Tuesday, August 13, 2024

Grice e Vailati

 


La  Grammatica  dell  Algebra.  ^ ^ 

iRivisla  di  Psicologia  Applicata,  n.  4,  luglio-agosto  1908). 


r 7 A Parlare  dell’algebra  come  di  un  linguaggio. 

Sommario:  Ih  che  senso  ^ f Quali  sentii  corrispondmio  tn  al~ 

e di  una  sua  speciale  J.  Come  si  presenti  in  algebra  la  distin- 

gcbra  ai  verbi.  Loro  carcittere  r . V-  ■ l'altra,  ad  ussa  corrispondente,  tra 

ìionè  tra  verbi  transiti^  e verbi  ^ _ Dei  verbi  molteplice-^ 

nomi  (o  aggettivi)  r elativi,  e gH^izioni  Carattere  grammaticale  dei  segni 

mente  transitivi,  e dell  / caratteristiche  dei  segni  di  uguaglianza 

j • fiirtincri  e oarlando  di  essa  come  di  uno  spe- 
LParlando  di  algebra  a dei  attribuire,  alla  pa- 

ciale  linguaggio,  devo  pregarli  d , P ^ essi  le  attribuì- 

rola  . linguaggio  >.  ^ astrazione  da  un 

scono  ordinariamente  .di  studiano  — i quali  tutti  hanno  per  loro 

carattere  comune  ai  ^‘"^‘'^^^^^^ttendomi  di  applicare  lo  stesso  nome  anche 
elementi  delle  «parole  » P^^  rivolgono  ad  altri  sensi  che  non  siano 

ad  altri  sistemi  di  segni  eh  , f„n7inni  dei  linguaggi  propriamente  detti, 

radilo,  adempiono  wttavia  alle  tCTfpo^J^ 

e„  „r„SS'e  ^.-—nLròne,  piò 

pir"arhVL“rr^^^^^^^^  « UpÓ  . Ideo^radoo  nel  ,uall  le  ooae 


[11  .ommario  e le  pari.,  che  ,u  „„p„ve  ..ella  Xmsh  *'  «to- 

parentesi  quadre,  non  furono  mclus  carte  del  Vailati,  che  a lu. 

servi  per  la  Comunicazione  da  lu  p • ^ grammalicali  e sintattici  del  lingnaggto 

delle  Scienze  (Firenze  1906)  sotto  il  ti  . Rivista  di  Scienza  (voi.  VI, 

algebrico,  e che  in  parte  fu  riprodotto  in  una  i^Algèbre  ati  point  de  vue  Hngui- 

anno  III  [1909].  n.  XII.4),  intitolata  : PiiLr  it^de  de  l Algebre  ? ^ 

stiquei\ 


GIOVANNI  VAILATI 


ai  cui  si  voleva  comunicare  Jos^'dvano  il  nome  nel  Un- 

scura  alcun  riferimento  ai  gruppi  d,  suoni  che  ne 

guaggio  parlato.  rappresentati,  di  quei  rapporti 

Per  indicare  il  sussistere,  tra  g i ogg  ^ proposizioni,  le  scrit- 

che  dai  linguaggi  parlati  sono  espressi  m principio  ad  espe- 

ture  di  questa  seconda  specie  dovetter  affatto 

dienti  (alterazioni  nella  forma,  nell  ordine  g > preposizioni, 

analogo  a quello  che,  nelle  Imgue  parlate  etc. 

ai  segni  di  predicazione,  d ;Jggiare  interesse  per  quei  sistemi  di 

L’esame  di  tali  espedienti  presenta  panico  ^ „,,iea.  ve- 

notazioni  ideografiche  che,  come  cs-  g ordinaria,  subiscono  in  certo 

nendo  impiegati  contemporaneamente  alla  ^ avrebbero  finito  per  soc 

.nodo  la  cencorreusa  di  questa,  p.eferibill  per  1 partico- 

combere  se  qualche  speciale  carattere  no 

lari  uffici  ai  quali  sono  applicati.  dell’algebra,  la  ragione  di 

Dire  che,  nel  caso  che  ora  c,  Jgg,or  brevità  e pre- 

tale  preteribilltà  stia  nclPattltudlne  sua  a j ancora  rlsob 

cislone  le  proposizioni  relative  a.  numer  determinare  da  quali 

vere  la  questione.  04  che  Importa  dipendano  : Uno  a che 

circostanze  le  suddette  proprietà  del  >■”^8,  geografiche  al  posto  delle 

punto  cioè  esse  si  riconnettano  f ‘j; ‘7^'®°„gÌ„o  .“orso,  fatto  dall’algebra, 
;role.  e per  nurdrpontTltguagglo  parlato,  per  dare  senso 

alle  Afferenti  combinazioni  dei  esempio  caratteristico 

sto.  non  certo  nel  fatto  che  le  cifre  sia  P ^,e„e  attribuita 

^alrmrrrsrrg^Sa"^  della  posizione  che  esse  occupano  in 

hT  prop™^^  f rrti 

soprattutto  da  attribuire  i strumento  di  ricerca  e di  dimostra- 

che  come  mezzo  di  ^a  avere  indotto  uno  dei  piu  grandi 

zione.  Tali  vantaggi  sono  rivolgere  modestamente  a sè  stesso  una 

^a^  cbe  è rivolta  dallo  Schiller  a un  poeta  pre- 

suntuoso, in  quei  noti  versi . 

pi  confronto  tra  i “cTriuogo'*!’ impiego  dei  segni 

derivano  dall’  impiego  delle  . q un’altra  distinzione  importante 

dell'algebra,  si  P""“  ehe  occorre  fare  tra  i sistemi  di  notazione 

^;:.'lomTa;;unT:df’e  de, .'aritmetica,  o le  note  musleaii,  hanno  solo  I uf- 


LA  grammatica  DELL’ALGEBRA 


873 


^ mnorre  nei  loro  elementi,  dati  gruppi  di  sensazioni 
fido  di  descrivere,  e di  decom  ^ ^pp^nto  il 

0 di  azioni  complesse,  e queg  ,,  chimica  — si  presentano  come  capaci 

caso  dell’algebra  o '5'“'  ^ <,p,ie  propoeuiool,  e alla  deduzione  delle 

di  servire  alla  enunciaaione  di  vere  e prop 

loro  conseguenze.  . , neopur  dire  di  avere  a che  fare  con 

Nei  casi  della  prima  «Pecie  non  . ^ ^ particolari  « nomenclature  ». 

un  particolare  « linguaggio  » , si  infatti  ivi  ad  altro  che  a costruire  dei 

1 segni  e le  loro  combinazioni  della  musica,  un  accordo. 

« nomi  » indicanti  oggetti  (note)  degli  elementi  che  li  compongono, 

o una  melodia)  per  mezzo  dei  nomi  (note)  ^ i .orni  che 

Nei  casi  inve'ce  della  seconda  p ’ ulteriori  combinazioni  con 

in  questo  modo  si  ” chiamano  i verbi  dando 

nuovi  segni,  corrispondenti  qualche  cosa  che  può  essere 

luogo  a formule,  o ad  nnuncia  i intimamente  agli  oggetti  in  questione, 

vera  o faisa,  o si  ^ornanda  qualche  c ^ rappresentata,  in  algebra,  dal  segno  d. 

Ouesta  importante  classe  di  seg  F ^ 

uguaSansa  (i),  » <iai  duo  segui  di  disuguagbanaa  (>,<).] 

X,a  ia  semplice  . ieuura  . 

zione  > in  parole  e frasi  del  definirla  o caratterizzarla  m modo 

f perrtlirco'nicio  chiunque  abbia  coll’algebra  una  sufficiente 

-f;:Ìadiffierenzachesiba--^^^^^^^^^^^ 

à^e 

potr^rcorr—  'linana,  le  proposizioni  relative  ai  numeri  e alle 

loro  proprietà.  differenza  equivale  ad  ammettere  implicitamente  che 

Il  riconoscere  una  tale  differenz  ^ espressione  e come  strumento 

la  speciale  efficacia  ^°^t^ibuire,  non  tanto  all’  impiego  che  in  essa 

di  ricerca  e di  '"arposto^^^  parole  del  linguaggio  or- 

dintio!  q^a^P^uttostra  delle  parti’colarità  di  indole  . sintattica  ».  meren  i 
"Esamffiar'e  iTche  cosa 

guaggio  algebrico,  ricercare  ^ ^ e propriamente  dette:  que- 

riscontrano,  in  maggiore  o minor  grad  J . sembrano  bene  degne  di 

Tra  le  distinzioni,  che  si  trovano  *‘“‘I,elle  che  si  riferiscono 

rittcair;‘:.rc:ot^^^^^  - -- 


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GIOVANNI  VAILATI 


Una  frase  spesso  ripetuta  dai  linguisti  (‘),  colla  quale  essi  tentano  di 
precide  ciò  che  costituisce  il  tratto  caratteristico  di  un  vero  . linguaio  >, 
hi  opposizione  alle  forme  meno  perfette  di  espressione  istintiva  di  stati  d amm  . 
qualf  si  riscontrano  anche  negli  stadi  inferiori  di  sviluppo  della  vita  animale  . 

' la  «pcriiente  • « il  linguaggio  comincia  dove  le  interiezioni  finiscono». 

Se  noi  ci  domandiamo,  alla  nostra  volta,  in  che  cosa  differiscano  effettiva- 
mente le  interiezioni  da  quelle  che  i grammatici  chiamano  le  altre  . parti  del 
discórso  , ci  accorgiamo  subito  che  esso  sono  le  sole  parole  che,  anche  enun- 
flTLàtalnte,  bastano,  per  sé  stesse,  a esprimere  -^^Ye 

Qualche  opinione,  di  chi  le  pronuncia,  mentre  le  altre  specie  d . 

i nomi  eli  aggettivi,  i verbi,  etc.,  non  possono,  d’ordinario,  servire  a a e p 
se  non  comparendo  raggruppate  le  une  insieme  alle  altre,  in  modo  da  dar  uogo 

a una.  frase  o a una  proposizione.  ^ . 

