Tuesday, September 3, 2024

Grice e Mordacci

  La storia costituisce per la filosofia contemporanea un ambito di indagine  costante e pervasivo: quasi tutta la filosofia dopo Hegel ha pensato il proprio  oggetto, cioè l’uomo, la conoscenza, l’agire e l’essere stesso, come  essenzialmente storico. Questa “svolta storica”, che ha preceduto e favorito la  cosiddetta “svolta linguistica”, ha significato per buona parte della filosofia  contemporanea l’adozione di un metodo in cui la storia di un concetto e delle sue  incarnazioni storiche sono dive nu te rilevanti almeno quanto la definizione  teorica di esso. Tuttavia, in questo diffuso storicismo, che attraversa la filosofia  dall’hegelismo all’ermeneutica, si è in parte persa di vista la specificità del  l’ambito di riflessione che si può chiamare filosofia della storia. La specifica  interpretazione dell’agire storico suggerita dallo storicismo, come svolgimento  di un «destino» dello spirito, ha infatti occultato gran parte della riflessione  che la tradizione filosofica ha prodotto, nel corso dei secoli, sull’agire storico  in quanto tale.   Questa preminenza del paradigma storicista ha inoltre favorito la nascita delle  tesi circa la cosiddetta «fine della storia»: una percezione che, dalle riflessioni di  Spengler sul «tramonto del l’Occidente» alle provocazioni del postmoderno, ha  finito per estendersi ad ampi settori della cultura contemporanea. Quest'ultima  appare per questo in estremo disagio, oggi, nel progettare il futuro: pensando  l’intero dell’essere come contenuto nella storia «fino al momento presente», la  cultura odierna rifugge dai tentativi di prefigurare un fine della storia come    compimento, soprattutto perché questo tentativo appare come intrinsecamente    ideologico e, quindi, non più credibile. Si può quindi ancora pensare la storiaa  venire?   Mettere in discussione questa precomprensione storicista della storia è uno  degli obiettivi di questo volume. La filosofia della storia è oggi un’area vasta di  riflessioni sul senso dell’agire storico che non può essere affatto ridotta all’idea  di un «destino» immanente dell’Occidente o del mondo. Anche una semplice e  non pregiudiziale ricognizione di alcune concezioni filosofiche della storia che si  rintracciano nella tradizione mostra come l’interpretazione di essa sia assai varia  e più aperta alla possibilità di pensare il futuro in modo non ideologico e  soprattutto aperto al cambiamento, pur senza che esso sia abbandonato alla  completa anomia.   In questo senso, il volume mira a riabilitare una disciplina che, a volte  affrettatamente, si è considerata così intrinseca alla pratica filosofica da non  esserne distinguibile come un ambito di studi specifico. Si tratta, innanzitutto, di  contribuire a rimuovere l’identificazione della filosofia della storia con il  racconto di un «destino» ineluttabile. Questa interpretazione è stata resa  canonica anche attraverso la preziosa ricostruzione condotta da Karl Lòwith in  Significato e fine della storia,1 un libro che è stato, di fatto, il più autorevole e  pressoché unico manuale di filosofia della storia dalla fine degli anni quaranta,  quando fu scritto, a oggi.   Lòwith ha una tesi tanto affascinante quanto riduttiva sulla vicenda della  filosofia della storia. Definita essenzialmente come secolarizzazione  dell’escatologia cristiana, essa evidentemente può esistere solo in certe  condizioni culturali: in sostanza, quelle che si sono date da Gioacchino da Fiore  a Marx. Si tratta di una lunga epoca, che pensa il tempo interamente in rapporto  a un fine che, al suo apparire finale, svela l’autentico significato di tutto il  movimento storico. Prima di quel momento finale, il cui modello è 1° Apocalisse  cristiana ma che nella modernità si traduce in varie forme di realizzazione di un  programma filosofico o sociale, le vicende storiche mostrano il loro senso solo a    colui che si è elevato al punto di vista della fine. Quest’ultima è dunque il    criterio di valore grazie al quale si possono giudicare tutti i momenti della storia.  