re. Non solo deve negarsi, che questa lex entrò in azione solo colla costituzione Serviana; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium, e a cui ritornavano gli auspicia. - 245 da lui votate nei comizi, così esso doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva, che ve niva a sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo, per cui il potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini, finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione. Fermo cosi il concetto della costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni (logica, che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella, che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della medesima. § 4. Il re ed il regis imperium. 201. Dei concetti politici del periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è certamente il potere del rex. Tutti i poteri infatti, che nel periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister populi, di magister pagi, di dictator, di praetor, di iudex appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis imperium. Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del potere, che eransi avverate nel periodo gentilizio, e dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo repubblicano, saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa pubblica; nė vi ha costituzione scritta, che gli prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso della città, accanto al sito, ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della vita pubblica, che si conserva nel tempio di Vesta. Che se, per provvedere al pubblico interesse, debba abbandonare la città, dovrà lasciare nella medesima un proprio delegato, che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche il re, che provvede al lustro esteriore della città, che progetta e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia, e che non furono le meno durature fra quelle costruite nell'eterna città. È nella successione dei re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re, ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato quello, che aspird alla tirannide. 202. Cid quanto alla custodia materiale dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un popolo, che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso, militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso; è pontefice massimo, come lo dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare soltanto colla repubblica, allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex sa crorum; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è, che già fin dal periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è opera del re stesso, nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri: « inde foedus ictum inter duces, inter exercitus salutationem factam.] sercizio del pubblico potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle tradizioni giuridiche, politiche, internazionali delle genti e delle tribù, da cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione legislativa, che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma, per trattarsi di città, che risultava dalle confederazioni di genti, che appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il periodo regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum, dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis; ma anche questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati. Di qui la conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato, che può essere preceduto dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato, salvo che egli deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus urbis (2). È quindi vero, che colla creazione del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio, e da esso incomincia quella differenziazione del potere pubblico, che dovrà poi operarsi nella città. 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi nell'imperium regis, indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica, più che l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò, che può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a compiere nella città, che non da una precisa e particolareggiata determinazione del (1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva, mi rimetto a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV, § 2º. (2) Secondo il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 115, sarebbe, valendosi di questo potere, che Giunio Bruto, come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino, quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono distinguere atteggiamenti diversi, che cominciano a diffe renziarsi mediante i vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae. A lui quindi si appartiene di assumere gli au spicii, allorchè trattasi di qualche deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse, cosicchè, già fin da questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia privata. Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri, ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità, se i Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città, e vollero che i consoli, entrando nella medesima, facessero togliere le scuri dai fasci, e facessero abbassare anche questi, allorchè concionavano il popolo, compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la provocatio ad populum fosse tolta di mezzo, allorchè si trattava di mantenere la disciplina dell'esercito; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra. In virtù dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe il duce della fanteria, mentre il tribunus celerum sarebbe quello della cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi: ra duna il senato; amministra giustizia, non nella propria casa, ma all'aperto, in cospetto della cittadinanza; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain, I pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia, e del compito affidato agli auguri. Sulla distinzione fra l'imperium domi e l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit., I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag. 135 e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri, i quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti, in base a un numero determinato, dall'assemblea delle curie. I primi scelti fra i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re; mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio; donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið l'abbiamo in questo, che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres, col numero delle curie; correlazione, che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites, i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere ai pubblici spettacoli (1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto all'opera personale del re. Egli impone tasse, distribuisce terre, costruisce (1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio, I, 35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo, ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato; sebbene siavi chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del senato (Mem. Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii. Può darsi, che la tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte esagerata l'opera personale del re; ma ad ogni modo, quando si consideri che il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii ele menti, che concorrevano alla formazione della città, si dovrà sempre riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a quell'elemento, che era chiamata ad unificarle. Allorchè trattasi della formazione di una città (e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o a quella delle provincie; sarà infine soltanto, allorchè saranno ferme le basi della grandezza dello Stato, che potranno svolgersi largamente il iubere e il constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come quello, che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che furono poscia affidati a magistrature diverse. Nelle forme esteriori può ancora assomigliarsi ad un padre: ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo del popolo (prin ceps), è il duce dell'esercito, e il magistrato della città. Un carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato, quale appare nella costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia, come lo è certamente quello di patres, che fu dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio, che il primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse comune della gente. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un concetto, che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in ciò, che tanto il regis imperium, quanto il iussus populi abbisognassero di un ritegno in quell'autorità, che viene ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età. Di qui conseguita, che la patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità, i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica, che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza, che verrà ad esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che, in base al proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città. Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio, in cui dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo. 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere una fun zione intermedia, ha per sua natura una indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere; così ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un carattere vago ed indeterminato, che dipenderà dall'influenza effettiva e reale, che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica. Possono esservi dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola « si eis videbitur »; al modo stesso, che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza, contro cui non sia consentito di appellare. Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato, pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe, abbia potuto, senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi; (1) Parmi di trovar espresso questo concetto, a proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II, 8. 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai decreti di un principe, al cui arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio, occorre un magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era quella della compilazione del censo, cambiasi poi in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato, e nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico della plebe; finchè da ultimo il potere tribunizio, che continua pur sempre ad essere circondato dal favor popolare, mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di esso, e quanto è l'appoggio, che esso trova nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa, in uno scopo di difesa, siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa nell'istituzione del senato. Potere consultivo nelle proprie origini trovò opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii senatusconsulti in leggi; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un ' autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento, questo è certo che tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di Roma. Festo anzi ci attesta, che la nomina attribuita al re era più libera di quella, che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia; il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per entrare nel senato, non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte (1). 208. L'incertezza invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago ed indeterminato, gli autori, e fra gli altri Dionisio, non potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta, dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue funzioni, anche durante il periodo regio, furono essenzialmente con sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore, e quando ad essi viene affidata, almeno secondo Dionisio, la punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui più gravi. Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato, fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli avvisi dati al re, che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati quanto alla propria durata, per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il periodo regio, non abbia potuto esercitare tutta quella influenza, che spiego più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo, V ° Praeteriti senatores (Bruns, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2, 12, 14, il cui testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5. 254 - contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a vita, che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe, la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto, almeno di fatto. Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato, consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte, divenuto così custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica, di cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente patrizio; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre il processo logico, che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine; quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento, che sembra appunto essere il numero adottato per le altre città latine, e per gli stessi municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano (1). Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a chiudersi in sè stessa,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire difficoltà, finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui, che appartenessero alla plebe. Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in guisa tale, che poteva accogliere, senza difficoltà, qualsiasi nuovo elemento. Di più (1) Liv. I, 8; Dion., II, 12; Cic., De Rep., II, 12. Che il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse solitamente di cento, appare da ciò, che essi talvolta erano perfino chiamati centumviri. Cfr. Willems, Le droit public romain, pag. 535. 255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie si possano stabilire. Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento. Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie, che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele, siano in condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio, mediante la cooptatio, e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a costituirle, non fossero ammessi a far parte delle curie. Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia, le curie costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento, e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie: ma, una volta completato questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie. Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso, poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento: così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla composizione simmetrica della città. 210. Come e quando siasi fatta quest'aggiunta, non è bene atte stato. Alcuni, ritenendo che Roma avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses, e gli altri infine dai Luceres: la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco, al quale ap punto si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa spiegazione sarebbe abbastanza verosimile, allorchè non fosse contraddetta dalla tradizione, che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto, allorchè una nuova tribù veniva aggregata, non si comprenderebbe come potesse parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza, che la spiegazione più verosimile del processo, che è stato seguito in questo argomento, sia quella stessa, che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che costituirono Roma primitiva, non potevano essere tali da offrire il numero di trecento senatori, e Livio ci dice appunto, che il numero del senato primitivo fu di cento, per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città esclusivamente patrizia, contribuirono ad un forte aumento del patriziato romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba, in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già notato altrove, più che una vera e propria scon fitta, deve piuttosto essere considerato comeuna specie diduello giu diziario, a cui si rimisero i due popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella circostanza infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la république romaine, Paris, 1878, I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du Sénat romain, Paris, 1883, pag. 43 e 55; i quali pure accennano alle diverse opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi Sabini. De Rep., II, 8. (3 ) V. sopra, lib. I, Cap. VIII, nº 144. 257 tradizione narra, che la parte povera della popolazione latina entrò a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto, che così accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era, che i capi di queste genti dovessero essere ammessi nel senato, il che non avrebbe potuto essere fatto, senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero simile il supporlo; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare espressamente alle proporzioni di tale aumento, attestano però che esso dovette aver luogo. Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali cittadini d'Alba; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia; e di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un contributo dal nuovo popolo. Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel patriziato e nel senato all'epoca di Tullo, in occasione della distruzione di Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a trecento, il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero, che il secondo centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense; ma ciò non può essere ammesso, in quanto che l'ordinamento politico della città, per opera di Romolo, era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù, come lo dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro nome dalle donne sabine; inoltre, cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212. Quanto all'ultimo aumento, la tradizione e concorde nell'attri (1) LIV., I, 30; Dion., III, 29. (2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres legit »; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant ». (3) PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice III, pag. 645 a 672. G. CARLE, Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato. Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta, il qual numero non può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane: ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio, siano rimaste tutto questo tempo senza rappresentanti nel se nato. Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali, a suo avviso, deriverebbero il proprio nome da Lucer, che in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius (1); ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes, ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica, che dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza; il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti, da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di origine Etrusca, come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio, che non la leggenda di Tanaquilla, comemaiTarquinio, appena giunto a Roma, abbia potuto avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare e da ottenere colle (1) PANTALEONI, op. cit., pag. 660. (2 ) L'opinione di VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio, in Aen., V, ove scrive: « nam constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem contra Titum Tatium, a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde quidam venit cum exercitu; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est ». Del resto anche Livio, I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la dignità regia. Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente romano, che è quello di porre come primi quelli, che veramente sono tali, e quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium; quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza. È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il proprio avviso; al modo stesso, che anche più tardi nei co mizii centuriati erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu, e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu. Cid dimostra, che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in appli care il principio: « prior in tempore, potior in iure ». 213. Le genti insomma, che, a nostro avviso, si vennero ag giungendo, escono da quelle stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele, che già potevano avere in Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a trecento; il quale, essendo in correlazione con quello delle curie, non ebbe ad essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero. D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a rinchiudersi in sè stessa, e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata, all'avvenire della sua città. Bene è vero, che si verifica ancora più tardi la cooptazione della gente Claudia: ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato, perchè bisognasse aumentarne il numero, e poi trattavasi di una gente soltanto, la quale, per quanto numerosa, non poteva occupare tanti seggi nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi, che si concilii più facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro. La medesima intanto ci prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo, il quale all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non sarebbero stati tolti dalle genti patrizie; e cid fra gli altri attribuiscono allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum gentium, denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il quale consi derava come un suo privilegio la gentilità. A ciò si aggiunge, che in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non erano ancora ammessi a far parte delle curie. Ritengo quindi in proposito, che l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini, sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella, che l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie; poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione (1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera: Le Sénat de la République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain, pag. 46, sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes, ma furono scelti fra i magistrati, uscenti di ufficio: ne consegui per una naturale evoluzione di cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi per nascita, poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto. Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già pervenute al ius imaginum, e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia, poterono perfino entrare a far parte delle curie; le quali, se avevano perduta ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro, che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano desiderare di apparire loro eguali, anche nella no biltà di origine. § 6. – I comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente patrizia, appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale, che può quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose; ciò però non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi, allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro comparire essi hanno un carattere religioso, militare e politico ad anche nel senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300, come quello, che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota, che egli attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo (1). Essi, nella costituzione politica della città, corrispondono all'assemblea patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo, per accordarsi con esso intorno alle cose, che possono interes sare la comunanza. In questo però le curie già differiscono da quella, che non comprendono tutta la popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica. Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza, alla vita pubblica le varie tribù, la cui confederazione è concorsa a formare le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris, asta, che sa rebbe stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante; nè l'etimologia può dirsi inverosimile, quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue (3). Altri invece, fra i (1) Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata, è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING, L'esprit du droit romain, $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V, 32: « comitia curiata, qui rem militarem continent », e da un altro di Cicerone, De lege agraria, II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata, non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare: poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia. Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia, come lo dimostra la nomina dell'interrex, la quale viene ad essere loro affidata, in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei primitivi auspicia, e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions romaines, Paris, 1886, pag. 6 e 7, e il BourgeaUD, Le plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, pag. 39. (3) Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, pag. 617. 263 quali, il Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium, città sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso, con cui sarebbero indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites, più che l'origine, sembra indicare l'ufficio, il compito, a cui essi sono chia mati di fronte alla città, poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire il vocabolo da ciò, che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere, che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia, esprime pur sempre il medesimo concetto, poichè è la lancia, che è il simbolo del potere di chi appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia, che sono i membri delle curie. I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali, in quanto hanno partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica, mentre nei rapporti esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra corrispondere, sotto un certo aspetto, a quella indicata coi vocaboli domi, militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones. In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro; intervenire i patres, quali moderatori del populus; e tenersi anche orazioni (conciones), le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai personaggi della loro storia, dovettero però essere ispirate alle circostanze, in (1) NIEBAUR, Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero, che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites: « Quirites autem, dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum, comunionem et societatem populi factam indicant ». (2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 29. Inering, L'esprit du droit ro main, 1, $ 20, pag. 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata curia. 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium (1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta; ma allorchè il periodo delle trattative è finito, più non occorre che una interrogazione ed una risposta, so lenni, ed allora: « quod lingua nuncupassit, ita ius esto ». È in questo senso soltanto, che deve essere inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio, che ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro (2 ). 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si palesasse favorevole, o non alla delibera zione, che si stava per prendere; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto alla distinzione fra comitium e contio, vedi il KARLOWA, Röm. R. G. I, pag. 49. È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di Paolo Diacono: « Contio significat conventum; non tamen alium, quam eum, qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur ». Ciò pur conferma Liv., 39, 15. (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v. fra i recenti Karlowa, Röm. R.G., pag. 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il carattere del populus primitivo; il quale, composto di capi di famiglia e di persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º, parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse l'impor tanza del proprio uffizio. Da una parte eravi il re o magistrato, che, dopo aver premessa la formola: quod bonum felis, etc., invitava il popolo (rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta fattagli colla formola: velitis, iubeatis, quirites; e dall'altra vi erano i membri delle curie, che rispondevano affermando (uti rogas), o negando (antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende dal voto complessivo delle curie; nel che abbiamo un indizio del vincolo potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva, ma quello dei gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla stessa organizzazione gentilizia, in cui non si può comprendere l'in dividuo, che aggregandolo ad un gruppo; ma dall'altra dovette anche condurre alla disciplina del voto. I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza; disciplina questa, che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria, e la tribů. Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un augurio (omen ); donde la denominazione di curia principium, che viene ad essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione stessa delle delibera zioni comiziali. sono 219. Sopratutto poi importa determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati; il che riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato. Secondo Dio nisio, il quale talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra; sarebbe essa, che conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes, mediante la cooptatio; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia, ben poche sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere determinato da una costituzione scritta; ma deve ri guardarsi come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo; è esso infine, che già avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo dimostra la provocatio ad populum, che si fa rimontare all'epoca dei primi re, e si sarebbe dispiegata, secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio, uccisore della propria sorella. 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie; la quale, sotto un certo aspetto, è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle famiglie, e del loro culto, e sotto un altro aspetto è una riunione di carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di Giano, protettore della città, deve avere lo sguardo rivolto in due opposte direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della tribù, (1) DION., 2, 14, scrive in proposito: « populo vero haec tria concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset ». (2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione gentilizia, e deve curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso; dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi suprema lex esto ». Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le cose attinenti al pubblico interesse, sonvi i comitia ca lata, convocati dal pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia. Nei primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il magistrato; si assolvono o condannano coloro, che appellarono al popolo. Nei secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso, i quiriti si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines; come pure è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo l'organizzazione gentilizia, e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo culto, per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum, che è la rinuncia al proprio culto gentilizio, per causa di adrogatio o di transitio ad plebem; come pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio: cooptativ, che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a costituirla. È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum, che vien detto appunto in calatis comitiis; il quale, secondo il concetto delle genti patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello, che alterava le norme relative alla successione genti lizia, e quelle riferentisi alla trasmessione dei sacra. Cid è provato dal fatto, attestatoci da Cicerone, che il ius pontificium, nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità; donde l'espressione popolare, che occorre soventi nei comici latini, di haereditas sine - 268 sacris, per significare un vantaggio conseguito senza i pesi inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista, sotto cui debbono, a parer mio, essere considerati i comitia calata, ci spiega quel carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma, il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di disporre delle proprie cose per testamento; dal l'altra vuole, che i testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo, e li ritiene come relativi ad argomenti di diritto pubblico. Gli autori vollero spiegare la cosa con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e coll'approvazione del po polo. Riterrei invece, che in questa istituzione dei comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e il loro culto, e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza, che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia: quindi questi atti continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica, ma ancora i sacra privata. Quindi conviene ammettere, che le curie non prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che viene ad essere provato dalla formola, conserva taci da Aulo Gellio, relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio, Noc. Att.. XV, 28 e 3, il quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla ripartizione dei sacra, in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. (2) Vedi libro I, cap. IV, $ 4, nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio, Noc. Att., V, 19. Ivi si dice che a adrogatio per rogationem populi fit », ed è riportata la formola, che è quella della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis, iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita vos, quirites, rogo ». 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban donerà così presto. Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte all'anno, più non dovette approvare il te stamento, ma solo prestare la propria testimonianza. Ciò è dimostrato dal fatto, che il testamento in calatis comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram, in cui i quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium mihi perhi bitote). Intanto però, anche quando l'adrogatio e il testamentum furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia dell'antico stato di cose nel concetto, ricordatoci da Papiniano, secondo cui la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora degno di nota, che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero perfino questa competenza, per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano l'organizzazione gentilizia, e sopratutto, quanto all'adrogatio. Questa fu praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio, i quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie, seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della assemblea delle curie; ma (1) Papin., L. 4, Dig. (28, 1). La conclusione sarebbe questa, che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia dell'antica organizzazione gentilizia. Tale carattere poi in parte avrebbe cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i quali, secondo Gaio, Comm., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione periodica dimostra, che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria testimonianza. Fu questo il motivo, per cui il testamento in calatis comitiis potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram, ove i quiriti si riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm., II, 103. 270 credo opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del diritto pri vato; premettendo però fin d'ora, che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle curie (1 ). $ 7. Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma. 222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del carattere speciale della primitiva assemblea curiata: ma intanto per scoprire certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate, quando non fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità, ritengo opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad epoche compiutamente di verse, ma che intanto funzionano contemporaneamente. Ciò è vero sopratutto per quello, che si riferisce ai comizii. Roma patrizia, e forse anche Roma, durante tutto il periodo regio, non conosce altra assemblea del popolo, che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus romanus quiritium, di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium, già inteso in senso più largo, che è la centuriata. Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento, che non partecipava al culto gentilizio, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e (1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo stesso libro, cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico. Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa, dirimpetto alla centuriata, un' assemblea di patres, perchè com prende coloro, che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti pa trizie, continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto, a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de imperio, sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della loro im portanza, e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora regolarmente: ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento, che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius honorum. È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato, poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto cui si organizza, che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi, quanto all'auctoritas patrum, questo stesso capitolo, § 3º, n° 198, pag. 240 e seg. colle note relative. 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali dapprima hanno più un'esistenza di fatto, che non di diritto: ma che intanto, fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e politica fra la plebe e il patriziato. Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio. Proibirli è impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole, che ogni sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che ha per sè il numero e la forza, e che, ricorrendo ad una secessio, potrebbe mettere a repentaglio l'avvenire della città (1). L'unico partito pertanto, che rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta, è quello di riconoscere queste riunioni e di farle entrare, per quanto sia possibile, nei quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i concilia plebis in comitia tributa: in comizii, cioè, che comprendano eziandio tutto il popolo, ma non più in base al censo, come l'assemblea delle centurie, ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana. È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il quale, nel 283 U. C., dopo lunghe lotte, ottiene che la plebe possa nominarsi i suoi tribuni nei proprii comizii; ma con ciò questi non possono ancora prendere che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere obbligatorii per essa. Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti obbli ghino anche il patriziato, il che si opera per mezzo delle leggi Va leria -Orazia, Publilia e Ortensia; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per tutto il popolo, segnano però, come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto, pacionem, quam volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die Tafeln, I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n. 12. Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio, 39, 15: « ubicumque multitudo esset, ibi et legitimum rectorem multitudinis, censebant maiores debere esse »; ed è questo forse il motivo, per cui i concilia plebis cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex, i varii stadii, per cui passò la risoluzione del gravissimo problema (1). 224. Giungesi cosi ad un periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie, si riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme, che sappiamo essere state introdotte, senza saperne precisare il come ed il quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea tributa, più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso, cioè la nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè serbare intatto il proprio carattere primitivo; ma poscia la fusione sempre maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la dignità sacerdotale di curio maximus; al modo stesso, che i pochi discendenti delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa, e poterono essere presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti; quelli serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio, fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1) Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se guente § 2º, n ° 232 e seg. dove si discorre del concetto romano di lex. Quanto alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag. 593, ove parla dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia, a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso, e i concilia plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo col patriziato, e nei quali continuano a nominarsi le magistrature esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota, che la trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe, diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente. Questo è il solito processo, seguito dai Romani, nello svolgimento delle proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico, che a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad un tempo, e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella compagine romana non scomparirà, se prima non siasi ricavato da esso in profondità ed estensione tutto ciò, che contenga di vigoroso e di vitale. Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a costituirla, importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito, come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine, III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis), avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in comitium tributum. Il Mommsen invece (Römische For schungen, Berlin, 1864, I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee tribute: l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta, ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente plebeo, quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero potere legisla tivo, elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa, i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 57 a 76; Karlowa, Röm. R. G., pag. 118; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris. La primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere generale della medesima. e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia, si presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica, recò nella medesima il movimento e la vita, rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia, la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero eziandio, che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo rac colto nelle curie, si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro, di cui uno pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto, mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza. Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza, e quando ciò si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia. Essa è un vero organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la propria funzione: ma che tutte intanto si suppongono e si completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere al popolo, ma questo non potrebbe esercitarla, se 276 non fosse posto in azione dall'imperium del magistrato; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium, e dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni della costituzione siano considerati nel loro movimento; poichè mentre ciascun aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune, senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione politica di Roma ha fatto dire a Polibio, che essa appariva mo narchica, aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere (1); ma se altri poi la consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi caratteri ad un tempo. L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi potestas sono altrettante concezioni logiche, destinate col tempo a ricevere tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi; donde l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio, la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse, in quanto che tale intercessio, o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio, Histor., lib. VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione, come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain, pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse, pud  damentale della costituzione primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo, ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia, secondo che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale. Intanto quando trattasi della res publica, ossia di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio contributo. È infatti almagistrato (rex, interrex, tribunus celerum, praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il senato; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche proposta; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace. E invece al senato, che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio avviso al magistrato, o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente pericolo, « ne res publica detrimenti capiat »; e l'auctor fieri, se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex, sotto la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto compiuto, cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di quegli atti, che, per propria natura, interessano l'intiera comunanza, quali sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato, e l'amministra zione della giustizia; dai quali poi discendono le tre manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum, alla rogatio, ed al senatus consultum, il quale, se colpito dall'intercessio, non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum, perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op. cit., (1) Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del diritto romanu col titolo: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di Roma, Torino, 1886, pag. 13. pag. 317. 278 del potere sovrano nella città antica, che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti, che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico, che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2. Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum. 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si presenta questo vocabolo. Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più individui in una stessa volontà, e viene così, fin dagli esordii, a distinguersi in lex privata, che significa una convenzione od una norma, che altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex mancipii, lex testamenti), ed in les publica, che significa la volontà collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui. Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di convenzione o di contratto, quello di lex publica continua ancora ad avere una estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi delibera zione solenne del popolo. Parlasi infatti di una lex belli indicendi, foederis ineundi, coloniae deducendae, agri adsignandi e simili; e fino a un certo punto la nomina stessa del magistrato, o almeno il conferimento dell'imperium, spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge. Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue così da qualsiasi de liberazione, relativa ad una persona o ad un fatto particolare (1). Ciò (1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato dell'accordo di tutti gli organi dello Stato, viene ad essere una communis reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata; donde la conseguenza, che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum. È in questa guisa, che vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione: ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di più volontà in un medesimo intento. Tale significazione sembra pure essere indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo, la quale perciò non indica tanto la forma scritta, assunta dalla legge, come vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex, secondo il primitivo concetto romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali, e la reverenza e il culto, di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo. Di qui alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza, che la forza obbligatoria della legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con ciò si vuol dire, che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso, e impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas. Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro, lasciando perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per i contraenti ». (1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere, suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66: leges, quae lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie, non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym. latin, vº lego, che il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex. Così si potrà anche compren dere la lex privata, la quale certo non pud essere derivata da ciò, che i contratti fossero scritti; ma da cid, che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym., vº lex. Un passo, in cui il vocabolo « legere » prende questa an tica e larga significazione, è il seguente di Virgilio: Iura, magistratusque legunt, sanctumque senatum. (Aen., I, v. 431). - 280 vece, che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex romana (1). Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli auspicii; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto, che assume la forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit); come pure il concorso nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città, deve essere considerata come una « communis rei publicae sponsio ». Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina; ma il popolo già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici: « lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante, iubet atque con stituit », può già essere applicata alla legge, durante il periodo regio; salvo che in questa definizione più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia. Vero è, che più tardi il patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni importanza politica; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di accrescerne la importanza. 230. Intanto questo carattere, eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine federale della città, ed anche la necessità, secondo il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del diritto primitivo (1) V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité antique, liv. III, chap. XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 91 e segg. Quest'ultimo nega il carattere contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno consentito; ma egli è evidente, che l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò a far parte della comunanza politica. Allora infatti venne ad essere necessità, che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres; donde la conseguenza, che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta dal magistrato, votata dal popolo, e poscia ancora approvata non solo dal senato, ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas, ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa, perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del patriziato; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca, in cui erano già scomparse e l'una e l'altra (1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio diventò assai più difficile, allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag giungersi eziandio il plebiscitum, che costituiva in certo modo una lex inauspicata. Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo, perchè è l'opera soltanto di una parte di esso; e quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di forzare la mano al senato. In questa condizione di cose viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa, allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo. È in questa occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre leggi ad epoca diversa, il cui contenuto, conservatoci dagli scrittori, sembra essere identico (ut plebiscita (1) V. sopra capitolo II, § 3, n ° 198, pag. 240 e segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent); ma che intanto sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione. La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio, essere supe rata, quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello Stato. 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia, dell'anno 304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 ); ma ancorchè la legge nol dica, questo è certo che, secondo il concetto informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere, allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse (1) Così si esprime il Soltau, die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin, 1888, pag. 107. La bibliografia sulla questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris, 1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi dere tale opinione, poichè vi fu un tempo, in cui la differenza fra plebiscito e legge si ridusse unicamente alla persona diversa, che ne prendeva l'iniziativa, secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato. Vero è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i patrizii;ma il motivo, per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent »,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati, e quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio, III, 55, come proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen, I, pag. 164-5 ). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta, sia perchè tutti i giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum: tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale. 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento, che potesse obbligare tutto il popolo; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a plebisciti, come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora. Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da essa desiderato. Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate, ripete in un altro l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa, perchè in virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della plebe, sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per ottenere, che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233. Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente a quella di senatus auctoritas. Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit., pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite, pag. 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione: Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia », Torino, 1884, pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di Livio, III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta. Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò, che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, pag. 240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento, finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio, uscito dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la stessa formola; ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che « inter plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem eadem esset (1) ». Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per vincere questa legge; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso, non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra dicale di questa. Con essa infatti l'antico concetto di lex, quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito; in quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici dello Stato; poichè d'allora in poi anche un solo elemento, la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo. Strappo più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia: ma tentasi ancora di rimarginarlo nel senso, che fu da questo tempo probabilmente, che la nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie, e che il patriziato antico si valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù. Da questo momento il senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2, 8, Dig. (1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive: « pro legibus placuit et ea plebiscita observari », e aggiunge al $ 12: « plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum », con che accen nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio, Comm., I, 3: « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin., Instit., I, 2: « sed et plebi scita, lege Hortensia lata, non minus valere, quam leges, coeperunt ». Lo stesso confermano Aulo Gellio, Noc. Att., X, 20 e XV, 27; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15, 10. — Cfr. ORTOLAN, Histoire de la législation romaine, pag. 161, n. 178 et suiv. e il Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore, ed attivo nell'organizzazione dello Stato. Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae, o di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis: ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri populum teneri » viene ad essere condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica inerente all'istituzione del senato, poichè questo ha influenza suffi ciente per far valere la propria pretesa. Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse »; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito (2 ). Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno impunemente: cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e sopratutto quelli del pretore,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum, che viene poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig, L'État romain, I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap. III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus der Institutionen). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex, e di aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli organi politici dello Stato. (2 ) ULP., L. 8, Dig. (1, 3 ). 286 grande, perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli elementi costitutivi dello Stato; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa. È per questo motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa, durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati preposti all'ammini strazione della giustizia, si mutano in certo modo in legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano pur sempre a procedere sulle traccie antiche; così l'edificio non solo potrà mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e grandioso, quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato, che, per salvare un edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni cosa nelle mani di un solo, la cui volontà, in base ad una apparente investi tura del popolo, legis habet vigorem (1). Questo sguardo allo svolgimento storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi, deve essermi per donato; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento. (1) Ulp., L. 1, Dig. (1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem; utpote quum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per tal modo la lex, che era un tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai l'opera di un solo; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente di ogni potere sia il popolo; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in Roma sembra essere compendiato da POMPONIO, allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo: « Ita in civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit; aut sunt legis actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum; aut est magistratuum edictum, unde ius hono rarium nascitur; aut senatus consultum, quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege servetur », L. 2, 12, Dig. (1, 2). 287 $ 3.- L'elezione del rex, l'interregnum, e la lex curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva costituzione pa trizia, consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia, nè l'imperium, indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto, che spiega, come, morto il re, auspicia ad patres re deant; è questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora gli auspicia, proporre il proprio successore; è questo infine, che può somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione dell'interregnum, non che la procedura solenne per l'elezione del re, che, introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite elucubrazioni. 236. Un recente autore, il Bouchè Leclercq, ebbe a scorgere nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re, « un capo lavoro di casuistica, in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani » (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova del loro acume teologico e giuridico. Parmi invece assai più semplice e più verosimile il ri tenere, che i romani, in questo, come in altri casi, non si compiac ciano nella creazione di formalità, come tali, ma intendano piuttosto a conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti, che accompagnano l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re, come alcuni vorrebbero: ma provano sol tanto, che i romani avevano altissimo il concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa, che prima avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886, pag. 15. 