Quando  emettiamo,  per  esempio,  il  suono  brr,  o il  suono  " • ^ 
biamo  bisogno  di  aggiungere  altre  parole  per  fare  intendere  a 
^Ze  che  "sentiamo""del  freddo,  o che  desideriamo  che  egli  non  faccia  nimore. 
SeTnvece  pronunciamo,  per  esempio,  il  nome  di  un  oggetto  --a  accompa- 
gnarlo con  qualche  parola  (o  gesto),  che  indichi  cosa  vogliamo  dire  di  esso  - 
fhe  diefiii  cioè:  se  vogliamo  dire  che  lo  vediamo,  o che  lo  desideriamo,  o 
fotmilmo,  ; che  ne  aspettiamo  la  comparsa  etc. 
aifatto  alcuna  nostra  opinione,  o disposizione  d animo,  ma  al  piu  segna^ 
liamo  che  stiamo  pensando  a quell’oggetto,  senza  dire  nulla  di  ciò  che  ne  pen 

segue  che  le  interiezioni  possono  qualificarsi  come  quelle,  tra  le  parole 
del  nostro  linguaggio,  che  hanno  più  . significato  » di  tutte  le  akre,  e in  cer  o 
modo,  come  le  sole  che  ne  abbiano,  quando  sono  prese  a se.  mentre  altre 
sono  soltanto  capaci  di  acquistarne,  nel  caso  che  siano  assunte  a far  parte 

una  frase  che  ne  abbia.  .. 

L’affermazione  riferita  sopra  equivale,  dunque,  a dire  che  il  « vero  lin- 
guaggio » comincia  con  la  prima  introduzione  di  parole  che,  prese  per  se  stesse 
non  hanno  alcun  significato,  e che  di  tanto  un  linguaggio  e ° 

più  rilievo  hanno  in  esso  le  parole  che  si  trovano  in  questo  caso,  di  front 
litro  che,  anche  enunciate  isolatamente,  esprimono  qualche  opinione, 
d’animo,  di  chi  le  pronuncia. 

Si  ha  una  conferma  di  ciò  nel  fatto  che  le  parole  che  hanno  meno  senso 
delle  altre  - quelle  cioè  alle  quali  è necessario  aggiungere  un  piu  grande 
numero  di  altre  parole  per  ottenere  una  frase  che  voglia  ^ 

sono  apppunto  quelle  che  compaiono  piu  tardi,  tanto  nello  sviluppo  storico  dei 
linguaggi,  quanto  nel  processo  individuale  del  loro  apprendimento. 

Tra  tali  parole  sono  da  porre,  in  primo  luogo,  le  preposizioni,  in  quanto 
esse  hanno  l’ufficio  di  indicare  le  varie  specie  di  relazioni  che  possono  sussi- 


fi)  La  trovo  citata  tra  gli  altri  da  G.  Zoppi,  nel  suo  volume  sulla  Filoso/ìa  della  Gram- 
malica  (Verona,  1880),  che  ho  trovato  pieno  di  osservazioni  suggestive  sull  'argomento  qui  trat  o. 


LA  GRAMMATICA  DELL’ALGEBRA 


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stere  tra  gli  oggetti  di  cui  si  parla.  Esse  infatti,  appunto  per  questa  ragione, 
non  indicano  assolutamente  nulla  se  non  sono  accompagnate  dalle  parole  che 
denotano  gli  oggetti  tra  i quali  si  asserisce  aver  luogo  la  relazione  che  ad  esse 
corrisponde. 

Così,  quando  pronunciamo,  per  esempio,  le  parole  : « accanto  *,  « sopra  », 

« dopo  »,  etc.,  senza  indicare  quali  siano  le  cose  di  cui  intendiamo  affermare 
che  runa  è ^ accanto  » all’altra,  « sopra  » l’altra,  etc.,  noi  non  comunichiamo 
a chi  ci  ascolta  alcuna  determinata  informazione  sulle  cose  di  cui  parliamo. 

A considerazioni  analoghe  si  presta  il  confronto  delle  varie  specie  di  verbi 
e,  in  particolare,  la  distinzione  espressa  comunemente  con  l’opporre  i verbi 
« transitivi  » ai  verbi  « intransitivi  »,  — col  porre  in  contrasto,  cioè,  i verbi 
che,  come  per  esempio  : « desidero  »,  « respingo  »,  « nascondo  »,  « indico  »,  etc., 
richiedono  che  alla  loro  enunciazione  segua  l’indicazione  di  qualche  « oggetto» 
al  quale  si  riferiscono,  coi  verbi  che  invece,  come  per  esempio:  « dormo  » 

« cresco  »,  « rido  »,  « muoio  »,  etc.,  non  hanno  bisogno  di  alcuna  ulteriore 

determinazione  o specificazione  di  tal  genere  (^). 

Qui  è tuttavia  da  osservare  chela  suddetta  distinzione,  in  quanto  è sta- 
bilita dai  grammatici  in  base  al  criterio  puramente  formale  %onsistente  in  ciò 
che  il  verbo  esiga,  o non  esiga,  ciò  che  essi  chiamano  un  « complemento  di- 
retto » —,  non  coincide  esattamente  con  quella  che,  per  il  nostro  scopo,  sa- 
rebbe opportuno  fosse  posta  in  rilievo. 

A nessuno  certo  può  venire  in  mente  di  dar  torto  ai  grammatici  quando 
essi  si  preoccupano  di  distinguere  i casi  nei  quali  l’ indicazione  dell  oggetto,  a 
cui  si  riferisce  l’azione  espressa  da  un  verbo,  avviene  per  mezzo  della  semplice 
aggiunta  del  nome  di  tale  oggetto  — ‘come  quando  si  dice  per  esempio  : « de- 
sidero la  tal  cosa  » — dai  casi  nei  quali  invece  è necessario  che,  tra  il  verbo 
e il  nome,  sia  interposta  una  preposizione  — come  quando  si  dice  per  esem- 
pio : < aspiro  alla  tal  cosa  ». 

Ma  la  frequenza  stessa  con  cui  si  presenta  il  caso  di  verbi  che,  pure  avendo 
un  medesimo  significato,  appartengono  in  una  lingua  alla  prima  categoria,  e in 
un’altra  alla  seconda,  prova  già  abbastanza  il  carattere  per  cosi  dire  acciden- 
tale della  distinzione  che  così  si  viene  a stabilire. 

La  questione  se  sia  possibile  sostituirne  ad  essa  un’altra,  basata  su  un  cri- 
terio più  stabile,  — raggruppando,  per  esempio,  in  una  sola  classe  coi  verbi 
<c  transitivi  » anche  tutti  quegli  altri  il  cui  significato  richieda,  sia  pure  me- 
diante l’ impiego  di  una  preposizione,  l’ indicazione  di  un  oggetto  al  quale  si 
riferisca  l’azione  da  essi  espressa  —,  acquista  tanto  maggiore  interesse  pel  fatto 


(‘)  Del  procedimento  che  porta  gradatamente  a fare  assumere  il  carattere  d.  Iransivila  a 
verbi  originariamente  intransitivi,  si  può  citare  come  esempio  tipico  quello  del  verbo  « caval- 
care » che,  mentre  significava  primitivamente,  già  per  sè,  « montare  a cavallo  »,  pel  fatto  di 
essere  poi  applicato  al  caso  di  altre  « cavalcature  » fini  per  esigere  1 indicazione  di  queste, 
diventando  cosi  transitivo  («  cavalcare  un  mulo  »,  etc.). 


GIOVANNI  VALLATI 


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che,  anche  per  i nomi  e per  gli  aggettivi,  vi  è luogo  a stabilire  una  distin- 
zione analoga.  Anche  tra  essi  infatti  ve  ne  sono  di  quelli  la  cui  applicazione  a 
una  data  persona,  o oggetto,  richiede,  per  significare  qualche  cosa,  che  si  faccia 
seguire  ad  essi  il  nome  di  qualche  altra  persona  od  oggetto.  Non  significherebbe 
nulla  per  esempio  il  dire  di  qualcheduno  che  è un  « coetaneo  » o un  « compaesano  » 
senza  aggiungere  di  chi  ; o dire  di  un  oggetto,  o di  un  fatto,  che  ò ♦ maggiore  » 
o « posteriore  » senza  aggiungere  di  quale  altro  oggetto  o a quale  altro  fatto. 

Tra  i nomi,  o aggettivi,  di  questa  specie,  e i nomi  che  ad  essi  occorre  ar 
seguire,  la  nostra  lingua  usa  ordinariamente  interporre  una  preposizione.  Ma 
non  mancano  altre  lingue  nelle  quali  basta,  in  tal  caso,  che  le  due  parole  siano 
messe  una  di  seguito  all’altra  in  un  ordine  determinato.  Per  quanto  interessa 
il  nostro  soggetto  non  è da  fare  alcun  distinzione  fra  l’un  caso  e l’altro. 

Questo  carattere,  per  così  dire  « transitivo  >,  di  certi  nomi  come  quelli  che 
abbia'mo  sopra  citati,  è ordinariamente  indicato  col  qualificarli  come  nomi  « re- 
lativi ».  ..... 

Della  connessione  tra  i nomi  « relativi  » e i verbi  transitivi  si  ha  una 

chiara  manifestazione  anche  nella  possibilità,  frequentissima,  di  tradurre  frasi, 
in  cui  a un  dato  oggetto,  o persona,  è applicato  un  nome  esprimente  una  re- 
lazione, in  altre  ^si,  equivalenti,  nelle  quali  figura  invece  un  verbo  transitivo. 
Non  vi  è,  per  esempio,  differenza  tra  il  significato  delle  frasi  : « il  tale  è nemico 
del  tale  altro  »,  o « il  tale  oggetto  c più  alto  del  tale  altro  »,  e le  altre  : « a 
tal  persona  odia  la  tal  altra  »,  o « il  tale  oggetto  supera,  o sopramnza,  il  tale 

altro  »,  etc. 