A partire dai movimenti millenaristi, di cui Gioacchino da Fiore è interprete,  quella fine è comunque posta all’interno del tempo, vuoi come apparire dell’ Alfa  e Omega che apre e chiude la storia, vuoi come luogo di inizio di una nuova  epoca, contraddistinta dalla conoscenza, dalla società senza classi, dalla libertà  pienamente realizzate. Il negativo, l’orrendo e il tragico che affligge la storia  presente è comunque destinato a sciogliersi in quella sintesi finale, che mentre  svela il senso del passato apre un futuro di armonia e libertà. La potenza di  questa immagine ha tenuto prigioniera più di un’epoca, eppure non è stata senza  rivali, nemmeno nello stesso Occidente, il quale, pur pensandosi forse  inconfessata men te come il luogo di quella realizzazione, ha saputo anche tenere  aperte interpretazioni diverse dei corsi dellastoria.   Nell’interpretazione di Lòwith, l’idea di “senso” della storia diviene sinonimo  di ciò che la parola “fine” nomina nella tradizione ebraico-cristiana. La chiave di  volta è la speranza, la promessa di un avvenire di salvezza o di vita piena. È  questa speranza ad aprire il futuro, perché esso non sarà la ripetizione del già  visto da sempre, come invece può solo essere in una concezione ciclica. La  promessa, inoltre, non è determinata nei dettagli e apre su un oltre della storia:  per questo è possibile progettare un futuro diverso dal presente. Al tempo stesso,  il compimento della promessa è certo, atteso e desiderato, e questo anima le  coscienze più efficacemente dell’idea della ripetizione di cicli sempre ritornanti.  Questa concezione, dunque, rimanda a una profondissima responsabilità  individuale, sociale e universale per l’uomo, giacché quella destinazione non si  può compiere, ricordano queste filosofie della storia, senza la partecipazione  attiva degli individui, senza l’impegno soprattutto di coloro la cui coscienza ha  scorto quella fine all’orizzonte e per questo deve operare per realizzarla. Simili  filosofie della storia sono dunque vere e proprie concezioni morali del mondo e  del tempo, capaci di mobilitare le energie individuali e di costituire cause ideali  di grandi rivoluzioni attese o annunciate. La previsione dell’avvento necessario    dell’epoca finale è pensato come compatibile con il riconoscimento della piena    libertà umana, ma questa ipotesi di conciliazione è fonte di tensioni irrisolte sul  piano sia concettuale sia pratico: la necessità di un “destino” mal sopporta il  riconoscimento di un’autentica libertà personale.   Così, la concezione moderna della storia è tesa fra la ricerca di leggi storiche e  il riconoscimento della responsabilità dell’uomo, basato sulla tesi irrinunciabile  dell’autonomia del volere. Questa oscillazione è visibile in Tocqueville (La  démocratie en Amérique è del 1835-1840; la democrazia come destino e come  missione), in Spengler (Der Untergang des Abendlandes è del 1918-1923:  Zivilisation come tramonto, come fato naturale e decisione storica), in Toynbee  (A Study of History, 1934-1961: nascita e crollo delle civiltà, attesa di una nuova  chiesa). Il destino è segnato ma è nelle nostre mani farlo accadere; come Lòwith  riassume efficacemente in una domanda: «Lo storico classico si chiede: come si  è giunti a ciò? Quello moderno si chiede: come andrà a finire?».2 Così la storia  diviene universale: mentre il movimento che ha condotto alla costituzione di una  specifica cultura, di un particolare modo di vita, si può ricostruire limitandosi a  concentrare i fattori causali in formazioni peculiari, che contingentemente si  sono intrecciati in un luogo e in un tempo, l’idea di una fine, specialmente di una  ‘fine di tutte le cose”, non può che avere un respiro totalizzante, universale  appunto, perché a esso contribuiscono tutti i fattori storici e culturali in grado di  influenzare la storia. Si guarderà quindi non alla storia locale ma ai grandi  movimenti storici, agli spostamenti di assi epocali, da Est a Ovest, da Nord a  Sud (come è di moda fare ora), cercando di rintracciare la legge necessaria di  questi spostamenti e, quindi, di rendere possibile una ‘futurologia”, una  previsione scientifica del corso della libertà umana.   