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al l'elezione del magistrato, per trattarsi dell'atto forse più importante per la comunanza, dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato. Ciò stante, anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale, che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche considerarsi come un indizio, che in un anteriore periodo di orga nizzazione sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano ritornare, allorchè il re veniva a mancare. 237. Per conchiudere, questa istituzione dell' interregnum, ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata anche essa come un naturale processo, che dovette spontaneamente formarsi in una comunanza primitiva, uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia: processo, che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio, formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle tradizioni del passato, era na turale, che, mancando il capo comune, il suo potere religioso, civile e militare dovesse passare al padre più anziano della più antica decuria del senato, e da questa trasmettersi successivamente ai principes delle altre decurie, che venivano dopo, in base all'an zianità, accið non venisse ad essere offeso il senso geloso, che i capi di famiglia avevano della propria uguaglianza, e non potesse neppur nascere il timore, che uno di essi « regni occupandi consilium iniret ». Era naturale parimenti, che la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza, che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto esclusivamente di membri delle genti patrizie. Maturata così la proposta, è l'interrè, che deve farla; le curie, che debbono approvarla; la presa degli auspicii, che deve inaugurarla; e infine fra l'eletto e la comunanza deve intervenire quella specie di con venzione e di accordo, che avverasi mediante la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo, e dall'altro vincola quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro, che concorrevano alla formazione di essa. 238. Ad ogni modo il caso, di cui ci fu serbata memoria parti colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium, agitano il partito se non fosse il caso di non più nominare il re: ma di lasciare, che il potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta la vita. Il partito non prevale fra il popolo, il quale non ama di avere cento capi, a vece di un solo, e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina. È l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create: deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio, che è descritta in modo particolare da Livio; e viene ultima la proposta della lex curiata de imperio, la quale, non ri cordata da Livio, è invece ricordata e ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re, quasi ad indicare l'importanza, che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio, che questta procedura, che egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio farebbe già rimontare allo stesso Romolo, non è stata abbandonata più tardi: « hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta », cioè esclusa la violenza, a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re (1) (1) Livio, I, XVII; Cic. De Rep., II, 13, 17, 18, 20; Dion., II, 57; PLUTARCO, Numa, 2. Di fronte a queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro; essa deve essere l'opera di tutti gli organi dello Stato, ed assume un carattere pressochè contrattuale fra magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta; quindi è l'antecessore, che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono aboliti. Tuttavia, anche in questa parte, l'accoglimento della plebe nel populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva costituzione; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il periodo regio, l'interres era uno dei patres del senato, ai quali redibant auspicia. Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei; del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di patres et conscripti. Comunque stia la cosa, questo è certo, che il senato, divenuto patrizio -plebeo, non poteva più rappresentare gli antichi patres o patricii, che erano stati i fondatori della città, e ai quali redibant auspicia. Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano ritornare gli auspicia. Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex, come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum », « patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto, secondo certe regole tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199, pag. 244, in nota, consentire col Karlowa, Röm. R.G., pag. 52 e 82 e segg., il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto colla costituzione di Servio Tullio. 291 interregem produnt» e simili, e ciò perchè l'interrex, facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia, durante il periodo della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est » (1). Come sia accaduto questo cambiamento, se cioè per legge o per il logico sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico, che governo tale modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti riconoscono la strettissima attinenza, che sono la patru patriciorum auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la proposta dell'interrex, accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti, durante la vacanza del magistrato. Tutte queste istituzioni non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres sunt»; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato, nè un interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato, senza l'intervento dell'ordine patrizio, il quale, di fronte al nuovo popolo, corrispondeva ai patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci afferma Cicerone che « curiata comitia, tantum auspiciorum causa, remanserunt », come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per XXX lictores) (2 ). Intanto però, anche coll' introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat); il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat); il senato, che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit); e da ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio, per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14. (2) CICERO, De lege agraria, II, 11, 27 e 28. 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano, non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi (1) Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur, seguìta anche dal Becker, Röm. Alterth., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public romain, pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex; sonvi il Rubino, e fra i recenti il Karlowa, Röm. R.G., I, p. 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex. Vi banno infine quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Romu (Rivista di Filologia, Torino, 1884, pag. 297 a 395). Se guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana. 293 cato (1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie, che è l'interrex; così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori; di quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del l'opposizione, che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano pro-magistrati nelle pro vincie. Per noi la cosa può sembrare singolare: ma pei romani era un processo regolare e costante, in quanto che essi, al modo stesso che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella città, così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie, prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX, 41, il quale dice, che i tribuni furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del patriziato; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, pag. 593 e segg. Non parmi tuttavia, che si possa far rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa, poichè i tribuni della plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa è una prova, che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi; mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma (1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio. § 4. – L'amministrazione della giustizia, la distinzione fra ius e iudicium, e la provocatio ad populum nel periodo regio. 241. Per quello che si attiene all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione fondamentale, intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale, apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il senato ed il popolo. Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e la criminale, sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti, come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio, e delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores parricidii e duumviri perduellionis ) (2). Senza pretendere di volere risolvere le gravissime questioni, che si agitano in proposito, mi limito unicamente ad osservare, che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio, sono: la potestà di giudicare, che appartiene al re; la distin zione fra il ius e il iudicium, per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i iudices, gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i quaestores in materia crimi nale; e da ultimo l'istituto della provocatio, che col tempo sarà quello, che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi, che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle provincie. Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor. introd., Sect. 15, pag. 59. 295 - sintetica del regis imperium, sebbene non esista ancora la sepa razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium, è cosa a parer mio chenon può essere posta in dubbio. Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo (1 ). Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto, che sembra essere general mente adottato, secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto. Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città, e dell'imperium regis. Almodo stesso, che la ci vitas non assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie, ma è dovuta ad una specie di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali; così anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza, che negli esordii dovette per lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio. Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica, che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla. Questo concetto consiste in cid, che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi, in quanto sono quiriti, cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica. Quindi il re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle offese tutte, che possono patire i membri di esse; ma è il custos urbis, ed è incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae, che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica, a cui addivennero le varie comunanze. Nel resto continuano ad essere competenti i singoli padri e capi di famiglia, V. Maynz, Introd. au cours de droit romain, n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio, come lo dimostra, fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private, che la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia, potranno tuttavia produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della giustizia, così civile come penale, fra il ius ed il iudicium. Sono note le discussioni, che seguirono in proposito, e non mancarono anche coloro, che attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora, fra il diritto ed il fatto: cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto, mentre il giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto. Una simile distinzione non si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur ius;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi formando la città, che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze patriarcali. L'effetto, che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà quello di produrre, fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz, op. cit., n. 20, pag. 60, e MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 187: « Magistri (scrive Festo, po magisterare), non solum doctores artium, sed etiam pagoram, societatum, vicorum, collegiorum, equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V, n ° 88, pag. 109 e nota relativa. (2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845, vol. I, § 29. Cfr. Carle, De exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5. 297 custode della città. Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta un'accusa od una controversia, consisterà nel decidere, se il fatto, del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico, che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto, del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica, che debba essere applicata. Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella, e sarà trascinato innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam, o se trattisi invece di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica. Ed è questa appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio, il quale, secondo Livio: « concilio populi advocato: duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació » (1). Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere, se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica, e se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la legge. Solo allora il magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam: oppure più tardi, allorchè vi sarà una speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia, questa pubblicherà nel proprio editto quali siano i casi particolari, in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto, che, secondo il diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione; ma soltanto si deve dire, che il diritto in Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere la questione, se in quel caso determinato dovesse, o non, essere accordata l'azione. Spettava quindi al magistrato (in iure) di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere: ma, una volta decisa affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio, si ricava, che la questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317. 298 il proprio ufficio, e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii, o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale, od anche ad un iudex e perfino ai recuperatores, se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato. Questo è certo, che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici; ed è anzi probabile, che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori; come lo dimostra la testimonianza di Dionisio, ed anche il fatto, che fu così anche dopo, e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio, che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium; come ap pare dal fatto, che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum exercebat ». Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile, sembra che il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana, alla quale puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei centumuiri, come si vedrà a suo tempo. 244. Intanto è sempre dal modo, in cui la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che dovette essere seguita negli esordiidella città, così nei giudizii civili come nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza, che deve essere amministrata giustizia, come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa (2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II, 14, che dice parlando del re: « de gravioribus delictis ipse cognosceret; leviora senatoribus committeret; donde si può inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., pag. 54. (2 ) Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un misfatto, sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa, e se si tratterà invece diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già si era formata nella stessa tribù patriarcale: mentre un tempo essa era il modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della tribù, venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità, che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium, che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una giurisdizione pubblica, accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem publicam, conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un arbiter per la risoluzione della controversia; donde l'antica de nominazione della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in ciò, che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di procedura, senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di famiglia, pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una medesima città, hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate legis actiones, in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era (1) Quanto all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib. I, n. 104. (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm. IV, § 12, sebbene poi il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag. 197, e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad populum. Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra, di fronte alla testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire, che della provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi (1 ). Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio, ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad populum, accordata da Tullo « clemente legis interprete », parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto di provocatio ad populum, che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore. Si aggiunge, come appare dalle cose premesse, che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto, che non posteriormente, allorchè il populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo, e della plebe; di una classe dirigente e di una classe, che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva, secondo cui la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium, veniva ad essere naturale e logico, che se il ius dicere apparteneva al re, il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la provocatio. Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio « duumviri perduellionem iudicent: si a duumviris provocarit, provocatione certato ». Era poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio, venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento (1) Cic., De Rep., II, 35: « Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant nostri etiam augurales », 301 legale, che viene appunto ad essere descritto da Livio, a proposito del giudizio dell'Orazio, in quanto che ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di reato di carattere politico, quale era la perduellio, poteva anche passare sopra alla questione puramente giuridica, per giudicare invece ex animi sententia, e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio, «admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto, il quale fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano (unicum praesidium libertatis); ma allora le circostanze erano cambiate, perchè il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs, e quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse solo consuetudinaria, a tutto il nuovo populus quiritium, comprendendo in esso anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa istituzione della provocatio ad populum, solennemente consacrata, doveva esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale, in quanto che essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo. Tuttavia anche qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo interrotto, allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai concilia plebis. Fu (1) Liv., I, 26. (2) Non potrei quindi ammettere l'opinione del KarlowA, Röm. R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum, vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium. 302 allora, che la legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare una condanna capitale (1 ). Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa, sopratutto per i delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali, e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di delitti (2 ). Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva costituzione patrizia; ma di aver provato eziandio, come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare, sovra cui si foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva, che la costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot saeculis et aetatibus », era tuttavia riuscita superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità: nam, dice lo stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset; neque cuncta in genia, conlata in unum, tantum posse uno tempore providere, ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate (3). Veniamo ora alle leges regiae. (1) Cic., De leg. 3, 4: « De capite civis nisi per maximum comitiatum ne fe runto », disposizione questa, attribuita alla legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia plebis. (2 ) Cfr. Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris, 1886, pag. 71 et suiv. (3 ) Cic., De Rep., II, 1. La legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio. $ 1. - Del contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa, era naturale, che, anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente, che col partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo proposito, un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla figliuolanza; la manus ed il potere del marito sulla moglie; il concetto per cui  « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi il diritto, sarebbe dovuto all'influenza latina: « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio, il riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si sarebbe sentita che ad una data più recente;ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamente negarsi, che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto appare come una verosimile congettura, quale del resto è annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle primitive istitu zioni: e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia, con tutta la reverenza all'opinione di un insigne, crederei che questa ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata, neppure come ipotesi e congettura, perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero. 248. Non credo anzitutto, che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da quella stirpe. In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine, Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina, la quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi organica e coerente, che non può essere riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re, senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si aggiungono, il re potrà sce (1) MUIRHEAD, Historical introduction to the private law of Rome, Edinburgh. 1886, pag. 4. (2 ) In questa parte divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro « che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche ». A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e diedero il proprio nome alle città, ma che posero eziandio quelle linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4, pag. 54. Questa opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham, Encyclopedia Britannica, XX, vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già attribuite allo stesso Romolo; nè tutto ciò, che si riferisce all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem (1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2). Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca, poichè, se stiamo alla tradizione, questo cerimoniale esteriore rimonta alla fondazione stessa della città, e quindi sarebbe anteriore all'epoca, in cui, secondo il Muirhead, si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un privilegio di questa o di quella stirpe; ma sono comuni a tutti i popoli, che attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo strato, una causa naturale in ciò, che in questa condizione di cose, gli atti ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di gruppo, acquistano una solennità, che ora direbbesi internazionale, la quale si conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica. Infine non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al concetto, che il diritto scaturisce dalla forza, debba considerarsi come di provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus quiritium (1) Dion. II, 25 (BRUNS, Fontes, pag. 6 ). (2) Che questo sia un carattere comune a tutti i popoli, che trovansi nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe, nelle varie opere sue, e di recente dal Leist, Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lib. I e II, seguendo le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente) nelle sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono; come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es., la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali appariscono non meno amiche della forza, e fino anche della prepotenza, di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle singole affermazioni del Muirhead, che io qui intendo di fare; ma piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire, che, trattandosi di genti, che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel medesimo stadio di organizzazione sociale, le istituzioni fondamentali del di ritto privato, salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui prevaleva il carattere religioso; tutte compievano i loro atti con solennità e cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione sociale; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia, e gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare con certezza, dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo, chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio. La stirpe tuttavia, che diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che erano già possedute dalle varie genti, fu anche, quanto al diritto privato, la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città; il che punto non tolse, che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il concetto della divinità, patrona comune della città, e si ammettessero man mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover affermare, che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma, appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui Roma ebbe la sua prima origine. Per verità, anche prima della fondazione di Roma, le popolazioni latine erano quelle, che avevano già mag giormente svolto il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive, e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni degli altri popoli. Ciò è tanto vero, che nella storia primitiva di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato, e più tardi, quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso; l'elemento sabino fu quello, che, essendo ancora più tena cemente vincolato nell'organizzazione gentilizia, si dimostrò il più esclusivo e il meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo essere stato il primo a modellare la città, entrò anche dopo in copia maggiore a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe operosa e battagliera, che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co munanze italiche, combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro civiltà; mentre quanto ad Alba, la considerò come sua madre patria, e anzichè estinguerla e soffocarla, dopo averla vinta, pre feri di accoglierne il patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima, continuando quel processo nell'organizzazione sociale, che da essa erasi iniziato. Fra Roma da una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra, vi fu pressochè una guerra di sterminio, sopratutto fra le due prime, mentre fra Roma e il Lazio vi fu soltanto una lotta di precedenza; perchè due città foggiate sullo stesso modello, come Roma ed Alba, non potevano coesistere l'una in prossimità dell'altra (1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione, da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ. e costituz. di Roma, I, nei primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume, avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi, nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca. Anche questi nuovi studii mi confermano nella conclusione: che l'organizzazione gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della formazione di Roma, la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere la sua teoria, devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso, egli sia fra gli autori re centi uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla formazione del diritto Romano, dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti alle stirpi latina, sabina ed etrusca, ed è ancora questo il concetto, che egli pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna dovesse recare il proprio contributo, anche alla formazione di un comune diritto, e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte, che a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero, che alcune volte egli si trova imbarazzato del fatto, che il diritto quiritario primitivo si presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche primitiva, e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta, come ho cercato di dimostrare, che Roma è una città formata sul modello della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo, costituisce dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio, in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le genti Claudia e Fabia: che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al concetto della città federale; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta alla città, che potrebbe chiamarsi corpora tiva. Roma partì dal tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione: poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una città unificata; ma serbò tuttavia anche in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. Tale difficoltà occorre al MUIRHEAD, per esempio, allorchè a pag. 50 parla del. l'opinione di coloro, che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili, ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra duata, così della città, come del suo diritto civile e criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. sarà facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica, sia poi venuta lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi. tiva, che essa aveva data al suo diritto. Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato; nè, conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa. § 2. Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo regio.Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella, che, ci verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti, dopo aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di regia, e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze, in cui continuavasi la vita domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale: quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento, ed è questo appunto, che dovette compiersi durante il periodo regio. Ne ripugna il credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato, come le genti, che fondavano la città, erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del di ritto: ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella selezione ed unificazione legislativa, che era il più urgente bisogno per una città, che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città, che l'uomo o meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria famiglia o gente, e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re, senato, sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee, allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come eguali nella città, do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus, malgrado la loro ori gine diversa: e quindi non è punto probabile, che essi abbiano dovuto mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto, che doveva governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera legislativa, che era una con seguenza inevitabile della formazione della città (1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN, Die Quellen des röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg., in un'epoca, in cui tutta la storia primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op. cit., pag. 309; il KARLOWA, Röm. R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., pag. 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste sopratutto nella nota espressione di Livio: « vocata ad concilium multitudine, quae coalescere in populi unius corpus, nulla re, praeterquam legibus, poterat, iura dedit ». Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza, formata da persone, che poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re, padri, pontefici, auguri e popolo fossero continui, e che perciò potesse anche formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò, che potesse esservi di comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia, siano state veramente quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte, e che in tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano per l'età, e la loro disciplina domestica spiegano la solennità, con cui essi votavano nei comizii, e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando; non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in seno ad un popolo, che senti con tanta energia la vita pubblica, e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella vita pub blica, quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre, come lo dimostra fra gli altri Aulo GELLIO, XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita « quae, tribunis plebis ferentibus, accepta sunt». Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare, si comprende che egli potesse iura dare; mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima città. La loro caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole guerriera, ma piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico. La qualità, che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà pertinace, costante, e fra le facoltà intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica, che si corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza, che tanto nella politica, quanto nel diritto,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio edificio. Roma nella storia dell'umanità rap presenta, per cosi esprimersi, un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo gentilizio, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale l'elemento giuridico e politico, e questa selezione e questo isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso; ma essi non si trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità, che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa benevola con determinati riti, doveva condurre il popolo romano ad insperata grandezza. Si aggiunge, che questa carattere religioso, finchè Roma fu esclusivamente patrizia, era co mune a tutti i membri del populus, i quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che con ducesse al risultato, a cui si giunse in Oriente, di fare preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il giuridico. Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma esclusivamente patrizia, in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza. In questo secondo periodo infatti il populus viene a comprendere due classi: l'una, poco numerosa, ricca di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche; e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza, ma che è nuova alla vita civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato, il quale se ne vale per tenere in rispetto e in riverenza le masse. È solo allora che il diritto, le cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e della elaborazione di esso; mentre quest'arcano e questa segretezza non poterono certo esi stere negli esordii della città, allorchè la conoscenza del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1). Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella, che suole generalmente essergli assegnata; ma per riuscire in qualche modo a determinarla, importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto. l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera: « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale », pag. 92, n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains dans la religion. 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla formazione del diritto primitivo.  La caratteristica di Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata, cosi anche la re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei culti e delle credenze proprie delle varie genti; ma fu an ch'essa il risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico, il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto, che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore, l'altro il fondatore stesso della città, e l'ultimo infine sembra talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio. Questo concentrasi dapprima nello stesso re, il quale è augure sommo e pontefice massimo; ma poscia il re stesso, pur conservando gli auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali, i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito esclusivamente religioso,ma anche una vera importanza civile e politica. Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio, compiono ad un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle tra (1) La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca, ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni, che in Grecia furono lasciate ai poeti, i quali in antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale, in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali, i cui membri sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile e politica, e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive, a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare, così sembrano pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un posto facevasi vacante, il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio, mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio. Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali, essi erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano concorse alla formazione della città; e potevano col re, che era il loro capo, contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo. Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù, ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium, di fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere considerato (1). (1) Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera. Esso quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente privato; sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit.,pag. 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, pag. 323-24. 316 257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii privati: come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati (1). È indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales, in cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza, e senza voler penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro, egli è certo, che essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica, che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del templum, ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse spaziare la vista, per modo che gli auspizii potessero essere osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia, il quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico interesse (3).Era poinaturale, che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 ) Ciò è attestato da Cicer., De div., I, 16, 28. — Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta in senso così largo, da com. prendere non solo l'avium inspectio (donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde l'aruspicium. Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito il PANTALEONI, Storia civ. e cost., appendice III, relativa ai Luceres. (3 ) Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag. 119. 317 sivamente patrizia, erano i custodi di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente, allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie. La loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum auctoritate coniunctum », e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono il loro avviso sulla osservanza del rito, con cui siansi tenuti i co mizi, solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso. 259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del ius foeciale; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il fatto, che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio, ed era comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio, ed ora ad Anco Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato. Quello dei due popoli, che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di naturale formazione, durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis, che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII, pag. 139 a 166. 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano il porco, che sacrificavano; anzi con tanta più forza, quanto era la forza di lui » (1). Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo; mentre i feziali sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere civile e politico, e potranno talora essere chiamati a decidere delle questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca, nè almerito delle cause di guerra, ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura (2). I feziali sono in numero di venti; riempiono i posti vacanti, mediante la cooptatio; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus nel proprio seno; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio; indica lo stadio più pro gredito, a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù; dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole componimento, prima di addivenire alla guerra; ed è una prova di più, che i fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della parola, ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza civile e politica (3 ). 260. È poi probabile, e l'ho dimostrato a suo tempo, che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città, il (1) Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79. (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal FusiNATO, Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può forse essere un indizio, che il diritto feziale, comune ancora ai Latini e ai Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina, già si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli, che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra l'amicitia, l'hospitium,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla politica dei Tarquinii, che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo, che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla tradizione attribuita a Romolo, e in ciò presenta un carattere del tutto opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene. Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum, la concessione della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium, singolare istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra, e partecipando alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare dall'istituzione, graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ). Intanto però anche qui è (1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib. I, Cap. VII, nº 118. (2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di Tarquinio il Superbo: « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat, ui peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset; neque hospitia modo cum primoribus eorum, sed adfinitates quoque iungebat ». (3) Inteso in questa guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema stesso, che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra, Lib. I, Cap. VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel repubblicano al senato, il quale, essendo un consesso permanente ed accogliendo nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio, poteva mantenere quella continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio, come il collegio dei feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre genti, non abbia avuta l'influenza effettiva, che appartenne agli auguri e ai pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1). 261.Non vi ha poi dubbio, che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città patrizia è, senza alcun contrasto, quello dei pontefici. È questo collegio che riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re, e poscia dal pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in quanto costituisce una famiglia religiosa. Cid appare da questo, che il pontefice massimo, durante la repubblica, e quindi anche il re,nel periodo anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito (2). Il collegio dei pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione religiosa, ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum, compiono i sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da un altro (1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua dissertazione: De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883. (2) Cfr. Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871; Ma nuel des Instit. romaines, pag. 510 a 533. 321 - canto invece il collegio dei ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata, per mezzo dei proprii cala tores. Quindi è pure col suo intervento, che compiesi la cerimonia solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai pontefici coll'intervento di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum, i quali, durante il periodo della città patrizia, dovettero ottenere un ' approvazione analoga a quella, a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola conservataci da Aulo Gellio, relativa all'adrogatio, la quale senza dubbio doveva essere analoga a quella del testamentum. Per verità ho già cercato di dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la superiorità del patriziato, e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni costo. Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra. 262. Tuttavia l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima elaborazione, me diante cui il diritto, che, erasi formato fra le genti e i loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet (1) Questa funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio, I, 20: « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo, turbaretur ». Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma. 21 322 tero essere in questo periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium, e furono in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle varie tribù, ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse. Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei pontefici, presieduto appunto dal re, dovette essere un cooperatore potente di quell'unificazione legislativa, di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale, trattandosi della legislazione di un popolo, i cui componenti prima quasi non conoscevano altra autorità, che quella del fas, che anche questo primitivo diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio. Intanto però in questo periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati esclusivamente dalle genti di origine patrizia, le funzioni del collegio dei pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i sacerdoti del popolo Romano: ma intanto non escono che da una parte di questo populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli auspicia e ad essere la reggi trice della città. Si aggiunge, che il potere religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re, viene poscia attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar sempre più al diritto un'aureola religiosa; sebbene sia vero che questa se parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione del ius sacrum dal ius civile. Intanto però, cosi l'uno come l'altro sono conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum ), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la legislazione decemvirale, durante il quale sono i pontefici, che compiono quell'elaborazione giuridica, che sarebbe stata impossibile permagistrati annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse. Sipud quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici; cosa del resto, che è concordemente attestata da Pomponio, da Valerio Massimo, da Cicerone e da altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1). Di qui la conseguenza, che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi; ma intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium; nè è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro; poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto, essendo una magistratura sacerdotale, erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di questa scienza del diritto, conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti, molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del diritto pontificale, sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di diritto sacro; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza, mentre quella, che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur (1) Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della Repubblica, è attestata da VALERIO Massimo, II, 5; Livio, IX, 46; Cic., pro Mu rena, 11; De legibus, II, 8, 9; De oratore, III, 33. I passi relativi sono raccolti dal Rivier, Introd. histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome, come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare come il primo giureconsulto di origine plebea, furono pontefici massimi, o quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium, come appare ad evidenza dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp. anteiustin. quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo, che a misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente restringendosi al ius sacrum, e fu in questa guisa che alla separazione, che già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato, venne poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della repubblica, venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo aspetto doveva dipendere da un'altra classe: il qual concetto ci conduce a combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta, circa quella legislazione, che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae ». § 4. Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra; tanto più se trattisi di un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la storia, senza pur nominarli; anche la legislazione, che era aimedesimi attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di tempi posteriori. Parve che un popolo, il quale era solo chiamato ad ap provare o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN: Die Quellen des römisches Rechts, Leipzig, 1823, trovò uno strenuo oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il contenuto delle leges regiae, mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2, l'opinione del Voigt, se in qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR, dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a molti. Cid si capisce, trattan. dosi di persone educate a tutt'altra scuola; ma intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone appartenenti a genti patrizie, memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza civile e politica. Ciò non potè accadere, come narra Pomponio, finchè Romolo fu solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina; ma dovette divenire indispensabile, allorchè la città, la no mina del suo re, la sua religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi, che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che riguar. davano il comune interesse, di adottare la forma della legge, la quale, elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata dai padri del senato, approvata dalle curie, poteva veramente ritenersi come l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio, allorchè ci dice, che il popolo romano era cosi composto, che « nulla re, nisi legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset ». Era solo a questa condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può costituire un argomento in contrario; perchè il primitivo populus diRoma era composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose, che ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria famiglia. Del resto a voler anche ammettere, che quella parte della legislazione regia, la quale ha un carattere esclusivamente sacro, potesse, fin da quella prima epoca, essere lasciata intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici; egli è però certo, che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al modo stesso, che, secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua parte la procedura relativa alla nomina dei re: ma in man canza di prove in contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano alcun motivo di alterare le cose, e cono scendo il carattere del popolo, osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa primitiva condizione di cose, la maggior parte dei rapporti giuridici abbia continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume, dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento, che doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e politica. Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium, che cominciava a sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus et necessitate exigente »; cosi esso non potè formarsi di un tratto, nè essere fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine, limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore: ma il fatto stesso, per cui essi erano trapiantati in terreno diverso, dovette far sì, che essi mutassero  carattere. 266. Se intanto potesse essere lecito anche solo tentare di rico struire il processo, con cui dovette formarsi il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla formazione progres siva della città, crederei di poter rich iamarlo alle seguenti leggi fondamentali: (1) Liv., I, 8. - 327 l• Un primo effetto di questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti venivano ad essere cittadini della medesima città, dovette esser quello di far trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte nevano ai iura gentium, diventarono proprii del ius quiritium; cosicchè il commercium, il connubium, l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro capi, diventarono rapporti fra i quiriti; donde la spiegazione di quelle solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire, poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido, e cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius quiritium. Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium, nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia. Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure l'actio sacramento, che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti, nel seno delle tribù, potè conver tirsi in una procedura fra quiriti, e siccome eravi un magistrato, a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si manteneva distinto dall'iudicium, così fu naturale, che accanto all'actio sacra mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328 consistere in ciò, che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo staccate dall'ambiente, in cui si erano formate, si trovarono libere dai vincoli, in cui prima erano trattenute, e poterono cosi ricevere tutto lo svolgimento, a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta; e potè così essere sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli incombono come cit tadino; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus) attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia (pater familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose; come creditore può appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto astrazione da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le quali perciò diventarono istituzioni tipiche, e poterono essere portate dapertutto, perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu mediante questo processo; che i Romani poterono essere per il diritto ciò, che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla prima formazione della propria città, e continuarono sempre ad applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che può essere intuito, ma non insegnato. Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione, per opera di una logica istintiva e naturale, sentita universalmente da un popolo, che mi rava diritto al proprio scopo, e che, poste le premesse, sapeva deri varne le conseguenze. 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù, ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci pervenuta nelle sue fattezze genuine: ma che intanto non merita punto di essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori (1). Essa porta in sè un'impronta efficace di verità, in quanto che si presenta con un carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia, e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5. – La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia. È evidente, che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia, che viene ad essere portato nel seno della città. Ma intanto separata dall'orga nizzazione gentilizia, in cui erasi formata, e dalla quale era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise, da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi. Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo, e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice, che Romolo avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito: « uxorem, quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica, che tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva, anche nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum ». Noi ab biamo qui il matrimonio primitivo, esclusivamente patrizio, accom pagnato da una cerimonia religiosa; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù primitiva; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico. È al marito, che appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte: ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico, il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia (1). Il vincolo matrimoniale, stretto coll'intervento della religione, è per per sua natura indissolubile, in quanto che non potrebbe compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso. Di qui una legge, che Dionisio chiama dura, la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito;ma intanto questi può ripudiarla,ma solo per cause determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della prole, la sottrazione delle chiavi e l'adulterio. Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà sacra a Cerere: che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali (2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio; ma le cerimonie religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio; son fissati i casi per il ripudio; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1) Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da Dionisio, II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, pag. 6. (2) Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium, è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium, nel senso vero della parola; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu, e poi si concretò in una istituzione giuridica, che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr. Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit, pag. 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume un carattere più sacro, la quale è cosi concepita: « paelex aram Iunonis ne tangito; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito »: la qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da Festo, secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ), significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna non poteva entrare nella casa, ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice appunto delle giuste nozze; in caso contrario doveva sacrificarsi una piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio, e la facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto; alla qual legge se ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre, che abbia consentito alle nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo. Devono poi i padri educare tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato, nel qual caso deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato; disposizione questa, che richiama ancora le consuetudini proprie della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri chiamarsi quella, attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse estratto il feto: alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta verisomiglianza, quel passo di lex regia, conserva toci da Paolo Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3). (1) Festo, v ° Paelices (Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig, 1876, § 2º, pag. 8. (2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà, sono ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15; II, 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, pag. 7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO, L. 2, Dig. (11, 8): mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta. Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8 13, pag. 75. 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas, in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora, che venga a cattivi trattamenti verso la suocera, mettendo cosi in non cale il rispetto dovuto all'età, incorrono nella capitis sacratio; la quale è pure la pena, in cui incorre il patrono, che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia (1). 