Il  matematico  e filosofo  americano  Charles  Peirce,  che  più  di  ogni  altro  si 
è occupato  dell’analisi  e della  classificazione  delle  varie  specie  di  « relazioni  », 
è stato  portato  dalle  sue  ricerche  a stabilire  una  distinzione  tra  i verbi  (o  nomi 
ed  aggettivi)  transitivi,  a seconda  che  essi  esigano  l’aggiunta  di  un  solo  o di 
più  nomi  per  acquistare  un  significato  determinato,  per  diventare  cioè  capaci 
di  affermare  qualche  cosa  degli  oggetti  e delle  persone  a cui  vengono  ap- 

Sono,  per  esempio,  verbi  « doppiamente  transitivi  » (o  bivalenti  (‘),  come 
si  potrebbero  chiamare  con  una  opportuna  immagine  tolta  dal  linguaggio  della 
chimica),  comportanti  cioè  l’ aggiunta  di  due  nomi,  i verbi  seguenti  : « in- 
segnare » (qualche  cosa  a qualche  persona),  « dare  » ( qualche  cosa  a qualche 
persona),  e i corrispondenti  nomi:  « maestro  » (di  qualche  cosa  a qualcheduno) 
« donatore  » (di  qualche  cosa  a qualcheduno),  etc. 


(•)  Sarebbe  forse  più  proprio  chiamarli  « trivalenti  »,  in  quanto  anche  il  soggetto  rappre- 
.senta  una  « valenza  ».  Sarebbero  allora  « bivalenti  » i verbi  semplicemente  transitivi,  « umva- 
lenti  » i verbi  intransitivi,  e « nullivalenti  » (o  privi  di  « valenza  »)  gli  impersonali  come 
« piove,  » « nevica  ».  etc.  Gli  impersonali  latini  come  « pudet  me  ».  « piget  me  » « mihx 
tur  » etc.  sarebbero  « bivalenti  » come  i verbi  transitivi.  [Come  esempio  di  verbi  a quattro 
« valenze  » si  potrebbe  citare  il  verbo  « scambiare  » nel  senso  commerciale  («  il  tale  scambia 
con  la  tal  persona,  la  tal  cosa  con  la  tal  altra  »,  o più  semplicemente  « le  tali  due  persone  si 
scambiano  fra  loro  le  tali  due  cose  »)]. 


LA  grammatica  DELL’ALGEBRA 


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Esempi  di  verbi  « trivalenti  » capaci  cioè,  o esigenti,  di  venire  < satu- 
rati » mediante  l’aggiunta  di  tre  nomi,  sarebbero  : « ve7idere  >.  o « comperare  > 

(«  vendo  un  oggetto  A a una  persona  B,  per  un  prezzo  C »,  « compro  un  og- 
getto A da  una  persona  B,  per  un  prezzo  C »).  .... 

Nel  caso  di  questi  verbi  « plurivalenti  »,  o molteplicemente  transitivi,  si 
scorge  chiaramente  quale  sia  l’ufficio  che  hanno  le  preposizioni,  in  quanto  ser- 
vono quasi  da  organi  connettivi,  per  applicare  a ciascun  verbo  ordinatamente 

i rispettivi  « complementi  ». 

[Quanto  più  cresce  il  numero  delle  « valenze  » tanto  più  cresce  naturalmente 
il  bisogno  di  speciali  segni  o particelle  destinate  ad  evitare  le  ambiguità  nel- 
Tassegnazione  di  diversi  complementi  a uno  stesso  verbo.  Servono  a tale  scopo, 
nel  linguaggio  ordinario,  le  preposizioni  (o  le  flessioni)  corrispondenti  ai  diversi 

« casi  » dei  nomi]. 

Finché  il  verbo,  pur  essendo  a più  « valenze  »,  è tale  che,  come  avviene 
per  esempio  in  quelli  sopra  citati,  i diversi  nomi  richiesti  per  completarne  il  si- 
gnificato appartengono  a categorie  cosi  distinte  da  rendere  impossibile  qualsiasi 
equivoco  o confusione  tra  loro  — quando,  per  esempio,  come  nel  caso  del  verbo' 
« dare  »,  l’un  complemento  deve  indicare  una  persona,  e l’altro  un  oggetto  —, 
può  parere  sempre  superfluo  l’impiego  di  qualsiasi  preposizione.  Si  tende  infatti 
ad  abolire  queste  in  tutti  quei  casi  in  cui  si  abbia  particolare  interesse  a fare 
economia  di  parole,  come  per  esempio  nei  telegrammi,  negli  indirizzi,  negli  av- 
visi economici  delle  quarte  pagine  dei  giornali.  [Se  si  telegrafa,  per  esempio 
« spedite  plico  segretario  » nessun  dubbio  può  nascere  che  il  plico  è la  cosa 
spedita  e il  segretario  la  persona  « a cui  » la  spedizione  è fatta,  e non  vi- 
ceversa]. 

Ma  quando,  invece,  i diversi  complementi  di  un  verbo  appartengono  tutti 
a una  medesima  classe  — quando  sono,  per  esempio,  tutti  nomi  di  persone,  come 
per  esempio  nelle  frasi  : « dico  male  di  Tizio  a Caio  »,  « dico  male  a Caio  di 
Tizio  » — , l’omettere  le  preposizioni  equivarrebbe  a togliere  ogni  mezzo  a chi 
ascolta  di  distinguere  le  diverse  relazioni  in  cui  i diversi  nomi  stanno  col  verbo, 
e a esporsi  quindi  a esser  capiti  a rovescio. 

Se,  tenendo  presenti  le  considerazioni  svolte  sopra,  ci  proponiamo  di  de- 
terminare quali  siano  gli  speciali  caratteri  grammaticali  e sintattici  per  i quali 
il  linguaggio  algebrico  si  distingue  da  quello  ordinario,  un  primo  fatto  note- 
vole che  ci  si  presenta  è l’assenza,  nel  linguaggio  algebrico,  di  qualsiasi  specie 
di  verbi  < intransitivi  ». 

Per  riconoscere  chiaramente  quali  siano  i segni  che.  in  algebra,  corrispon- 
dono ai  verbi,  occorre,  prima  di  tutto,  vedere  sotto  che  forma  si  presentino, 

nel  linguaggio  algebrico,  le  « proposizioni  ». 

Poiché  per  proposizione  s’ intende  — è la  definizione  tradizionale  — una 
frase  in  cui  qualche  cosa  si  affermi  o si  neghi  (una  frase,  cioè,  in  cui  si  espri- 
ma qualche  opinione  o persuasione,  vera  o falsa  che  essa  sia),  non  saranno  da 
classificare  tra  le  proposizioni  le  semplici  « espressioni  algebriche  »,  le  formule 
cioè  nelle  quali  figurino  soltanto  numeri,  o lettere,  comunque  combinate  con 


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GIOVANNI  VAILATI 


segni  di  operazioni  o di  funzioni,  senza  che  sia  interposto  alcun  segno  di  egua- 
glianza o di  diseguaglianza. 

I segni  di  eguaglianza  (o  di  diseguaglianza)  che,  posti  tra  due  espressioni 
algebriche,  indicano  che  il  valore  della  prima  è,  o si  vuole  che  divenga,  uguale 
(o  superiore)  al  valore  della  seconda,  compiono,  quindi,  in  algebra,  lo  stesso 
ufficio  che  hanno  i verbi  nel  linguaggio  comune,  in  quanto  è mediante  tali  segni, 
e solo  mediante  essi,  che  si  può,  coi  soli  segni  dell’algebra,  affermare  o negare 
qualche  cosa  degli  oggetti,  o delle  quantità,  di  cui  si  parla. 

E non  solo  tali  segni  hanno  ufficio  di  « verbi  » ; essi  inoltre  — come  i 
verbi  «c  eguagliare  »,  « superare  »,  etc.,  che  ad  essi  d'orrispondono  nel  linguag- 
gio ordinario,  — hanno  ufficio  di  verbi  « transitivi  ». 

Indicare,  infatti,  in  linguaggio  algebrico,  che  una  data  espressione  « è 
eguale  » o « maggiore  »,  senza  aggiungere  di  quale  altra,  equivale  a non  dir 
nulla  affatto,  precisamente  come,  nel  linguaggio  ordinario,  il  dire,  per  esempio, 
che  un  dato  oggetto  « accompagna  »,  o « precede  »,  senza  accennare  quale  sia 
l’altro  oggetto  che  esso  accompagna  o precede. 

Potrebbe  sembrare  a prima  vista  che  ai  segni  di  eguaglianza  e di  dise- 
guaglianza spetti,  nelle  formule  algebriche,  piuttosto  ehe  l’ufficio  proprio  di 
verbi  transitivi,  quello  di  una  semplice  « copula  »,  e che  essi  corrispondano 
più  propriamente  alle  parole  « ^ » o « non  è » del  linguaggio  ordinario. 

Per  vedere  chiaramente  in  quale  senso,  e fino  a che  punto,  ciò  si  possa 
ammettere,  è necessaria  qualche  osservazione  preliminare  su  quelli  dei  segni 
dell’algebra  che  corrispondono  ai  nomi  che  abbiamo  indicato  sopra  come  « re- 
lativi ». 