Ora, i tentativi di ricostruire questi movimenti e le loro leggi sono apparsi a  buona parte della cultura contemporanea come sostanzialmente fallimentari. Le  utopie del futuro si sono spesso rivelate come ideologie politiche che, in nome  del progresso, della società post-classista, del trionfo degli spiriti forti, hanno  mobilitato le masse verso strutture politiche e forme del potere che hanno    causato tragedie mondiali lungo tutto il XX secolo. La consapevolezza del    pericolo che si cela dietro a una filosofia della storia ha così motivato molta  parte della reazione contemporanea contro questo tipo di prospettive, fino a  revocare in dubbio non solo la modernità, bensì l’intera storia come luogo  dell’accadimento di eventi umani dotati di senso. Uno dei nomi di questa  reazione è “postmoderno”, un movimento di pensiero che, fra molto altro,  include la tesi secondo cui della storia non si deve anzitutto dare  un’interpretazione complessiva, che anzi in tal senso non vi è affatto una  “storia”, bensì una costellazione di eventi frammentaria e casuale: cercare di  ordinarla tramite un significato è una forma di violenza, una contraddizione  rispetto alla libertà che si pretende di veder realizzata proprio in quella necessità  del movimento storico. La liberazione da questa immagine è uno degli obiettivi  che l’arte, la filosofia e la letteratura postmoderna perseguono come un modo di  riaprire il movimento storico alla creatività, alla possibilità e all’effettiva  eguaglianza. In questo movimento non ci sono criteri di valore, secondo questa  tesi non c’è una direzione e per questo non vi è un metro di giudizio: la storia è  costituita da accadimenti che ci si rifiuta di valutare se non in un’ottica  pragmatica o meramente descrittiva. Si può giudicare più o meno bella una data  composizione dei fatti, ma nessuna di esse è né assolutamente reale né  definitiva: ogni rotazione del tempo crea una nuova immagine.   Tuttavia, si potrebbe avanzare la tesi secondo cui il postmoderno non sia in  fondo altro che una patologia del moderno. Proprio il rifiuto di un senso della  storia incluso nel tempo, e al tempo stesso la rinuncia a un criterio di giudizio  sulla storia in nome della liberazione dalle filosofie ideologiche della storia,  mostrano che l’ideale di libertà tipico della modernità, rinunciare al quale è per  noi impossibile e ingiusto, è ancora l’anima del tempo presente. Si può piuttosto  interpretare la reazione postmoderna più semplicemente come la fine  dell’idealismo storicista, il quale è in sé un movimento profondamente anti-  moderno: la pretesa di imbrigliare la storia nel movimento dell’idea o dello  spirito assoluto è in fondo incompatibile tanto con la ricerca illuminista di un    criterio di sviluppo cognitivo e morale che prevede espressamente la possibilità    di progressi e regressi, quanto con la rivendicazione romantica di parametri di  valore legati al genio, all’apparire improvviso del senso anche nel mezzo delle  crisi più profonde e perfino con la coscienza cristiana di una dimensione  trascendente del tempo, di un rapporto con l’eterno che non è la fine della storia  bensì la sua dimensione ortogonale, l’asse su cui si colloca l’attesa dell’avvento  ultimo, improvviso e non prevedibile tramite alcuna dialettica storica.   Questa patologia è stata diagnosticata con chiarezza già da Nietzsche a partire  dalla seconda Inattuale, ma con l’errore (che molti ripetono) di omologare  idealismo e Illuminismo, di considerare l’idea di un progresso morale e sociale  sullo stesso piano della postulazione di un incessante Auffeben, di un  movimento necessario e prevedibile. In realtà, sotto questo profilo fra Kant e  Hegel vi è un’assoluta discontinuità. L’unilateralità idealistica ha poi il suo  contraltare nel positivismo estremo e nell’empirismo radicale e proprio nel  rifiuto, in nome della libertà dal pregiudizio storicista, di ogni canone di  valutazione degli eventi storici. La delegittimazione diviene così pratica  universale, perché non si è distinto, a partire dall’idealismo, il portatore dal  messaggio, l’agire dal significato che attraverso di esso gli individui cercano di  realizzare limitatamente alle condizioni in cui si trovano e secondo le loro  capacità.   