270. Per quello poi, che si riferisce alla proprietà, nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima; ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla clientela, e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio, e che in questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata. In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle varie tribù, viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio heredium. Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione quiritaria, e si introduce così la terminazione fra le proprietà private. Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro, sarà soggetto alla capitis sacratio (3 ). (1) Così,ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag. 7, nota 6, una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum, sacer estod; si nurus, sacra divis pa rentum estod. » Per i divi parentum si intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7, pag. 41. (2) Dion., II, 9; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag. 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna, che, trattandosi di genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse, le medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative, elaborate dai pontefici, pro poste dal re, appoggiate dal senato, ed approvate dalle curie. Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente, se si tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae, il quale esce allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola religiosa e sacra. Solo ci resta a vedere quali siano le traccie, che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia, alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia quella parte del suo diritto, dicui giunsero a noi più scarse reliquie, tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica. Anche il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto un'offesa contro la divinità. Chi l'abbia com messo di proposito (dolo sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio bonorum; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia dell'of feso (1). Ciò vuol dire, che il concetto gentilizio del delitto e della (1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che occorra nella legislazione regia, è quella che si desume dalle due leggi attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di peso nel seno della città. Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a cui accennano le leges regiae; in quanto che non parlasi nè del furto,nè dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente, che questi misfatti fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti: ma soltanto, che le leges publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato alla pubblica giurisdizione la repressione di essi; ma avevano continuato a lasciarli alla prosecuzione dell'offeso, che doveva perciò seguire le pratiche tradizionali, formatesi nelle tribù, le quali già avevano ricevuta una consacrazione religiosa (1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati nelle leges regiae, già può introdursi una distinzione; sonovi dei delitti, che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie, comprendendo anche fra questi quello contro la proprietà, consistente nella rimozione dei termini; altri, che sono contro la religione, quale sarebbe l'incesto della Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi crimina publica, in quanto che, fin dagli inizii della città, sonovi autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso, comela capitis sacratio e la consecratio bonorum. Quanto ai reati contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici; giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in questo periodo, avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem ». Bruns, Fontes, pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD, Histor. Introd., pag. 54 a 55. 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della patria potestà, di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un delitto, che da una parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale, nei tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo fino alla morte, e dall'altra si facevano sacrifizii di purificazione per la città. Da questo caso in fuori non trovasi traccia di giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici; nè vi ha motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale (1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico delitto; perchè è con esso, che incomincia l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale. Già ho accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii; ma viene invece estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte alla giurisdizione domestica del capo di famiglia. Qualche cosa di analogo accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità, compariscono coi nomi di parricidium e di perduellio; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum viri perduellionis; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 187. (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26, relativo al fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re, mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de delictis capitalibus quaererent ». 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e all'altro misfatto, donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella, Tito Livio parla invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti; esa minare le opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura; e poi cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico, che dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium, i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium, nello stretto senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di parricidium, il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una legge, secondo cui: « si quis hominem liberum,dolo sciens,morti duit, parricidas esto ». Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa, tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio; quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica, tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio, il quale in questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito questo primitivo giu dizio » (2 ). Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli (1) Dion., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum; Livio, I, 26. (2) Liv., 1, 26; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag. 129 e segg. 337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni omicidio, ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium, ed ora quello di perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota sopratutto le seguenti: quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi, secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium, cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un eguale (2 ); quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi uomo libero (4 ); e da ultimo quella sostenuta, fra gli altri,dalWalter e dal Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, pag. 137, $ 1138. (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae, vol. I, pag. 64, § XI, il quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, « omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova, e fu accolta come osserva il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania. Di recente poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità: Über die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag.57, nota 130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA, Princ. di diritto penale, III, pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione « paricidas esto » significasse « capital esto », cioè condannabile a morte; ma tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte. Casellae, 1839, pag. 433-466; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer. Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux parricidii », letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea: « De parricidii notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna, che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto, che per sua natura sia tale da chiamare la pub blica vendetta, e da eccitare una ripulsione universale (1). 275. Or bene con tutta la riverenza, che deve certo aversi per un autore cosi benemerito degli studii sul diritto primitivo, quale è il Voigt, non ritengo, che possa adottarsi l'opinione da lui seguita, secondo cui parricidium significherebbe il paris excidium. Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica, in quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più, ed è che, mettendo il concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa ricidium, ne verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium, quando un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in condizioni uguali fra di loro; il che certo non può richiedersi. Infine male si comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza, mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono nell'antico diritto, vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze este riori di fatto, come accade dal furtum manifestum, nec manife stum, conceptum, ed oblatum, ed anche della distinzione della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale, o da una concreta ad un astratta, di quello che non accada il contrario. Quanto al fatto, che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal; quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò, che son vi pure (1) Questa opinione enunziata prima dal WALTER, Storia del diritto romano. Trad. BOLLATI, 8 766, vol. II, pag. 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz, Introd., $ 18, 1, pag. 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin: Die perduellio unter der römischen Königen. Tubing, 1841, pag. 10-14. 339 dei codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium. Vero è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa origine del vocabolo; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de parricidiis, siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium, ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela, e che poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino, anche per quella specie di parentela, che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per verità, quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla parola, in quanto che, come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto l'espressione di parentici dium, che non quella di parricidium, in cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre (2 ). Lo stesso è a dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi monianza di Plutarco: singulare est, quod Romulus, cum nullam in parricidas statuerit poenam, omne homicidium appellavit parricidium. Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino, che sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De orig., X, 225, il quale scrisse: « parri cidium et homicidium, quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus pares »; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile all'epoca sua. Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische parricidium. Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit., § 10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for mazione della città, la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è, che soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro, ei due crimini sono perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa; poichè, per formare la figura del parricidium, si riguarda alla persona dell'offeso, mentre, per formare invece quella della per duellio, si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava nemico. Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità; mentre nella per duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva, la quale, trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu. rezza, scorge in esso una somiglianza coi nemici esterni della città, e perciò lo qualifica col nome stesso, che darebbe al nemico, con cui trovisi in aperta ostilità. 278. Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in Roma primitiva, possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si tenga conto, che la città risulto dalla confederazione delle tribù, e che percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù, vennero a trapiantarsi nella città, colla differenza, che quei concetti, che prima erano intergen tilizii, per cosi esprimersi, diventarono invece concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa, per il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato (1) PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium, che quello della perduellio; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa, che queste due figure di reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia, e che il parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia o di una gente: la quale uccisione costituiva l'unico misfatto, che non dipendesse dalla giurisdizione domestica, e che dovette per il primo essere punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di guerra fra le genti; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque partecipasso alla comunanza, tanto più che i partecipi di essa dapprima erano veri padri, e che la perduellio, mentre prima significava le ostilità fra le genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città, poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini. Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia, ma anche altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene cosi ad essere natural mente spiegato ciò, che ci attesta Plutarco: che Romolo, senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato ogni omicidio parricidium: in quanto che quello, che era parri cidio nei rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città; al modo stesso, che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico dell'intiera comunanza, nel seno della città. Solo potrebbe notarsi, che non si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad un'altra: ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad un altro; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis (Bruns, Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium, a misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il vocabolo apparisce disadatto, ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium, potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un figlio o di una figlia. La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato: ma intanto, se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare l'enormezza del delitto. Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso, prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto, dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela, e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale. Fu allora, che il vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un parente e di un congiunto, il che appunto si fece colla legge Pom (1) Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia, che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei quaestores parricidië, e del processo seguito dai Romani nello svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum ». Non sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio, ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine: ma ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile, allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano talora affidate allo stesso magistrato. Cfr. al riguardo il Villems, Le droit public romain, pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia, per il vocabolo di parricidium, alla significazione più ristretta, che esso viene ad assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente giuridica, ma piut tosto oratoria, per cui parricidas viene ad essere chiamato il tradi tore della patria, l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro per l'umanità (1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto, per cui un medesimo de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella, abbia po tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo, che il fatto dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere molto dubbioso. Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera, e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa; ma dall'altra l'uccisione era stata commessa, allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui inflitta, come pena contro coloro, che piangevano la morte di un nemico della patria. L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva operato, come un perduellis, come una persona, che si era posta al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel iudicium, viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per trattarsi di un misfatto, che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua figlia; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude: « duum viros, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem facio ». Dura era la legge relativa al perduelle, in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva avere avvolto il capo, essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER, Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che parla di parricidium patriae, civium, e scrive: « sacrum, sacrove commendatum, qui clepserit rapsitve parricida esto ». Cfr. CARRARA,Op. cit., § 1139. 344 « intra pomoerium vel extra pomoerium ». Il tenore della legge era quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore « colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo, il quale l'assolve in memoria del fatto compiuto, e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene esclamando fra la folla, che la propria figlia era stata iure caesam. Tuttavia l'Orazio, anche assolto, fu costretto a passare sotto il giogo, donde l'erezione del tigillum sororium, e la sua gente, secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza. Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio, che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto, e il sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio involontario (1). 281. Tuttavia, a mio avviso, la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo, che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo conquistato, e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto, di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, pag. 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui sostenuta: « Horatium, quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset, eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur ». Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria; altra prova, che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio, ma in parte anche la pena, con cui essa era punita. Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza, diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis. 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato, ma al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita, che il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato, e quando questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca, che comincia ad apparire la di stinzione fra il reato comune e il reato politico; ed è fin d'allora, che si sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio, diventerà poi fondamentale nella legislazione decemvirale. Intanto le cose premesse bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata, che l'autorità pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione gentilizia, le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa. Di più anche nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore orga uizzazione gentilizia. I concetti del diritto primitivo di Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano di scegliere e di con densare ciò, che hanno appreso nel periodo precedente. Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di diritto pubblico, che di diritto privato. La condizione dei clienti e della plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia, in quanto che si riducono in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento, ed a prendere una nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai clienti, la loro posizione giu ridica, in questo primitivo stadio della città, non viene ancora ad essere modificata, in quanto che essi continuano sempre ad apparte nere più alla gente, che alla città: perciò essi, per quanto si può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio, continuano ad avere gli stessi diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà, ma continuano a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al magistrato della città, ma perciò debbono valersi della protezione e degli uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un gran numero di autori (2 ). Le curie sono (1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si espose intorno alla clientela, nel Lib. I, Cap. III, § 3º, pag. 46 a 52. (2) Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain, pag. 46 e seg. e del PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg., nota 2. Il prof. COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri, il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in condizione subordinata, anche per il semplice motivo, che, quando così fosse stato, il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto, avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi dipendono ancora più dal cenno di esso, di quello che dipendano direttamente dallo Stato. Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana, che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana fu quella, che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio della loro indipendenza politica; donde la conseguenza chemolti fra essi sono poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le pretensioni di essa. 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di Roma primitiva, è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del diritto privato. Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi (1) Che le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati, appare dal seguente passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit; per patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius ». 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa. Essi quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito, cioè inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia, malgrado quest'attestazione concorde, dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo della città patrizia. La loro opinione trovò favorevole accoglimento; ma in questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato, che vi fu un tempo, in cui dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il dubbio, che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie. Che anzi, siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione, vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città. Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle fonti le origini della città, come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una città esclusivamente patrizia, ed alla esclusione della plebe primitiva dal far parte dell'assemblea delle curie (1). 285. Non è qui il caso di entrare in discussioni erudite sull'argo (1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg.; dal LANDUCCI, Storia del diritto romano, pag. 357, nota nº 2; dal Peluam, Encyclop. Britann., vol. XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare, che se la sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera, col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio delle origini, sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò quell'argomento, come può scorgersi quanto alle origini della famiglia, della proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia, donde pro ceda. Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo, che intese a supplirvi colle proprie note. 349 mento; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo, che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile, che la plebs abbia potuto essere ammessa, fin dagli inizii, alla civitas e quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive, perchè un elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un piede di uguaglianza, in guisa da entrare a far parte della civitas e della curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche, erano anche corporazioni strette dal vincolo di una religione, chenon era ancora accomunata alla plebe. È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi fosse mai stato servo nè cliente, potesse diun tratto accettare un voto del tutto eguale con un plebeo, che poteva forse essere stato prima suo cliente o suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti primitive, che non conoscendo altro vincolo, che quello del sangue, dånno sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo del loro ordine colla moltitudine o folla, da cui si trovavano circondati. Questa pa rità, secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am messa dal patriziato, nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il patriziato primitivo, fondatore della città, volesse per generosità accordare spontaneamente cid, che era ancora in condizione di negare, e che non concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile, in quanto che la curia, come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente, da cui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie, la cui importanza non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere possibile più tardi; ma l'ammet terlo fin dagli inizii, è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa corporazione religiosa; mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso, ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle centurie, che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla proprietà e sul censo. Le cause, che cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più tardi anche i liberti; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e il patriziato; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria, che il vocabolo populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può essere facilmente spiegato, in quanto non è questo il solo caso, in cui i Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato. Del resto il vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte le altre concezioni giuridiche e politiche; esso comprendeva l'uni versalità dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe, finchè questa non faceva parte della città, cosi doveva comprenderla, allorchè essa, in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato; il qual compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come il ius quiritium, allorchè giunse al suo completo sviluppo, mentre in tema di diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum, che entrambi, a nostro avviso, furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii. Quanto al primo di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con certezza, che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col patriziato; il che però non significa, che essi non potessero contrarre fra loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii (1). Così avrei ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii (1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte; ma ora il processo logico, che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di ogni informazione diretta, mi conduce ad affermare, che non dovette essere il ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra, è quello stesso diritto, che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium, nella larga significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium, suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede. Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere compiutamente ai loro bisogni: così non poteva dap prima essere il caso, che riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium, ossia quello di avere una proprietà, che poteva essere alienata, e il ius nexi, ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE, Histoir. intér. de Rome, I, pag. 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum. Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse; ma intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad essere riconosciute. Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella città, il nexum ed il mancipium, come accadde anche in tutto il resto, cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le circondava, per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi, apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario furono sostituiti da altri (1). Non può dirsi pertanto, che in questo periodo siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile, ispirato ad un concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere un diritto proprio delle genti patrizie, che parteciparono alla formazione della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium; ed un di ritto che governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda, il quale si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare, che influi potente mente su tutto lo svolgimento, che ebbe ad avverarsi più tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato. (1) Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi nel Lib. I, Cap. X, nº 160, pag. 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui enunziate apparirà anche più evidente, quando si tratterà della costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata memoria. Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co stituire la città, avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo; mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re, nè forse avevano avuto nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di origine latina, la gente Tarquinia, di origine etrusca, ricca di capitali e numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio, ne guadagna per modo la fiducia, da diventare dopo la sua morte tutore dei figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono, mediante il suffragio del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei padri: « eum, scrive Livio, ingenti con sensu populus romanus regnare iussit » (1). Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia, che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della città, e il capo di esse, chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità e di forza, che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche, durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi famiglie, vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una parte, per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei pubblici edifizii, sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca, cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio e il seguito, che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo (3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata, ed il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile, come lo dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii (1) Liv., 1, 34; Dion., IV, 2. (2 ) Müller O., Die Etrusker. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituz.di Roma, pag. 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. (3) L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più sopra, relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib. II, cap. II, § 5, nn. 212 e 213, pag. 258 e segg. 355 Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio, un trattato di navigazione con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi intorno al foro, accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura (2 ). A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di carattere territoriale e locale. Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure sabino Atto Nevio, osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire: lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses, e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres minorum gentium; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i duoviri sacris faciundis, i quali, portati poscia a dieci e più tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale, che sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica, ci fu serbata da POLIBIO, III, 22, 24, il quale l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la cinta, che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv., I, 36; Dion., III, 70, 72. (4 ) Dron., III, 67; IV, 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination, Paris, 1882, IV, pagg. 286-317, come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886, pag. 545 e segg. 356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento, ma in proposito fu giustamente osservato, che la religione, importata da questa immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca, come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1); il che sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca, potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione sarebbe stata Corinto (2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento indispensabile per rafforzare l'esercito, e la cooperazione della plebe urbana era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che coll'ampliarsi della città, anche i quadri del populus dovevano essere allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato, poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città. Fu questa l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio; altro re, che appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero a (1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p. 149. (2) È noto che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da Tarquinia, sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio. (3 ) Quanto all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung. Leipzig, 1884, I, pag. 32 e segg. 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio Tullio: mentre la tradizione latina, unitamente al carattere della sua riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero credere di origine latina, una tradizione invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca, e gli attribuirebbe il nome di Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del principe autore di essa, o alla tenacità del popolo che ebbe a svolgerla, essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione della città. Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio, in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo, in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del censo, finiscono per avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento giuridico e politico. Può darsi, che anche altre città abbiano avuta una costituzione analoga, come, ad esempio, Atene per opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra, che per la tenacità e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo. Ben è vero, che anche per Roma vi fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di tirannide; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed. V, p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia, mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca. Le diverse opinioni degli eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag. 201, nota 14. (2) Quanto alle analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il GROTE, Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV, chap. 4me, pag. 137 a 216, come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica. - 358 al taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi la città. L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento storico fosse ripreso punto stesso, a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto pubblico, ma ancora quella del privato. Fu il non averne tenuto conto sufficiente che, a mio avviso, ha impedito di dare una spiegazione plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che servirono ad attuarla. 291. Fu abbastanza dimostrato, che la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico e coerente; donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia, e appare ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di unire due popolazioni, che si trovavano, come si è veduto, in condizioni sociali compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa comunanza civile, politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di loro. era ancora troppo grande, e certi istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due ordini, erano la proprietà e la famiglia, e il solo inte resse, che li aveva condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro partecipazione alla medesima città: quindi è che la costituzione serviana, sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento, che era escluso dalla città patrizia, finisce però per dare una base più ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica. Mentre il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso, l'organizzazione gentilizia, e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce dalla costituzione di Servio, viene ad essere composto di capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito, e più tardi anche della medesima assemblea, in base alla sola considerazione del censo, e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere paragonata ad una società, in cui ciascuno viene ad aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo, il quale viene così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse, che altri può avere all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare colle curie dei patrizii, ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal censo. In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo novello, che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo, per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente diversa, anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe (2). Essa era tale, che da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale, mentre riteneva ciò, che era esclusivamente suo proprio, trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città, di cui continuava ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa, ancorchè sulla base esclusiva del censo, veniva (1) Che questo fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio, XVI, cap. 10, n ° 11, il quale dice espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides quaedam in ea, firmamentumque erat ». Il paragone poi della comunanza quiritaria, in base alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p. 193. (2 ) Il diverso apprezzamento,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic., De rep., II, 22; Liv., 1, 42, 43; Dion., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto, che quando trattasi di un'aggregazione sociale, il passo più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è certo, per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato più di fatto, che non di diritto; tantoque consensu, quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere per l'incremento della medesima: interesse, che si ritiene dover essere misurato dal censo. Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in classi ed in centurie; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano maestra, dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii, aventi pubblica destinazione e riuniti in un piccolo spazio, a cui mettevano capo le varie comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali comunanze, le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni pri vate. Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del contado; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e frequente, e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno più duraturo in seno alle comunanze di villaggio. La città intanto, chiusa e fortificata nelle proprie mura, difesa da un esercito, il cui contingente viene ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente organizzato, assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce (1) Liv., I, 46. 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine (1). Così pure è da questo momento, che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e a confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano una certa consapevolezza dell'avvenire di essa; poichè il nuovo circuito comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio, il Gianicolo, ma anche l'Esquilino e il Viminale, alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare, che sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi il suo nucleo centrale, ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le campagne e fuori delle mura; cosicchè la città continua sempre ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine invalsa i re sogliono fare alla plebe; il che si gnifica che le famiglie, le genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre (4 ). 294. Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario, che all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia », 1887, fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel passo citato al lib. I, cap. I, nº 10, pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 59 e segg. « L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini della città, e che aperse la via ai suoi futuri progressi o. Op. cit., II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio, IV, 9, allorchè scrive: « agrum publicum di « visit civibus romanis, qui ob rei domesticae difficultates aliis, mercedis causa, ser viebant ». e 362 denza si aggiungesse una nuova ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza, e per fissare il tributo, a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina, Collina e Palatina: mentre le rustiche continuano per la maggior parte a prendere il nome dalle genti patrizie, quali sarebbero l'Emilia, la Cornelia, la Fabia, la Galeria, l'Orazia, la Menenia, Papiria, Pollia, Sergia, Romilia, Voturia, Voltinia, ed altre; solo eccettuata la tribù Crustumina, che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località. Cid indica che nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto, ed anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio, le tribù rustiche comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero, che la ripartizione, anche del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio, che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio conduce alla for mazione di nuove tribù, fino al numero di trentacinque, che poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò, che Roma non abbia fatte nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale, si mutarono cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere (1) Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro tribù urbane, Dionisio, IV, 15, invocando la testimonianza di Fabio, gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di 20 soltanto. Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena. Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca, in cui si vennero aggiungendo le altre tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le droit public romain, pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de Rome, Paris, 1886, p. 71 e segg. 363 ascritti tutti i cittadini romani, senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi (1). 295. Sopratutto poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione del censo; poichè è in proporzione del censo, che vengono ad essere determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente, che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i capi di fa miglia, quelli cioè, che per non essere soggetti a potestà altrui possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia, ancorchè in realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere duplice, cioè comprendere tanto le persone quanto le cose, che da lui dipendono; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e le cose, dipendenti dalla stessa potestà, si presentarono come un tutto indistinto, che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium. Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo, deve dichiarare anzitutto, ex animi sententia, il suo stato civile, cioè il suo nome, il prenome, il nome del padre o del patrono, la tribù a cui trovasi ascritto, l'età, il nome della moglie, il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare eziandio il patrimonio, che a lui ap partiene in proprio; non quello cioè, che appartenga alla sua gente, ma quello che è collocato in suo capo, che gli appartiene ex iure quiritium, che fa parte del suo mancipium, il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb (1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero divisioni di territorio, oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV, 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione di Dionisio, IV, 15, il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù, ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi singuli habitarent »; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio circostante a Roma. Cfr. il Morlot, op. cit., pag. 57 e seg., ove espone le varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle tribù. 364 bono essere valutati nel censo. Sarà poi in base a questo censo, che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto l'aspetto politico, militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette, sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe la lotta per il diritto. Per la città serviana la formazione del censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la determinazione del contributo, che altri deve arrecare alla for mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza. In essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato, e viene ad essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel censo serviano, non è la proprietà gentilizia, che apparteneva al solo pa triziato, ma è la proprietà famigliare e privata, che era la sola, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza, che tutte le altre forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte, cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la circostanza, che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose, che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo. Cid non accadeva già, perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona. Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV, 15, verso il fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag. 2 e quella del Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 5, nota 8, ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 100, nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà quiritaria, che valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di mancipium o di nec mancipium, perchè è solo il primo, che conta nel censo di Servio Tullio, e se il medesimo non giunga ad una certa misura, altri non potrà essere censito, che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune. Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella città, si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè è questo, che gli assicura una posizione giuridica, militare, economica per sè e per i proprii figli, quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum, che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il romano, in un momento storico, in cui la grande opera, a cui si intendeva, era la formazione della ' città. Quando si pensi tuttavia, che trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato, e che questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica, militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo, si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo, a cui esso fu costretto di collocarsi e le con seguenze, che possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto. Ciò spiega intanto l'importanza immensa, che si diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo; le cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio, il quale, secondo la tradizione, ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi); l'opportunità, che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la sola for mazione del censo, e di affidare poscia la formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre superiori in imperio, manessuna che fosse superiore in dignità. Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di famiglia, e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del censo, reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa, e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva, che i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città. 298. Infine è anche il censo, che serve di base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie. Non è già, come alcuni credettero, che coloro, i quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio, « honestior aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit ». Gli uni e gli altri non facevano di regola parte dell'esercito, perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse, che essi avevano a combattere per essa, nè essi avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio. Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva, sia per la sede fissa, ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes) (1). (1) Il criterio, che servì a distinguere i varii ordini di persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e di centurie, ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii, rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen, che questa riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio; e sembra anche corrispondere all'intento, che si propone la comunanza serviana, che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa. Egli è però certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo un esercito, ma tutta la popolazione di una città (1). 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito, di cui venne ad allargarsi la base, in quanto che nella sua composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza, ma unicamente al censo. Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità, e che i capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo « rem saluberrimam tanto futuro imperio, e chiama Servio a conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlacet ». (1) Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom., I, cap. VI, e col Peluam, v° Rome, « Encych. Britann.., XX, pag. 731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con quello delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: «tum classes centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum, vel bello ». 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria, che nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad essere aggruppate in classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere l'urto del nemico. Esse in numero di 80 costituiscono la prima classe. Dopo vengono le centurie della seconda e terza classe, in numero di 20 per ogni classe, le quali sono già meno completamente armate, ma costituiscono con quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20 centurie, reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo. Ciascuno di questi corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli (fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano assegnate. Per quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna classe, il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini dovesse essere valutato in iugeri (1). (1) È abbastanza noto, che il censo per la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo Dionisio; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera, e in de terminare qual fosse il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio, che l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle terre, argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist. rom., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi, cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello della seconda a 15, 369 Intanto però in questa organizzazione militare del populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites. Di queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son determinate dalla na scita, e costituiscono i sex suffragia; poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium, quella cioè, che sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare che, pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri tutta la popolazione della città; trapasso, che non offrirà gravi diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo, che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche entrare in esso un contenuto diverso da quello, che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio; ora importa di vedere lo svolgimento storico, che esse ebbero a ricevere e la con seguente influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della terza a 10, della quarta a 5 iugeri, e quello della quinta a 2 iugeri incirca, ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm. R.G., I, pag. 69-70. Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS, op. cit., pag. 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo, e il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum, Roma, 1888, e del TAMAssia, I Celeres, Bologna, 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites, e la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº 191, pag. 233 e 234. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 - CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può essere posta in dubbio, e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1). Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non vere: ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni serviane, e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette riprenderne lo svolgimento al punto stesso, a cui era stato interrotto. Ad ogni modo se si tenga dietro alla evoluzione storica, quale si rivela negli avvenimenti, si può affermare con certezza, che le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia, combinati perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana. 301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella, in virtù della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus romanus quiritium. Questa espressione (1) NIEBHUR, Histoire romaine, II, pag. 91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838; Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém. de l'Acad. des Inscript. et belles lettres », année 1866, vol. 25, pag. 107 a 223: Herzog, Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig, 1884, I, § 5, pag. 37 a 48; KarlowA, Röm. Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12, 13, pag. 64 a 85. (2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 242. - 371 infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie, venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites, che d'allora in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario (classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del populus romanus quiritium, prendono il nome di patres o di patricii, come già si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli cioè di populus e di plebes; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città, i ritentori degli auspicia e dell'imperium; quello di plebes, che designa l'elemento, stato di recente ammesso nella medesima; e quello infine di populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere col Mommsen, che uno dei significati di populus sia stato quello di leva plebeo-patrizia; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione primi tiva del vocabolo; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano, che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli (1) Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling. lat., VI, 86 a 95, sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes et libram, di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV, § 4 di questo libro. (2) V. sopra, lib. II, nº 198, pag. 240 e seg. e le note relative. (3) È questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X, 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis, omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non insunt », il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm., I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2. 372 uomini validi ed armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia, e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana (1). Questo populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a costituirlo; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di proprietarii di terre, che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto; ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose, che da essi dipendono; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium, che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo (2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale, che anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione col medesimo. E così accade appunto del senato, il quale accompagnando lo svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre, i quali per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres, donde la formola patres et conscripti, finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento, che siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece non accadde del magistrato, poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische Forschungen, I, pag. 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8, colle note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta, anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo; mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un rappresentante imparziale del popolo. Di qui la conseguenza, che anche le lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi essen ziali della costituzione politica, e quindi si trasformano a poco a poco le loro principali funzioni, che, come si è veduto, consistono nella formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della giustizia, tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento, di cui potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale, come già si è accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo, mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia dell'ordo senatorius; abbiamo gli equites, che perdono il carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris, e costituiscono una specie di aristocrazia del censo, (1) V. il cap. IV del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà, la quale, dopo aver lottato coll'an tica, finisce per confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che avesse rag. giunto certi limiti nel censo, il quale, fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee meglio organizzate, che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie. Anch'essi quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato, che li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli auspicia, debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo, fondatore della città; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia, che viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium, il cui voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città, viene il riguardo all'età, in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris 1882, tome 1er, pag. 135 e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto. Viene poscia la considera zione del censo, in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza, senza che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano egualmente; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate, l'esito definitivo dipende dalla maggioranza delle centurie. Qui parimenti si presentano le distinzioni fra comitia e contiones; come pure dovette introdursi eziandio la distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente, perchè erano una semplice imitazione dell'antico, senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2). Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città, continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato, come le leggi Valerie-Orazie, la legislazione decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia; sono essi parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione di quell'imperium, che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad populum, che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie; il che spiega comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE, De leg., III, 19, 44: < descriptus enim populus censu, ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus »; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22. (2) L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie, è attestata espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. (3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi appellazione al popolo, il quale venne cosi ad essere direttamente investito della giurisdizione criminale (1). Intanto si comprende eziandio come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di Servio, con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte; poichè quei clienti, che sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto, allorchè il censo loro assicurò una indipendenza, mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel censo, ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra istituzione ser viana, che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno svolgi mento, che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita. 306. La tribù nella costituzione serviana non era che una ripar tizione locale, fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo, per fare la leva militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli aerarii; quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246, pag. 299 e segg. 377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo, in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo, ciò che è accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro non potrebbe appartenere. Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale; la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca; si tengono perciò nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione politica, finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti, quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando siano convocati da un magistrato, a cui questi appartengano, e sono convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO, Saturnales, I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto P. Rutilio Rufo, parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent ». Husche, Jurisp. antijustin., pag. 11. 