Tra  questi  sono  da  considerare  in  primo  luogo  i segni  di  operazione,  come 
-I-,  X,  — . etc.,  i quali,  appunto  come  quei  nomi  relativi  che  sono  stati  qualifi- 
cati sopra  come  « bivalenti  »,  esigono  l’ indicazione  di  due  oggetti,  o quantità 
(poco  importa  se  queste  siano  rappresentate  da  numeri  determinati,  o da  let- 
tere rappresentanti  numeri  qualunque,  o da  intere  « espressioni  algebriche  »), 
sulle  quali  l’operazione  s’ intende  venga  eseguita. 

Le  espressioni  come  a b,  aY,  b,  a — b,  equivalendo  alle  frasi  : « la  somma 
di  a con  ^ »,  « il  prodotto  di  a per  3 »,  « la  differenza  tra  a e b »,  etc.,  non 
differiscono  per  la  loro  struttura  sintattica  dalle  espressioni  che  il  linguaggio 
ordinario  costruisce  per  mezzo  di  nomi  relativi  « bivalenti  * , come  per  esem- 
pio: « l’urto  di  un  corpo  coìi  un  altro  »,  « il  disprezzo  di  una.  persona  un’al- 
tra »,  « la  distanza  tra  un  punto  e un  altro  »,  etc. 

Non  meno  importanza  tuttavia  dei  segni  di  operazione  hanno  in  algebra 
anche  i segni  che  corrispondono  ai  nomi  « semplicemente  relativi  »,  o « univa- 
lenti »,  del  linguaggio  ordinario.  Sono  tali,  per  esempio,  il  segno  di  « radice 
quadrata  »,  il  segno  di  « logaritmo  »,  e,  in  generale,  tutti  i simboli  che  rappre- 
sentano funzioni  di  una  sola  variabile,  per  esempio  quelli  indicanti  le  funzioni 
trigonometriche  (*). 


(*)  Per  i lettori  non  matematici,  ai  quali  la  parola  « funzione  » potrebbe  presentarsi  come 
oscura  e misteriosa,  avverto  che,  in  algebra,  si  chiama  « funzione  » qualunque  segno,  o locu- 


879 


LA  GRAMMATICA  DEI-L’ ALGEBRA 


Se  si  tengono  presenti  le  osservazioni  fatte  sopra  sulle  proposizioni  in  cui 
figura  come  predicato  un  nome  relativo,  e sulla  loro  traducibilità  in  altre  in 
cui  figuri  invece  un  verbo  transitivo,  si  riconoscerà  facilmente  l’analogia  tra  il 
procedimento  con  cui  si  effettua,  nel  linguaggio  ordinario,  tale  traduzione  e il 
processo  che  è invece  adoperato  in  algebra  per  costruire,  col  sussidio  del  segno 
di  eguaglianza,  e dei  segni  di  funzione  e di  operazione,  tutti  gli  altri  verbi 
transitivi  di  cui  si  ha  bisogno. 

Tale  procedimento  consiste  nel  far  seguire,  al  segno  di  eguaglianza,  un 
segno  di  funzione  o di  operazione,  a un  lato,  o ai  due  lati,  del  quale  figurino 
dei  numeri,  o delle  lettere,  aventi  quasi  l’ufficio  di  pronomi,  in  quanto  servono 
a occupare  il  posto  che  verrà  a essere  poi  occupato  dai  vari  « complementi  ». 

Per  convincersi  come  nelle  formule  che  così  si  vengono  a costruire,  come 
per  esempio  a — sen  ò,  a — ò + c,  il  verbo  è rappresentato,  non  dal  solo  segno 
di  eguaglianza,  ma  da  questo  insieme  al  segno  di  funzione  o di  operazione 
che  gli  tien  dietro,  basta  confrontare  tali  espressioni  con  quelle  di  struttura 
analoga  nel  linguaggio  comune,  come  per  esempio  : « « è un  produttore  di  ^ s», 
« fl  è figlio  di  (5  e di  c »,  frasi  traducibili  immediatamente  nelle  altre:  « a pro- 
duce 6 * a ò stato  generato  da  ^ e c »,  nelle  quali  compare  esplicitamente  il 

verbo  transitivo  sotto  forma  attiva  o passiva. 

[Da  quanto  si  è detto  sui  segni  di  operazione  risulta  chiaro  come,  con  il 
loro  aiuto,  i segni  di  uguaglianza  e di  disuguaglianza  diventino  atti  ad  'eser- 
citare, non  solo  l’ufficio  di  verbi  « bivalenti  »,  ma  anche  quello  di  verbi  a un 
numero  qualunque  di  « valenze  ». 

Dicendo,  per  esempio,  che  un  numero  a è maggiore  della  somma  di  due 
altri  ^ e c,  si  afferma  una  relazione  fra  i tre  numeri  in  questione,  riducendola 
all’affermazione  di  una  relazione  tra  uno  di  essi,  e un  altro  numero:  {ò c). 

E poiché  al  numero  {ò  "h  c),  come  a qualsiasi  altro  numero,  si  può  fare 
assumere,  facendolo  seguire  da  un  nuovo  segno  di  operazione,  il  carattere  di 
nome  relativo,  si  riuscirà  cosi  ad  esprimere,  sempre  col  solo  impiego  dei  segni 
(«  bivalenti  »)  di  uguaglianza  e di  disuguaglianza,  relazioni,  non  piu  fra  tre,  ma 
fra  quattro  numeri,  e cosi  di  seguito. 

Un  ufficio  importante  nella  costruzione  delle  formule  che  cosi  si  ottengono 
è affidato  allo  « parentesi  »,  che  diventano  qui  indispensabili  per  togliere  le 
ambiguità  che  sorgerebbero  inevitabilmente  per  quanto  riguarda  l’ordine  in  cui 
le  diverse  operazioni  indicate  s’intendono  dovere  essere  eseguite]. 

Alla  conformità  che,  per  questo  riguardo,  sussiste  tra  1’  ufficio  che  ha  in 
algebra  il  segno  di  eguaglianza,  e quello  che  compete  invece  al  verbo  < essere  » 
nel  linguaggio  ordinario,  fanno  riscontro  tuttavia  delle  notevoli  differenze. 


zione,  tale  che,  facendola  seguire  dall’  indicazione  di  un  numero  (coll’  interposizione,  quando 
occorra,  di  una  conveniente  preposizione),  dia  luogo  ad  una  frase  indicante  un  altro  numero 
determinato.  Per  esempio  le  parole  « il  doppio  »,  « /a  metà  »,  etc.  sono  segni  di  « funzione  » 
perchè  le  frasi  : « il  doppio  di  un  numero  »,  « la  metà  di  un  numero  » indicano  degli  altri  nu- 
meri, che  cambiano  col  cambiare  del  numero  di  cui  si  parla. 


880 


GIOVANNI  VAILATI 


Mentre  unico  ufficio  del  verbo  « essere  »,  per  esempio  nelle  proposizioni 
del  tipo  : « gli  « sono  6 » (ogni  volta,  cioè,  che  esso  non  sia  adoperato  come 
un  verbo  intransitivo,  equivalente  a « esistere  »,  « sussistere  »,  etc.),  è quello 
d’ indicare  che  gl’  individui,  o gli  oggetti,  ai  quali  è applicabile  un  nome  a, 
fanno  parte  di  quelli  (o  coincidono  con  quelli)  ai  quali  è applicabile  un  dato 
altro  nome  à,  il  segno  di  eguaglianza,  invece,  è adoperato  in  algebra_per  espri- 
mere, oltre  a questa,  molteplici  altre  relazioni  aventi  con  questa  comuni  sol- 
tanto alcuni  caratteri. 

Si  ha  di  ciò  un  esempio  caratteristico  nel  più  antico  impiego  che,  nella 
geometria  greca,  è fatto  del  corrispondente  aggettivo  : del  quale  Euclide 

si  serve,  come  è noto,  per  designare,  non  già  l’identità,  o anche  solo  quello  che 
si  chiama  ora  l’eguaglianza  di  due  figure  (cioè,  in  altre  parole,  il  fatto  che  esse 
possono  essere  portate  a coincidere),  ma  semplicemente  la  loro  scomponibilità  in 
parti  sovrapponibili. 

La  relazione  che  Euclide  afferma  sussistere,  per  esempio,  tra  due  parallelo- 
grammi  di  uguale  base  e altezza,  quando  li  qualifica  come  « eguali  »,  non  ha, 
come  si  vede,  nulla  di  comune  con  quella  che  sarebbe  espressa  dal  dire  che 
l’un  parallelogrammo  è l’altro  o che  ambedue  sono  uno  stesso  parallelogrammo. 

Parimenti,  passando  da  un  esempio  antico  ad  un  esempio  moderno,  quando 
si  pone  il  segno  di  uguaglianza  tra  due  vettori,  o quando  anche  si  dice  che  l’uno 
di  essi  è identico  all’altro  (eccetto  nel  caso  che  si  tratti  di  una  semplice  defi- 
nizione), ciò  che  si  afferma  e solo  il  sussistere  di  una  certa  relazione  di  posi- 
zione tra  le  due  coppie  di  punti  dalle  quali  essi  sono  rispettivamente  deter- 
minati. 

[Col  dire  che  i segni  corrispondenti  nell’algebra  ai  verbi  sono  tutti  « tran- 
sitivi » non  si  è però  ancora  esaurita  l’pnumerazione  delle  loro  proprietà  carat- 
teristiche. 

Essi  appartengono  a una  particolare  classe  di  verbi  transitivi,  che  si  di- 
stinguono dagli  altri  per  una  notevolissima  proprietà. 

Per  ben  chiarire  in  che  cosa  questa  consiste  basta  porre  a confronto  due 
locuzioni  transitive  di  cui  l’una  la  possieda  e l’altra  no. 