Per uscire da questa impasse occorre allargare la visuale sulle filosofie della  storia. Contrariamente a quanto pensava Lòwith, pur con la sua grande capacità  di sintesi, avere una filosofia della storia non comporta affatto leggere tutta la  storia in base a un fine che le dia significato, soprattutto se questo fine è pensato  come un punto preciso del corso del tempo che, giungendo alla fine, ne sveli  l’intero senso. L’idea di un giudizio sugli eventi storici non richiede  necessariamente che si pensi una “fine” e nemmeno uno “scopo”. Vi sono anzi  state nella storia del pensiero numerose interpretazioni dello svolgersi del tempo  come anzitutto regolato da proprie leggi, da ritmi ciclici o alternati e dinamiche  di continuità e ripetizione che non presuppongono una fine nel tempo bensì    magari solo, come nel caso del cristianesimo, del tempo. Non si tratta solo della    concezione greca del tempo come di un ciclo incessante e non orientato a un fine  (che qui non è trattata ma che è per altro ben nota), bensì anche di concezioni  cristiane e moderne in cui, senza rinunciare a porre un criterio di giudizio sulla  storia, si è però posto tale criterio non in un fine bensì in una dimensione per   così dire verticale del tempo, che è coinvolta nel suo movimento orizzontale  come paradigma del valore, del senso e della possibilità sempre presente di  perdere il contatto con essi.   Possono essere interpretate in questo senso, per esempio, la dicotomia fra città  di Dio e dell’uomo in Agostino, il rapporto fra corsi e ricorsi da un lato e  Provvidenza dall’altro in Vico, l'ideale regolativo della pace perpetua in Kant, la  dialettica fra vita e storia in Nietzsche. Oltre alla lettura “lineare” del progresso  bisogna dunque riconoscere — anche nel cuore della modernità — almeno anche  una lettura “ondulatoria”, secondo cui il rapporto fra tempo e verità non si  dipana lungo una direttiva ascendente ma conosce alti e bassi, vertici e abissi, il  cui canone di riferimento è il rapporto con l’assoluto, con la pienezza vitale, con  la promessa salvifica o con la realizzazione di una società armonica e pacificata.  Riaprire la molteplicità degli sguardi sulla storia di cui l'Occidente è stato ed è  capace è un’esigenza imprescindibile per il tempo presente: la capacità di  progettare un futuro dipende esattamente, da un lato, dalla denuncia di  concezioni chiuse della storia e, dall’altro, dalla ricerca di un criterio di  valutazione reale, obiettivo sugli eventi storici, che non rinunci alla volontà di  giudicare del tempo per animare l’azione di valore umano e soprattutto  dell’impegno delle libertà personali verso qualcosa che mostri di meritare la  nostra dedizione.   Questo volume si presenta dunque un utile strumento per l’introduzione alla  comprensione filosofica dell’agire storico e del tema della storicità  dell’esistenza. Scritto pensando anzitutto a chiarire le concezioni della storia che  emergono dai principali autori della tradizione filosofica, il volume non intende  però dare un panorama completo ed esaustivo di tutta la disciplina, troppo vasta    e dispersiva. La selezione dei temi ha seguito il criterio della rilevanza degli    autori trattati, con una chiara inclinazione verso il moderno e il contemporaneo.  Gli autori dei testi sono docenti universitari noti per la competenza sull’autore  trattato e dottorandi del Corso di dottorato in Filosofia della storia (l’unico di  questo genere in Italia) istituito congiuntamente dall’Istituto Italiano di Scienze  Umane di Firenze e dalla Facoltà di Filosofia dell’Università VitaSalute San  Raffaele di Milano. L’esperienza di collaborazione che ha portato a questo  volume si è concentrata soprattutto nell’attività didattica e per questo ha ricevuto  uno speciale contributo dalla discussione con gli studenti, ai quali molti dei testi  qui raccolti sono stati presentati in una prima stesura. Anche questa genesi del  testo ne spiega la vocazione e l’ambizione esplicita: quella di essere la porta di  accesso a una disciplina che, nell’epoca di una presunta quanto fallace “fine  della storia”, ha più che mai bisogno di rinascere.   Note   1K. Léwith, Significato e fine della storia [1949], trad. it. di F. Tedeschi Negri,  Einaudi, Torino 1989.   2Ivi, p. 38. 

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