378 nome di tribus principium. Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato viritim, e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza delle tribù. Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile convocazione, in quanto che possono essere convocati da magistrati patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti, secondo l'autorità che li propone (1); il che spiega come i comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo periodo della repub blica. Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene (1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224, pag. 273 e segg. e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg. Solo mi limito ad aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti, allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita: « tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit », sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge: « Tribus principium fuit, pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit », il quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così intestata: « T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit; pro tribut Sex... L. F. Virro primus scivit ». Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di plebes e di plebiscitum, ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii: mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un populiscitum, ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato (console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio, che « inter plebiscita et leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset ». L. 2, 8, Dig. 1, 21. pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere legislativo. È a notarsi tuttavia, che mentre la legislazione dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece, che usci dai comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato (1). 308. Si può quindi conchiudere, che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere una base nella realtà, ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale, le centurie di militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa, per quanto la me desima dimori eziandio fuori della città. Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio, al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed istituzioni. Vero è, che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su quelle, che erano prima adoperate; ma conviene dire che « spiritus intus alit », e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e graduata, che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma, sovra il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. (1) Quanto alla legislazione comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto romano, Milano. La costituzione serviana e la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium. 309. Se fu agevole il mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita, ma non meno importante, che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato. A questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio, che egli pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti; che egli distinse i giudizii pubblici dai privati; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse eziandio nel diritto privato. Tut tavia è certo, che le mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti, in cui esse venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato, e che possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et libram, i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium, la distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV, 9, 11, attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore; ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza, che fa riportare a Servio tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione del primitivo diritto. Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce, quando siansi collocati nel sito, ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere del popolo, le sue istituzioni politiche, il suo metodo di serbare i vocaboli, cambiandone anche il contenuto, ed il criterio informatore della riforma serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso. 310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di porre innanzi a questo proposito una congettura, la quale a prima giunta potrà apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che, procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto, finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus romanus quiritium, che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta, così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria elaborazione di quel ius quiritium, che fu ilnucleo primitivo di tutto il diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo svolgimento, non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana. Non si vuole già dire con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium; ma quelli non comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle istituzioni di carattere gen tilizio, che erano proprie del popolo delle curie, e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1). Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia, dalla quale risulta che la famiglia, la proprietà, il delitto e le pede continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag. 329 e segg. 382 Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie, prendono il nome di quirites, così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium, in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore, da cui esse erano circondate, ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati ai rapporti, che erano l'effetto della nuova condizione di cose. Si conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di terre; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario; quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli, che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da cui era circondata, vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius quiritium, comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium, di commercium e di actio, che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) (1); così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium, venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario. Fu in questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra, che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum, del manci pium, della manus iniectio (2). 311. Si aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche (1) Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326 e segg. (2 ) Cfr. a questo proposito ciò, che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383 a risentirsi delle circostanze sociali, in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo, che servi ad isolare l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere diverso con cui trovasi confuso. Il diritto perdette cosi alquanto del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o sintetico sul concetto del mio e del tuo; esso inoltre assunse un'im pronta di rigidezza pressochè militare, quale poteva convenire ad un popolo, che presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano l'asta come simbolo del proprio diritto, e « ma xime sua esse credebant, quae ab hostibus caepissent ». Il censo viene in certo modo a misurare il contributo, che ciascuno reca in questa specie di società, e quindi, mentre esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico, facendo astrazione da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate. Per tal modo il quirite, come tale, non è più nè patrizio nè plebeo, ma viene ad essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii; si considera come un caput; conta come uno nel censo, e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose, che da esso dipendono. Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di proprietà, che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium, e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche, che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere considerato (1). (1) Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del proprietario sopra una cosa; ma siccome persone e cose figuravano nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o della stessa familia. 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione, ma la medesima risulta da diverse circostanze, le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen, che una delle significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata quella di indicare la « leva patrizio plebea », leva che ha cominciato appunto ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium, di iura gentilitatis, di ius gentilicium, che dovevano essere ancora frequenti durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di ius quiritium, e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium. Cosi pure non vi ha dubbio, che le altre forme di proprietà non vengono più tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium, che vedremo a suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium, quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune: come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad essere l'emblema del diritto quiritario, che il populus assunse un carattere essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium, tribunale essenzialmente quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta, che si infiggeva davanti al medesimo (3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1) MOMMSEN, Röm. Forschungen, I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del concetto di mancipium, e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV, cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3) L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla. Per ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo: « festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quod maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent; unde in centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur ». Parmi infatti di scorgervi un nesso, se non storico, almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò, che conquisterà sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista, sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii giuridici, che potevano essere in uso, venne facendosi la scelta di quelli, che si riferissero direttamente al diritto quiritario. Di qui le espressioni di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia, di negozii, che si com pievano secundum legem publicam, espressioni tutte, che noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento storico, in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria. 313. Per verità basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile: lº di determinare quali fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio, che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium ); 3º di determinare le forme pubbliche cium. Ora se vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra, questa è certamente l'epoca serviana; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto informatore dell'hasta, della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale iudicium, che deve essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag. 168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK, Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag. 131 a 139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una prova diretta, che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia. È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota, e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta appunto all'epoca serviana. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura, che debba essere di preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale iudicium ). Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana; ma si può almeno affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua il carattere quiritario, e come queste acquistino un carattere prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi distinto dal nec mancipium; come l'espressione pressochè militare di mancipium sia sottentrata a quella gentilizia di heredium; come diversi siano i modi per la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali; come i diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine, poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto quiritario, e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico, che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus quiritium. Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi, che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da certi concetti, come quelli del nexum, del mancipium, della manus iniectio, che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore. 314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa singolare formazione del ius quiritium, che doveva poi eser citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima fra esse è la costituzione serviana, in virtù della quale all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella, in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre. Siccome infatti la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza. Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo, che al punto di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie, che si frapponevano fra la famiglia ed il popolo, quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel patriziato; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della parola, in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose. Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere essenzialmente militare. Quella distinzione pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio, ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi differenze, era quello della comune difesa, e forse anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium, al culto gentilizio, agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato: quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere mercantile, quale era appunto l'atto per aes et libram, il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista, a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo, che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i capi di famiglia come altrettanti capita, ed il complesso dei loro diritti come un manci pium, ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in questa guisa, che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva essere applicata quella iuris ratio, elaborazione propria del genio romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi affini. Fu questo il processo, mediante cui il diritto potè essere sottoposto a quella logica astratta, per cui le per sone perdono in certa guisa ogni personalità concreta e diventano dei capita; le fattispecie si riducono ad una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più rigida, più esclusiva, fu certamente l'epoca serviana, perchè in essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo, quale sa rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più, ed è che senza un'astrazione di questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì, che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa, che nel suo genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà, ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti, le cui linee son dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente, che ci rende così difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo proposito sono altamente persuaso, che questa dialettica non può essere sorpresa che alle origini del diritto quiritario. Posteriormente infatti il numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio, mentre la sintesi primitiva del diritto quiritario, le cause che ne determina rono la formazione, e la logica, che ebbe a governarla, possono facil mente somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo. Lo studio di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e conclusione del presente lavoro. Per ora intanto, onde non essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso, credo opportuno di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la legislazione decemvirale. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione serviana, non impediscono, che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale, sovra cui potè misurarsi col patriziato, ed una assemblea, in cui potè impegnare la lotta. Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un aspetto, tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito, nei comizii centuriati, nei tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei sacerdozii, e nel diritto (1 )? Finchè durd il regno di Servio Tullo, la lotta non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era nello spi rito della costituzione da lui introdotta. Egli quindi rinnovo a più riprese il censo; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti; concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo; distinse i giudizii pubblici e privati; institui giudici privati per la decisione delle controversie di minore impor tanza, e probabilmente eziandio la Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della parola, e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori (2). Fu in tal le que (1) ARISTOTELES, Politica, ed. Bekker. Lib. V, pagg. 1301 e 1302. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE, De rep., I, 49, allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit conditio civium? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in eadem republica ». Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno stabile assetto; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse civitatis statum putant ». (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion., IV, 22, 4, 10, 13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto, che egli avrebbe dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius (1). Dopo Servio così il patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune, che fu il tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato, non curandosi di convocare il senato, nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti (2). – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori della costituzione serviana: sosta forse più appa rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo. Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad essere naturale, che l'evoluzione si ripigliasse, ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio Tullo, e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a vita, il consolato, magistrato duplice ed (1) « Patricius vicus, scrive Festo, dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus opprimerentur ». Bruns, Fontes, ed. V, pag. 351. (2) Dion., IV, 25; Liv., I, 49. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv., I, 60; Dion., V, 2. 392 annuo (1). Il potere pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio, colla sola differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile, in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum, o rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro. Che anzi, ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro, tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore, e nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum, conservando il concetto ed il vo cabolo, che erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano; per guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1) Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion., IV, 72-75; in CiceR., De rep., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla repubblica, mentre prima era il re stesso, che era il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p. 8 e 9; e il Willems, Le droit public romain, pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium, comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso, che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa, continuarono ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex, la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia. 393 mentre le magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo (1). È in questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le basi fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia (2), come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città, e consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una lotta, che direbbesi un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per ottenere concessioni novelle. Egli è durante questa lotta, che già si pud scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata, la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli (1) La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia, parte da un'unità e sintesi potente, a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale,mentre è determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di imperium. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 5; Herzog, Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg., e ciò che si disse in proposito al nn. 201-204, pag. 245 e segg. (2) La diversità di trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv., II, 21, 6 e da Sallustio, Hist. fragm., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza, che prima era adoperata. Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum, che Livio chiama « unicum libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla lex Valeria, proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245, pag. 300 e 301. >> 394 onori, e la plebe povera e minuta, che sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii, e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza, accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di questa lotta, che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo, cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del magistrato, finisce per riuscire ad una proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo conflitto, che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo, anche di natura diversa, e cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale, che ha governato la formazione della città; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera, e cercano persino di dare aime desimi quella consacrazione religiosa, che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria coesistenza nella città, minaccia di abban donare la comunanza e di fermare altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una sola, cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini; ma essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora dall'arbitrio del magistrato, ora (1) Questa distinzione della plebe in due parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Rep. Rom., pag. 24. (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam, la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta ». Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti, che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma. Cic., De domo, 20, 53. Festo, vº Satura. Cfr. WILLEMS, op. cit., pag. 184. (3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig, 1883. 395 dalla ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto, ed ora infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal modo quella plebe, che memore dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita, si contenta di chie. dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e politico, ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe, ma piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto privato. È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in proposito, sono del tutto contradditorie. Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia, e che tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima (3). Non vi è quindi altro modo di uscire dalla difficoltà, che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi. (1) Un riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta, fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd., part. II, sect. 17, pag. 83-88. Per un racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a 217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri 233-34, p. 271 e segg.; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg.; e dei tribuni della plebe n ° 249, pag. 292 e seg. (3 ) Dion., V, 2; Pomp., Leg. 2, § 3 (Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto, che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel campo politico, dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia. Di più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium, comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere mercantile, che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes et libram. Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù, rimonti all'epoca di Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione del jus qui ritium, come quello che anche più tardi appare chiamato a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le questioni di stato (2 ). Infine è (1) Quanto all'istituzione dei centumviri e alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo precedente, nº 312, pag. 384, nota 3. (2) È del tutto incerta anche l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio, III, 55, il quale parla di iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig, 1888, pag. 139 a 151, sostiene che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato. Cic., pro Caec., 33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller, Il processo civile romano (Traduz. Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a Servio Tullio, come giudici per le cause 397 pur probabile, che gli edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle fiere, e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia, lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica, come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium, come di una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile (1). Intanto è naturale, che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium, che erasi iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa, che in questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno a quel diritto, che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg. colle note relative. Si occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm. R. G., 1, $ 43, pag. 219 e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm. Literatur, Leipzig, 1882, SS 70-76, pag. 114 a 119. 398 il console, chiamato ad amministrare la giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio, il che doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio, poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò, che essi chiamavano col nome di diritto e di legge (1). Fu solo nell'anno dopo, che d'accordo coi colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli chiese che la legge, così pubblica come privata, dovesse essere codificata, e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa. L'importanza della questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale. Qui non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in questi ultimi tempi (2): mi basterà invece dir qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia, che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il periodo del ius non scriptum, di quel diritto cioè, che viveva più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum, poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo, del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt, già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero delle leggi scritte: ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il periodo del ius non aequum, ossia di un diritto disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum, ossia la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto, il che gli autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam libertatem (1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso indirizzo, in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato; dei quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima città (2 ). Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata, nè rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta, il che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla Pomponio, L. 2, § 5, dig. 1-2. Quanto ai caratteri particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING, Esprit du droit romain, III, pag. 142 e segg. (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus, summis infimisque iura aequasse ». Di quianche l'espres sione, che occorre in Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi iuris, ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi, non furono il frutto di una sorpresa, ma di una vera transazione ed accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER, Introd. Histor., Bruxelles, 1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 7 e note relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio, III, 31 attribuisce ai tribuni della plebe: « finem tamen certaminum facerent. Si plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae libertatis essent, sinerent creari ». Di qui rica vasi anche un argomento per inferire, che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più oltre. 400 blico, e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il creditore può usare contro il debitore (1). Cid spiega anche in parte la sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale, la quale, senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica, lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze, di cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano eziandio la venerazione e la riverenza, in cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei proprii dettati, ha finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale, consiste in questo, che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto, esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano. In esse infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie, il che si avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In esse parimente (1) Così, ad esempio, la legge secondo cui a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra, fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic., de leg., 19, 44. (2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum, del mancipium, del testamentum, senza che occorra di indicarne il contenuto. (3) Se prestiamo fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava, e procurarsi invece una posizione di diritto; come lo dimostra fra le altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius quiritium, che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum, del mancipium, del testamentum, dell'atto per aes et libram, nei quali tutti il quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in certo modo a convertirsi in legge: « uti lingua nuncupassit ita ius esto » (2 ). 322. Questi varii elementi di origine diversa, che insieme ad alcune disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg., e sopratutto a pag. 184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg., cap. IV, § 3, trattando della mancipatio cum fiducia. (2) V. cap. precedente, relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium. (3) V. Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole. Milano, 1884. Non può qui essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza, che le basi fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine ariana, o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina; mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria superiorità in tema di diritto. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 10 a 16, dove pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono all'argomento. Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto, pag. 179 a 194. 1. CARLE, Le origini del diritto di Roma, 26 402 formarono il substratum della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium civium romanorum, in cui continuarono però a perdurare le primitive istituzioni del ius quiritium. Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di Pomponio, se condo cui tutto quel diritto, che venne a formarsi sulla legislazione decemvirale, mediante la iuris interpretatio, la disputatio fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato, havvene una parte, che continua sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto al ius quiritium, iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium, elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium (2 ). Parmi quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale, e comincia il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato, già procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo. È a questo punto pertanto, che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium, che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia del tentativo. (1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit. Leipzig, 1886. (2 ) POMP., Leg. 2, SS 5 e 6, Dig. (1-2). LIBRO IV. Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione pressochè universalmente adottata, che il primitivo diritto di Roma porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata, determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del ius quiritium, nel momento in cui per opera della costituzione serviana comincio ad essere comune alle due classi, mi conduce a conclusioni alquanto diverse. Questo ius quiritium, se nei vocaboli può ancora portare le traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium, e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche oltre gli stretti confini del ius quiritium. Il motivo è questo, che anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata iniziata; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza logica di fatti, che si avverarono nel principio della formazione, e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata. 404 - che potevano accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento giuridico da tutti gli altri punti di vista, sotto cui i fatti sociali ed umani possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace; i suoi concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche, in cui esso si manifesta; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si trasportano da uno ad un altro negozio giuridico; la coerenza organica delle sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica, di cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a vocaboli tolti dalle scienze fisiche, chimiche e naturali, perché è soltanto nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e coerente, che anche un giureconsulto, preparato da una lunga edu cazione giuridica, stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale, guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte giuridica, che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi, di cui esso si vale; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica astratta, che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii atteggiamenti, sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite, in quanto si considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche, deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero della parola. Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale soltanto, che egli conta nel censo serviano, ed è come tale eziandio, che esso si presenta nel primitivo ius quiritium. Esso inoltre è anche un'astrazione sotto un altro aspetto, in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto, e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza, e in quanto è tale, gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose; come credi tore può anche appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo, se concorra con altri creditori; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa, come il magistrato del proprio imperium, ed in allora si cercherà di porre dei limiti al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come testatore, come padrone; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium, è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce limitazione di sorta. Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro, cosicchè, quale padre di famiglia, esso apparisce come un proprietario, e per essere proprietario deve essere un capo famiglia; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1). (1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 10 e 11, note 5 e 6, ove son citati varii passi da cui risulta, che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium, il quale talvolta è preso in significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero, cittadino, in dipendente nel seno della famiglia. Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte persone ad un tempo: cosicchè anche la proprietà, che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia, sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città. Esso ha impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà, sotto il punto di vista giuridico e politico, non hanno confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato. Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento storico, in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli schiavi, quello del marito sulla moglie, quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere ripudiate, nel fatto non conoscevano il divorzio; che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium, di cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da Gellio, secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò però non toglie, che il vocabolo familia significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium, e delle sue varie significazioni. (1) La causa di questo contrasto tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta in evidenza al cap. 1, § 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94, pag. 119. 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del quirite. Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, se per una parte fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente astrazione giuridica, compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non diverso da quello, che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà, che a lui apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo, in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite, che è soldato ed agricoltore, capo di famiglia e proprietario, individuo e capo gruppo, il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà, e sono due ruderi dell'organizzazione gentilizia, nel senso vero e proprio della parola, salvo che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia, quali effettivamente esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo, ma è un capo famiglia, considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui dipendono; cosi l'aureola del buon co stume, del consiglio domestico, del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio, della religione, di cui il padre antico era il sacerdote, viene a scomparire pressochè intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi, giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo, e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto, se si fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere, cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa, e trasmessi col medesimo atto. Anche ciò non deve ritenersi come indizio, che per i Romani la potestà del padre si confondesse colla proprietà: ma è unicamente il frutto di una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare per il crogiuolo del censo, venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto del mio e del tuo. Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu una grande ventura per il diritto romano, che il medesimo fosse cosi costretto a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà, in quanto che non eravi certamente altro concetto, che potesse meglio acco modarsi a tutte le applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità, mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le deduzioni, di cui poteva essere capace, e per tal modo il diritto potè appa rire in certi casi inumano e crudele, ma la costruzione giuridica venne ad essere più logica e più coerente. Cosi deve pure attribuirsi ad una elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto, per cui quella proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia, giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un individuo, che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il concetto della proprietà famigliare, che era proprio del patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria, che nel costume si ritiene della famiglia, e in diritto si considera come esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò, che acquistano gli altri membri della famiglia, a lui solo appartiene (1). 328. Fermo cosi nelle sue linee generali il concetto fondamentale del quirite, quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato, abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello. Il quirite infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva essere concepita, e come tale può essere considerato: – o in quanto sta, ossia nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta, ossia in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite; una manus, che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure quiritium; un mancipium, il quale implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto quiritario. È poi degno di nota, che tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica, concreta ed astratta ad un tempo. Cosi, ad esempio, il vocabolo caput, mentre da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi determinati poteri; e quello infine di mancipium da ma nucaptum, mentre da una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di sottomissione giuridica, in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg., $ 6, ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium. 410 Questi varii elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico, la manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium, da cuideriva, si può dire, tutto il diritto, che si riferisce alle persone; al commercium, in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto: vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio, perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio, della manus per indicare il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano soggette; come pure in esso, già si erano preparati i concetti di connubium, di commercium e di actio. Vi ha però questa differenza, che mentre questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella co munanza quiritaria, ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che mentre questi concetti un tempo avevano una significazione, che era determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati dall'ambiente stesso, si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. (1) Il naturale processo, in base a cui venne formandosi un diritto fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg., pag. 117, e quello per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti quiritarii trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel suo status. § 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di caput, manus, mancipium. 329. Anche oggidi il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius quiritium, consiste nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente religioso e gentilizio, in cui erasi formato, e come esso abbia potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus, mancipium. Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos (1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione e della mo rale? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate exigente et rebus ipsis dictantibus », siasi iniziato con sintesi potenti, che inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti? Son note in proposito le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che furono poste innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le istituzioni di un popolo, sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle idee del tempo, per trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo, fra cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per giungere a comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in base alle condizioni economiche e sociali, in cui si trovavano il patriziato e la plebe, quella comunanza quiritaria, (1) Il carattere eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra, lib. I, cap. V, pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai nn. 268 a 270, pag. 329 e segg. 412 la cui formazione ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio. 330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè l'organizzazione gentilizia, nè i connubii, che sono il fondamento dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome di ius com mercii, ma bensi con quello di ius nesi mancipiique; il quale consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel territorio romano (1). È quindi evidente che, se era possibile una comunanza fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere esclusivamente economico, giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il ius, nel senso stretto e rigido della parola, dal fas e dal mos, con cui prima trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie. Questa selezione erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia, poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia (2); ma la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di un elemento, a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium, allorchè cominciò ad essere comune al patriziato ed alla plebe; poichè da quel momento esso venne ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale, che dominava il periodo gentilizio, e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua propria. Se non che, anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola, non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto alla condizione della plebe, il lib. I, cap. IX, pag. 180 a 196, e quanto al ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160, pag. 198 e 199, come pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia, fu dimostrato nel libro II, cap. IV, SS 1º, 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro. Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della comune difesa, così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un carattere più esclusivamente militare, che prima non avesse. Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia. 331. Di cid è facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza. Da una parte eran vi i membri delle gentes patriciae, i quali ancorchè fossero i fondatori della città, continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli altri (famiglie, genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae, le quali erano appunto for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto della individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia, fondata sulla agna zione, e riunita sotto la potestà del padre. - Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui rimasti liberi dalla clientela, o immigrati da altre città, o traspor tati da popolazioni conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di famiglie, le quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione (1 ). (1) V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib. I, cap. IV, e quanto alle condizioni della plebe, il lib. I, cap. IX. 414 Queste differenze poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata, la quale era designata col vocabolo di heredium. Questo consisteva nell'assegno, che le varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia, ed era a somi glianza di esso, che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium. Il medesimo quindi costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia, ma doveva invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva indiviso (ercto non cito ); ma intanto, essendo già intestato al capo di famiglia, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata. Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia, non poteva neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia, o che loro erano stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla medesima accordato, più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia, poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium, come forma della proprietà famigliare nel periodo gentilizio, vedi il nº 56, pag. 70; ma devo aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza esistente fra l'heredium ed il man cipium, nè aveva cercato di spiegare come perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium il concetto di mancipium. - 415 censo, dovendo comprendere i due ordini, non poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita; poichè fra essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo, come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli altri; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte, quella cioè di dare al censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per famiglie, ma per capita, attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare, che era appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si fosse trattato di censire le proprietà patrizie, si sarebbe dovuto prendere come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie; ma volendosi anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe, convenne di necessità prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso, che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium, e ai plebei sotto quello di mancipium. Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata acconciamente col vocabolo di here dium, il quale era pur sempre una istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello di mancipium, il quale, oltre al rispondere perfettamente ai concetti di caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la proprietà e il possesso, e di esprimere con potente efficacia quel carattere di proprietà esclusiva ed individuale, che veniva ad assu (1) Gellio, XV, 28, 4. 416 mere quel patrimonio, che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto fu questa, che nella comunanza quiritaria, formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio, in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come proprietarii di terra; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium. Così pure la comunanza quiritaria, avendo una base economica, venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche, che si adattino per la formazione del censo, l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium. Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come capo di famiglia, e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età, della tribù locale a cui appartiene, la cui indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo, di cui egli è capo, sulle persone cioè, che siano in manu, in potestate, in mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il mancipium, ossia il complesso delle persone e delle cose, che costituivano il vero patri monio del quirite, in quanto egli era un capo di famiglia indipen dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né eziandio le possessiones, che si possano avere nell'ager publicus; nè la pecunia circolante, il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo; ma dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà, che costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa miglia agricola, nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo, che quel mancipium, che doveva figurare nel censo, quale patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere configurato nella istessa guisa. Per verità se trattavasi dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia, il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera, o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite. Che anzi non è punto impro babile, che nella formazione del censo, dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire questo man cipium, anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia, di praediorum instru menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium, perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo, § 4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio, che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia, veniva ad essere questa, che le res mancipii, come quelle che servivano a determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria, costituissero come una specie di proprietà privilegiata, che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere, mancipio dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa nel mancipium, e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa, che fa parte del mancipium; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare, da cui derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva tuttavia da cid, che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento: ma questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite, non entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria, e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola: essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista quiritario. È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata. (1) Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 90. 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus (1), e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius quiritium, mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium, abbia anche cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius, e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia, la quale venne in certo modo ad essere senza base, allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo, ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed all '« ercto non cito », che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare nel periodo gentilizio, sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII Tavole, secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo malgrado: « si erctum ciet, arbitros tres dato » (2 ). 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione del quirite, non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria, sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello, sarà un capite census, e sarà (1) Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una lettera ad Curium, VII, 30, 2 ove scrive: « Cuius (Attici) quando « proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et fructu, contentus « isto sum. Id enim est cuiusque proprium, quo quisque fruitur atque utitur »; il che significava in sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha una significazione diversa, come nel bel verso di LUCR., III, 969: « vita mancipio nulli datur, omnibus usu », ove mancipium si contrappone ad usus, in quanto significa una cosa, che ci appartiene a discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium. Cfr. BONFANTE, op. cit., pag. 92, nota 2, e pag. 96, nº 2, e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la ricostruzione del Voigt, op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16, della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito. Che se egli, pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie, abbia tut tavia qualche sostanza (1500 assi) ed una prole, che può crescere a benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito, almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si riferisce al mancipium, egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium. Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito, dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto; proletario, iam civi, quis volet vindex esto »; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio, « proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas consopita est » (2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo, che come capo di famiglia e proprietario. Siccome tuttavia, accanto alle qualificazioni generali del capo gruppo, trovavansi pure nel censo le qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi, di sui iuris, di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato giuridico, senza essere create dal censo, furono tuttavia nel medesimo delineate, e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare, accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. (1) Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10, $$ 10 a 15. Egli poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati, che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta. (2 ) Gellio, XI, 6, 10, 8. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium, ed il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui prima si trovava, ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che comparivano nel censo. Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius. quiritium, che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa, che circondava le istituzioni delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta, che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa, da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare, che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium, siano stati creati dal censo, poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano; ma solo di provare, che il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa; a separarli nettamente gli uni dagli altri; a fare in guisa che ciascuno avesse un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire una sola individualità giuridica. Fu in questo modo, che al punto di vista quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo; che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo, essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata, ebbe un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro; che infine anche le varie membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre, e poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari della co munanza quiritaria, quale si formò nell'epoca serviana, e al censo che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la parte statica del ius quiritium, in quanto fu in parte determinata da una delle prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città, avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso. Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo, e conserva cosi un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne dipendono. Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso, verrà ad essere un capite census; se invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so. pratutto per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius; se infine abbia una sede fissa, e sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium, non fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato adsiduus o locuples (1). In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per poter contare per uno nel censo, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia; come lo dimostra il fatto, che se altri abbia un figlio, che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito con un'altra persona, cioè col proprio figlio: « duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per figurare nel censo, ossia lo stato generale della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed astratta (persona ), la quale, ancorchè ricavata dalla realtà, può servire ad indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione astratta, il medesimo potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo. Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia (3). Di qui la teoria della capitis diminutio, che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato, sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo, vº duicensus; Bruns, Fontes, pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog, Gesch. und Syst., I, pag. 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per subire una capitis dimi nutio (1 ). Che anzi questa logica giuridica dovrà anche applicarsi al cittadino, che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio (2 ) Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della libertas costituisce la maxima capitis diminutio, la perdita della civitas la media, e la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde; donde le distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e le persone alieni (1) Gaio, Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger, op. cit., pag. 5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio, che fu poi divisa in maxima e media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e si comprende come il Savigny, Traité de droit romain, trad. Guenoux, II, pag. 66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio; ma questa singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come dice Gajo, una « prioris status permutatio », la quale era anche compresa nella significazione larga di capitis diminutio. Del resto l'emancipatio sotto un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell' emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del diritto civile, per la ragione appunto detta da Gajo, Comm., I, 158: « civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest »; distinzione questa, che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium, a cui sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 299 e 300. 425 - iuris, le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto di partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni di Gaio. Che anzi, una volta adottato questo metodo, si po terono anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata dal ius latii, e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si voleva accordare il completo ius quiritium, quanto eziandio ai servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli altri cives, erano invece collocati nella condizione di latini iuniani (1). Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un tratto; ma intanto è con Servio, che si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e si iniziò così quel processo logico, che de terminò poi l'elaborazione progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater familias, del filius familias, della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce zione astratta, per modo che una persona poteva essere padre senza aver figli, essere tenuto come figlio, ancorchè effettivamente fosse padre, essere riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto dipendeva dal punto di vista giuridico, sotto cui la per sona veniva ad essere considerata (2 ). (1) Per tal modo mentre prima non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei dediticii; altra prova questa, che il concetto pri mitivo è sempre sintetico, mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO, Comm., I, 10. (2 ) Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195, § 2, dig. (50, 16) ove dice del pater familias: « recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus »; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag. 25 e dal Juering, Ésprit de droit romain, IV, p. 295, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium. Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva, e che fosse così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica, che poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i quali « etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent »: donde la co struzione delle persone giuridiche (1). Che anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata, o in quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica, in cui trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta (2 ). Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica, che può anche stare da sè e svolgersi per conto proprio, secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico, che ne dipende, potrà anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di famiglia, e poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo libero; nel qual trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui iuris, e viene (1) Tale essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona, la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio iuris, attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica, ma limitata solo a quella categoria dei diritti della persona fisica, che poteva avere una base nella realtà; donde la conseguenza, che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain, II, pag. 234 e segg. (2) Questo svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi tolo, § 5, discorrendo del dominium ec iure quiritium. 427 ad essere capace di diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia; poi rinunzia indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si basava sui fatti, e la schiavitù, finchè durò il Romano Impero, fu una istituzione comune a tutte le genti (1). Cid perd non tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una costruzione logica, la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3. Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose, ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto, o il potere dell'uomo, che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo poteva disporre, nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta, che comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la capacità potenziale del quirite: cosi l'estrinsecazione effettiva di questa potenza sulle persone e cose (1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm. Rechts (in HOLTZEND., Encyclop., I, pag. 105 ), ebbe a dire con ragione, che il più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero; ma vuolsi aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa piena capacità prima al capo famiglia, poi al civis, e da ultimo all'uomo libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere designata col vocabolo di manus (1). È questo il motivo, per cui la manus viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio; se essa riven dica qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la vindicatio e la manuum consertio: se essa lascia uscire qualche cosa dal proprio potere quiritario, abbiamo la manumissio e la emancipatio; se essa infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato abbiamo la manus iniectio. Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria, che trovasi simboleggiata nella vindicta, la quale serve come modo tipico per la manomis sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento; nell'hasta, sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si infigge dinanzi al centumvirale iudicium. Questo potere giuridico, sintetico e comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che così il potere sulla moglie, che quello sui figli, che quello sui servi e sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della proprietà, sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1 ) La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi, oppure anche il potere sulle cose. Egli è certo a questo riguardo, che i giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas. Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono, che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium: ma miriservo di dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose soggette al potere, che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi quella di manu-captum, e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, $ 79; BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, pag. 100, nota 1; Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 3, nota 4. 429 sentavano delle differenze e dei temperamenti. Così pure, sotto il punto di vista giuridico, nulla hanno di proprio nè la moglie, nè i figli, né i servi, e tutto ciò che essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero quirite e quegli che conta nel censo. Sarà poi una conseguenza di questa logica giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà addive nire alla noxae datio; che se alcuno si ribellerà al suo potere, gli spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis; e se alcuna delle persone, che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta, egli potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato. 341. Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie, nella potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium, che qui sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa. Quest'ultimo vocabolo tuttavia, più che un aspetto del potere quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che dipendono dal potere spettante al quirite; come lo dimostra la circostanza, che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare, chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum, potestatem, dominium, non occorre però mai l'espressione habere mancipium, ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium, derivando da manu-captum, significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium, fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa, che ne forma l'oggetto. L'unico passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6, 9, ove si parla della mater familias in manu, mancipioque mariti, ma anche questo dimostra, che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario, esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio, che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette, sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate, in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa, allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare per un'altra. Il concetto del mancipium e la distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad essere considerata, in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium. Mentre i concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della forza e dell'energia, ma non mai quello di mancipium, che allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci attestano, che in antico non eravi un vocabolo speciale per significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum, tuum. (1) Di qui credo di poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo, secondo cui altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si iniziò la formazione del ius quiritium; in quanto che nell'esercito e nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa, e presentasi con una signi ficazione eminentemente passiva. Non vi ha quindi nulla di ripu gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum; e designasse specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra, veniva ad es sere soggetto alla potestà del vincitore. Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il vocabolo dimancipium, al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium, e che nel censo compariscono in certo modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto coll'entrare a far parte delmancipium, che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio, di cui fa parte, a compare nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui in modo assoluto. È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ). Anche nel mancipium, come negli altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere del capo di famiglia. Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, pag. 2. Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò, che le formole serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns, Fontes, pag. 45) e nella lex Acilia repetundarum, del 631 di Roma (pag. 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia, il che poi spiega come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio, l'emancipatio e simili. Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium, è da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105, col quale tuttavia non concordo in questo, che egli attribuisce al mancipium anche la significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium, fondendosi in certo modo coll'heredium, sia venuto a de signare le cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato dimostrato più sopra al nº 331, pag. 414. 432 concetti fin qui presi in esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa persona; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone, che dipendono dal medesimo capo. Siccome però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso, che è portata nel censo e che serve come stregua per determinare la classe, di cui entra a far parte; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico, in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium, che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede argomento. 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio, un rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo, può cambiarsi in un documento prezioso, quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1). L'antichità del concetto, a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto, che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto, che i giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare, in cui è concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento (1) L'importanza della questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia, come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via, che questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei particolari, ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo, con cui concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. (2 ) Non può certamente ritenersi definitiva la ragione data da Gavo, Comm., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio. 433 di mettere in una posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente negativo, cioè comprende tutte quelle cose, che non appartengono alla prima ca tegoria. Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un complesso di cose, che erano comprese nel mancipium, e che solo più tardi quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già formata dalle res mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta, lo Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium, le cui origini rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi cominciato a distinguere il mancipium dal nec mancipium, non sarà inopportuno il notare, che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium, e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo contrapposti fra di loro. Per verità mentre i vocaboli di he (1) Del resto la questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man cipiä сol primitivo mancipium. Così il BONFANTE, op. cit., pag. 21. Per parte mia, siccome mi propongo di fare la storia del concetto, anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione diversa da quella, che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa, il che appunto deve essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio, alla circolazione ed al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza, dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e poca, in cui vennesi formando il primitivo ius quiritium (1). Parmipoi a questo proposito, che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo di persone e di cose, in cui si comprende il capofamiglia, la moglie, i figli, il bestiame, la terra coltivata, e la cui importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero di braccia, di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio, che si intitola al padre, ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo, for misi naturalmente una distinzione congenere a quelle, le cui traccie pur compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto una parte fissa, sostanziale, che comprende tutti quei beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare. Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza. Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla. Quindi piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal (1) Già si accenno a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56, pag. 70. 435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere a quella vendita con patto di riscatto, che nei nostri villaggi si cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura, che chiamasi palliata. Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata, le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto, che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia, senza però mettere a repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato, in quanto che possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte del patrimonio. Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo, che costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale, sarebbe ad esempio, la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta, la conseguenza im mediata di questo fatto sarà, che quella distinzione, che stava for mandosi, perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per assumere un significato preciso, il quale, mentre corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche del popolo, di cui si tratta. 345. Or bene un avvenimento di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio, il quale, essendo stato posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium, non potè a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia, che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa 436 miglia, colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece, che si facevano alla plebe, erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus, mediante le così dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale (tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle servitù rurali di pas saggio e di acquedotto, che erano del tutto indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium. Che anzi è anche probabile, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo proprietario, come lo dimostra il fatto, che i poderi romani ancora più tardi conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario, che si considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo mancipium, che doveva essere consegnato e valutato nel censo, e che costituiva la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite; le altre cose invece non gli erano tenute in conto, o perchè non appartenevano al quirite come tale, ma piuttosto alla gente, di cui esso faceva parte, o perchè costituivano una specie di capitale cir colante, di cui non potevasi fissare l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886 col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo man cipium. Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus, Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del quirite, al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437 veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite, cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta, purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium, avevano per esso una importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo, in cui si formò ilmancipium, trova poi la sua conferma nella enumerazione, che i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1). Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità remota, e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto, che corrisponde alle condi zioni economiche del tempo, ed ai bisogni di una famiglia agricola, la quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium, non è già un campo nudo di qualsiasi attrezzo, ma è un praedium instructum considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù, che sono necessarie per la sua coltivazione (2). Una casa in città, un tugurio in campagna, circondato da un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà tipica del quirite; quella proprietà cioè, che lo rendeva adsiduus, perchè ne accertava la residenza, e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo, I, 120; II, 14-17; Ulp., Fragm., XIX, 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op. cit., pag. 340, che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e instrumentum fundi », ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di servi, che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di cose, che può raccogliersi. dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che queste comprendevano; lº i praedia, così rustici comeurbani, purchè situati nell'ager romanus od anche nel suolo italico, il quale mediante la concessione del ius italicum, poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium; 2° le servitù rustiche, che sono il naturale compimento di un podere rurale, quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in quell'epoca strumento indispensabile per la coltura; 4º e infine i quadrupedes, quae dorso collove domantur, veluti boves, equi, muli et asini. Invece le altre cose tutte, che esorbitano da questa cerchia, comprendendovi la stessa pecunia, le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei giureconsulti si osservo, che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium, quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile, esente da qualsiasi vincolo. Era solo questa forma di proprietà, che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes, e servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla comune difesa. Non fu quindi la pecunia, che ebbe ad essere tenuta in conto, perchè questa, anche consistendo in greggi ed in armenti, poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia, macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere quiritario, ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439 tenuto ex iure quiritium, essi costituivano quel capitale circolante, che formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò non offriva una base salda per essere valutato nel censo. 348. Parmi cið stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite, come capo di una famiglia agricola, all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano, il quale per tal modo potè perfino influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti questo mancipium, che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite, e che costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium, che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di assoluta, di esclusiva e di irrevocabile. Sia (1) Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il mancipium, come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35, che le teorie diverse, da lui esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto storico. I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di pari passo; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e sociali del tempo, ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava, anche allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di mancipium alla bellica occupatio; poichè questo carattere militare, inerente anche almancipium, è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus romanus quiritium; impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa sione. Tuttavia, siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68, al BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la vecchia controversia. 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose, che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite; ma in questa parte, come nel resto, i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa configurazione giuridica, si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium, come molti altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del primitivo mancipium, in quanto che esso continud pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti (1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più. Per tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo mancipium. 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico diritto. Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo ammisero qualche allargamento, che corrispondeva al concetto informatore del primitivo mancipium, e che era necessario per rendere applicabile il concetto stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio, che i giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium, o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico, che costituiva il mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso (3). Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere strumento indi (1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il concetto di mancipium, che erasi sovrapposto a quello di heredium, tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona paterna avitaque, e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre preziose, che costituivano in certo modo un avitum mancipium. In ciò seguo l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella Cultura, anno 1886, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op. cit., p. 93. (2) GAJO, Comm., II, 16; ULP., Fragm., XIX, 1. (3 ) GAJO, II, 17; ULPIANO, loc. cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via, aquae ductus, e non le altre, come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili, le quali, essendo particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto. -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole relative alla vendita di animali da tiro, e da soma ed anche di servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio; poichè questa doveva solo ritenersi necessaria, allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate, costituiscono però un tutto (cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram, di cui si parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani, che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una simile controversia, ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione del fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p. 388) condussero il Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig). Veramente non si saprebbe ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva antiquata; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere questa cosa un « instru mentumt fundi». Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op. cit., pag. 111, non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia, intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II, 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium, finchè dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta: mentre l'eredità, riguardo a colui che vi ha diritto, costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag. 12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium, nè la familia. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium. Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo essere compresi i praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo italico, quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col Puctha, che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che fossero in potestate, in manu, o in causa mancipii(2); poichè, come sopra si è notato, qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal capo di famiglia, le quali persone si dicono « alieni iuris, quae in manu, potestate,mancipio sunt », ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si applica la mancipatio, ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero tali appunto, perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose. La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri (1) Ho già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo, allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice traditio. (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op. cit., pag. 15. 444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il concetto cioè di una proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio di terra e quelle pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio indispensabile del capo di una famiglia agricola. La formazione di questo mancipium, che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche politica del mancipium, pose le cose, che erano comprese nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose, che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una proprietà essenzialmente quiritaria, perchè apparteneva al quirite come tale. Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es. sere introdotta, e non ho difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai giureconsulti, quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie; ma esso non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii (1). (1) Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio, riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella, che si introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure quiritium, e quelle invece che le appartengono solo in bonis; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, quanto ai modi di acquisto, e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva della proprietà ex iure quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già nel periodo gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo di famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non costituiva ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la sola proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris, sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza, che in questo periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op. cit., pag. 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., pag. 115 e seg. 146 dominio quiritario all'espressione meam esse: « aio hanc rem iure quiritium ». Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo concetto siasi venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di ogni proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium: « aut enim ex iure quiritium unusquisque do minus erat, aut non intellegebatur dominus » (1). È certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della proprietà ex iure quiritium, non vi fosse pei romani primitivi altra forma di proprietà o di possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni, che entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte di diritto, che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle (1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 40.. 447 loro qualità di quiriti, e fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti, che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e popolosa città, e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum (1). 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende solo quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium, che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium, e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento, in cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure quiritium ». Questa infatti era l'unica proprietà, che poteva essere tenuta in conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario. Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure quiritium, aut non intellegebatur dominus »: il che non vuol già dire, che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di vista quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite, ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Questo infatti (1) Questo carattere particolare del ius quiritium, per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria. fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso: lº quanto alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia, ma tutti i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium; 2° quanto ai modi, con cui si acquista, che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata, quanto alle persone, alle cose, ai modi di acquisto; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria, che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium. Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella, che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione giuridica non dissimile da quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput, di manus e di mancipium. Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso, che questi nella sua configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta, concepita sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, ed (1) Non è qui il caso di parlare nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che potevano anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo, Comm., II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio, come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata da tutti gli altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo, che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del quirite. Così, ad esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il dominium optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi eziandio una diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio quiritario. Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione, sotto il nome di ius italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis (1). Vi ha di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium. Così, ad esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia, anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando poi la capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum: di cui quello si riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum, nella « Nouvelle revue historique de droit français et étranger », annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex iure quiritium. Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li bero, perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella proprietà, che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto, le quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in commercio. Il che deve pur dirsideimodi diacquisto, i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto, che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti; donde la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio, civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che gli apparteneva: gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium: immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne, anche abusando di essa. In questo diritto del proprietario, che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano: poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo essere stato una istituzione gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica, furono solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata al n° 59, p. 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria denominazione, e staccato dal ceppo, sovra cui aveva radice, fini per dare origine alle varie configura zioni dei diritti reali, comprendendovi anche il ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà, di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità, chementre il giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse) (2); noi troviamo invece, che nello svolgimento storico presentasi dapprima integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione giuridica, protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica sovra di essa; ciò sarebbe smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas, ed anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza, che le XII Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium, che era venuto meno nello stretto ius quiritium, e ristabili rono contro il prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti, secondo la ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente: « Qui sibi heredium nequitia sua disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto ». (1) Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima, può argomentarsi, fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1, Dig. (41, 2 ). 452 proprietà, ma una specie di possesso a titolo di precario, che non aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in ciò, che anche in questa parte il ius quiritium, essendo già stato il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà. Il concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul mancipium, il quale, implicando la sottomissione illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti, che al quirite spetta sul proprio mancipium, nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà della cosa: è un fatto ed è un diritto; è una proprietà originaria, ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata; esso anzi de signa perfino una proprietà, che ha dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne penetrando l'analisi, la quale cominciò dal distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più unicamente come una res facti, ma in parte eziandio come una res iuris; non supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 ); quindi, per la protezione di esso, il pretore, non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola, ma sol tanto interdicere, cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto, del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter. (1) Vedi, quanto alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154, pag. 190 e segg. (2) V. in proposito Savigny, Dela possession, Trad. Staedtler, sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25. 453 dicta, con cui si protegge il possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un determinato spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto; cosi il possesso, oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica, protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo, mediante cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto il dominium ex iure quiritium, quanto la semplice possessio debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo mancipium, il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo; così tanto il dominium, che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid è dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei giureconsulti, i quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di proprietà, ed ora dicono invece, che il possesso ha nulla di comune con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il diritto, fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto (1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem, e del possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio. (2 ) Cfr. Savigny, V. i passi in proposito citati dal Savigny, op. cit., § 5, pag. 21 e segg., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12, § 1, Dig. (41, 2) nihil commune habet proprietas cum possessione», ed altri analoghi, L. 1, $ 2, Dig. (43, 17). Cfr. JHERING, Fondement des interdits possessoires, Trad. Maulenaere, Paris 1882, pag. 42. - 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa, il concetto del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere di un vero A proprio diritto (1). Per quello poi, che si riferisce alla questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica accordata al possesso, essa, come al solito, non ebbe ad essere trattata di proposito dai giu reconsulti; ma si può indurre dallo svolgimento storico di esso, che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius », in quanto che ogni fatto, che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione del Niebaur, Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12 a, pag. 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta dal Pochta, Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento; poichè questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la cosa, sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis, destinato appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op. cit., $ 6, p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa. (2 ) Senza voler qui prendere in esame le molte teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è quella del JHERING, Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico, XV, pag. 3 e segg. Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su ciò, che il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi senza tale pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto, enunciato nella L. 2, Dig. (43, 17): qualiscumque possessor, hoc ipso quod possessor est, plus iuris habet, quam qui non possidet ». Parmi che, assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè il principio: « ex facto oritur ius », si 455 358. Di fronte a questo svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente propria dei romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la proprietà quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era formata, e si cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa guisa, che la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici, e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti riescirono ad isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico, in cui si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta, che duro pa recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella, che potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti. Le loro analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche non potranno sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca; ed è questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi furono i crea tori della proprietà privata ed individuale;ma è sopratutto notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica, e quello di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta, come al possesso ad usucapionem. Secondo il Puglia, Studii di storia del diritto romano, Messina 1886, pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio »; ma è ovvio il notare che in questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr. PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., pag. 529 e segg., ove trovasi citata in nota la bi bliografia più recente sull'argomento. (1) SUMNER-MAINE, L'ancien droit, trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a pag. 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i vicanalia (SCHUPFER, pag. 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio avito. SCHUPFER, Op. cit., pag. 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di mancipium, i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen, Allod, Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di « ercto non cito ». Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione (SCHUPFER, pag. 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum. — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata, presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto, un assegno (pag. 63); accanto al quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag. 60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra, che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di residenza, che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium. Che anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva « dominium ex iure quiritium ». Infine questa proprietà si acquista, si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138 e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà, sonvi anche le differenze, che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici invece non giungono a questa concezione tipica; quindi mentre la proprietà romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente gentilizio, e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa, pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui era uscita, o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà, quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad. Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh. Il ius quiritium ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una con figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività giuridica. Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto, sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata sopratutto dalle condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium, mi hanno profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che potrebbe chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie di elaborazione e selezione potente, (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo: Studii di storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica, Messina, 1886. 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti, la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica, non dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto quiritario. Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali dello status del quirite furono fissate, pressochè contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano; lo svolgimento invece della parte del diritto quiritario, che si riferisce al negozio giuridico, fu l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata, la quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe, e che le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il processo, con cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium, risulta da una quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico, il ius quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli del commercium, del connubium e dell'actio, i quali tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio, anteriore alla fondazione della città. Cosi pure è certo, che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici, ma compare invece con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la convivenza civile e politica. È in questa guisa, che un solo atto, quale sarà, ad esempio, l'atto per aes et libram, finirà per servire alle applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium, nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo centrale, intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio, che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il matrimonio cum manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio sacramento. Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460 - ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello del quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite, pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium, del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato, sembra metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con nubium e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius quiritium, non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo gentilizio, il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo (3). Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto spettante ai quiriti, cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure quiritium; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium; e infine dall’actio il sistema delle legis actiones, che è parimenti proprio della comunanza quiritaria. Questi concetti pertanto cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo, come era accaduto nei rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo; cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8: « Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones ». Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota 1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5 quanto al commercium. Quanto all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 244 e. 274, coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib. I, cap. VI, SS 2 e 3, pag. 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium, e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum. Cosi, ad esempio, il connubium nel periodo gentilicio, era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen. Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium. Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris iure ducendae facultas », ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in base al medesimo derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla moglie, fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium, come una dipendenza del connubium, considerato come un ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium. Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci scambii « emendi vendendique invicem potestas »; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium, esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure qui ritium, ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono: lº il facere nexum, che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario; 2° il facere mancipium, che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria, consistente appunto nel mancipium, colle forme riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in fine il facere testamentum, che è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità, mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario, donde il vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium, viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con una sola forma tipica, che è quella dell'atto per aes et libram, e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto, che il proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie cose, viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza, che di fronte a tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio: « uti lingua nuncupassit », o quello analogo: « uti legassit, ita ius esto ». 364. Da ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il capo di famiglia, il cui diritto fosse disconosciuto e violato, e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo nimento (2 ). Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium, essa imita bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia, ma intanto già si compie in iure, cioè davanti al magistrato riconosciuto come capo e custode della città. Di più questa actio non può più seguire arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa. Essa cessa perciò di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e viene così a cam (1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium, che al commercium, accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 13, in nota, il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib. I, cap. VI, § 3, pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie ragioni davanti al ma gistrato, nella forma che è riconosciuta dal diritto quiritario. Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le mosse da un'azione tipica, che è l'actio sacramento, la quale può anche essa essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del diritto quiritario, che spiega eziandio, senza bisogno di ricorrere a quello spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato, le cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario: poichè anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le formalità, da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo ius quiritium. Anche qui ci mancano le testimonianze dirette, perchè i veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare il segreto dell'arte loro (2); ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del diritto, che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente quella relativa al commercium, e quindi viene ad esser naturale, che l'elaborazione di un ius quiritium, comune ai due ordini, inco minciasse da quegli atti, che si riferiscono al commercium. Questa circostanza verrebbe poi ad essere eziandio confermata dal fatto, che la parte di antichissima legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94, pag. 117 e segg. e sopratutto nella nota 1a a pag. 118, ove si presero in esame le opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering. (2) Cic., De Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà, che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che « veteres illi, qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa, pervulgari artem suam noluerunt ». 465 mercium. Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo fatto nella circostanza, che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum, il mancipium ed il testa mentum; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente, che le leggi delle XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo, che la forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella coemptio, nell'adoptio e simili: il che significa, che l'atto per aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il concetto espresso da Ulpiano, allorchè scrive: omne ius consistit aut in acquirendo, aut in conservando, aut in minuendo; aut enim hoc agitur, quem admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del diritto romano, deve essere riposta nel fatto, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta. Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium, si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il diritto del marito, del padre, del padrone furono model (1) Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al testamentum, da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm., XI, 14. (2) Ulp., L. 41, Dig. (1-4 ). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre notti di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente dovette essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe, venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano (1 ). 367. La parte infine del diritto primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium, deve ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma, secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti, sembra (1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V, ove trattasi diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium, che l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium, la quale sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum. La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum. 168 contraddire alla opinione oggidi molto seguita, secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario (1). Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto, che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio, il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium. Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta, e che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà, a lui spettante; poscia gli attribui il connubio; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia: donde la conseguenza, che il ius quiritium, essendo già un'opera riflessa, accolse talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha ' per noi una grandissima importanza, in quanto che mantenendo nella ricostruzione l'ordine stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale formazione del ius quiritium, si potrà giungere a spiegare certi caratteri peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in tre capi toli, di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino, 1885, pag. 105 e segg. (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, pag. 40. (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto al cap. VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV. Il ius commercii nel diritto quiritario. $ 1. Il commercium e l'atto per aes et libram. 368. Se havvi parte del ius quiritium, che sia modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica, integra e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo quello, che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario. Il quirite infatti, quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti (facere mancipium ); quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio, dimenticando anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium, sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto, che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun ciato con dire « uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e quanto al testamento, colle parole: « uti pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto (1) ». E questa la parte, in cui « uti (1) Mentre nella ricostruzione del Dirksen, seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la disposizione: « Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto », che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. - 470 domina sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un trasferimento del dominio, o ad un testamento (1 ). L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium, viene anche ad essere provata dal fatto, che un medesimo atto tipico, che può chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita, intorno all'atto tipico del diritto quiritario, sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona (2 ). Parmi invece, che le poche vestigia, che a noi pervennero dall'antico diritto, conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il vocabolo di lex, come significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia, Caput I, pag. 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex, nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228, pag. 278. (2) Tra gli autori recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il Voigt, XII Tafeln, II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso. Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram. Quanto agli atti di diritto privato, in cui abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, pag. 256 e segg., discorrendo dei calata comitia, e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del negozio quiritario, debba essere riposto nell'atto per aes et libram; cosicché la nexi datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius quiritium, in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a fare in modo, che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito: « omne quod geritur per aes et libram ». Lo stesso è a dirsi del facere mancipium, in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è descritta da Gaio, consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et libram; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per aes et libram, il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram. Si aggiunga, che questi passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione primitiva del nexum e del mancipium. Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium, mentre altri già distinguono fra l'uno e l'altro, osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà. Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram, il quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor; mentre sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola, ma è già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). (1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium, compievasi per aes et libram, col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo, e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum, il mancipium, il testamentum; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via, ed informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte, la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium, nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una trasmissione con corrispettivo, tanto nel contratto, in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento, mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum, il mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes et libram. « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia ». Varro, De ling. lat., 7, 5, § 105 (AUSCHKE, Iurispr. antiiustin., pag. 6 ); « Nexum, est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram geritur, idque necti dicitur; quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora « omne quod geritur per aes et libram », sonvi poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio: « Nexum, Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae mancipio dentur », la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De ling. lat., VII, 105, il quale aggiunge: « hoc verius esse ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram, neque suum fit, inde nexum dictum » (Bruns, Fontes, pag. 386). Quest'ultima definizione sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum: « Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5, 28: « Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu, aut in iure cessio ». Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 197, nota 7, e II, 482 e segg. (1) La successione legittima non prende le mosse dal commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente cap. V, $ 5. - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra. Di qui la conseguenza, che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium, vuolsi ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram, cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius quiritium, e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato, che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo, che ha del matematico, e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora, la cui filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo, che non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto origine dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto nel ius quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca, in cui era veramente neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato nel medesimo come una espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario « quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve (1) V. ZELLER, La philosophie des Grecs, trad. Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8, pag. 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è, che il medesimo non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto, sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il quale, al pari dell'antico atto per aes et libram, con tinua in certi confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo, salvo che esso sia impugnato di falso (2). Dal momento, che erasi venuto formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto, che prese il nome di ius quiritium, era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti; doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria, donde l'intervento nel medesimo dei classici testes, corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane; doveva esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale, che era il libripens, il quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator, incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto (3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni (1) Tra gli autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al com mercium, parmi di poter annoverare l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano, $ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, pag. 82. (2 ) Cod. civ. it., art. 1317. (3) Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram, quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per aes et libram, dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all' antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg. 475 diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, il quale, mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità, poteva eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con preci sione ed esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem »; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram, non solo ai negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium, esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza, anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette essere quella stessa, in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure quiritium, la quale con sisteva nel mancipium; quindi è probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio, noi sappiamo, che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario, poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di (1) L'esistenza di questo duplice elemento nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle XII Tavole: « qui nexum faciet, mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes et libram, descrittici sopratutto da Gajo, Comm., II, 104-5 e da Ulp., Fragm., XX, 9. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo linguaggio simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni dell'atto per aes et libram (1). Infine anche l'intervento di un pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità, in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente, attribuendovi il carattere quiritario, e cambiandola cosi in una forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto, che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato; ma questo è certo, che quando quest'atto compare nel ius quiritium, esso viene già (1) Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur ». La questione se questi classici testes dovessero ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio, pag. 83 e segg., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm., II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe: ma intanto non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram, con cui si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo stesso, che ancora in base alle XII Tavole era stabilito: « adsiduo adsiduus vindex esto ». Tale sembra pur essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi non improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio, come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca, in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario, è opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato alla mancipatio, poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram (2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano, che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per credere, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad imprestito; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di carattere quiritario; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per coemptionem. (2) Tale sembra, ad esempio, essere l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., pag. (3 ) GAJO, Comm., II, 102; ULP., Fragm., XX, 2. 58 e segg. 478 dell'atto per aes et libram, non solo per eseguire il pagamento del prezzo, ma anche per operare il trasferimento della proprietà di una cosa, è già ad evidenza un espediente giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio ». Si comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome « omne quod geritur per aes et libram », mentre non consta che essi facciano mai rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo: « cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »: argomento questo, chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani, sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo, facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario; perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio; cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et libram ». La distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et libram fit », ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in quello di obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad essere seguita, e fu allora che si chiamò nexum, « quod obligatur per libram, neque suum fit». Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che compievasi « per aes et libram, necti dicebatur », mentre più tardi fini per significare l'obbligazione assunta per aes et libram; trasformazioni di significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali tutti, mentre hanno una significazione più larga, finiscono per assumere un significato specifico più circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum, ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti. Ciò è dimostrato dal fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del testamentum per aes et libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria. 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto, che contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in quel (1) Non parmi pertanto, che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato il prezzo. Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 250, dove, premesso che il con cetto del diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia, Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg. 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù del nexum il debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del creditore patrizio (1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria, il nexum, questa obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece, conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale, essendone naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero concorrere due parti, cioè: (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul nexum, ricorderò soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig, 1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains, Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a 163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita, il nexum dava origine ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta, autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che ho cercato di spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione, che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram, per contrarre il nexum, probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., pag. 67. (3 ) La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe la seguente: « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te « solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque 481 1° l'atto per aes et libram, non minus quam quinque testes, cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di damnatio. Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas sum, il che implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava contro se stesso, al pagamento della somma (1 ). Di qui la conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus iniectio, senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato. I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum, sono quelli re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum, ed agli effetti, che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella legislazione decemvirale. 374. Per quello che riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum, alcuni antichi scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del loro & expendo secundum legem publicam ». Essa è per noi molto preziosa: 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura; 3. perchè infine ci attesta, che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam, e come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col nexum, ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem. Ciò conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium. (1) La nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e damnas sum, in conformità appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più testuale in proposito. G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri tenere talvolta, che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium, secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e del mancipium, lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via, informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse coll'altro. Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum, nella sua significazione primitiva, designasse in genere il vincolo giuridico, che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i due con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale, e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità; quello cioè di alienare il proprio mancipium, o quello di vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi coll'altro. Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum, non possono mai riuscire al trasferimento della proprietà, il quale con tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder, secondo cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis; postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus ». È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore, in base al nexum, potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono, che la primitiva obbligazione quiritaria, la cui forma tipica fu il nexum, costituisse dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del nexum primitivo; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze, allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2 ). 375. È certo ad ogni modo, che il nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della soggezione, pressochè servile, a cui un tempo era ridotta la plebe; poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al rigore del nexum, mentre il patrizio, anche oberato di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la plebe, e fu in tal modo che una istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori, come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum. Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva, poi abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad. Caporali, pag. 225 e segg. Cfr. eziandio l' Esmein, L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue histo rique », 1887, pag. 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2) La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI, § 3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano, che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa contesa; come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò, le dissensioni continuano fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum, e neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato (). Continuò quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram, qual mezzo di sottomettersi al nexum, come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio, che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto il nexum, sprovvisto di quegli effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium. 376. Accade qui, in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto del mancipium. Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio, VIII, 28, sono le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum, ne quis, nisi qui noxam meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur; poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi soluti, cautumque in posterum, ne necterentur ». Di qui alcuni autori avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura fu sempre contro la persona, mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum, introdotta dalla legge Giulia, fu ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus iniectio; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al mancipium, quale unica forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum, al vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale, e nel pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso, che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium, si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio, si vennero accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum, mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram, mediante cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa (tuum de meo fit ): e della nuncupatio, mediante cui fra creditore e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento, e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur verbis, a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente del nexum, che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium, sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium civium romanorum, quali sono la mutui datio, la sponsio o stipulatio, e la acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano, sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio. Questa infatti continua a produrre un'obligatio stricti iuris; si ap plica dapprima alla credita pecunia, e poi si estende a tutte le cose quae numero, pondere ac mensura constant: e la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae, oppure con segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato, del deposito, del pegno (1). Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più largo sviluppo collo scomparire del nexum, è sopratutto la sponsio o stipulatio. Questa, sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio, che già preesisteva nel nexum, salvo che essa, liberata di quella forma rigida della damnatio, che era propria del nexum, venne a trasfor marsi in una semplice sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo di una interrogazione e di una risposta, congrue e solenni, le quali, per la propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto nello svol gimento di essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo deriverebbe da « quod de meo tuum fit ». Per conto mio, non come etimologo, ma come giurista, ritengo invece assai probabile questa etimologia, tenuto conto di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum e di tuum, e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi tempi fu il frutto di una vera elaborazione, la quale può benissimo avere adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi delle etimologie di testamentum da mentis testatio, di manci pium da manucaptum, e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere composte post factum, sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid, che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo. In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la ritengono come la parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo sponsio, la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca, donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es., l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo favore, di interrogare il promettente: « centum dare spondes? », e tocca a colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene poscia nel costume una dextrarum iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio. Forse in antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento, come lo indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa non è più quella del nexum, propria del ius quiritium, e modellata probabilmente dal ius pontificium, nell'intento di serbare le tradizioni del passato; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum, come lo dimostra il fatto, che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva: « spondes? spon deo », la quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital. Rechtsgeschichte, pag. 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., pag. 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio, pag. 47); ma non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare in disuso il nexum. (1) Questo carattere speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative di un negozio, in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula, e il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 311. 488 contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole, come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale, che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere qualsiasi trattativa; può servire per un'obbligazione principale ed anche per un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per propria natura, si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale. Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio, che il diritto civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo di famiglia, il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del dare e dell'avere. Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero, che era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto, come quello, che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito, che doveva restare a mani del cre ditore (cautio, chirographum ); al qual proposito viene ad essere probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di origine probabilmente g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo, sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius honorarium, sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto, poichè la legislazione decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta, doveva essere accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne, che essa, come contratto stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere, praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col nexum, allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap. XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella « Enciclopedia giuridica italiana », vol. I, pag. 175 a 180, vº acceptilatio. (2) Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico » diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti; accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati; accanto ai veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data, e un'altra, che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto, a cui si informava l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che viene ad essere enunziato da Paolo con dire « obligationum « substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus, nostrum, aut « servitutem, nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad « dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum » (1). Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. – La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma primordiale, che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, (1) Paolo, Leg. 3, Dig. (44, 7). (2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura. Tra i recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition, Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30, pag. 131 a 149; il Voigt, XIl Tafeln, II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, come lo dimostra il fatto, che i più antichi giureconsulti comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto per aes et libram, e che potevano attribuire al medesimo una significazione diversa. Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in imprestito; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci conservata da Gaio, consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens, che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium, per averla egli acquistata con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio poi non ci dice, se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è certo, che questi, essendo presente all'atto, e ricevendo quell'aes rude, con cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo, riconosceva con cið la verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella mancipatio, che sebbene a 88; il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887. Sembra essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di mancipatio si dicesse mancipium; donde la conseguenza, che la espressione facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem. Noi abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le antiche espressioni di facere mancipium, mancipio dare, mancipio acci pere dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium, o il trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto. Di qui la conseguenza, che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia ». VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le formalità, da cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il fatto, che era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen nato da Gaio, secondo cui « immobilia in absentia solent manci. pari » (1). 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa, in cui si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium, in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria, quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita al mancipium, che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal fatto, che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa, continuarono sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio, Comm., I, 119. Sono da vedersi, quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa acquistata, se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum, come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134, nota 12. (2 ) Cfr., quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi Gaio, I, 120 e Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio era esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü ». Ciò però non impedì, che, trattan 57 e segg. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio, la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo, poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel mancipium. Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione giuridica, la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium, la traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose, che potevano essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo momento infatti le res mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria, ma questa già può estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium. Di qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia, quali erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è detto a pag. 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da ULP., Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii »; nei quali passi è evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium. Quello cade sotto il diritto civile, e perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio, Comm., II, 65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa, durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio, la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium, continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega come essa sia durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium, negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto, che producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio: « qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium, sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze, e che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans, pur alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla con patto di (1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm., XIX, 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto, poté restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale, che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole, più non poteva bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una congrua risposta, apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere del caso, le quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio, dovevano fra i contraenti avere la forza di vere leggi (1). 385. Sopratutto, fra queste leges mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae, od anche semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium, dove, combinandosi col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare un così largo (1) Si può veder raccolta nel Voigt, op. cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. (2) Quanto alla mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86, pag. 166 a 187, ove sono raccolte le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio fiduciae causa, che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra cristiana, riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. (3) Le ragioni, per cui le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già esposte al n ° 149, pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una creazione artificiale, e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia, in parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio, che quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà, che mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della mancipatio, cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece: « hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure quiritium meum esse aio »; colla qual formola già si lasciava intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia (1). Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un creditore. Essa accadeva, ad esempio, con un amico nella manci patio familiae cum fiducia, che fu una delle forme più antiche di testamento, mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico (familiae emptor), coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui si mancipava la cosa, che si voleva lasciargli a titolo di pegno (2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia giuridica, ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico, mediante cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà; ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali essa si svolse, come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto; ma (1) Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., pag. 140 e seg. e il Voigt, op. cit., II, pag. 172. (2) È notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal Bruns, Fontes, pag. 406, in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca. Della fiducia egli scrive: « fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur ». (3) Quanto alle svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg. 497 siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa, ancorchè entrambi costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono l'in iure cessio e l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure cessio viene talvolta nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio, perchè essa, al pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. (1); l'usucapio invece nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas. Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa, che forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti almagistrato, e a cui sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece fondasi esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla. Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in diritto, ossia l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium, quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste considerazioni mi inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto, ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali tutto già facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato, l'usus auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale, avendo dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto, dovette cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio, Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio vocatur ». A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di Ulp., Fragm., XIX, 10 « In iure cedit dominus; vindicat is, cui ceditur; addicit Praetor ». G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale era ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1) Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione « usus auctoritas », che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di CICERONE, Top., 4: « usus auctoritas fundi biennium est; ceterarum rerum omnium annuus est usus ». Essa invece dal Voigt, op. cit., I, pag. 110, sarebbe collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così concepita: « usus, auctoritas biennium, cetera rum rerum annuus esto ». Di qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris, cap. 8, pag. 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con una virgola. A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il contrapposto dell'altra espres sione « iuris auctoritas », e che quindi la significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il possesso equivarrà a proprietà, allorchè essi siano durati un biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a quello di possessio, non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu perciò, che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto occorre in Cic., Top., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19, sembri separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et auctoritatem fundi iubet esse biennium »; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola, cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso. Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic., Top., loc. cit., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive: « Plurima « rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, « id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem; fundi vero usucapio « biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero: ut, quoniam ususauctoritas fundi « biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio « fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag. 400). Che se altrove la legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto », gli è perchè ivi parlasi tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il magistrato (1). Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto. Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò la formazione della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio, e non mai della durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium, ceterarum rerum annus esto »; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali. (1) Scrive infatti Garo, Comm., II, 25, discorrendo della iure cessio per le res mancipii: « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere ». (2) GAIO, II, 33; Ulp., Fragm., XIX, 11 e 12. 500 ritario, che essa, a differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di usucapio. Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento all'usucapio, il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che trascurassero di esercitare il proprio diritto, ma bensi in quello di evitare l'in certezza dei dominii: « ne rerum dominia diutius in incerto essent ». 388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium, facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non si richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto al nº 154, p. 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere giuridico ai possessi della plebe nel ter. ritorio romano era il miglior mezzo per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD, op. cit., pag. 48, e l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei « Mélanges d'histoire du droit », Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che debbono concorrere in tale possesso, perchè possa dar luogo all'usucapione (1). Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto, fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al titolo di acquisto, proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii, che alle res nec mancipii, ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti, che è quella della prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel diritto civile: come lo dimostra il fatto, che le due istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). (1) Questo carattere dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein, op. cit., pag. 177, e può inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm., XIX, 8: « Usucapio « est dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii »; nella quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio, che compare invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes, pag. 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si parla, che sarebbe il pos sesso ad usucapionem, ed il possesso ad interdicta, che costituisce un istituto, avente un proprio scopo, e distinto da quello della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n. 357, pag. 452, nota 1. A parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem, e più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia, è attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP., Fragm., XI, 27. (3) È naturale infatti, che l'usucapione in una società, che si forma, sia un modo di acquisto, e che in una società invece, che si è formatn, si converta in un mezzo di difesa; e richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano sopratutto all'acquisto; mentre le società adulte e già for mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm., II, 46: « item provincialia praedia usucapionem non recipiunt ». (5 ) Mainz, Cours de droit romain, I, SS 111 e 112, pag. 745 e segg. 502 389. Intanto,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure quiritium, accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra forma di proprietà, che prende il nome di proprietà in bonis. Questa dapprima non è che una proprietà di fatto, ma col tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà, il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: « postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere (1) ». Il primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio; ma poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium. Che anzi il dualismo andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium, che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium, mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento. È tut tavia notabile, che prima della fusione delle due proprietà, quella in bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza; come lo dimostra il fatto, che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium, e fosse stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis (2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà, che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto, accanto a quelli ricono sciuti dal diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a riassumere scrivendo: « Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea, quae traditione alienantur; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » (3). Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, (1) Gaio, Comm., II, 40. (2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm., XIX, 20. (3) Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di acquisto. (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique », 1885, pag. 481-526, e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro, ed allora si consegue l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria, che si erano prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium, poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium, finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata. È solo allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1). 390. Infine anche qui deve essere notato, che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso, che più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una persona ad un'altra. Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: « obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum; sed opus est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio, che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra prova della dialettica co (1) Giustin., Cod., VII, 25: de nudo iure quiritium tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione transformanda et de sublata differentia rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3 ) Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima elaborazione del ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo, che viene attraendo tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente. Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram. $ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari dell'adrogatio, della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città, le quali dovettero ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia, ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto, e un proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale, che essa tendesse a perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la mancanza di un erede, che continuasse in certo modo la sua personalità, e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico. Fu quindi per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum: due istitu zioni, le quali, ancorchè in guisa diversa, mirano in sostanza al medesimo intento, cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Intanto però, siccome l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia, cosi egli è certo, che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi dal capo di famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia, che appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio, conviene inferirne, che anche il testamento, in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti patrizie, e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; (1) Ho già toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg. Cfr. in proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag. 184 e il CoQ, Recherches sur le testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto nell'ateniese, nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta. Paris, 1880, pag. 96 e segg.; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico. Torino, 1886, pag. 69. (2) Questo carattere pressochè pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO, L. 4, Dig. (28-1): testamenti factio iuris publici est. Cfr. quanto ho scritto a n ° 221, pag. 268 e seg. 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto, e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione romana « ercto non cito »; la quale ha tutti i caratteri di una primitiva clausola testamentaria. Quanto alla plebe, non avendo essa la organizzazione gentilizia, non poteva certamente possedere un simile testamento; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo, quando rimaneva senza figliuolanza diretta, non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose, che quello di ri correre all'istituto della fiducia, affidando il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato; modo questo di far testamento, che era una conseguenza naturale delle condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due forme di testamento; un testamento cioè, di origine patrizia, fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro, di origine plebea, che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso, che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una applicazione della fiducia, e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo, in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento, comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano (2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento, cioè: di un testamento, che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag. 184 e seg. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd. (2 ) GAIO, II, 101 a 108. 507 testamento in procinctu, che facevasi invece davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium exituri » (1); ma intanto non dice, se i comizii calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie. Sembra tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui discorre già delle due forme di testamento, comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle curie, ma bensì al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle genti patrizie, che fa cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie, che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte, come ebbe a dichiararlo espressamente la legge decemvirale; così si può in durne, che il popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario, più non intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare la propria testimonianza, secondo la (1) GAIO, II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27, 1 e 2, parlando dei co:nitia calata, scrive: « eorum alia esse « curiata, alia centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari; « centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V, 19, 6, parla un'altra ' volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie, salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr. Cuq, art. cit., p. 539. 508 formola, che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram: « et vos, quirites, testimonium mihi perhibitote ». Cid è confermato eziandio dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge, che erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di qui deriva, che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità, in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento,ma sol tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende pertanto, che la consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia, che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea, salvo che esso era già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram, e ac compagnato dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile a celebrarsi, ma che, al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il quale poteva anche abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta. Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice Gaio, di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono così quella forma di testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes et libram, quale è descritto da Gaio, II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op. cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare separatamente del testamento per aes et libram. 509 pertanto compare nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto, come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze del testatore (familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor; nel testamento invece per aes et libram, quale appare modellato in questo secondo stadio, il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne « secundum legem publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza, che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario, ricorrendo alla formola seguente: « familia pecuniaque tua endo mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam, hoc aere esto mihi empta » (2). (1) Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag. 565, verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole della formola: « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam », mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum legem publicam », compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui si dice: « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et libram, come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo. (2) GAIO, Comm., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum, novis curis auctum, Berolini, 1884; la quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una imaginaria venditio, della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem ». La sostanza invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella quale il testatore, in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere compiutamente orale; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa, in quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie, dichiarando solennemente, che queste contenevano la sua ultima volontà: « haec ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor: itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento nun cupativo e il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et libram (2 ). Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva (1) Gaio, loc. cit. e Ulp., Fragm., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram, allorchè scrive al $ 9: « In testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti »; e dopo viene senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella, che veramente importa. (2 ) Cic., De Orat., I, 57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511. l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al mantenimento del culto; il testamento invece per aes et libram viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile, quale era l'atto per aes et libram, lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo; nel testamento invece per aes et libram, la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento, che anche il testamento per aes et libram, quale compare nel ius quiritium, deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per atto tra vivi, ma anche per causa di morte. Non potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede: tanto più, che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano, il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne « de eo quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non dice già, che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma dice invece: « accessit deinde tertium genus testamenti ». (1) Cic., De leg., II, 19, 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., pag. 555, il quale pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2. (2) È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di origine plebea, e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non può essere ac colta; poichè il testamento per aes et libram, anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium, e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica, ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario, figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario, esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così, ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto, che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo (1). Cosi pure il testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen tum testamenti»; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più tarda giurisprudenza. Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la parola del testatore costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso; come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione, e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate dal testatore (2 ). Infine anche quel principio, secondo cui la volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., II, 105 a 107 e da Ulp., Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È nota la distinzione fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi modo, e per praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui consentita dal primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia testamentaria, è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi sempre una parte, che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo. Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti, secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile: dal numero di sette testimoni e dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle costituzioni imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per imitazione dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi, che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso diritto civile, poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il diritto, prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris, 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin., Instit., II, 10, $ S 3 e 10. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 33 - 514 399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento: 1 ° Il testamento in Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu, non solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario, che era stato il testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario, dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento, la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento, che all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla forza della pubblica opinione, e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento, in cui tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore (1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium. Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid, che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione testamentaria e la successione legittima; ma questa singolarità potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima, stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso, che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta. Appena accolto poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto istituire un pretore apposito (praetor fideicom missarius). V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine intorno alle cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5; perchè la questione non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i romani la successione testamentaria e la legittima. Il ius connubii nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana. $ 1. - Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte fu osservato dagli autori, che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla; nella realtà invece essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre, giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa: « pater familias in domu do minium habet »; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap pariscono comproprietarii del patrimonio paterno: « vivo quoque parente, quodammodo condomini existimantur ». Mentre infine, in base al diritto, il padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume (1 ). Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel diritto, e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica della fa miglia e la realtà dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana. Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad. Meulenaere, tomo II, SS 36 e 37, e specialmente da pag. 190 a 214; il Gide, Étude sur la condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e V; il Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, pag. 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., pag. 24 a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1“, passim, e specialmente ai SS 21 e 22, pag. 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius familiae, Bologna, 1881.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti; ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa, e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1). (1) Quanto all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º, pag. 28 a 34; quanto a quella della plebe, lo stesso lib. I, cap. 9, pagina 188 e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte, il più elaborato, il più coerente in tutte le sue parti, era certamente quello delle genti patrizie; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto, che l'ordinamento domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel periodo gentilizio; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui erasi formata, il quale serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia, nel periodo gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio; cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze, di cui potevano essere capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia, che ci fu trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il potere del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra, cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia, poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa imembri della famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico, appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente, che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa, quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia, che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra, quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo (1 ). 403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia quiritaria, la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente patrizia, ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in certo modo il mancipium. Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo serviano, che i diritti del padre sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro, suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit., II, $ 72, pag. 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul concetto di proprietà, cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium, poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal connubium. Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo, che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel ius proprium civium romanorum, salve al cune poche modificazioni, che erano imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2). Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una costruzione giuridica, organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse, che la medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città, e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto; ma il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte le altre, fu dimostrato nel libro III, cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2) Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla plebe il matrimonio cum manu, fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin d'allora al matrimonio sine manu, accordando alla donna di sottrarsi al vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della coabitazione per tre notti di seguito. 520 vantaggio di isolare ciò, che havvi di giuridico nella famiglia, da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente, poichè essa punto non impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica; che il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la dilapidazione del patrimonio famigliare; che il censore, vindice della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa, che, siccome nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con nubium, cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto. Quel connubium infatti, che nei rapporti fra le varie genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi, che di regola era circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo stesso nomen, trasportato nel diritto quiritario, venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium, ossia nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia, organizzata ex iure quiritium, con tutte le conseguenze, che potevano derivarne (1). Quindi è, che anche la famiglia ex iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium: ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum; poichè in quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum. Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü, i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio, II, 40), trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum. 521 – quiritium, al pari del dominium ex iure quiritium, venne a costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum, in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra: quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto, che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium, ha eziandio un fondamento nella realtà; perchè è col connubio che viene a costituirsi una nuova famiglia, la quale poi si esplica nella figliuolanza: il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone, allorchè scrive: « prima societas in coniugio, proxima in liberis; deinde una domus, communia omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza, che la famiglia quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica, fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci, l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo famigliare, cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli effetti giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia nei rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica, che era propria soltanto di una minoranza, e che per giunta era una so pravvivenza di un periodo anteriore di convivenza sociale; cosi, in tema di diritto famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario, e quelle invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto, che può scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il matrimonio cum manu (1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu; in quella fra l'agnazione e la cognazione; e in quella fra la successione e tutela legittima e la successione e tutela testamentaria; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio. Sono queste lotte, che danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa parte, alla parte del diritto già formato e consolidato, se ne contrapponga costantemente un'altra, che tro vasi in via di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle primitive istituzioni quiritarie. § 2. – Le iustae nuptiae e la storia primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al risultato, che il medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico, dovette incominciare da un concetto tipico, che è quello del matrimonio cum manu. Non è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti quiritarii, che al matrimonio cum manu (1). Che anzi vi sono forti indizii per supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario, stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu quella accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale importava fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1) Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto: La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain, nei « Mélanges d'histoire du droit », Paris 1886, pag. 6. Una prova poi di quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie, quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE, Top. 3, il quale scrive: « genus est enim wor; eius duae formae: una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum, quae tantummodo uxores habentur ». La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6, 9, ove dice: « matremfamilias appellatam eam solam, quae in maritimanu mancipioque erat », e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes, pag. 390. Sopratutto è degno di nota, che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, pag. 71, e il Brini, Op. cit., pag. 37. 523 comprovato dalla circostanza, che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio, si riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem. Così, per esempio, Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio, e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito, che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal medesimo (1). Tutto ciò significa, che le genti patrizie, fondatrici della città, presero senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio, e che il loro matrimonio continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa e patriarcale; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di farro, ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie, in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito, sembra pure essere probabile, che questa forma primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium, ma soltanto al repudium, il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio, in (1) Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268, pag. 329 e seg. (2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni di Gellio, X, 15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta, che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite, Firenze 1885, pag. 12 a 15. 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso, che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto, e consistere in una unione fondata sul reci proco consenso, fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse importata dall'antico Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura, che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la legislazione decemvirale, e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un matri monio, come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del marito, il quale, corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso, allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile. È questa speciale condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio, collo stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu, accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini; poiché (1) In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto sottrarvisi, doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, pag. 708, assegnata al n° 1', tav. IV, e ricostrutta nei seguenti termini: « si qua nollet in manu mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito ». - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe. Quando invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia, si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram, che era la forma solenne propria del negozio quiritario, e si diede cosi origine alla coemptio, quale modo di acquistare la manus (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu, e neppur quella, che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del marito. La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, e venne cosi ad essere un espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ). (1) La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und Recht der römischen Konigszeit, 1882, pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio: mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen Ehe und manus, pag. 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico, con cui queste varie forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente, cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii; poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN, Op. cit., pag. 8 e 9. (2) Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori, che la coemptio fosse di origine plebea, e che essa implicasse la compra della moglie per parte del marito. Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano; Voigt, XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio, pag. 50 e segg. La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram, e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario, componevasi di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, compiuto colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte del marito; 20 e della nuncupatio solenne, le cui parole non ci sono perve nute, ma la cui sostanza, secondo Servio e Boezio, consisteva in una reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia, e questa interrogava lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la coemptio, sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito, e sotto un altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di madre di famiglia (invicem se coemebant) (1). È poi probabile, che, come il vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio, cosi anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio, fossero una imitazione di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu, lascia abbastanza buire la manus al marito, e di attribuire carattere giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea di vendita della figlia, sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65, e sopratutto l'appendice sulla coemptio in fine al volume, nota B, pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen., IV, 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice: « Mulier atque vir inter se quasi coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da Isidoro, Orig., $ 24, 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS, pag. 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram « is emit mulierem, cuius in manum convenit »; ma la cosa si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti, e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso contrario BRINI, Op. cit., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo diverso, che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia, come lo dimostrano il suo carattere eminente mente religioso, e l'origine di essa, che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo dimostra il fatto, che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso. Noi sappiamo infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove, di Marte e di Qui rino, i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio (1). Per contro può affermarsi con una certa probabilità, che l'usus, ossia la coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe, in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium, e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu, essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto, quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo (1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si dice espressamente che « confarreatio solis pontificibus conveniebat ». Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad essere la forma dimatrimonio, che incontra maggior favore presso le varie classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia, essa sembra compiere quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria. Quindi al modo stesso, che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia, così accanto alla coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per metterla in condizione di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso. Quindi viene ad essere probabile, che colla introduzione di essa anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso della confarreatio. Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad essere acquistata, cioè mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu, pud anche spiegare le sorti (1) GAIO, I, 114 a 116. (2) GAIO, I, 115 e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu, e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem, il quale doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio; Bruns, pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio sine manu, e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu (Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa natura. Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem, venne a svolgersi il matrimonio civile per coemptionem. Fa in quella occasione, che al rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il divortium, anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per coemptionem, parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia, dopo aver detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie: « haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere potest, atque si ei nun quam nupta fuisset ». 529 diyerse, che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano. Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a scomparire, poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est» (1). Esso infatti era stato un espediente per dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che prima non l'avevano, e quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere religioso. Questo è certo, che Gaio parla della confar reatio, come di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia da Tacito, che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le matrone ottennero in quell'occasione dal senato, che il matri monio per confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione, che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne acquistando il matrimonio sine manu (3 ). (1) Gaio, I, 111. (2 ) GAIO, I, 36; Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone, console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS, pag. 303 e seg., dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu, a differenza della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò, lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del marito, dimostra che un fatto (Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine manu, come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me parrebbe invece, che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia romana, debba essere considerata come una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe, poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il potere dispotico del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or. ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure quiritium, venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia, negli « Studii e do cumenti di storia e diritto ». Roma, 1880, pag. 17. (1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, di fronte a quello cum manu, presenta una singolare analogia collo svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium. Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco a poco modellando su quella ex iure quiritium, così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu. Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu, come lo dimostrano la maritalis affectio, e la perpetua vitae consuetudo, di cui parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere cosi riassunti: lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però già ad avere una propria personalità giuridica, distinta da quella del marito; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile, poichè, più non essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica, quando si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium, e più tardi con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema dimatrimonio; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla moglie. 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio, nè la remancipatio, ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu, questo è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio, non potè svolgersi che col matrimonio sine manu; poichè un simile concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente, che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito, e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine dell'istituto della dote al matrimonio sine manu, V. fra gli altri PADELLETTI, Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio, e la dote in questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu, come lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 486. dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV, 3, il quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga, seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2 ) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato: Du mariage romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique »  corruppe il costume, ma fu piuttosto il costume che abbassò l'altis. simo concetto del matrimonio. $ 3. — Il pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma primitiva la famiglia, sotto il punto di vista giuridico, costituisce un tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede sima che un capo, il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium: dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso, cioè la moglie, i figli ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche dimancipium. Il padre è quegli, che è padrone nella casa, che figura nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria; perciò i diritti, che a lui spet tano sulle persone componenti la famiglia, sono modellati in tutto e per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò tuttavia non deve essere considerato come un indizio, che i romani confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose; ma soltanto che essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia, si collocarono al punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui figli e sui servi, viene pure ad essere probabile, che questo potere sia stato indicato con un unico vocabolo, il quale con tutta verosimiglianza dovette essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1) L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere sulle persone, e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del marito sulla moglie, quello invece di po testas indico di preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium, esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di famiglia, e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine, siccome anche le persone libere potevano essere date a mancipio, ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù; cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone « quae in mancipii causa sunt » e che come tali « servo rum loco habentur.” Allorchè poi questi aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri, ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento storico compiutamente diverso. Di questi poteri, quello, che per il primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città, ove non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la conventio in manu, dopo essere stata la regola, sia divenuta l'eccezione, finchè fini per cadere com piutamente in disuso. Con ciò non deve già intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia, ma (1) Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium,nella sua significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa mancipii sunt, vedi lo stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1). 415. Così invece non accadde della patria potestas. Questa non ha più bisogno di essere volontariamente accettata, come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita, e sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della nascita. Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione della manus del marito sulla moglie: donde la conseguenza, che la patria potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche uccidere i proprii figli; può rivendicarli, se gli siano sottratti; può dargli a mancipio, se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire. È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano, pur serbando integro il concetto della patria potestà, venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in questa guisa, che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della famiglia, ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata, che quanto agli effetti della patria potestà. 418. Noi troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita, venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il proprio figlio, viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu, nn. 411 e 412, pag. 530 e segg. (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94. 536 convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche qui abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre, trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è notabile eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una libertà ed indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere considerata come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei peculii. Non può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel piccolo patrimonio, di cui il (1) Gaio, I, 135. Si è molto disputato circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. A parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto ». Per tal modo una disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio, II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag. 424, nota 4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $ 73, presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento, pag. 27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata amministrazione al figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento, poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri, da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali (peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente, quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice adoptio, con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione della famiglia patriarcale, nella quale (1) L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione; ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica. Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia, cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz. Cogliolo, pag. 187, nota 4; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano, $ 169. Sono poi degne di nota, quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del SumnER MAINE, L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto. Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era certamente l'adrogatio, come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia ed il suo culto, per rendere possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa quindi, nella comunanza gentilizia, dovette probabilmente essere compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia, o degli anziani del villaggio; donde la conseguenza, che quando fu poi trasportata nella città, essa fu uno di quegli atti solenni, che, al pari del testamento, dovevano es sere compiuti in calatis comitiis, coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla patria potestà, suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio, applicando al solito l'atto per aes et libram, e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato, me diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio. 418. Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di origine esclusivamente patrizia, perchè era sopratutto nella famiglia patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto, che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti, che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune a tutti gli ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono sempre più il loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1) Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg. 11, § 2, Dig. (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas in familiam et domum alienam transfert ». Quanto alle origini dell'adrogatio nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, pag. 31. Le differenze poi fra l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio, V, 19. 539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto; ma si limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo, anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva (1). 419. Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio, e che essa non dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto, che i Romani non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria, ma comeuna istituzione del diritto delle genti (2 ). La medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire un gruppo, che potesse bastare a se stesso. È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria, esso comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza, ma anche coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium, e costituirono così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio, senza derogare alla sua dignità, ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva, chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii (4). Si comprende quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia, anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita, che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI. (2 ) Fra gli altri Gaio, I, 52, dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln, II, pag. 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152; ULP., Fragm. XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Giuridicamente parlando, il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere fatto libero, e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose, cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in cliente: nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della pubblica autorità, e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico, di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il servo, che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia, viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di ciò, questa impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può manomettere i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1) Nota giustamente l'HÖLDER, Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa, non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà, che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo, per cui il potere sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico interesse, e allora, mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà, che era accor data ai servi (1). Fu in questa guisa, che al concetto di un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana, sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore, secondo che essa lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana: « pessima itaque, conchiude Gaio, eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus consulto, aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos, quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere; alioquin iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines, sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante al capo di famiglia, trova la sua causa in ciò, che i Romani, anche in (1) È notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto. Ciò viene attestato da Gaio, III, 40, 41, il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum impune in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris iniquitas. (2 ) Gaio, 1, 26; Ulp., Fragm., I, 5. (3 ) Gaio, I, 141. 542 questa parte, trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al diritto; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica, ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela legittima nel primitivo ius quiritium. 422. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà. Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et necessarii); che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie: « sui quidem heredes, dice Gaio, ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il concetto di questa comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2). A nostro avviso invece questa specie di comproprietà, che i giureconsulti pongono a fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata e conciliata coll'unità potente della famiglia romana, (1) GAIO, II, 157. (2 ) Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit., pag. 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain, Paris, 1880, pag. 63, e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle: nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 457 e segg. 513 quando si ritenga che la famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città, ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata. La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di loro; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre, il che la rendeva unita e compatta per la lotta, che doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata; e quello di sup porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla. In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone: « una domus, communia omnia ». Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii: che il primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio; che il padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens; che il padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento, nè scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia, che appartenevano alla sua gente o tribù (1). Vero è, che tutti questi temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e il capo di essa apparve così investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica, che tendeva ad uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale, che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo, risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa unificazione potente del gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona dei figli; conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo: in suis heredibus evidentius apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas fuisse, quasi olim hi domini (1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib. I, cap. 4, § 3º, sopratutto pag. 70 e segg. 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini existimantur. Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur, sed magis liberam bonorum administrationem consequuntur (1). Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè si può ammettere, che questa specie di comproprietà, a cui accennano i giureconsulti, sia un concetto penetrato più tardi nella classica giurisprudenza, per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto, come pure è a questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale, che gli heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione infatti già doveva esistere nella universale coscienza, all'epoca della legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa, che na turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione; mentre è solo per il caso, in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della successione per legge, chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura, che in occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium (1) PAOLO, Leg. 11, Dig. X (28-2). V. nel CARPENTIER, Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., pag. 201. (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di diritto. Convien però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori della personalità del padre, e li metteva anzi nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545 romanorum, e di rendere così comune a tutte le classi quel sistema di successione ab intestato, che doveva già esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio. Noi sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti, che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova nella circostanza, che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe, dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione. Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della famiglia patrizia; come lo dimostra la circostanza, che esso fondasi esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia, e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia (1). Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea maschile, tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà del capo di famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro, i quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum, hanno però comune la discendenza da un medesimo (1) Che la successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero fatto altro, che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5. Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit., pag. 122 e 172 ). Ho già dimostrato più sopra, pag. 39, nota 1", che questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta, quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di successione legittima, che le consuetudini avevano già svolta presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 35 546 antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono chiamati a succedere. Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia, tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes sui et necessarii): non potevano essere spogliati dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe, ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati, il patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la legge, per impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità, questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 ) Gaio, III, 1 a 8; Ulp., Fragm., XXIV, 1 a 3. (2) GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm., XXIV, 1. L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il concetto, che ho svolto nel lib. I, pag. 38 e 39, secondo cui la cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: « si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento »; il che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria universalità, e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia: ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso (1). Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del liberto, che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente del patrono: « si cliens in testato moritur, cui suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito » (2). omnium agnatorum. Quando poi venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei, « id est fratres et sorores ex eodem patre »; poscia, quando questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos virilis sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae, (1) Gaio, III, 17; UlP., Fragm., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che gli oratori delle parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure ». Sembra tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo genere. (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig. (50, 16). Nella ricostruzione del Voigt, I, pag. 705, questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt, II, pag. 392 e 393, quanto alla successione del patrono al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima; poichè,mentre nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo patrono, la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota, che, unitamente al sistema della successione legittima, dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti (1): ma la prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro, che avevano il vantaggio della successione: « ubi emolu mentum successionis, ibi onus tutelae »; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela, che la successione le gittima si informano ancora ai concetti dell'organizzazione genti lizia, da cui furono desunte, e come tali mirano a conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi, fosse affidata agli agnati ed ai gentili; come le donne, anche perfectae aetatis, cadessero sotto la tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non potessero essere usucapite, quando non si fossero alienate col consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva del l'impubere, la quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che non alla educazione della persona, la cui cura soleva essere lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio famigliare (2). i 426. Chi tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia, che si atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie, esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di (1) Ulp., Fragm., XI, 3. (2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit., pag. 188 e le note relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma di vere iuris iniquitates; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio, introducendo, accanto alla successione legittima, una successione pretoria, e creando, accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto, e vennero creando essi stessi degli espedienti giuridici, quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia, per liberarle da una tutela, le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione sociale (1). In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la tutela testamentaria, e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di antagonismo fra di loro. Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò, che siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato, così essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso, non potessero fare testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione legittima, quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia; il qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto; è confermato dalla massima: nemo paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest; ed è provato eziandio da quella specie di ripugnanza, che avevano i Romani a morire senza testamento: ripugnanza, che si spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la varietà grandissima di opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito (1 ). Credo tuttavia, che anche in questa parte possa condurci a qualche conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium. Questo studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi nel primitivo ius quiritium. Mentre la successione e la tutela legittima, le quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune, sono istitu zioni di origine prettamente gentilizia, ispirate al concetto di ser (1) L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che è lungi dall'essere risolta, malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu argomento. Fra autori, che la esaminarono di recente, citero soltanto il RUGGERI, nei Documenti di storia e di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886, pag. 449 a 474; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa (« Archivio giuridico », vol. IV ). Anche l'ESMEIN, La manus, la paternité, ecc., pag. 4, nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima, dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva: poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione, per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato, verrebbe alla conseguenza, che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la testamentaria, do vevano comprendere l'intiero patrimonio; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò, che anche il testamento dapprima era una vera lex, e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è evidente, che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis, non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram, che non ha più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla gente; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium, non è più il testamento delle genti patrizie, ma è già un'applicazione dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram, che si ispira al prin cipo: uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore dell'antico gruppo patriarcale: mentre in questo già campeggia la fiera individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). A cið si aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria, nella struttura organica del ius quiritium, muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso. Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii, ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del principio: « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2 ). Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso, che impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria, che gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso. Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo: « ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et intestato decessisse, earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il cap. III, § 4, in cui si discorre della successione testamentaria, ed il $ precedente relativo alla successione legittima. (2) Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato, ancorchè solo di passaggio, da Cic., De orat., I, 57, § 245; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà del testatore dominava sovrana. (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 201, questa massima sarebbe invece una conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel diritto, il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium, avesse pui consentito, che concorressero insieme due istituzioni, le quali muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro. Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria. Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi (1). Mentre ritengo, che questa opinione possa essere conforme al vero, per quanto si rife risce al periodo gentilizio, nel quale il testamento non dovette essere, che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece, che essa non sia con forme all'evoluzione storica, che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium. Sonvi infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole, mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria; il che indica appunto, che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già subito l'elaborazione del ius quiritium, mentre la suc cessione legittima non sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale. Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186. 553 doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici costumanze della plebe (1). Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole, che la successione testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano (2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere considerato unicamente, come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium, mentre il testamento, che era stato ultimo a comparire, fu il primo ad esservi accolto, come quello che meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica, che era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium. (1 ) ULP., Fragm., XI, 3; XXVII, 5; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata da una quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti: « quamdiu possit valere testamentum, tamdiu legitimus non admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50, 17); « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le origini della procedura ex iure quiritium. 429. Quella tecnica giuridica, di cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto, relativa alla procedura delle legis actiones, ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e (1) Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa: ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista, a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions, trail. Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones; BEKKER, Die Aktionen d. röm. Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, pag. 18-74; KAR LOWA, Der röm. Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen, Berlin 1872; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag. 15 a 86; JHERING, L'esprit du droit romain, tome 36, pag. 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd., pag. 181 a 235; Zocco-Rosa, Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta. Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale; egli anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio, segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci pervenne di queste legis actiones, è molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio, che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la introduzione della legis actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio, discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla condictio (2 ). 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella delle legis actiones. È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura, che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono, secondo l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto, secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di cui una compievasi in iure, cioè (1) Pomp., Leg. 2, § 6, Dig. (1, 2 ); Gaio, IV, 11. (2) V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis postulationem, e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem. (3) Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti al magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel determinato caso si potesse far luogo all'applicazione della legis actio, e si dava alla fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti, in base alla configurazione giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al magistrato (1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del medesimo, e costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi processuale o contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del giudicato, e costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris capio (2). (1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò, che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia, per essere deferite alla giurisdizione del magi strato. Di qui la conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una questione preliminare, da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la controversia, o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad un iudicium. Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto, fra il ius ed il iudicium, non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto: ma mira in certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem publicam ». (2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica delle legis actiones, che esse, ad eccezione della pignoris capio, si compievano in iure, cioè davanti al magistrato; ma tale distinzione è comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle procedure esecu. tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis actio per condictionem. In questo stato di cose, la questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della procedura quiritaria, sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che già fin dal periodo regio, cosi nei giudizii penali come nei civili, si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium, che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie, certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, siasi pure iniziata la formazione di una procedura propria per le questioni di carattere quiritario. Le prime origini di tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza, mentre avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita alla considerazione del grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag. 19 e 20. (1) È questa la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile romanı, Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre, cioè: 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur, mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva)  nale quiritario dei centumviri, quella dei iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius quiritium, relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium, e che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi, quando le altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica, e i primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris conditores, trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche, riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium, e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria: cosi essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della comunanza quiritaria. Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro, quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure, analoga a quella che occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme tipiche, in cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa, che si riuscì ad una procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un tempo, quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia (1). 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già nella stessa organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia, ed anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla risoluzione di tali con (1) Questa spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro, possono conciliarsi fra di loro, quando si accetti la teoria, svolta più sotto, di distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte mimica, e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi iuris observantia, ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello stabilimento della civile giustizia; ed è la seconda, che potè invece essere accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO, IV, 11; POMP., Leg. 2, 8 6 e 24, Dig. (1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità consuetudinaria (1). Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi di fa miglia, uguali fra di loro, che nella loro fiera indipendenza non accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato, il quale, anzichè giudice diretto della controversia, lo era invece della scommessa, con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione. Questa è quella procedura, che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica, e denominata actio sacra mento, le cui traccie trovansi non solo fra le genti italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3). L'altra invece fu una procedura, la quale ricorda ancora uno stato di privata violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei. Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio, ma poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio anche violento della potestà giuridica spettante a una persona, come lo dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius quiritium, e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di esso. La prima fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di istituire un giudizio fra quiriti: come tale essa mira a serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e chi il soccombente. La seconda invece fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o confessato il proprio debito. (1) Quanto alla primitiva formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò, che si è detto nel lib. I, cap. V, § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib. I, nº 104, pag. 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions, Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., pag. 209 e seg. (3 ) V., quanto alle prime origini della manus iniectio, lib. I, nº 106, pag. 137. Cfr. CAPUANO, Storia del diritto romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della procedura civile romana, pag. 116; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali; quindi i con tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo: sono le persone, fra cui si discute, che recansi dinanzi al magistrato. Esse fingono un combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi, secondo il valore della controversia; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al possesso della cosa, che forma oggetto della controversia. Lo scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si perde dal soccombente, e mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a benefizio del pubblico erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma solo di nominare un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa, della quale deve esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse; la manus in (1) Tutti questi caratteri della legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV, 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam, che quanto all'actio sacramento relativa agli immobili. (2 ) Gaio, Comm., IV, 21 a 26. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del vincitore contro il vinto, di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve subirla. Anche la controversia è una lotta: quindi se durante la me desima deve essere serbata l'uguaglianza, allorchè invece essa è finita, il vincitore può stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo, per cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio, venisse eziandio ad essere simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto. 434. È tuttavia degno di nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello, che abbiam visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario. Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una parte, che compievasi « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem » e che costituiva cosi un ricordo del passato, ed una parte veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso; cosi anche nella procedura primitiva, miri essa ad istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale, la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura, con cui si accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla. Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione, se trattisi di immobile; dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa; dal simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio, dalla mutua provocatio, e dal sacra mentum. Nella manus iniectio invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una soprav vivenza, col tempo divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta, inerente alle legis actiones, e di affermare che: « actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci da un popolo, che, più di qualsiasi altro, seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte veramente viva ed attuosa, e questa consisteva in quelle concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum, verba concepta, certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi il pretore, e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le controversie di carattere quiritario, e la sola manus iniectio poté bastare a qualsiasi procedura esecutiva. Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura quiritaria. Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di agire del primitivo quirite, fiero, indipendente, geloso del proprio (1) Co., Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio dell'antico, allorchè scrive: « Nam si quem aliena studia delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris, et in XII Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. (2) A mio avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia pronunziata; umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre, che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento storico, così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem. Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura, e di ricercare eziandio l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella, intorno a cui ci pervennero maggiori notizie, è certo l'actio sacramento. Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra speciale procedura, si trattasse di agere in rem, od anche di agere in personam. Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam; il che però non impedisce, che essa presentasse delle differenze nelle solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in personam. Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit); cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite, corre anche il rischio di perdere la scom messa (1). Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere veramente quiritario, le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis (2 ). Tutti questi caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento, e ci richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale, fra attore e convenuto, fra la provo. catio e la litis contestatio. Si comprende quindi, che la mimica, che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile giustizia, fra i capi di famiglia, e che essa, trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario. Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più antica, sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium, cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario, sia per il modo, in cui era composto, sia per le controversie, che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo, e quindi anche nello Stato (3). (1) GAIO, IV, 13 a 17: Cic., Pro Caecina, 33, ove dice, che in una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso, che il suo sacramentum era iustum. Di qui le espressioni: iusto sacramento contendere, iniustis sacramentis petere. (2) La necessità della legis actio sacramento, per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium, è dimostrata dal fatto che, secondo Gaio, IV, 31, anche dopo l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa: a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit ». È poi lo stesso Gaio, IV, 14, il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro Caec. 33. (3) La competenza del centumvirale iudicium, per le cause di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello, che ci pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem. Dal palimpsesto di Verona non si potè ritrarne, che il titolo, mentre da Valerio Probo si ricavo la formola, che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un arbitro: iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento, e che talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia, piuttosto che con quello di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri (1). Bastano tuttavia questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze, che la contraddistinguono dall'actio sacramento. Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella del conve nuto; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata, in cuiil magistrato procede alla designazione del giudice; conduce alla risoluzione diretta della controversia; non trae più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa. Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale, come quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum, nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro, secondo un antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti (2 ). Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie, che ne formavano oggetto, le quali supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri, sono quelli relativi al regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato »; alla divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano, $ 7, pag. 25; ORTOLAN, Expli cation historique des Institutes de Iustinien, Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum, tuttavia occorrono passi di autori, in cui i centumviri sono contrapposti al privatus iudex, come in Cic., De or., I, 38, 39; in Quint., Instit. or., 10, n ° 115, ove scrive: « alia apud centumviros, alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio ». Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4. 567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo; cosicchè, di fronte al iudicium directum, asperum, simplex, che era istituito col l'actio sacramento, essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum, mite, in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius quiritium. Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio, colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro, è lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex, sotto il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter. Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale, la quale am metteva per certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed arbitrium, la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla conclusione, che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà, che è propria dell'actio sacramento, e non possa perciò considerarsi come una procedura di carattere patriarcale, trasportata a Roma. Essa invece dove già formarsi sotto l'influenza della vita cittadina, e dove probabilmente essere una conseguenza della stessa formazione del ius quiritium. Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto di Roma, ma solo quella parte di esso che corrisponde al concetto del quirite, e che primo era riuscito a consolidarsi mediante il riconoscimento di una lex publica. Cosi ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i cittadini, si divi [Cic., Pro Mur.,osserva, scherzando, che i giuristi non si sono ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra iudicium e arbitrium, fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium, è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente risolte. Cfr. KELLER. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium, mi rimetto al “De exceptionibus in iure romano” (Torino)] dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere eminentemente quiritario, relative al caput, alla manus, al mancipium, all'atto per aes et libram, ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum, mancipium, testamentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiritario, potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacramento. Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto, che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo. Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice, non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le parti contendenti possono anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto. Quindi è probabile, che siano state appunto queste controversie, le quali, al punto di vista quiritario, hanno minor importanza, che Servio Tullio comincia a deferire al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio le prime controversie di carattere quiritario si indicassero col vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia. Siccome poi col tempo, una parte di quel diritto, che in certo modo esiste allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium, fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del diritto quiritario. Cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis postulatio, che dapprima ha un carattere sussidiario, puo entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette avvenire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolge la iudicis arbitrive postulatio, come lo dimostrano le controversie, [L'opinione qui svolta, circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis postulatio, si avvicina a quella enunziata da KARLOWA (“Der röm. Civilprozess”) per cui essa prescrisse al magistrato di addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da quel punto la iudicis postulatio entra a far parte del sistema della procedura civile romana. Costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo dimostra Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla iudicis postulatio, che alla stessa actio sacramento. Questo svolgimento poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si opera nella stessa iudicis postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla clausola “ex fide bona”, fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in cui domina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il mandato, la vendita, la locazione, e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, sono ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso Cicerone – “uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem.” Pervenuto a questo punto nella storia della primitiva procedura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo svolgimento della medesima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di “reciperatio”, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella categoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recuperatores. Si è veduto in proposito, che nelle consuetudini delle genti italiche era indicata col vocabolo di “reciperatio” quella clausola, che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i cittadini di un popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro. Era con [Voigt (“XII Tafeln”) assegna alla iudicis arbitrive postulatio ben XXXV azioni, di cui IX apparterrebbero agl’arbitria, e il rimanente ai iudicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., -- Cic., De offic.] questa clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato (foedus), comincia ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di particolare, che pone in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi doveno rappresentare l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo. Quando poi si ritenga, che Roma usci essa stessa dalla confederazione di genti di origine diversa, e fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la “reciperatio” sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente, e ha col tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei rapporti fra i cives ed i peregrini. Cio è dimostrato dal fatto, che gl’antichi autori indicano talvolta la “recuperatio” col vocabolo caratteristico di actio, e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i peregrini, si cambiarono in una categoria di giudici, che potevano essere nominati anche per le controversie inter cives, e sopratutto dal bisogno sentito più tardi di creare un “praetor peregrinus” “qui inter peregrinos ius diceret.” La reciperatio s’applica anche al ius pacis, nei rapporti fra le varie genti. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio, nel passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di diritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello stato, a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la “reciperatio”, come nei tempi moderni la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i romani prenderà il nome di ius gentium, e che nell'età moderna e dal Savigny indicata col nome di comunanza di diritto, la quale, secondo il grande fondatore della scuola storica, dove essere posta a fondamento del diritto internazionale. V. Savigny, “Traité de droit romain,” trad. Guenoux. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium, e questa comunanza di diritto fra gli stati moderni, mi rimetto ad altro mio lavoro col titolo, “La dottrina giuridica del fallimento nel diritto internazionale private” (Napoli) come pure all'opera, “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino). Quanto all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera [Queste circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una, propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra invece, applicabile ai rapporti fra cittadini e stranieri, e percid più semplice e spedita. Siccome pero uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana certe semplificazioni, che sono invece proprie della reciperatio. Di qui una scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continua ancora, allorchè l'accrescersi delle controversie condusse a dividere la iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di “praetor urbanus” e di “praetor peregrinus” portano le traccie del dualismo, che essi rappresentano. E questo il motivo per cui, a quelmodo stesso, che i recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei rapporti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite, per essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma. Che anzi la coesistenza di queste due procedure dovette, a mio tores, i quali diventarono col tempo una istituzione romana e sono i modesti preparatori della maggior opera, che doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512 dalla fondazione di Roma (KELLER, “Il processo civile romano”, ZIMMERN, “Traité des actions,” JHERING, “L'esprit du droit romain”, KarLOWA, “Röm. Civil prozess,” Bouché-LECLERQ, “Instit. rom.,” MUIRHEAD, Histor. introd., quanto all'applicazione della recuperatio inter cives. Keller nota a ragione che il riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata. Noi sappiamo anzi da Gaio, che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nomina dei recuperatores, anche per cause inter cives; ma ciò venne appunto ad essere l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano quelle, che si recano davanti al centumvirale iudicium, non potevano essere che assolutamente proprie dei cives romani o dei latini, o dei peregrini, a cui fosse stato esteso il ius quiritium.] avviso, servire a preparare lentamente certi effetti, chenegli avvenimenti posteriori appariscono pressochè repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui, accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente delineando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circondavano, il concetto più largo di un ius gentium, il quale, una volta formato, doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel primo. Cosi pure egli è probabile, che il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia, il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo dove poi essere accolto dal ius civile. Infine, per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che quella “egis actio per condictionem,” che ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata, mediante una condictio, in quanto che i contendenti condicebant diem, ossia fis savano di comparire fra XXX giorni, avanti il magistrato, per ot tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII Tavole, di « status, condictus dies cum hoste », il quale doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra cittadini. Sembra tuttavia, che vi fosse una differenza fra la condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno di comparire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio, era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). (1) Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle formole e dell'editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è da ve dersi il Glasson (“Étude sur Gajus,” Paris). Cfr. Carle, “L'evoluzione storica del diritto romano” (Torino). Secondo Voigt, XII Tafeln, la legge II, Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste. Cfr. quanto alla “condictio cum hoste,” il MuruEAD]. Anche intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem, sembrava accennare alle origini di essa. Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ricavare: lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio, o meglio nella denuntiatio, che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra XXX giorni ad iudicem capiendum; 2º che nella medesima quella scommessa, che occorreva nel sacramentum, appare surrogata dalla sponsio et restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia, deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena; 3º che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa res: leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa, per cui la condictio ha ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ha ad osservare, che per le controversie di questa natura possono servire le anteriori legis actiones. Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto, che sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto, che la condictio non e del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza, e non è punto improbabile, che fosse una imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos. Essa poi e accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res. Quindi, riguardando obbligazioni relative ad un certum, essa dovette restringere il dominio della [Gaio.  Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio, relativo alla legis actio per condictionem. Ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò, che egli dice altrove, che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis fa parte dell’actio certae creditae pecuniae propter sponsionem. Ora l' “actio certae creditae pecuniae”, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per condictionem. Quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di antico, e richiama sott'altra forma la scommessa del “sacramentum”, dove certo ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio accenna ai dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis action] actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale e propria delle controversie di carattere indeterminato. Per tal modo, la condictio si presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu. Abolisce tutta la parte mimica del sacramentum. Sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per oggetto un certum, il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri. Infine surroga alla scommessa, che anda a beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis, che va invece a benefizio del vincitore delle lite. Quanto alla causa storica, che può aver determinata questa semplificazione nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum, essa deve certamente essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca della Lex Silia e Calpurnia, quanto alle obbligazioni di carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture. Ma è possibile di giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle obbligazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo, che la forma primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium e quella del l'atto per aes et libram, che piglia il nome di nexum. Colla medesima il debitore sottoponeva senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio, per il caso che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la Lex Poetelia tolse di mezzo gl’effetti speciali del nexum, negando al medesimo l'efficacia di un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il nexum cessa di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima e, e comincia a cadere in disuse. Ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi, esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la “sponsio” o “stipulatio”, la expensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di cui formano oggetto quelle cose “quae numero, pondere acmensura constant.” Per tutte queste obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la immediata manus iniectio, che un tempo era con- [Cfr. in Keller e il Buonamici, “Proc. civ. rom.”] -sentita per il nexum, non puo più esservi altra procedura, che quella dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi e inerente, non puo a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il cui credito risulta in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile. Si comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la lex Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore ed una pena per il soccombente. Siccome poi nel diritto romano ogni istituto, che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si rivendica il posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace; così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice, più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbligazione di un certum, mentre l'actio sacramento si circoscrive a tutte quelle controversie, che hanno il carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui consegui col tempo, che il vocabolo di “condictio”, nel linguaggio giuridico, divenne pressochè sinonimo di “actio in personam”, mentre l'actio sacramento finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di “condictio” per indicare l' “actio in personam”, poiché l'essenza della primitiva condictio non consiste tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei. Ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico, verificatosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si riduce alle sole vindicationes, mentre la condictio e in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere tutte le actiones in [(1) Cf. il nexum -- ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che anda in disuso. Anche il MUIRHEAD stiene un'opinione analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.] personam, e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione stessa di Roma, sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura, che e accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di carattere quiritario, e quindi negli inizii dove essere la legis actio fondamentale del ius quiritium, nello stretto senso della parola. Questa invece si applica nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però a Roma e continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra procedura segue davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra. Cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per essere trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto, potevano risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia, accanto all’actio sacramento, che continua ad essere l'a zione tipica del ius quiritium, comincia a svolgersi la iudicis postulatio, la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guise, le controversie, che hanno per oggetto un certum, si trattano coll'actio sacramento. Quelle invece, che riguardano un incertum, danno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di queste due legis actiones fini- [Gaio, dopo aver detto, che l'essenza dell'antica legis actio per condictionem consiste nella denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non proprie condictionem dicimus actionem in personam, qua intendimus dari oportere; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit.” Gaio ha ragione dal suo punto di vista, perchè l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi sta non più nella denuntiatio diei, ma nel dari oportere. Ma storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum.] per subire una suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sacramento, penetra la condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece attire a sè tutte le actiones in personam, che avessero per oggetto un certum, e divenne quasi si nonimo di actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetra in parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della iudicis postulatio si opera pure una distinzione; poichè essa puo dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità. Intanto però, mentre si ha questo svolgimento storico, è probabile, che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, imitano delle procedure, che già si applicano nei rapporti inter cives et peregrinos. Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones, che poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio; fra l'actio in rem e l'actio in personam; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e le incertae; fra l'actio nesin ius conceptae e le actiones in factum. Si può quindi conchiudere che, anche in tema di procedura, tutte le varietà e distinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica, che è quella dell’ “actio sacramento”, la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui si svolge la procedura contenziosa del diritto; ma che accanto alla medesima fin dai primi tempi fuvvi la reciperatio per le controversie inter cives et peregrinos, dalla quale dovettero essere mutuate certe procedure più semplici, come quella della “condictio”. E poi eziandio in questa procedura, che dove essere applicata dal praetor peregrinus, che comincia a prepararsi quel concetto del ius gentium, e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi tanta influenza sul diritto civile romano. Mentre nella procedura contenziosa il diritto cerca di mantenere la più rigorosa IMPARZIALITA fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i contendenti giunse al suo termine, e trattisi di procedere all'esecuzione contro il soccombente. Anche il linguaggio giuridico sembra allora richiamare un'epoca di violenza. Ciascuno e vindice del proprio diritto. Noi veniamo cosi a trovarci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una esecuzione contro la persona del debitore, e questa invece il carattere di una pignorazione contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere, che nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti nel diritto il modo generale di esecuzione per le obbligazioni viene ad essere la manus iniectio, che è diretta appunto contro la persona. Mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un privilegium, e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi, che furono specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla natura del credito. Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce evidente, che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa pero viene già ad essere regolata dall'impero della legge; poichè è questa che determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di esecuzione. Incominciando dalla manus iniectio, noi troviamo che la medesima, nel ius quiritium, compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui puo appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone sul servo, di cui rimasero le traccie nella “vindicatio in servitutem”. Un'altra forma era quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del “nexum”, in base a cui il debitore, che non paga a scadenza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato, essere trascinato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito. Vuolsi qui aggiungere, che Gaio accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi *in giorno nefasto*. Questa manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del rigore dell’obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et libram. Questa e quella manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, da origine a quelle dissensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la Lex Poetelia nel 428 di Roma. La Lex Poetelia però non e ancora una vera legis actio, in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione quiritaria, assunta colle forme del nexum, nella quale la volontà manifestata dalle parti costituiva legge, ed implica la condanna del debitore. Havvi infine quella manus iniectio, che occorre nella legislazione decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro, che avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel damnati). A mio avviso, è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il carattere di una vera legis actio, e che egli indica col nome di manus iniectio iudicati, sive damnati. La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura della [Gaio. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est », e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando da Le XII Tavole, avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione. Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura, di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum; tanto più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo, in cui la Lex Poetelia ha tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto possono ritenersi compresi negli aeris confessi di Le XII Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse. Poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum, le disposizioni di Le XII Tavole sono state abrogate, e se si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria speciale di fronte al principio – “in iure confessus pro iudicato habetur.” Questa opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero comprendere i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, e da quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come Voigt e Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, “Storia del dir. rom.,” il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt.] manus iniectio, e probabilmente una delle cause, per cui la medesima col tempo diventa oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i quali hanno cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali di Le XII Tavole a questo riguardo. Allorchè altri aveva subito condanna per un proprio debito, gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava XXX giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse, il creditore puo porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato, e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio. Né al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex, che fa valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore puo condurre il debitore nel suo carcere, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto durava LX giorni, e negli ultimi III giorni di mercato, compresi in questo spazio di tempo, il creditore dove condurlo di nuovo davanti al magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento, il creditore poteva *ucciderlo* o venderlo al di là del Tevere (“capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum ibat”). Ed anzi, se più fossero i creditori, venivano le famose espressioni conservateci da Gellio – “partis se canto: si plus minusve secuerunt, se fraude esto.” L'autore, che ci ha serbata più particolare notizia della procedura esecutiva nel diritto, conservandoci perfino le parole testuali della legge, è Gellio, Noc. Att., -- dove introduce il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune singolari disposizioni del diritto. Interessante discussione, poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore del diritto. Dall'altra abbiamo il filosofo, il quale, a nome della ragione, viene combattendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle testuali disposizioni di Le XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, ci porgono le fattezze primitive della manus iniectio. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accorda al creditore,  lascia increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente di Voigt di interpretare la legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si riferisse alla ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore. Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe forse consentire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge attribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè letterale. Ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento, che vi diedero gli antichi. E questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio, che il giureconsulto Sesto Cecilio, pur tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione. Sesto Cecilio dice invece, che il legislatore, nell'intento di tutelare la fede nei negozii,  introduce una pena, che, per la propria immanità, non puo essere applicata, come in effetto non lo era mai stata. Voigt, “XII Tafeln”. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della legge VIII della Tav. III, aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio. “Tertiis nundinis, partis secant” -- le parole “si coheredes sunt” -- il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori, egli non poteva più essere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma intanto se fossero stati più i co-eredi del creditore, che l'aveva domum ductus, i medesimi potevano, in base alle XII Tavole, procedere contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Questa supposizione è ingegnosa. Ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima, quale e quella di Gellio, puo restringersi ad un caso abbastanza speciale, qual e quello posto innanzi dal Voigt. Questa interpretazione letterale della legge, di cui si tratta, non e  solo attribuita alla medesima da Gellio ma eziandio da Quintiliano e da TERTULLIANO -- ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta,pur fatta da Gellio,  che la storia non ricorda alcun caso di “sectio corporis”. “Dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi, neque audiri.” Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio in quell'altra disposizione delle XII Tavole. “Si membrum rupit, ni cum eo pacit, talio esto” -- ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare a colui che ha subìto un danno per colpa di un altro, una potestà corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ha pure ad essere sostenuta, col sussidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler (“Das Recht als Culturerscheinung”, Vürzburg) il cui brano relativo è riportato dal MUIRHEAD. Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significazione diversa da quella, che vi attribuirono gl’antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri possono giungere ad una disposizione di questa natura. Tale spiegazione non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie parti del “ius quiritium”, e sopratutto nel rigoroso concetto, che questo diritto ha a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude, trattandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa, oggetto della proprietà, colla persona a cui essa appartiene. Così pure esso, nel concepire il diritto di obbligazione, vide nel medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe pressochè materialmente il debitore al suo creditore (nexum), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto non si appiglie all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore. Procede diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di co-azione contro il debitore che non paga, nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento. Che se le co-azioni di carattere giudiziale od estra-giudiziale non bastano, questa logica, fissa nel carattere esclusivamente personale dell'obbligazione, puo anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di vendere o di *uccidere* il debitore, al modo stesso, che attribuisce al proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gl’appartiene (ius abutendi). È tuttavia evidente, che il diritto, accordando simili diritti al creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un diritto reale ed effettivo, quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti mezzi di co-azione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura. Lo stesso Kohler già erasi occupato della questione nel “Shakespeare vor dem Forum der Jurisprudenz” (Vürzburg), di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella “Nouvelle revue historique.” A compimento di questa notizia ricordo anche l’interessante saggio di ESMEIN, “Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit” -- ove il diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gl’amici non ne abbiano pagato il debito. Qui la co-azione adoperata s'appoggia sull'opinione popolare che l’ANIMA del debitore non trova riposo, finchè il suo CORPO non riposa nella tomba.] della manus iniectio, dalla necessità nei varii stadii della medesima della presenza del magistrato, dall'obbligo imposto al creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debitore. Ed è questo il concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri. “eam capitis poenam, sanciendae fidei gratia, horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus metuendam reddiderunt.” Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione di Le XII Tavole, nella parte, che si riferisce alla spartizione del corpo del debitore, appare perfino di impossibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o minore diquella che gli sia dovuta, il che conferma eziandio l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui – “eo consilio tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur.” Del resto non è questo il solo esempio di questa logica astratta, propria del diritto, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del debitore trova un riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro -- talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino,  non puo essere più facilmente eseguito che la spartizione del corpo del creditore in proporzione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre sui figli, al marito sulla moglie, al padrone sullo schiavo, ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trova dei temperamenti nel pubblico costume. Non è quindi il caso di inferire da queste disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i romani. Ma soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro “ius quiritium”, essendo il frutto di una elaborazione giuridica, la quale mira ad isolare l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, fini per essere governato da una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. Dice infatti Favorino presso Gellio: “Praeter enim ulciscendi acerbitatem ne procedere quoque executio iustae talionis potest; nam, cui membrum ab alio ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero, an efficere possit rampendi pariter membri aequilibrium? in qua re primum ea difficultas est inexplicabilis”. KOHLER dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola, quella cioè che i romani sono degli antropofagi. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium, nella sua procedura di esecuzione, ha preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio, si comprende, che esso, nella sua perseveranza tenace, stenta più tardi ad abbandonare la via, che prima segue. Noi troviamo infatti, che nel posteriore svolgimento della procedura esecutiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della parola continua sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del debitore, e invece il ius honorarium, il quale soltanto molto più tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio. Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre due, non impede che il debitore potesse “manum a se depellere et lege agere pro se”, senza ricorrere all'opera di un vindex. Posteriormente poi, la legge Vallia ristrenge di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che primierano stati introdotti, in cui si agiva o in base a un giudicato, o contro una persona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà. Di questo, secondo Gaio, rimane una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò, che anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, «”iudicatum solvi satisdare cogitur.” Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove, che l'introduzione della bonorum venditio sole essere attribuita a Publio Rutilio, il quale dovette essere praetor nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio, che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non dissimile da quello, che ora ha luogo nella procedura per fallimento. E solo più tardi, che anche il diritto civile, per mezzo della lex Iulia de [Gaio. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore. Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura contro i beni, vedi KELLER, “Il processo civ. rom.” e quanto alle analogie, che questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, “La faillite chez les Romains” – ] -cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo di evitare l'esecuzione personale, ricorrendo alla cessio bonorum. Ma anche allora questa cessio bonorum dove essere consentita dallo stesso debitore, e costitui in certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era accompagnata. Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del ius quiritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pignoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio, in dapem). Un solo caso di pignoris capio lascia traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o censoria, a favore degl’appaltatori delle imposte, sui fondi che sono gravati dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha un'analogia incontrastabile col privilegio generale sugl’immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto, che nel diritto di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obligazioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa procedura sembra negl’inizii essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto, che noi la troviamo descritta dapprima nella “Lex Rubria” de Gallia Cisalpina. Una ragione di questa preferenza [Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i beni, vedi eziandio LENEL, “Das Edictum perpetuum”, La lex Rubria, Bruns, Fontes, attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge “Praetor” – “isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de « eius rebus omnibus ius deiicito, decernito, eosque dari bona eorum, possideri, « proscribique venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, “Röm. Processegesetze”] dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius quiritium ha ad essere modellato sul concetto fondamentale del “quirites”, in quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto giuridico, la cui parola dava origine al “nexum”, e la cui volontà costituiva una legge, cosi nei negozii tra vivi come nel testamento? Non abbiamo anche in questo una conseguenza dal punto speciale di vista, a cui eransi collocati i modellatori del diritto? Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della procedura romana e metterle in movimento ed in azione, per comprendere come il sistema della “legis actio”, anzichè essere, come vorrebbero taluni, un complesso di solennità, escogitate dallo spirito sottile e formalista dei romani, sia stato invece il mezzo più potente ed efficace,mediante cui venne preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. La “legis actio” e per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano puo essere isolata da tutti gl’elementi estranei, ed essere ridotta cosi a quello stato di purezza, che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto, per poter affermarsi in giudizio, dove passare per lo strettoio della “legis actio”: cosi ne venne, che con questo sistema prima il pontefice, nel modellare la “legis actio”, poscia le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia. Quindi il magistrato nel determinare i termini, in cui tale controversia dove essere giuridicamente concepita. Infine i giudici, che doveno di necessità restringere la loro decisione al punto di questione che e loro sottoposto, attendeno tutti ad un medesimo lavoro, che e quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento etico (morale) o religioso, con cui si trovasse implicata, per ridurla ad una configurazione e ad una formola ESCLUSIVAMENTE LEGALE O GIURIDICA. Siccome poi, il giudice della controversia, o e tolto dalle varie classi o tribù, come i centumviri e forse anche i decemviri, o scelto nel l'ordine dei senatori, come i iudices selecti, o convenuto fra le parti, come gl’arbitri, od anche scelto in parte fra i peregrini, come i recuperatores. Cosi ne veniva, che l'elaborazione del diritto in Roma e un'opera collettiva, a cui concorrevano tutti gl’ordini e le V classi, e che puo perfino sentire l'influenza del diritto e della procedura, che applicasi dei rapporti fra i cittadini e gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro e unificato e coordinato per opera del magistrato, che sovraintende all'amministrazione della giustizia, ed e poi assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici. Cosi ne venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trova sapientemente organizzato un sistema di mezzi, il quale mira ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagl’elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in una forma determinata e precisa, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali. E in questo modo, che puossono scomparire i contendenti e si sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali -- Aulus Agerius e Numerius Negidius nella formola processuale, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quella contrattuale --; che una controversia PARTICOLARE e richiamata a certa forma GENERALE; e che intanto i concetti primordiali, da cui ha preso le mosse il diritto di Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le conseguenze, di cui erano capaci. E quindi sopratutto in Roma, che il diritto potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e varia ad un tempo, la quale obbedisce costantemente a quei processi, i quali, applicati prima dal pontifice, passarono poscia al praetor ed al giureconsulto, e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi principi. Per tal modo, quel lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante la legge, le quali, trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne hanno ricavato un diritto tipico, esclusivamente proprio del quirites, e perciò chiamato “ius quiritium”, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di provvedere. Per tal modo il “ius quiritium” si allarga ed amplia nel “ius proprium civium romanorum”; poscia accanto a questo venne svolgendosi il “ius honorarium”, il quale pur derogando al ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più rigida dell'ELEMENTO ESCLUSIVAMENTE GIURDIICO E NON ETICO, che presenti la storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le considerazioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventa tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione sono dapprima inconsapevoli, come gl’inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati dal modo di formazione di Roma, e dal genio eminentemente giuridico dei fondatori di essa. Ma egli è certo eziandio, che essa non tarda a cambiarsi ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita con una perseveranza tenace, di cui non potrebbesi trovare paragone. Così, ad esempio, dell'importanza della “legis actio” già dovette aver consapevolezza il patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto, continua tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione della “legis actio”, e la cambia in un segreto di professione e di casta; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione, ha resa di pubblica ragione la piu primitiva “legis actio”. Questa influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè l'abolizione della “legis actio” e l'intro duzione del sistema delle formole attribui da una parte al magistrato libertà maggiore nella concezione giuridica delle varie fattispecie, e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre nuove azioni, accanto a quelle, che si fondano direttamente sui termini della legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si [(Pomp., Leg. 2, § 7, Dig. (1, 2 ); Liv. IX, 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio e dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di *tribune* della plebe, di senatore e di edile curule.] trova eziandio nella necessità di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, la norma, che avrebbe applicate nell'amministrazione della giustizia; che accanto ai iudicia legitima si svolgeno quelli imperio continentia; che, accanto alle “actiones legitimae”, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, “actiones quae a praetore dantur.”Da quel momento il “praetor” puo essere considerato come una “lex loquens”, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione della giustizia. Tuttavia l'abolizione della “legis action” e la sostituzione del sistema delle formulae devono essere intese alla romana, il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell' “actio sacramento”, come preliminare del “centum. virale iudicium” e di quello “damni infecti nominee”, al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che dove già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti probabile che il sistema delle formulae già puo esser applicato nella “procedura inter cives et peregrinos”, nella quale non potevano essere applicate la “legis actio”, e che in tal guisa una procedura propria della “recuperatio” sia penetrata nel “ius proprium civium romanorum”, almodo stesso, che più tardi l'”actio sacramento” puo eziandio essere proposta davanti al “praetor peregrinus”. Il sistema delle formole e in certa guisa già contenuto in germe nel sistema della “legis actio”. A quel modo, che la “stipulatio” riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del “nexum”, la quale, liberata dalla solennità del l'atto “per aes et libram”, puo essere adattata alla varietà dei negozii [Gaio dice espressamente, che, negl’esordii di questo sistema di procedura, “edicta praetorum nondum in usu habebantur”. Era quindi naturale, che quando questi sono introdotti, accanto a quella parte di diritto, che fondasi direttamente sulla legge, e che perciò da origine alle denominazioni di “actus legitimus”, “actio legitima”, “iudicium legitimum”, si svolgesse un diritto, che fondasi in certo modo sull'autorità del magistrato, e che, come tale, “imperio continebatur”, il quale finì poi per essere compreso sotto il concetto di “ius honorarium”. È poi Cic., pro Cluentio, il quale ha a dire, che siccome la legge e al disopra del magistrato, e questo è al disopra del popolo, “vere dici potest magistratum legem esse loquentem -- legem mutum magistratum.” Quanto ai concetti di “actio legitima” e di “iudicium legitimum”, vedi WLASSAK. Sull'influenza del “praetor peregrinus” e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, “Étude sur Gajus”] giuridici. Così, la formola consiste essenzialmente in quei “concepta verba”, che già occorrevano nella “legis actio”, salvo che questa “verborum conceptio”, liberata dalla parte mimica, da cui era accompagnata, e da quel rigore di termini (“certis verbis”), che era propria della “legis actio”, puo acquistare una duttilità e pieghevolezza, che la prima non ha. Noi trovammo infatti, che già sotto la veste ferrea della “legis actio”, ogni modus agendi finisce per abbracciare diverse azioni particolari. Queste azioni già cominciano a distinguersi nelle “actiones in rem” in “actiones in personam”, in quelle, che hanno per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che dano origine ad un iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis actio, si trovano in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola ed un proprio contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola, che sarebbe stata pericolosa negl’inizii della elaborazione giuridica, venne invece ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza progredita. Le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina della “legis actio” e del “ius pontificium”, indicano abbastanza la via, in cui dove mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per cui il “praetor”, malgrado la libertà apparente, che lo appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute, procede in cio molto a rilento, ed ama piuttosto di ricorrere a finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme riconosciute dal diritto, che non di alterare la forma che già e accolta. Per tal modo, il nuovo trova sempre un addentellato nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce, che una parte del diritto, che vive fluttuante pelle consuetudini, accanto al vero ius civile, si venisse ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva del praetor succedentisi l’uno all’altro, puo manifestarsi uno spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono per costituire un ius translaticium, che passa al praetor successore, e serve cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordinati costituirono poi l'editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una eccezione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto civile. Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di formole, a cui accenna Cicerone, allorchè dice: -- “sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur.” Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione, iniziato sotto l'impero della “legis actio”. Esse si accomodano alle varie fattispecie. Isolano l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo, gl’elementi essenziali del fatto umano dalle circostanze accidentali: accolgeno quelle aggiunte, che sono rese necessarie dalla maggiore varietà dei negozii; riassunggeno le varie fasi della controversia in guisa da presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio. Queste formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla procedura. All'epoca stessa, in cui penetrarono in questa, si vennero eziandio esplicando nel contratto, nei testamento, nei legato, e in ogni altra parte del diritto civile romano, e vi portarono cosi dappertutto l’ESATTEZZA E LA PRECISIONE DELLA LOGICA DEI CONCETTI GIURIDICHI, non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà infinita dei negozii. È quindi facile il comprendere come il pontefice, il pretore e il giureconsulto, non credeno indegno del loro ufficio l'attendere alla composizione delle formole, e come bene spesso l'invenzione di una formola ha reso celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto. Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima applicazione, che [Cic, Pro Roscio -- Cfr. WLASSAK. Occorrono delle notevoli osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso LABBÉ-ORTOLAN, “Explication historique des Institutes de Justinien” (Paris)] ricevettero le clausole “ex fide bona” “quando aequiusmelius” e “propter te fidemve tuam fraudatus siem” -- le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe lungo ricordare; le quali serveno a far penetrare nel diritto la considerazione dell'equità e della buona fede, e a dare forma concreta e pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giuridica del popolo romano. E infatti per mezzo di una piccola aggiunta in una formola contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni latenti della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante nelle consuetudini venne ad ottenere la tutela e la sanzione dell'autorità giudiziaria. Questa considerazione  mi porge opportunità di conchiudere questo saggio, spiegando un carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Nostro tentativo di “ri-costruzione” del primitivo ius quiritium quanto meno dimostra che il diritto civile romano, anzichè essere il frutto di una incorporazione qualsiasi di consuetudini preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato, fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale, che non venne mai meno a se stessa. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal precipitarsi a poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica fondamentale, la quale regge tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go [Questa importanza delle formole appare sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ha ad esprimere, molti anni or sono, in “De exceptionibus in iure romano” (Torino) -- colle seguenti parole. “Neque vereor dicere, omnia quae in  iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione, invecta fuerunt ad corrigendam, producendam, emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse.”] --vernati ciascuno da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto cogli altri. Vero è, che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma. Ma intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne governa la formazione. Era questo disordine apparente dei giureconsulti, che torna grave alla mente FILOSOFICA ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i primi grandi maestri cercano di dissimulare la propria arte. Ma se questo potè forse esser vero, finchè la scienza del diritto – come la filosofia, dopo -- e un monopolio della gente patrizia, o meglio del pontefice massimo, custode delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del giureconsulto e aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo. Anche i plebei furono ammessi a questo collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza. Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio, che vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione, che presenta l'elaborazione della giurisprudenza romana. Ma questo e piuttosto il modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo vuolsi aver presente, che i modellatori del primitivo diritto di Roma – “veteres iuris conditores” – non hanno mai in animo di insegnare una scienza, ma piuttosto di professare un'arte (“iuris prudentia”), che forma solo più tardi argomento di scienza. Essi quindi non intesero punto di soddisfare alle esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio della scienza. Si proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche. Sono i casi, che si venneno presentando, che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella pratica era l' “actio”, che predomina, poichè era con l’ “actio”, che il diritto sperimenta se stesso. Così ne venne, che dapprima sono la “legis actio” che costitue il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica, e determina l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente della “legis actio” venne ad essere disciolta, e pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii e nell'amministrazione della giustizia, sono eziandio le actiones, l’”interdictum.” -- Cic., De orat., I. la “exceptio” e simili, che costituirono il punto centrale, intorno a cui dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è, che essi, per quanto ubbidissero ad una dialettica fondamentale, trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che componevano la trama. Cosicchè la girusprudenza apparisce come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro. Di qui la conseguenza, che la costruzione giuridica romana non segue il processo dei concetti fondamentali, da cui parte, ma venne seguendo invece l'ordine, prima, di Le XII Tavole, e, poscia, dell'Editto. Nè questo disordine apparente puo recare imbarazzo agl’esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda. Puo invece riuscire grave agl’altri, i quali, come Cicerone, cercano di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale concettuale e filosofico – di ‘re-costruzione logica.’. Fu soltanto, allorchè la ricchezza dei materiali comincia ad ingombrare il campo, che si senti il bisogno di introdurre questa o quella distinzione sistematica, al modo del Liceo per genere e specie, ma anche queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente detta, quali sono quelle dei classici giureconsulti, ma soltanto nell’opere di carattere didattico o tutoriale -- donde la spiegazione dell'ordine diverso, che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette. Siccome poi anche l'ordine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, ha naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si trova, anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, danno talvolta come contemporanei degl’istituti, che possono avere avuto origine in epoca compiutamente diversa. Ne consegue, che la giurisprudenza romana, quale a noi pervenne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata, che venne operandosi in essa, e la dialettica, che ne governa la for [Ciò appare sopratutto nelle “Receptae sententiae” di Paolo Diacono. Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti “Fragmenta” di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei “Commentarii” di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove qualche aggiunta, che altera talvolta le armoniche proporzioni dei “Commentarii” di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del giureconsulto, sono il nostro modello di ordinamento sistematico, fatto in un intento didattico o tutorial per l’elite diriggente. Cfr. Huschke, Jurisp. antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei giureconsulti] –mazione. Ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passa la lenta e graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di ricostruzione, ritengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica, che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni di Roma. Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo, che più tardi e denominato “italic”, dove avverarsi un periodo di forza e di violenza, non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il maggior bisogno, che dove sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, e quello di uscire da quello stato di privata violenza. E allora, che le genti sopravvenute, memori forse delle tradizioni, che portavano dall'antico oriente, irrigidirono la propria organizzazione gentilizia, cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti sono organizzati nella classe inferiore dei servi, dei clienti, e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le differenze nei particolari, assunge pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo. Essa organizzazione venne cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato, le quali risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus, mentre il territorio da esse occupato era ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia a Roma. Questa organizzazione ha sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. Roma comincia dall'essere un sito fortificato (“arx”, “oppidum”, “capitolium” ) per servire di rifugio in caso di pericolo. Poi diventa un sito per il mercato (“forum”) e un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari comuni (“conciliabulum”, “comitium”). E posta sotto la protezione di un divino – “dius,” “dius-piter” -- , comune patrono. Finchè da ultimo sotto la protezione della comune fortezza cominciano eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi però sono pervenute al medesimo stadio di svolgimento, nè tutte hanno seguito il medesimo indirizzo nella formazione di Roma. Mentre gl’umbro-sabelli adereno ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gl’etruschi sono già pervenuti alla città chiusa e fortificata, i Latini invece si trovano in uno stato intermedio. I latini sono pervenuti a Roma di carattere federale, considerata come un centro della vita pubblica per varie comunanze di villagio. È al buon seme latino, che s’attribuie l'origine del nome di Roma. Roma comincia dall'essere lo stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati – “vir”, “quirites”), staccatisi d’Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenno. Le lotte di questo nucleo di uomini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia, tendeno a diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti dell'antico septimontium, lo conducenno prima alla comunanza dei connubii e in seguito alla confederazione colle medesime. Percorse due periodi compiutamente distinti -- cioè: il periodo della città federale, in cui Roma è una città esclusivamente patrizia, ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie. Il secondo, quello in cui Roma, esclusivamente patrizia associasi anche la plebe circostante delle periferii, già pervenuta ad una certa agiatezza, nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa, e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio, che entrano a costituirla.  Nel primo periodo, i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno scopo di comune difesa, e la loro città, posta nel centro delle varie comunanze di villaggio, rispecchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i villaggi, collocati sulle alture, che lo circondano. Essi infatti trapiantano a Roma, centro della loro vita pubblica, le proprie istituzioni gentilizie, salvo che le medesime, assumendo un intento essenzialmente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale, e ricevono cosi uno svolgimento compiutamente diverso. Roma esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres) e dei loro discendenti (patricii). Ma intanto assume un carattere religioso, politico e militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo. Gli auguri modellano gli auspicia publica sugli auspicia, a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti. I feziali serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città serve ad operare la selezione della vita pubblica, che comincia a spiegarsi nella città, dalla vita domestica e patriarcale, che continua a svolgersi nelle varie comunanze di villaggio. L'urbs infatti designa l'orbita sacra, in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia. La civitas non comprende ancora quelli rapporti soltanto che si riferiscono alla vita civile, politica e militare. Il populus non comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della medesima che puo giovare alla res publica col braccio (“iunior”) o col consiglio (“senior”). Per tal modo il grande intento della città in questo periodo e quello di sceverare la vita pubblica dalla privata – “publica privatis secernere” -- , di modellare il concetto della “res publica”, in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla “res familiaris”, e di architettarne la costituzione politica, la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel “populus.” Ma in tanto la parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'interesse comune viene ad essere rappresentata dal “senatus”, che è già elettivo ed è nominato dal “rex”; il quale alla sua volta è l'eletto del “populus” e unifica in se medesimo l'”imperium”, che il medesimo gli conferisce. Tutto cio, che riguarda l'interesse comune, si delibera col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato dal senato, votato dal popolo. Cosicchè, la legge assume la forma di una pubblica stipulazione – “communis reipublicae sponsion”. Per quello invece, che si riferisce alla vita domestica e privata – “res familiaris” --, essa continua a svolgersi nel seno della “domus”, del “vicus”, del “pagus”, sotto la potestà dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie terre sotto la forma collettiva di “agri gentilicii” e di compascua, soli eccettuati gli heredia, assegnati dalla gens od anche dal re, i quali appariscono intestati ai singoli capi di famiglia. Anche la repressione dei delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale, e le pene conservano quel carattere religioso, che hanno nel periodo gentilizio. Solo assumono carattere di delitti *pubblici*, e sono sotto posti alla giurisdizione del re, temperata dalla provocatio ad populum, il parricidium e la perduellio, di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato politico. Ma il diritto private continua in gran parte ad essere governato dal costume (“mos”), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (“fas”). Cio tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni preesistenti già ve ne sono di quelle, che sono sanzionate dala “lex publica”, la quale è preparata dal pontefice, proposta dal re, e votata dal popolo; donde la formazione della “lex regia”, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche serbano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istituzioni delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi della città. Poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'organizzazione gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per difetto di organizzazione chiamasi “plebes”, non entra ancora a formare il “populus”, nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle circostanze di essa, e tiene cosi una posizione più di *fatto* che di diritto. Ai plebei, che la compongono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente patrizia, il “ius nexi”, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il “ius mancipii”, ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che Roma comincia a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie, che trovansi stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città. La trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie, allorchè con Servio Tullio Roma viene a comprendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di plebei, ripartito in V classi ed in centurie, di carattere essenzialmente militare, i cui membri hanno i loro diritti ed obblighi civili, politici e militari determinati sulla base del CENSO. Da questo momento quel dualismo, che esiste negl’elementi, che entra vano a partecipare alla medesima Roma, penetra eziandio nelle istituzioni politiche. Per tal modo accanto ai veri magistrati del popolo, comparvero il “tribune” della plebe. Accanto ai comizii delle curie e delle centurie si formar il “concilium plebis”, il quale col tempo si trasforma in comizio tribute. Da ultimo, accanto alla “lex” si svolge il “plebiscitum.” Di qui lotte, che condussero a svolgere e in parte anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di Roma. Intanto Roma si è ingrandita. Nelle suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica, ma anche la vita domestica e private. Quindi la grande opera, che si inizia in questo periodo, viene ad essere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo, cioè dell'”ars iura condendi.” Gl’elementi, che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, sono due, cioè: il patriziato, onusto di tradizioni religiose, giuridiche e politiche, e la plebe la quale e un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica. Quello ha l'organizzazione gentilizia fondata sul vincolo civile dell'agnazione, e questa non conosce che la famiglia, stretta insieme dal vincolo naturale della cognazione. Quella ha tante forme di proprietà, quante sono le gradazioni dell'organizzazione gentilizia. Questa non ha in certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stanziata (“mancipium”). Qello ha il “fas”, il “ius”, l' “imperium”, l’ “auspicium”, il “mos veterum”. Questa non conosce che l'”usus auctoritas”.  Fu la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare compiutamente diverso, in fatto di religione e di morale, che resero necessaria la elaborazione di un DIRITTO, comune ai due ordini, il quale FA COMPIUTAMANTE ASTRAZIONE DALLA MORALE E DALL RELIGIONE. Cosi pure è questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza dei risultati a cui essa pervenne. Questa dove prendere le mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento continua ad attenersi alle proprie consuetudini e costumanze. La convivenza dei due ordini, pero, nelle stesse mura e l'attrito dei quotidiani interessi finirono per determinare una specie di precipitazione del materiale giuridico, fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (“mos veterum”), o di costumanze della plebe (“usus”). Si inizia così la più mirabile selezione dell'elemento giuridico dagl’elementi affini, con cui trovasi implicato, che siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da una parte obbedisce alla legge naturali di formazione, e dall'altra è già l'opera di una elaborazione, per parte sopratutto del pontefice, i quali, essendo i custodi delle tradizioni delle genti patrizie, già sono in possesso di una vera tecnica giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il concetto del “quirites”, ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e proprietario di terre, quale appunto compariva nel censo. Il “quirites” viene cosi ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un agricoltore ad un tempo. Ed il punto di vista, sotto cui si riguardano il “quirites” nel reciproco rapporto, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello del mio e del tuo – “il nostro” --. Di qui consegue, che per essi ogni negozio riducesi ad un trapasso dal MIO al TUO – il nostro -- , simboleggiato nell'atto “per aes et libram”, e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di combattimento e di reciproca scommessa. Questo diritto, costituendo un privilegio dei “quiriti”, viene ad essere denominato “ius quiritium”. I suoi concetti fondamentali sono quelli vasti e comprensivi di caput, manus, mancipium, commercium, connubium ed actio. Esso costituisce in certo modo l'ossatura rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo nucleo, che si vien precipitando e consolidando, si mantengono ancora sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo “ius quiritium” viene in certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo, arricchendosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel “ius pro prium civium Romanorum”, il quale può essere considerato come un proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col “ius quiritium”. Sono Le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile. Quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi, che entrano a costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i giureconsulti chiamano “proprium civium Romanorum”, può scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al “ius quiritium”, e due laterali, di cui una suole essere di origine patrizia, e l'altra di origine plebea. Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la “confarreatio,” di origine patrizia e dall'altra l'”usus” di origine plebea. La “coemption” sta nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiritaria. Fra le forme del testamento, le più antiche sono il testamento “in calatis comitiis”, propria del patriziato, e la “mancipatio familiae cum fiducia”, propria della plebe, le quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario, che è quello “per aes et libram.” Infine, fra i modi di acquistare e trasmettere il dominio, il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario della “mancipatio”, attorno a cui si vengono poi accogliendo l'”in iure cessio” e l'”usucapion”. Intanto pero questa selezione non si arresta ancora colla formazione di un “ius civile”, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il “ius honorarium”, il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi, facendoli pero entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate dal “ius civile”. È con questo meraviglioso processo che il diritto di Roma, dopo aver cominciato dall'essere la *selezione* più rigida dell'elemento giuridico, che ricordi la storia, ed una produzione esclusivamente romana, venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che si acconciavano alla logica fondamentale, da cui era governato, finchè divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter essere accomunato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una costruzione eminentemente dialettica, la quale riunisce da sè gli opposti ed i contrarii. Il diritto romano è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo per le applicazioni che se ne ricavano. Sotto un aspetto il diritto romano è sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di formazione. Il diritto romano obbedisce ad una logica fondamentale, e intanto lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto ispiratore. Mentre il diritto romano è una produzione del tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle esigenze pratiche, appare informato, come ben dice il giureconsulto, ad una vera e propria FILOSOFIA, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella in concezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani sono sempre dei modelli, che difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione di lavoro, che si opera fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le attitudini veramente meravigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione dell'elemento giuridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello di Roma. Come le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia; così i concetti, che le servirono di base, furono la sintesi potente di tutto un periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora discoprendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico oriente. Da questi ruderi di un periodo che può chiamarsi pre-istorico, essa seppe ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che basta ad organizzare il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare nei medesimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto. Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stano a base della sua grandezza, sono anch'essi esauriti, dalle loro macerie usce ancora la grande idea della umanità civile, e la sua legge puo servire come punto di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le città dell'universo, puo personificare in se stessa quella legge di continuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella preistoria, e le nazionalità moderne sono  preparate da essa. Essa e l'erede e la raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci a Roma. Quando si pretende di cambiarla in sede esclusiva del potere spirituale, essa sa di nuovo rivivere alla vita civile. Quando si crede di riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie essa coopera a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire. Roma e sempre la città dei dualismi. Punto non ripugna, che Roma e la sede del governo civile. Già altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile – “sacra profanis secernere.” Non ripugna parimenti, che Roma continua ad essere la città dei dotti e degl’eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine stato. Roma ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splendida passeggiata archeologica, e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai er tempo, che essa un'altra volta arricchisse il nucleo ristretto della sua popolazione, accordando nuovamente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi concorsero da ogni parte dell'Italia. Lo stato federale non cerca di far rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della romanità. Noi, studiando fra i ruderi di Roma antica, abbiamo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire; nè e inutile, che il giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e legislativo, studiando l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo. La storia civile e politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi. Deve essere parte dell'istruzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, che si precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro, allorchè lo studio della storia del diritto romano e opportunamente chiamato a far parte dell'insegnamento giuridico nell’università italiane. Credo infatti di poter affermare, senza timore di essere contraddetto, che nessun nuovo insegnamento provoca nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli istituti per lo studio del diritto romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso, con cui non solo l'Italia, ma tutta l’Europa partecipa alla commemorazione solenne di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano pone le fondamenta dell'illustre ateneo di Bologna. L'importanza dogmatica del diritto romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del codice civile germanico, il quale fa si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un grande Popolo. Ma la sua importanza storica venne per cio stesso ad essere accresciuta, perchè si tratta pur sempre di determinare la parte, che nelle moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto romano. Ne è da farsi illusione, che questo gepere di studii possa ugualmente mantenersi fuori della cerchia dell’università. Poichè, tanto in Italia che in Germania, la scienza è nata e si è svolta nell’università, ed è in esse, che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nell’università, che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di concetti, che possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Diritto romano. Keywords: implicatura, diritto romano, legge romana, concetto di legge romana, natura romana Roman law often invoked nature to justify a legal ius – the principle of individual ownership: JOINT position of a single object  is said to be contra naturam. CONTRA NATVRAM QVIPPE EST VT CVM ALIQVID TENEAM TV QVOQVE ID TENERE VIDARIS. SERVITVS EST CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA QVIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Orazio. Sat, Roma – filosofia antica – Luigi Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Carlini: l’implicatura conversazionale della filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more,  but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in 

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