Siano  per  esempio  le  due  locuzioni  che  si  ottengono  facendo  seguire,  al 
verbo  « essere  »,  rispettivamente,  le  parole  « concittadino  » e « creditore  ». 
Nel  primo  caso,  quando  si  abbiano  le  due  proposizioni  segmenti  : A è concit- 
tadino di  B e B è concittadino  di  C,  se  ne  può  dedurre  immediatamente  la 
terza  : A è concittadino  di  C.  Nel  secondo  caso  invece,  dalle  due  analoghe  pro- 
posizioni: A è un  creditore  di  B e B è un  creditore  di  C,  non  si  può  affatto 
concludere  nè  che  A sia,  nè  che  non  sia,  creditore  di  C. 

Poiché  non  abbiamo  a disposizione,  in  grammatica,  un  termine  tecnico  per 
designare  la  proprietà  di  cui  gode  la  prima  delle  suddette  due  locuzioni  tran- 
sitive e non  la  seconda,  indicherò  qui  provvisoriamente  tale  proprietà  col  nome 
di  < transitività  sillogistica  ». 

Si  può  giustificare  tale  denominazione  facendo  notare  che  la  validità  di 
quei  sillogismi  che  i lògici  chiamano  della  « prima  figura  » (cioè  dei  sillogismi 
del  tipo:  A è B,  B è C,  dunque  A è C)  dipende  semplicemente  dal  fatto  che 


LA  GRAMMATICA  DELL’ALGEBRA 


88l 


la  proprietà  sopraddetta  compete,  tra  gli  altri  verbi,  anche  al  verbo  « essere  », 
e ai  suoi  vari  sinonimi. 

Se.  nei  siliogismi  del  tipo  sopra  indicato  si  sostituisca,  al  posto  del  verbo 
essere,  un  altro  verbo  qualunque  che  goda  della  stessa  proprietà,  si  ottengono 
altri  tipi  di  ragionamento  altrettanto  validi,  e per  i quali  non  cessano  di  sus- 
sistere tutte  le  regole  che  valgono  per  i sillogismi  propriamente  detti. 

Qualunque  sia  del  resto  il  nome  col  quale  si  vogliano  distinguere  quei 
verbi  transitivi  che  godono  della  speciale  proprietà  di  cui  parliamo,  sta  il  fatto 
che,  mentre  di  essi  si  trova  un  numero  più  o meno  grande  in  ogni  lingiiag- 
gio,  il  linguaggio  algebrico  ha  questo  di  speciale,  che,  in  esso,  tutti  i segni  che 
hanno  ufficio  di  verbi  godono  di  questa  proprietà]. 

# 

[L’assioma  che:  « due  quantità  uguali  a una  terza  sono  uguali  fra  di  loro  », 
e gli  altri  analoghi  per  il  caso  della  diseguaglianza,  possono  a questo  riguardo 
essere  considerati  come  le  regole  specifiche  fondamentali  della  grammatica  del- 
l’algebra, per  quanto  concerne  l’uso  dei  verbi. 

A.  concepire  gli  assiomi  dell’  algebra  sotto  questo  aspetto  i matematici  si 
trovano  sempre  più  indotti  dalla  estensione  che  va  prendendo  il  dominio  del- 
l’algebra, e dalla  conseguente  tendenza  ad  assegnare  a tali  assiomi,  non  tanto 
l’ufficio  di  segnalare  le  proprietà  di  cui  effettivamente  godono  determinate  re- 
lazioni tra  quantità  o tra  numeri,  quanto  piuttosto  quello  di  indicare  le  pro- 
prietà di  cui  deve  godere,  e di  cui  basta  che  goda,  qualunque  relazione,  perchè 
diventi  possibile  estendere  ad  essa,  e ai  soggetti  ai  quali  si  riferisce,  i van- 
taggi di  una  trattazione  algebrica. 

Si  riconnette  a questa  concezione  la  liberta,  che  i matematici  si  conce- 
dono sempre  più  largamente,  di  servirsi  dello  stesso  segno  di  uguaglianza  per 
indicare  una  quantità  di  altre  relazioni  oltre  quella  della  coincidenza  tra  i va- 
lori numerici  di  due  espressioni:  libertà  che  sembra  giustificare  la  definizione 
che  è stata  data  recentemente  della  matematica  (dal  Poincaré),  come  1 arte  di 
dare  lo  stesso  nome  a cose  differenti). 

Gli  equivoci,  che  potrebbero  derivare  dall’applicare  lo  stesso  sogno  di  ugua- 
glianza per  esprimere  relazioni  cosi  diverse  fra  loro,  si  evitano  in  algebra  con 
lo  stabilire,  in  corrispondenza  a ciascuna  diversa  categoria  di  grandezze  o di  enti 
geometrici  che  si  considerano,  quale  sia  la  speciale  relazione  che,  ponendo  fra 
esse  il  segno  di  eguaglianza,  s’intende  di  esprimere. 

È questa  una  delle  principali  ragioni  dell’importanza  che  assumono  nel  lin- 
guaggio algebrico  le  così  dette  definizioni  « condizionali  » o « precedute  da 
ipotesi  ». 

Si  indicano  con  tal  nome  le  definizioni  mediante  le  quali,  a un  dato  segno 
di  relazione  o di  funzione,  è attribuito  un  senso  solo  < condizionatamente  » o 
« limitatamente  »,  solo,  cioè,  per  il  caso  che  esso  compaia  tra  individui  appar- 
tenenti a particolari  classi,  o soddisfacenti  a particolari  condizioni,  come  quando 
si  dice,  per  esempio  : Se  A e B sono  punti,  indicheremo  con  AB  il  segmento 
di  cui  essi  sono  gli  estremi \ se  a e b sono  rette,  intenderemo  con  ab  il  loro 
punto  d’incontro,  etc. 


56 


882 


GIOVANNI  VAILATI 


Il  ricorso  alle  definizioni  condizionali,  se  basta  a togliere  il  pericolo  soprac- 
cennato m tutti  1 casi  nei  quali  le  diverse  relazioni,  che  si  vogliono  rappresen- 
are  con  lo  stesso  segno  di  eguaglianza,  hanno  luogo  tra  quantità  o enti  geo- 
metrici appartenenti  a diverse  categorie,  o soddisfacenti  a diverse  condizioni  si 
presenta  d’altra  parte  come  affatto  insufficiente  nei  casi  nei  quali,  invefce,  le  di- 
verse  relazioni,  che  dovrebbero  indicarsi  con  uno  stesso  segno,  hanno  luogo  tra 

individui  della  medesima  specie,  o indicati  da  segni  non  distinguibili  gli  uni 
dagli  altri.  ^ ^ 

Cosi  per  esempio,  per  considerare  un  caso  già  accennato  sopra,  se  il  segno 
1 uguaglianza  si  vuole  adoperare  per  indicare  quella  relazione  tra  due  figure 
c e SI  indica  ora  ordinariamente  col  nome  di  « equivalenza  > (cioè  l’eguaglianza 
e e oro  aree),  resterà,  per  ciò  solo,  precluso  il  suo  simultaneo  impiego  per 
esprimere  qualsiasi  altra  relazione  tra  figure,  come  per  esempio,  quella  di  « egua- 
g lanza  » propriamente  detta  (o  sovrapponibilità),  quella  di  similitudine,  etc. 

1 inconvenienti  ai  quali,  in  casi  di  questo  genere,  potrebbe  dare  occa- 
sione 1 impiego  di  uno  stesso  segno,  per  indicare  relazioni  affatto  diverse  po- 
trebbero essere  evitati  in  algebra  ricorrendo  (come,  infatti,  qualche  volta  si  fa) 
all  introduzione  di  nuovi  segni  che,  accanto  a quelli  di  eguaglianza  e di  dise- 

guaghanza,  assumessero  l’ufficio  che,  nel  linguaggio  ordinario,  spetta  alle  di- 
verse specie  di  verbi  transitivi  (<). 

Il  procedimento,  tuttavia,  più  frequentemente  seguito  è un  altro.  Prima  di 
passare  a caratterizzarlo  converrà  accennare  ai  processi  corrispondenti  di  cui  ci 
tornisce  esempio  lo  stesso  linguaggio  ordinario. 

linguaggio  ordinario  si  serve  per  esprimere  il  ri- 
sultato di  confronti  effettuati  da  diversi  puvti  di  vista,  cioè  col  fissare  1’ atten- 

è ‘^^ta  specie,  vi 

, adatta  ' f""''Sruire.  all’affermazione  di  eguaglianza  o diseguaglianza,  il  nome 

esLTe  el.lf  asseriscono 

diseguah.  Si  dice,  per  esempio,  « le  tali  due  persone  sono  eguali 

di  statura  i>,  «il  tale  edificio  è eguale  all’altro  in  altezza  ^ \ i tali  due  cliL  si 
equivalgono  per  salubrità  »,  etc. 

ner  T Preposizìone  è,  per  così  dire,  accidentale  ; in  greco, 

cusatir^Tn  questione,  posto  All’ac- 

cusativo , in  latino  si  adopera  l ablativo. 

Ma  vi  è anche  un  altra  forma  che  possono  assumere  le  proposizioni  del 
tipo  suddetto,  ed  e quella  che  si  presenta  nelle  frasi:  « la  statura  della  tal  per- 
sona eguale  a quella  della  tale  altra  »,  « l’altezza  del  tale  edificio  ^ e.u^le  a 


0 Sull  opportunità  di  ricorrere  a questo  espediente,  nel  caso  delle  relazioni  tra  gli  enti 
geometrici  considerati  nel  calcolo  vettoriale,  si  è molto  discusso  recentemente  (al  Congresso»,. 

tenuto  a Roma  nell'aprile  scorso)  a proposito  della  relazione  pre- 
-sentata  su  tale  soggetto  dai  professori  Hurau-Fort.  (ilell 'Accademia  Militare  di  Torino)  e Marco- 
LONGO  (dell'Università  di  Messina).  i ormo;  e aiarco- 


LA  GRAMMATICA  DELL’ALGEBRA 


883 


qtiella  del  tale  altro  »,  « la  salubrità  del  tale  clima  à eguale  a q^lella  del  tale 
altro  »,  etc. 

Queste  espressioni,  nelle  quali  figurano,  al  posto  del  soggetto  e del  predi- 
cato, i nomi,  non  più  degli  oggetti  di  cui  si  parla,  ma  delle  qualità  di  essi,  e 
dei  caratteri  rispetto  ai  q,uali  essi  sono  posti  a confronto,  corrispondono  preci- 
samente alle  espressioni  che  compaiono  nel  linguaggio  algebrico  quando,  per 
esprimere,  per  esempio,  che  due  angoli  a,  b hanno  uno  stesso  seno,  si  scrive: 
sen  a — sen  ò,  o quando,  per  indicare  che  i triangoli  ABC,  DEF  hanno  una 
stessa  area,  si  scrive:  area  ABC  area  DEF. 

I due  esempi  citati  — quello  del  seno  e quello  dell’area  — possono  ser- 
vire a mettere  in  luce  una  differenza  che  è importante  segnalare. 

Mentre  deH’affermazione  che  un  angolo  ha  un  dato  seno  si  può  definire 
perfettamente  il  significato  anche  senza  considerare  alcun  altro  angolo  oltre  quello 
di  cui  si  parla,  per  il  caso  invece  dell’area  il  significato  della  frase  : « la  tal 
figura  ha  una  data  area  »,  non  può  venire  determinato  se  non  ricorrendo,  o ri- 
ferendosi, direttamente  o indirettamente,  a quelle  operazioni  di  confronto  tra 
l’area  di  una  figura  e l’area  di  un’altra  (la  quale  altra  può  anche  essere,  per 
esempio,  quella  che  si  è scelta  per  unità  di  misura  delle  aree)  che  sono  richieste 
per  riconoscere  se  due  date  figure  hanno,  o non  hanno,  una  stessa  area. 

In  altre  parole,  mentre  nel  caso  del  seno  di  un  angolo  si  può  prima  dichia- 
rare o definire  che  cosa  esso  sia,  e poi  passare  a riconoscere  se  il  seno  di  un 
dato  angolo  sia  eguale,  o maggiore,  o minore  del  seno  di  un  altro,  nel  caso 
dell’area  invece  tali  due  procedimenti  sono  inseparabili,  e non  possono  neppure 
essere  concepiti  indipendentemente  l’uno  dall’altro. 

II  modo  ordinariamente  impiegato  per  distinguere  i casi  dell’una  specie  dai 
casi  dell’altra  consiste  nel  dire  che,  mentre,  nei  casi  analoghi  a quello  del  seno, 
si  definisce  « esplicitamente  » un  nuovo  segno  di  funzione,  nei  casi  invece  ana- 
loghi a quello  dell’area  il  significato  del  nuovo  nome  introdotto  è determinato 
soltanto  « implicitamente  »,  o,  come  anche  si  dice,  per  mezzo  di  una  « defini- 
zione per  astrazione  ». 

Il  più  antico  esempio,  che  di  definizione  per  astrazione  ci  presenti  la  storia 
del  linguaggio  matematico,  è la  definizione  della  parola  « rapporto  » (^.ó^oc) 
che  si  trova  posta  a base  della  trattazione  delle  proporzioni,  nel  V libro  degli 
Elementi  di  Euclide, 

Questa  definizione,  che  la  tradizione  fa  risalire  a Eudosso,  consiste  infatti 
soltanto  nel  determinare  esattamente  — sotto  una  forma  applicabile  anche  al 
caso  delle  quantità  incommensurabili  — il  senso  della  frase  « le  tali  due  gran- 
dezze hanno  lo  stesso  rapporto  delle  tali  altre  due  »,  oppure  « il  rapporto  tra 
tali  due  quantità  è eguale  a (o  maggiore,  0 minore  di)  quello  tra  le  tali  altre 
due  quantità  ». 

Per  mezzo  di  un  tale  procedimento,  una  relazione  tra  quattro  grandezze  — 
la  relazione  cioè  che  si  esprime  dicendo  che  esse  formano  una  proporzione  — 
viene  a poter  essere  espressa  sotto  forma  di  una  eguaglianza  fra  due  termini, 
in  ciascuno  dei  quali  figura  uno  stesso  nome,  o segno,  di  funzione  (tra  due  va- 


884 


GIOVANNI  VAILATI 


riabili);  mentre  della  parola  « rapporto  > non  è data,  e non  occorre  c e s , 

altra  deBnizione  oltre  quella  che  consiste  nell’attribuire  un  determinato 
alle  frasi  in  cui  si  parla  di  eguaglianza  o di  diseguaglianza  tra  rappor 
quantità  (*). 

Sui  numerosi  esempi  che  del  suddetto  genere  di  definizioni  ci  presentano  ! 
diversi  rami  della  matematica  e le  varie  scienze  nelle  quali  essi  trovano  apph- 

C3^ion0  non  c oni  il  Cciso  di  fcrnicirsi.  « . • i 

Si  ’presenta^pportuno  invece  il  domandarsi  quali  siano  le  condizioni  da  cui 
dipende  l'applicabilità  del  procedimento  descritto  sopra  ; il  domandarsi,  cioè 
in  quali  circostanze  le  « definizioni  per  astrazione  » siano  possibi  i,  e in  qua 
casi  sia  lecito,  o conveniente,  introdurre  nuovi  segni  di  funzione  per  mezzo 

di  6SS6  j 

Ciò  equivale  a domandarsi  quali  sieno  le  proprietà  di  cui  deve  essere  do- 
tata una  relazione  (o  una  corrispondenza)  tra  oggetti  di  una  data  classe  perche 
il  suo  sussistere,  tra  due  oggetti  « e à di  tale  classe,  possa  venire  espresso  per 
mezzo  di  eguaglianze  del  tipo:/«=:/^.  ove  del  segno  / non  e 
finizione  oltre  quella  che  risulta  dal  significato  che  si  attribuisce  alla  forra 

condizione  indispensabile  per  l’applicazione  di  untale  procedimento  è, 
anzitutto,  questa:  che  la  relazione  di  cui  si  tratta  abbia  in  comune  colla  rela- 
zione di  « eguaglianza  > la  proprietà  che,  per  il  caso  di  quest  ultima,  viene 
espressa  dall’assioma  : Se  a è uguale  a e -5  è uguale  a r,  anche  a e ugna  e a c. 

Se  infatti  questa  condizione  non  si  verificasse  — se  cioè  la  relazione  in 
questione  fosse  tale  che,  dal  suo  sussistere  tra  due  oggetti  a e -5,  e tra  due  altri, 

^ e & non  derivasse  senz’altro  il  suo  sussistere  tra  a e r -,  il  servirsi  di  una 
espressione  del  tipo  ; fa—fb,  per  indicare  il  fatto  che  essa  si  verifichi  tra  due 
oggetti  a ^ b,  porterebbe  alla  conseguenza  assurda  (o,  ad  ogni  modo,  incompa- 
tibile con  una  proprietà,  fondamentale,  del  segno  di  eguaglianza)  che,  ^lle  egua- 
glianze : fa±ifb,  e fb—fc.  non  si  potrebbe  dedurre  l’altra 

Per  una  ragione  analoga,  la  relazione  di  cui  si  parla  dovrà  anche  godere  di 
un’altra  proprietà:  essa  dovrà  cioè  essere  tale,  che,  dal  suo  sussistere  tra  due 
oggetti  « e à,  si  possa  sempre  concludere  che  essa  sussiste  pure,  all’  inverso, 
tra  b ^ a.  Altrimenti  si  dovrebbe  ammettere  che,  dalla  formula  fa  =/à,  non 
si  possa  passare  all’altra  fb—fa,  contrariamente  a un’altra  delle  proprietà  ca- 
ratteristiche dell’eguaglianza. 

[Soddisfano  a questa  condizione,  per  esempio,  le  relazioni  di  perpendico- 
larità e di  parallelismo,  mentre  non  vi  soddisfa,  per  esempio,  la  relazione  di 
divisibilità,  poiché  dall’essere  un  numero  divisibile  per  un  altro  non  deriva  cer- 
tamente che  il  secondo  sia  divisibile  per  il  primo]. 


(•)  Il  nome  di  « definizioni  per  astrazione  » è stato  introdotto,  per  la  prima  volta,  da  G. 
Peano.  Il  riconoscimento  dell’importanza  del  procedimento  che  conduce  ad  esse,  risale  a H. 
Grassmann  {Ausikhttungslehre,  1844).  Un  notevole  contributo  alla  loro  analisi  è stato  recente- 
mente apportato  da  A.  Pauoa  {Alti  del  sfi  Congresso  delia  Società  Italiana  di  Filosojia.  Parma, 

settembre,  1907). 


LA  GRAMMATICA  DELL’ALGEBRA 


885 


Le  relazioni  che,  pur  soddisfacendo  alla  prima  delle  due  condizioni  soprac- 
cennate [cioè  a quella  che  abbiamo  chiamata  « transitività  sillogistica  »],  non  sod- 
disfacciano alla  seconda,  possono,  per  ciò  solo,  venir  rappresentate  da  uno  qua- 
lunque dei  due  segni  di  disuguaglianza,  poiché  tanto  per  l’uno  come  per  l’altro 
di  essi  si  verifica  appunto  la  prima,  e non  la  seconda  delle  due  condizioni 

suddette. 


Le  due  condizioni  enunciate  sopra,  oltre  che  necessarie,  sono  anche  suffi- 
cienti perchè  sia  lecito  il  ricorso  a una  « definizione  per  astrazione  »,  e all’in- 
troduzione, per  tal  via,  di  un  nuovo  nome  o di  un  nuovo  segno  di  funzione. 

La  sola  obiezione  che  qui  può  presentarsi  è quella  che  consiste  nel  dire 
che,  venendo  il  segno  di  funzione  così  introdotto  a essere  definito  solamente 
in  quanto  figura  in  espressioni  di  una  data  forma  cioè  in  espressioni  del  tipo 
fa—fb  , esso  rimane  privo  di  ogni  significato  in  tutti  i casi  in  cui  si  vo- 

glia adoperarlo  isolatamente,  o combinato  diversamente  con  altri  segni  della 
stessa  o diversa  di  specie. 

A questa  obiezione  si  può  rispondere  osservando  che,  allo  stesso  modo  come 
si  è attribuito  un  senso  alle  espressioni  del  tipo  fa  —fb,  così  nulla  vieta  di 
determinare  ulteriormente  anche  il  significato  di  altre  espressioni  nelle  quali, 
da  un  lato,  o da  ambedue  i lati,  di  un  segno  di  uguaglianza,  figurino,  non  già 
dei  termini  isolati,  come  fa  o f b,  mafdei  determinati  aggruppamenti  di  essi 
(come  per  esempio  f a ^ /^),  composti  interponendo  determinati  segni  di  ope- 
razione. 

Perchè  ciò  possa  farsi  occorrerà  naturalmente  che  la  relazione  di  cui  si 
tratta  soddisfi  a un  certo  numero  di  altre  condizioni,  in  aggiunta  a quelle  che, 
come  si  è visto,  sono  richieste  perchè  il  fatto  che  essa  sussiste  tra  due  oggetti 
a & b possa  venire  espresso  da  una  formula  del  tì^o  : f a f b. 

Quali  siano  queste  condizioni  risulterà  in  ogni  caso  dall  esame  delle  pro- 
prietà che  caratterizzano  le  diverse  operazioni  i cui  segni  figurano  nelle  formule 
da  definire. 

Il  caso  che  si  presenta  più  frequentemente  è quello  di  relazioni  tali  che, 
mediante  esse,  si  possa  attribuire  un  senso,  oltre  che  alle  formule  del  tipo  • 
yo!  — fb,  anche  a quelle  del  tipo  : fa  fh  + f c,  e per  conseguenza  anche  a 
quelle  del  tipo;  fa—fb  — fc,  nonché  a quelle  del  tipo;  fa  — kfb,  ove  k 
rappresenta  un  numero. 

Si  ha  un  esempio  di  una  relazione  appartenente  a questa  categoria,  nel  lin- 
guaggio tecnico  della  fisica,  in  quella  relazione  che  si  esprime  dicendo,  di  due 
dati  corpi,  che  essi  hanno  una  stessa  « massa  »,  o due  masse  che  stanno  fra 
loro  in  un  dato  rapporto  (*). 

Un  altro  esempio  ci  è fornito  da  tutto  un  altro  ordine  di  rapporti,  da  quelli, 
cioè,  riferentisi  al  « valore  di  scambio  » delle  merci.  Mentre  infatti  gli  econo- 


(‘)  Posso  rimandare  il  lettore,  che  desiderasse  maggiori  schiarimenti,  a un  articolo  che  ho 
recentemente  pubblicato,  su  questo  soggetto,  nel  Nuovo  Cimento  (Voi.  XIV,  1907)  : « Sul  mi- 
glior modo  di  definire  la  massa  in  una  trattazione  elementare  della  meccanica  ».  [V.  scritto  CLXXXI 
del  presente  volume]. 


886 


GIOVANNI  VAILATI 


misti  possono,  e devono,  determinare  e definire  esattamente  il  senso  di  frasi 
come  le  seguenti  : « il  valore  della  tal  merce  è uguale  al  valore  della  tale  altra  > , 

« il  valore  della  tal  merce  è uguale  alla  somma  dei  valori  delle  tali  due  altre  », 
etc.,  essi  non  hanno  alcun  bisogno  (e  neppure  alcuna  possibilità,  a meno  di  ca- 
dere in  tautologie)  di  definire  isolatamente  la  parola  « valore  ». 

E tale  impossibilità  non  dà  luogo,  nè  qui,  nè  negli  altri  casi  analoghi,  ad 
alcun  inconveniente  o ambiguità;  precisamente  come  nessun  inconveniente  de- 
riva, nel  linguaggio  ordinario,  dal  fatto  che  noi  non  siamo  in  grado  di  dire  che 
cosa  significhino  isolatamente  le  parole  « stregua  »,  « solluchero  »,  « josa  », 

« zonzo  »,  « acchito  »,  « chetichella  »,  « vanvera  »,  etc.,  bastandoci  del^  tutto 
conoscere  il  significato  di  tutte  le  frasi  in  cui  tali  parole  compaiono,  cioè  delle 
frasi  « giudicare  a una  data  stregua  »,  « andare  in  solluchero  »,  « averne  a 
josa  »,  « andare  a zonzo  »,  « di  primo  acchito  »,  etc. 

Il  frequente  impiegò  che  è fatto,  nei  vari  rami  della  matematica,  di  locu- 
zioni, o segni  di  funzione,  il  cui  senso  è determinato  solo  per  mezzo  di  « defi- 
nizioni per  astrazione  »,  viene  a confermare  ciò  che  già  è stato  asserito  indietro, 
quando  si  assegnò  come  uno  dei  tratti  caratteristici  del  linguaggio  algebrico, 
di  fronte  al  linguaggio  ordinarlo,  il  maggior  rilievo  e la  maggiore  importanza 
che  assumono  in  esso  i segni  i quali,  non  avendo,  quando  siano  considerati  iso- 
latamente, alcun  senso  separatamente  enunciabile,  sono  capaci  di  venire  definiti 
solo  in  modo  implicito,  cioè  solo  coll’ indicare  il  significato  di  intere  espressioni, 
o formule,  in  cui  il  segno  da  definire  compaia  associato  con  altri  segni. 

Il  riconoscere  come  affatto  legittimo  l’impiego  di  segni  o parole,  che  si 
trovano  in  questo  caso,  e come  affatto  irragionevole  l’esigenza,  per  essi,  di  una 
definizione  « esplicita  »,  non  è privo  d'importanza,  teorica  o pratica,  anche  fuori 
del  campo  delle  scienze  matematiche. 

Basta  dare  uno  sguardo  alle  prime  pagine  degli  usuali  libri  di  testo,  o ai 
manuali  elementari  di  qualsiasi  ramo  d’insegnamento  — dalla  grammatica  al 
diritto  costituzionale,  dalla  elettrotecnica  alla  musica  —,  per  convincersi  del 
grave  danno  che  deriva  alla  chiarezza  e alla  intelligibilità  (e  nello  stesso  tempo 
anche  alla  precisione  e al  rigore)  della  esposizione  dalla  tendenza  dei  tratta- 
tisti a riguardare  come  unico  mezzo,  per  la  determinazione  del  significato  dei 
termini  tecnici,  il  ricorso  alle  definizioni  propriamente  dette. 

Che  il  procedimento  ordinario  di  definizione  — quello  cioè  secondo  il  quale, 
prendendo  in  considerazione  la  nozione  da  definire,  isolatamente  e indipenden- 
temente dalle  frasi  nelle  quali  essa  dovrà  poi  essere  adoperata  per  dire  qual- 
che cosa,  si  mira  a decomporla  nei  suoi  elementi,  facendola  comparire,  in  certo 
modo,  come  il  risultato  della  intersezione  di  altre  nozioni  più  generali  — possa 
essere,  in  dati  casi,  utile  e anche  necessario,  non  è da  porre  in  dubbio. 

Ma,  anche  senza  tener  conto  del  fatto  che,  anche  seguendo  tale  procedi- 
mento, si  dovrebbe  pure  arrivare,  presto  o tardi,  a nozioni  che  non  possono 
essere  in  tal  modo  ricondotte  ad  altre  più  generali,  anche  senza  tener  conto, 
dico,  di  questa  circostanza,  chi  espone  gli  elementi  di  qualunque  scienza  non 
dovrebbe  mai  trascurare  di  domandarsi,  ogni  volta  che  si  tratti  d’introdurre  un 
nuovo  segno,  e di  spiegarne  il  significato,  se,  tra  i due  modi,  visti  sopra,  di  prò- 


LA  grammatica  DELI.’ ALGEBRA 


S87 


cedere  alla  determinazione  di  questo  - tra  quello,  cioè,  che  consiste  nel  darne 
una  definizione  propriamente  detta,  e l’altro  invece  che  consiste  nel  precisare 
semplicemente  il  senso  di  determinate  frasi  nelle  quali  il  termine  da  definire 
figura  -,  sia  più  conveniente  il  primo  o il  secondo  ; se,  per  esempio,  quei  con- 
cetti (più  generali  di  quello  che  si  vuol  definire),  ai  quali  deve  essere  fatto  ap- 
pello quando  si  proceda  nel  primo  modo,  siano  poi  veramente  più  chiari  e piu 
facilmente  apprendibili,  dagli  alunni  o dai  lettori,  di  quanto  non  sia  il  concetto 
stesso  che  si  vuol  definire,  e se,  ad  ogni  modo,  quest’  ultimo  non  possa  essere 
più  facilmente  da  essi  acquistato  mediante  la  diretta  osservazione  dei  fatti  e 
delle  relazioni  che  esso  dovrà  poi  servire  ad  esprimere. 

Le  discussioni  interminabili  sul  tempo,  sullo  spazio,  sulla  sostanza,  suU’in- 
finito,  etc„  che  occupano  tanta  parte  in  ' certe  trattazioni  filosofiche,  forniscono 
numerosi  e caratteristici  esempi  delle  varie  specie  di  « questioni  fittizie  » alle 
quali  può  dar  luogo  la  pretesa  di  dare,  o di  ricevere,  definizioni  propriamente 
dette,  in  quei  casi  in  cui  le  parole  o nozioni  delle  quali  si  tratta  di  determi- 
nare il  significato  sono  di  tal  natura  da  non  poter  essere  definite  se  non  ricor- 
rendo a procedimenti  analoghi  a quelli  rappresentati,  in  algebra,  dalle  « defini- 
zioni per  astrazione  ». 

[Si  è parlato  fin  qui  dei  mezzi  che  l’algebra  ha  a disposizione  per  esprimere 
proposizioni  isolate. 

Ma  quando  si  discute,  o si  cerca,  o si  dimostra,  si  ha  altresì  bisogno  di 
poter  collegare  le  proposizioni  le  une  con  le  altre  ; si  ha  cioè  bisogno  di  mezzi 
per  esprimere  i rapporti  di  dipendenza  o di  indipendenza  che  sussistono,  o che 
si  vogliono  stabilire,  tra  esse. 

A tale  scopo  servono,  nel  linguaggio  ordinario,  quelle  particelle  che  i gram- 
matici distinguono  col  nome  di  « congiunzioni  ». 

L’ufficio  di  queste,  rispetto  alle  proposizioni,  si  può  paragonare  a quello 
che  adempiono  le  preposizioni  rispetto  ai  nomi.. 

Allo  stesso  modo  come  una  preposizione,  posta  tra  due  nomi,  dà  luogo  a 
una  locuzione  atta  a esercitare  l’ufficio  di  un  nuovo  nome,  così  anche  una  con- 
giunzione, posta  tra  due  asserzioni,  da  luogo  a una  nuova  asserzione,  la  cui  ve- 
rità o falsità  può  anche  essere  indipendente  dalla  verità  o falsità  di  ciascuna 
di  esse. 

Per  una  scienza  a tipo  deduttivo,  come  e appunto  1 algebra,  le  piu  impor- 
tanti congiunzioni  sono  naturalmente  quelle  che  servono  a indicare  che,  di  due 
date  asserzioni,  l’una  è conseguenza  dell’altra. 

Al  posto  delle  molteplici  particelle,  o perifrasi,  che  sono  adoperate  a tale 
scopo  nel  linguaggio  ordinario  («  dunque  »,  « quindi  »,  « perciò  »,  « donde  », 
« di  qui  »,  « per  cui  »,  « se  >,  « quando  »,  « in  caso  che.,..  »,  « ne  deriva  », 
« ne  consegue  »,  « ne  risulta  »,  etc.),  non  si  avrebbe  bisogno  in  algebra  che  di 
avere  a disposizione  un  solo  segno. 

Altre  congiuzioni  assolutamente  indispensabili  in  qualsiasi  trattazione  alge- 
brica, che  non  sia  una  semplice  raccolta  di  formule,  sono  le  seguenti  : 

i)  una  per  indicare  che  una  proposizione  enunciata  non  è vcfa  (un  se- 
gno cioè  corrispondente  al  « non  » del  linguaggio  ordinario). 


888 


GIOVAKNI  VAILATI 


2)  altre  due,  corrispondenti,  rispettivamente,  all’c  e » e all’«  o » del  lin- 
guaggio ordinario,  per  indicare  che  due  date  proposizioni  sono  simultaneamente 
vere,  o che  di  esse  una,  e una  sola  può  essere  vera. 

L’avere  introdotto  quattro  speciali  segni  per  indicare  i suddetti  quattro 
rapporti  tra  le  proposizioni,  e l’aver  riconosciute  le  curiose  analogie  che  sussi- 
stono tra  le  proprietà  di  tali  segni  e quelle  degli  altri  segni  già  adoperati  in 
algebra,  e merito  del  Leibniz  e dei  fondatori  della  cosiddetta  < logica  mate- 
matica ». 

Uno  dei  risultati  a cui  si  è giunti,  nella  più  recente  fase  di  sviluppo  di 
questo  nuovo  ramo  dell’algebra,  è stato  quello  di  poter  esprimere  interamente 
delle  teorie  matematiche,  col  solo  impiego  di  simboli  algebrici  ed  ideografici, 
senza  alcun  ricorso  all’  impiego,  anche  solo  « sussidiario  »,  del  linguaggio 
comune. 

Il  primo  tentativo  di  una  enciclopedia  matematica  contenente,  non  solo 
proposizioni  o teoremi,  ma  anche  le  loro  dimostrazioni,  e nella  quale  non  è 
fatto  alcun  uso  del  linguaggio  ordinario,  è dovuto  al  Prof.  G.  Peano  dell’Uni- 
versità di  Torino. 

Sui  vantaggi  che  presenta  il  sistema  di  notazioni  da  lui  messo  in  opera  per 
la  trattazione  delle  questioni  più  complesse  e delicate  sui  fondamenti  dell’aritme- 
tica e della  geometria,  e sui  principii  del  calcolo  infinitesimale,  non  è qui  il 
luogo  di  insistere. 

L’ importanza  dei  più  recenti  progressi  della  logica  matematica,  dal  punto 
di  vista  della  teoria  della  conoscenza  e dell’analisi  dei  procedimenti  deduttivi, 
è stata  ultimamente  posta  in  rilievo  dal  filosofo  americano  J.  Royce  dell’ Uni- 
versità di  Harvard,  nel  discorso  d’inaugurazione  da  lui  tenuto  al  Congresso  in- 
ternazionale di  Filosofia  di  Heidelberg  (settembre  1908). 

Il  mio  scopo,  nell’alludere  qui  ad  essi,  è stato  semplicemente  quello  di  pre- 
sentare ai  filologi  un  motivo  di  più,  oltre  agli  altri  addotti  indietro,  per  non 
escludere  dal  campo  dei  loro  studi  le  ricerche  sullo  sviluppo  e sui  caratteri 
dell’algebra,  e in  generale  dei  vari  sistemi  di  notazioni  ideografiche  adoperate 
nella  scienza  moderna,  per  esempio  in  geometria,  in  chimica,  in  cinematica,  per 
non  parlare  dei  procedimenti  rappresentativi  adoperati  dalla  geografia  e dei  dia- 
grammi adoperati  dalla  statistica. 

L’obiezione  che  qui  si  tratta  di  sistemi  di  segni  « artificiali  >,  scelti  e co- 
struiti deliberatamente  in  vista  degli  scopi  ai  quali  devono  servire,  e il  cui 
sviluppo  non  è soggetto  a leggi  o uniformità  del  genere  di  quelle  che  lo  studio 
comparato  permette  di  riconoscere  e di  formulare  per  i linguaggi  « naturali  », 
non  mi  pare  abbia  gran  peso. 

Alla  distinzione  stessa  tra  lingue  « naturali  » e lingue  « artificiali  » mi 
sembra  difficile  che  dagli  stessi  glottologi  possa  venire  attribuito  alcun  senso 
preciso  e scientifico,  quando  essi  ammettono  che  nella  formazione  e nello  svi- 
luppo di  qualsiasi  linguaggio,  per  quanto  « naturale  » e non  colto,  una  parte 
non  trascurabile  è pur  sempre  da  attribuire  ai  fattori  volontari  e individuali 
che  ne  determinarono  i successivi  adattamenti  alla  sua  funzione  di  strumento 
per  esprimere  e comunicare  determinati  sentimenti  o idee. 

Sarebbe  strano  del  resto  che  mentre  l’obiezione  della  artificialità  non  è 


LA  GRAMMATICA  DELL’ALGEBRA 


889 


considerata  valida  per  escludere  dal  campo  della  glottologia  e della  semasio- 
logia lo  studio  dei  « gerghi  > propri  delle  classi  più  infime  della  società,  essa 
dovesse  aver  vigore  soltanto  per  il  caso  di  quelli  che,  nella  peggiore  ipotesi, 
ci  contenteremmo  di  veder  classificati  come  dei  « gerghi  » ideografici,  propri 
ai  cultori  delle  più  progredite  tra  le  scienze]. 

[Accennerò  infine  a una  considerazione,  di  indole  tutto  aflfatto  pratica  e 
attuale,  che  mi  ha  fatto  parere  tanto  più  opportuno  richiamare  l’attenzione  dei 
filologi  sui  caratteri,  per  così  dire,  linguistici  deH’algcbra. 

Va  diventando  sempre  più  un  luogo  comune,  nelle  discussioni  sull’ordina- 
mento degli  studi  nelle  nostre  scuole  secondarie,  il  lamento  sui  danni  derivanti, 
allo  studio  delle  lingue  antiche  o moderne,  dall’impiego  di  metodi  troppo 
« grammaticali  » o « filologici  »,  dalla  troppa  parte,  cioè,  che  è fatta  ordinaria- 
mente, nei  primi  stadi  dell’insegnamento,  all’enumerazione  delle  regole  gram- 
maticali, in  confronto  allo  scarso  tempo  e alla  minor  cura  dati  invece  agli 
esercizi  di  interpretazione  e di  conversazione. 

A questo  che  si  ritiene  comunemente  essere  un  difetto  particolare  dell’  in- 
segnamento delle  lingue,  fanno  riscontro,  a mio  parere,  dei  difetti,  non  solo 
analoghi,  ma  addirittura  identici  in  quella  parte  dell’insegnamento  scientifico 
che  ha  per  scopo  di  fare  acquistare  agli  alunni  la  capacità  di  servirsi  delle 
notazioni  dell’algebra. 

Promuovere  un  chiaro  riconoscimento  di  questa  specie  di  solidarietà  tra 
due  rami  d’insegnamento  che  la  tradizionale  distinzione  delle  « materie  » in 
letterarie  e scientifiche  tende  a far  riguardare  come  eterogenei  e privi  di  qual- 
siasi rapporto  tra  loro  equivale  a render  possibile,  tra  i cultori  dei  due  ordini 
di  disciplina,  uno  scambio  d’idee  che  non  mancherebbe  di  riuscir  fecondo  di 
eguali  vantaggi  per  ambedue  le  parti].  ,

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